"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 24 novembre 2018

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 10. Unità e identità essenziali del «Sé» in tutti gli stati dell’essere

René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

10. Unità e identità essenziali del «Sé» in tutti gli stati dell’essere

Qui, dobbiamo insistere un poco su un punto essenziale: tutti i principi o gli elementi di cui abbiamo parlato, che vengono descritti come distinti, e che effettivamente lo sono dal punto di vista individuale, lo sono però soltanto da questo punto di vista, e in realtà costituiscono solo altrettante modalità manifestate dello «Spirito Universale» (Âtmâ).
In altre parole, quantunque accidentali e contingenti in quanto manifestati, essi sono l’espressione di alcune delle possibilità essenziali di Âtmâ (quelle che, per la loro natura, sono possibilità di manifestazione); queste possibilità, in linea di principio e nella loro realtà profonda, non sono per nulla distinte da Âtmâ, perciò occorre considerarle, nell’Universale (e non più in rapporto agli esseri individuali), come coincidenti con Brahma stesso, che è «senza dualità», e fuori del quale non c’è nulla, né manifestato né non-manifestato.[1] D’altronde, ciò che ha qualche cosa fuori di sé non può essere infinito, poiché è limitato proprio da ciò che gli è esteriore; perciò il Mondo, intendendo con questa parola l’insieme della manifestazione universale, non può essere distinto da Brahma che in modo illusorio, mentre Brahma, invece, è assolutamente «distinto da quello che Esso penetra»,[2] vale a dire dal Mondo, perché non è possibile applicare ad Esso alcuno degli attributi determinativi che convengono a quello, e l’intera manifestazione universale è rigorosamente nulla di fronte alla Sua Infinità. Come abbiamo già fatto rilevare altrove, questa mancanza di reciprocità della relazione implica la condanna formale del «panteismo» come pure di ogni «immanentismo»; questa non-reciprocità è anche affermata molto chiaramente nella Bhagavad-Gîtâ nei seguenti termini: «Tutti gli esseri sono in me, mentre io non sono in loro... il mio Essere sostiene gli esseri e, benché non risieda in loro, essi esistono grazie ad Esso».[3] Si potrebbe inoltre dire che Brahma è il Tutto assoluto, appunto perché è infinito; ma, d’altra parte, se tutte le cose sono in Brahma, non sono affatto Brahma, in quanto sono considerate nel loro aspetto distintivo, cioè come cose relative e condizionate; la loro esistenza d’altronde è pura illusione in confronto alla realtà suprema; ciò che viene detto riguardo alle cose e non può convenire a Brahma non è che l’espressione della relatività e, allo stesso tempo, come questa è illusoria, ugualmente lo è la distinzione, poiché dei suoi termini l’uno si annulla dinanzi all’altro; infatti niente può entrare in correlazione con l’Infinito; le cose sono Brahma solamente in linea di principio, ma al tempo stesso è proprio questa la loro realtà profonda; ciò va sempre tenuto presente se si vuol comprendere quanto seguirà.[4]
«Nessuna distinzione (che verta su modificazioni contingenti, come la distinzione fra l’agente, l’azione e lo scopo o il risultato di questa) invalida l’unità e l’identità essenziale di Brahma come causa (kârana) ed effetto (kârya).[5] Il mare è la stessa cosa che le sue acque e non ne è differente (di natura), quantunque le onde, la schiuma, gli spruzzi, le gocce e le altre modificazioni accidentali che queste acque subiscono esistano separatamente o congiuntamente come differenti le une dalle altre (se considerate nel particolare, sotto l’aspetto della successione o sotto quello della simultaneità, ma senza che la loro natura cessi d’essere la stessa).[6] Un effetto non è altro (in essenza) che la sua causa (benché la causa sia invece più dell’effetto); Brahma è uno (in quanto Essere) e senza dualità (in quanto Principio Supremo); in Se stesso, Egli non è affatto separato (da alcuna limitazione) dalle Sue modificazioni (sia formali che informali); Egli è Âtmâ (in tutti gli stati possibili), e Âtmâ (in Sé, allo stato incondizionato) è Lui (e non altro da Lui).[7] Una stessa terra offre diamanti e altri minerali preziosi, rocce di cristallo e pietre volgari e senza valore; uno stesso suolo produce una diversità di piante che presentano una grandissima varietà nelle foglie, nei fiori e nei frutti; lo stesso cibo è convertito nell’organismo in sangue, carne, e in varie escrescenze come i capelli e le unghie. Come il latte si muta spontaneamente in latte cagliato e l’acqua in ghiaccio (senza che questo passaggio da uno stato a un altro implichi peraltro alcun cambiamento di natura), così Brahma Si modifica variamente (nella molteplicità indefinita della manifestazione universale), senza bisogno di strumenti o mezzi esteriori di qualsiasi specie (e senza che la Sua unità e identità ne siano alterate, dunque senza che si possa affermare che Egli sia realmente modificato, sebbene tutte le cose esistano effettivamente solo come Sue modificazioni).[8] Così il ragno tesse la tela con la propria sostanza, gli esseri sottili assumono forme diverse (non corporee), e il loto cresce senza organi di locomozione da palude a palude. Che Brahma sia indivisibile e senza parti (come è), non è un’obiezione (a questa concezione della molteplicità universale nella Sua unità, o meglio nella Sua “non-dualità”); non è la Sua totalità (eternamente immutabile) che è modificata dalle apparenze del Mondo (né qualcuna delle Sue parti, poiché non ne ha, ma è Egli stesso considerato sotto l’aspetto speciale della distinzione o della differenziazione, vale a dire come saguna o savishêsha; ed Egli può essere considerato così perché racchiude in Sé tutte le possibilità, senza che queste siano in alcun modo parti di Lui).[9] Diversi cambiamenti (di condizioni e di modi d’esistenza) sono offerti alla stessa anima (individuale) che sogna (e percepisce in questo stato gli oggetti interni, vale a dire quelli del dominio della manifestazione sottile);[10] diverse forme illusorie (che corrispondono a varie modalità della manifestazione formale, differenti da quella corporea) sono assunte dallo stesso essere sottile senza che la sua unità ne sia affatto intaccata (tale forma illusoria, mâyâvi-rûpa, è infatti considerata come puramente accidentale e non propria dell’essere che se ne riveste, sicché lo si deve considerare inalterato da questa modificazione puramente apparente).[11] Brahma è onnipotente (poiché contiene tutto in principio), capace di ogni atto (quantunque “non-agente”, o appunto per questo), senza alcun organo o strumento d’azione; perciò non si deve attribuire alla determinazione dell’Universo alcun motivo o scopo particolare (del genere che invece ha un atto individuale), diverso dalla Sua volontà (che non è distinta dalla Sua onnipotenza).[12] Non Gli si deve imputare (come se fosse una causa particolare) alcuna differenziazione accidentale, poiché ciascun essere individuale si modifica (sviluppando le sue possibilità) conformemente alla propria natura;[13] così la nuvola distribuisce la pioggia imparzialmente (senza riguardo per i risultati particolari derivanti da circostanze secondarie), e questa stessa pioggia fecondante fa crescere diversamente semi differenti, producendo una varietà di piante secondo la loro specie (per le diverse potenzialità proprie a ciascun seme).[14] Ogni attributo d’una causa prima è (in principio) in Brahma, che però (in Se stesso) è libero da ogni qualità (distinta)».[15]
«Ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà, tutto è veramente Omkâra (l’Universo principialmente identificato con Brahma e simboleggiato, come tale, dal monosillabo sacro Om); e ogni altra cosa che non sia sottomessa al triplice tempo (trikâla, vale a dire la condizione temporale nelle sue tre modalità di passato, presente e futuro), è anch’essa veramente Omkâra. Sicuramente, questo Âtmâ (di cui tutte le cose non sono che la manifestazione) è Brahma, e questo Âtmâ (in rapporto ai diversi stati dell’essere) ha quattro condizioni (pâda, che letteralmente significa “piedi”). Tutto questo, in verità, è Brahma».[16]
«Tutto questo» deve intendersi, come d’altronde mostra chiaramente il seguito di quest’ultimo testo, che daremo più avanti, come riferito alle differenti modalità dell’essere individuale, considerato nella sua interezza, nonché agli stati non-individuali dell’essere totale; le une e gli altri sono qui in egual modo designati come condizioni di Âtmâ, benché Âtmâ, in se stesso, sia in realtà incondizionato e non cessi mai di esserlo.




[1] Mohyîddîn lbn Arabî, nel suo Trattato dell’Unità (Risâlatu-l-Ahadiyah), dice, intendendo la stessa cosa: «Allah – che sia esaltato – non ha simili, così come è senza rivali, contrasti o oppositori». Sempre a questo riguardo, vi è perfetto accordo fra il Vêdânta e l’esoterismo islamico.
[2] Si veda il testo del trattato sulla Conoscenza del Sé (Âtma-Bodha) di Shankarâchârya, che sarà citato più avanti.
[3] Bhagavad-Gîtâ, IX, 4 e 5.
[4] Citeremo qui un testo taoista nel quale si trovano espresse le stesse idee: «Non domandate se il Principio è in questo o in quello; Esso è in tutti gli esseri. Perciò Gli si danno gli appellativi di grande, supremo, intero, universale, totale... Colui che ha fatto sì che gli esseri fossero degli esseri, non è sottomesso alle stesse leggi degli esseri. Colui che ha fatto sì che tutti gli esseri fossero limitati, è illimitato, infinito... Quanto alla manifestazione, il Principio produce la successione delle sue fasi, ma non è questa successione (né vi è coinvolto). Esso è l’autore delle cause e degli effetti (la causa prima), ma non è le cause e gli effetti (particolari e manifestati). Esso è l’autore delle condensazioni e delle dispersioni (nascite e morti, cambiamenti di stato), ma non è Esso stesso condensazione o dispersione. Tutto procede da Esso e si modifica per e sotto la Sua influenza. È in tutti gli esseri, per un termine di norma, ma non è identico agli esseri, non essendo né differenziato, né limitato» (Tchoang-tseu, cap. XXII; trad. di Padre Wieger, pp. 395-97).
[5] In quanto nirguna, Brahma è kârana, e in quanto saguna, è kârya; il primo è il «Supremo» o Para-Brahma, il secondo è il «Non-Supremo» o Apara-Brahma (cioè Îshwara); ma da ciò non consegue affatto che Brahma cessi in qualche modo di essere «senza dualità» (adwaita), poiché lo stesso «Non-Supremo» in quanto distinto dal «Supremo» è illusorio; allo stesso modo l’effetto non è niente che sia veramente ed essenzialmente diverso dalla sua causa. Notiamo che non si deve mai tradurre Para-Brahma e Apara-Brahma con «Brahma superiore» e «Brahma inferiore», poiché queste espressioni presuppongono un paragone o una correlazione che non può assolutamente esistere.
[6] Questo paragone con il mare e le sue acque mostra che Brahma è qui considerato come Possibilità Universale, che è la totalità assoluta delle possibilità particolari.
[7] È la formula stessa dell’«Identità Suprema», espressa nel modo più chiaro possibile.
[8] Non bisogna dimenticare, per risolvere questa apparente difficoltà, che qui siamo ben al di là della distinzione fra Purusha e Prakriti, e che questi, essendo già unificati nell’Essere, sono a maggior ragione compresi nel Brahma Supremo; perciò, se ci è consentito esprimerci così, essi sono due aspetti complementari del Principio, ma ne sono due aspetti soltanto per il nostro modo di concepire: in quanto Egli Si modifica, è l’aspetto analogo di Prakriti; in quanto tuttavia non è modificato, è l’aspetto analogo di Purusha; e si noterà che quest’ultimo corrisponde più profondamente e adeguatamente dell’altro alla realtà suprema nella sua immutabilità. Perciò Brahma stesso è Purushottama, mentre Prakriti rappresenta soltanto, in rapporto alla manifestazione, la Sua Shakti, vale a dire la Sua «Volontà produttrice», che è propriamente l’«onnipotenza» (attività «non-agente» quanto al Principio, che diventa passività quanto alla manifestazione). È opportuno aggiungere che, quando la concezione è così trasposta al di là dell’Essere, non è più questione di «essenza» e «sostanza», bensì dell’Infinito e della Possibilità, come spiegheremo in un’altra occasione; sono quello che la tradizione estremo-orientale chiama «perfezione attiva» (Khien) e «perfezione passiva» (Khouen), del resto coincidenti nella Perfezione in senso assoluto.
[9] Anche per l’esoterismo islamico, l’Unità, considerata come contenente tutti gli aspetti della Divinità (Asrâr rabbâniyah o «misteri che appartengono al Signore»), «è dell’Assoluto la superficie riverberante a innumerevoli facce, che magnifica ogni creatura che vi si specchi direttamente». Questa superficie è anche Mâyâ, considerata nel suo senso più elevato, come Shakti di Brahma, vale a dire come l’«onnipotenza» del Principio Supremo. Ancora, in modo del tutto simile, nella Qabbalah ebraica Kether (la prima delle dieci Sephiroth) è la «veste» di En-Soph (l’Infinito o l’Assoluto).
[10] Le modificazioni che si producono nel sogno forniscono una delle più importanti analogie che si possano indicare per aiutare a comprendere la molteplicità degli stati dell’essere.
[11] Su questo punto sarebbe da fare un paragone interessante con ciò che i teologi cattolici, e specialmente san Tommaso d’Aquino, insegnano in merito alle forme di cui possono rivestirsi gli angeli; la rassomiglianza è tanto più notevole in quanto i punti di vista sono necessariamente molto differenti. Ricorderemo del resto, a questo proposito, ciò che abbiamo già avuto occasione di segnalare altrove, che cioè quasi tutto quanto è detto teologicamente degli angeli può essere anche detto metafisicamente degli stati superiori dell’essere.
[12] Si tratta della Sua Shakti, di cui abbiamo parlato nelle note precedenti, ed è anche Egli stesso considerato come Possibilità Universale; d’altronde, in Sé, la Shakti non può essere che un aspetto del Principio e, se la si distingue per considerarla «separativamente», non è più che la «Grande Illusione» (Mahâ-Moha), vale a dire Mâyâ nel suo significato inferiore ed esclusivamente cosmico.
[13] È l’idea stessa del Dharma, come «conformità alla natura essenziale degli esseri», applicata all’ordine totale dell’Esistenza universale.
[14] «O Principio! Tu che dai a tutti gli esseri ciò che loro conviene, Tu non hai mai preteso d’essere chiamato equo. Tu, i cui benefici si estendono a tutti i tempi, mai hai preteso d’essere chiamato caritatevole. Tu, che fosti prima dell’origine, e che non pretendi d’essere chiamato venerabile. Tu che avvolgi e sostieni l’Universo, producendo tutte le forme, senza pretendere d’essere chiamato abile; è in Te che io mi muovo» (Tchoang-tseu, cap. VI; trad. di Padre Wieger, p. 261). «Del Principio si può dire soltanto che Esso è l’origine di tutto, e che tutto influenza restando indifferente» (ibid., cap. XXII, p. 391). «Il Principio, indifferente, imparziale, lascia che tutte le cose seguano il loro corso, senza influenzarle. Esso non aspira ad alcun titolo (qualifica o attributo). Non agisce. Non facendo niente, non c’è nulla che Esso non faccia» (ibid., cap. XXV, p. 437).
[15] Brahma-Sûtra, 2° Adhyâya, 1° Pâda, sûtra 13-37. Cfr. Bhagavad-Gîtâ, IX, 4 e 8: «Io, sprovvisto di ogni forma sensibile, ho sviluppato tutto questo Universo... Immutabile nella mia potenza produttrice (la Shakti, che è qui chiamata Prakriti, poiché è considerata in rapporto alla manifestazione), produco e riproduco (in tutti i cicli) la moltitudine degli esseri, senza scopo determinato, e per la sola virtù di questa potenza produttrice».
[16] Mândûkya Upanishad, shruti 1 e 2.

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