"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 6 novembre 2018

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 6. I gradi della manifestazione individuale

René Guénon 
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

6. I gradi della manifestazione individuale

Dobbiamo ora passare all’enumerazione dei diversi gradi della manifestazione di Âtmâ, inteso come personalità, in quanto tale manifestazione costituisce l’individualità umana; e possiamo ben dire che essa la costituisce effettivamente, poiché l’individualità non avrebbe esistenza alcuna se fosse separata dal suo principio, che è la personalità.
Tuttavia, il nostro modo d’esprimerci richiede una riserva: per manifestazione di Âtmâ occorre intendere la manifestazione riferita ad Âtmâ come suo principio essenziale; ma non si deve per questo pensare che Âtmâ si manifesti in qualche modo, perché, come abbiamo già detto, esso non entra mai nella manifestazione, ragion per cui non ne è in alcun modo condizionato. In altre parole, Âtmâ è «Ciò da cui tutto è manifestato, senza che sia da nulla manifestato»;[1] questo non dovrà mai essere perso di vista in tutto ciò che segue. Ricorderemo ancora che Âtmâ e Purusha sono uno stesso e unico principio, e che ogni manifestazione è prodotta da Prakriti, non da Purusha; ma, se il Sânkhya considera soprattutto questa manifestazione come lo sviluppo o l’«attuazione» delle potenzialità di Prakriti, poiché il suo punto di vista è principalmente «cosmologico» e non propriamente metafisico, il Vêdânta deve scorgervi altra cosa, perché considera Âtmâ, che è fuori della modificazione e del «divenire», come il vero principio a cui tutto dev’essere infine riferito. Potremmo dire che, a questo riguardo, esiste il punto di vista della «sostanza» e quello dell’«essenza», e che il primo è il punto di vista «cosmologico», perché è quello della Natura e del «divenire»; ma, d’altra parte, la metafisica non si limita all’«essenza», concepita come correlativa della «sostanza», e nemmeno all’Essere, nel quale questi due termini sono unificati; essa si spinge ben più lontano, poiché s’estende anche a Paramâtmâ o Purushottama, che è il Brahma Supremo, perciò il suo punto di vista (ammesso che questa espressione possa ancora usarsi in tal caso) è veramente illimitato.
D’altra parte, quando parliamo dei differenti gradi della manifestazione individuale, è facile capire che questi gradi corrispondono a quelli della manifestazione universale, data l’analogia costitutiva fra «macrocosmo» e «microcosmo» cui abbiamo sopra accennato. Si capirà ancora meglio se si riflette che tutti gli esseri manifestati sono ugualmente sottomessi alle condizioni generali che definiscono gli stati d’esistenza nei quali essi sono posti; se, considerando un essere qualunque, non si può isolare realmente uno stato di quell’essere dall’insieme di tutti gli altri stati nella gerarchia dei quali esso si colloca a un determinato livello, non si può neppure, da un altro punto di vista, isolare questo stato da ciò che appartiene, non più allo stesso essere, ma allo stesso grado dell’Esistenza universale; così tutto appare collegato in più modi, sia nella manifestazione stessa, sia in quanto questa, formando un insieme unico nella sua molteplicità indefinita, si ricollega al suo principio, vale a dire all’Essere, e quindi al Principio Supremo. La molteplicità ha un proprio modo di esistere, dato che è possibile, ma questo modo è illusorio, nel senso che abbiamo già precisato (quello di una «minore realtà»), perché l’esistenza stessa della molteplicità ha per base l’unità, da cui essa è prodotta e nella quale è principialmente contenuta. Considerando in tal modo l’insieme della manifestazione universale, si può dire che, nella stessa molteplicità dei suoi gradi e dei suoi modi, «l’Esistenza è unica», secondo una formula che prendiamo in prestito dall’esoterismo islamico; a questo proposito, occorre notare una differenza importante fra «unicità» e «unità»: la prima avvolge la molteplicità come tale, la seconda ne è il principio (non la «radice», nel senso in cui questa parola è riferita solamente a Prakriti, ma in quanto contiene in sé tutte le possibilità di manifestazione, tanto «essenzialmente» quanto «sostanzialmente»). Si può dunque propriamente dire che l’Essere è uno, ed è l’Unità stessa,[2] in senso metafisico d’altronde, non in senso matematico, poiché siamo ormai ben al di là del dominio della quantità: fra l’Unità metafisica e l’unità matematica vi è analogia, non identità; parimenti, quando si parla della molteplicità della manifestazione universale, non si tratta nemmeno di una molteplicità quantitativa, poiché la quantità è solamente una condizione speciale di certi stati manifestati. Infine, se l’Essere è uno, il Principio Supremo è «senza dualità», come vedremo in seguito: l’unità, infatti, è la prima di tutte le determinazioni, ma è già una determinazione e, come tale, non può propriamente essere riferita al Principio Supremo.
Dopo aver fornito queste poche indispensabili nozioni, ritorniamo all’esame dei gradi della manifestazione: è opportuno innanzi tutto fare una distinzione, come abbiamo veduto, fra la manifestazione informale e la manifestazione formale; ma, quando ci si limita all’individualità, si tratta sempre esclusivamente della seconda. Lo stato propriamente umano, come ogni altro stato individuale, appartiene interamente all’ordine della manifestazione formale, poiché è proprio la presenza della forma, fra le condizioni di un certo modo d’esistenza, a caratterizzare quel modo come individuale. Se dunque dobbiamo considerare un elemento informale, questo sarà un elemento sopra-individuale e, quanto ai suoi rapporti con l’individualità umana, non dovrà mai essere considerato come un elemento che la costituisce o che ne fa parte a un qualche titolo, bensì come ciò che collega l’individualità alla personalità. Infatti quest’ultima è non-manifestata, anche in quanto la si considera più particolarmente come il principio degli stati manifestati, così come l’Essere, pur essendo propriamente il principio della manifestazione universale, è al di fuori e al di là di questa manifestazione (e a questo riguardo si può ricordare il «motore immobile» di Aristotele); ma, d’altra parte, la manifestazione informale è ancora principiale, in un senso relativo, rispetto alla manifestazione formale, e così essa stabilisce un legame fra questa e il suo principio superiore non-manifestato, che del resto è il principio comune di questi due ordini di manifestazione. Parimenti, se poi si distinguono, nella manifestazione formale o individuale, lo stato sottile e quello grossolano, il primo è, più relativamente ancora, principiale rispetto al secondo, e di conseguenza si colloca gerarchicamente fra quest’ultimo e la manifestazione informale. Si ha dunque, attraverso una serie di principi via via sempre più relativi e determinati, un concatenamento insieme logico e ontologico (d’altronde i due punti di vista si corrispondono tanto che è impossibile separarli se non artificiosamente), che va dal non-manifestato fino alla manifestazione grossolana, passando attraverso la manifestazione informale, e poi quella sottile; che si tratti del «macrocosmo» o del «microcosmo», è questo l’ordine generale che dev’essere seguito nello sviluppo delle possibilità di manifestazione.
Gli elementi di cui dovremo parlare sono i tattwa enumerati dal Sânkhya, a eccezione, ovviamente, del primo e dell’ultimo, ossia di Prakriti e di Purusha; come abbiamo visto, fra questi tattwa, alcuni sono considerati «produzioni produttive», altri «produzioni improduttive». A tale riguardo sorge un interrogativo: questa divisione è equivalente a quella che abbiamo delineato per i gradi della manifestazione o, per lo meno, le corrisponde in una certa misura? Per esempio, se ci limitiamo al punto di vista dell’individualità, si potrebbe essere tentati di riferire i tattwa del primo gruppo allo stato sottile e quelli del secondo allo stato grossolano, tanto più che, in un certo senso, la manifestazione sottile è produttrice di quella grossolana, mentre questa non è produttrice di nessun altro stato; ma in realtà le cose sono meno semplici. Infatti, nel primo gruppo abbiamo innanzi tutto Buddhi, che è l’elemento informale al quale alludevamo poc’anzi; quanto agli altri tattwa che vi si trovano inclusi, ahankâra e i tanmâtra, essi appartengono proprio al dominio della manifestazione sottile.
D’altra parte, nel secondo gruppo, i bhûta appartengono incontestabilmente al dominio della manifestazione grossolana, poiché sono gli elementi corporei; ma il manas, non essendo affatto corporeo, dev’essere ricollegato alla manifestazione sottile, per lo meno in se stesso, quantunque la sua attività si eserciti anche in rapporto alla manifestazione grossolana; gli altri indriya hanno in qualche modo un aspetto duplice, potendo essere considerati nello stesso tempo come facoltà e come organi, dunque psichicamente e corporalmente, in altri termini allo stato sottile e a quello grossolano. Del resto, deve essere chiaro che, in tutto ciò, della manifestazione sottile viene preso in considerazione soltanto quello che concerne propriamente lo stato individuale umano nelle sue modalità extra-corporee; e, sebbene queste siano superiori alla modalità corporea in quanto ne contengono il principio immediato (ma, allo stesso tempo, il loro dominio si estende ben oltre), tuttavia, se le si ricolloca nell’insieme dell’Esistenza universale, esse appartengono ancora allo stesso grado di questa Esistenza nel quale è interamente racchiuso lo stato umano. La stessa osservazione è inoltre da farsi quando diciamo che la manifestazione sottile è produttrice di quella grossolana: perché ciò sia rigorosamente esatto, bisogna apportarvi, per quanto concerne la prima, quella restrizione che già abbiamo indicato, poiché la stessa relazione non può essere stabilita riguardo ad altri stati ugualmente individuali, ma non umani, e interamente differenti per le loro condizioni (salvo la presenza della forma), stati che tuttavia si è obbligati a includere, pure essi, nella manifestazione sottile, come abbiamo spiegato, dal momento che, come è inevitabile, si prende quale termine di paragone l’individualità umana, pur rendendosi perfettamente conto che in realtà questo stato non è nulla di più né di meno di qualunque altro stato.
È ancora necessaria un’ultima osservazione: allorché si parla dell’ordine di sviluppo delle possibilità di manifestazione, o dell’ordine nel quale devono essere enumerati gli elementi che corrispondono alle differenti fasi di questo sviluppo, bisogna aver cura di precisare che un tale ordine implica soltanto una successione puramente logica, che d’altronde traduce un concatenamento ontologico reale, e che in nessun modo si può parlare qui di una successione temporale. Infatti, lo sviluppo nel tempo corrisponde soltanto a una particolare condizione d’esistenza, una fra le tante che definiscono il dominio nel quale è contenuto lo stato umano; ed esiste un numero indefinito di altri modi di sviluppo ugualmente possibili e ugualmente compresi nella manifestazione universale. L’individualità umana non può dunque essere situata temporalmente in rapporto agli altri stati dell’essere, poiché essi, in genere, sono extra-temporali, e ciò anche quando si tratta soltanto di stati ugualmente appartenenti alla manifestazione formale. Potremmo ancora aggiungere che certe estensioni dell’individualità umana, al di fuori della sua modalità corporea, già sfuggono al tempo, senza essere per questo sottratte alle altre condizioni generali dello stato al quale appartiene questa individualità, sicché esse si situano invero in semplici prolungamenti di questo stesso stato; e avremo senza dubbio occasione di spiegare, in altri studi, che tali prolungamenti possono essere appunto raggiunti con la soppressione dell’una o dell’altra delle condizioni il cui insieme completo definisce il mondo corporeo. Se le cose stanno così, diviene comprensibile come, a maggior ragione, sia fuori discussione fare intervenire la condizione temporale in ciò che non appartiene più allo stesso stato, né conseguentemente nei rapporti dello stato umano integrale con altri stati; e, ancora a maggior ragione, non lo si può fare quando si tratta di un principio comune a tutti gli stati di manifestazione, o di un elemento che, pur essendo già manifestato, è superiore a ogni manifestazione formale, come quello che prenderemo in esame per primo.



[1] Kêna Upanishad, 1° Khanda, shruti 5-9; il passo sarà citato per intero più avanti.
[2] È ciò che esprime anche l’adagio scolastico: Esse et unum convertuntur.

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