"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 18 novembre 2018

Vidyā Nivāsa Miśra, Il concetto di nāda nel pensiero indiano

Vidyā Nivāsa Miśra
Il concetto di nāda nel pensiero indiano

Presentazione
Conferenza tenuta dal Paṇḍita Śrī Vidyā Nivāsa Miśra al Lido di Venezia il 16 aprile 2002, a latere del convegno VAIS sulla figura del guru nelle diverse tradizioni.
Il Paṇḍita prof. dr. Vidyā Nivāsa Miśra (PhD) (1926–2005) è stato un insigne erudito, che ha spaziato tra i diversi campi della cultura tradizionale offrendo delle chiavi di accesso alle più elevate vette della conoscenza indiana anche ad alcuni qualificati ambienti occidentali. Ha pubblicato più di settanta saggi, opere critiche e trattati di linguistica e glottologia; cultore e curatore dei libri di A.K. Coomaraswamy, profondo conoscitore di R. Guénon, è stato insignito di parecchi premi e onorificenze, tra cui il Padma Shree, il Moorti Devi Award del Bharatiya Jnanapith e lo Shankar Puraskar della K.K. Birla Foundation.
In riconoscimento di una vita e di un lavoro letterario che ha saputo esprimere l’essenza del mondo Indiano in tutto il suo splendore, P◦ Vidyā Nivāsa Miśra è stato nominato membro del Rajya Sabha, la Camera Alta del Parlamento dell’Unione Indiana, per meriti culturali.
Ma ancor più importante di tutto ciò, P◦ Miśra è stato un upaguru di Śrī Vidyā del pīṭha di Benares e, proprio in virtù di questo suo magistero, ha potuto parlare con cognizione e profondità del metodo di Nādayoga offrendo in questa breve conferenza alcuni spunti di estremo interesse. Se, infatti, in Occidente, questo tipo di yoga viene in genere associato alla semplice musica e quindi a una pratica del tutto esteriore, priva di possibilità realizzative, P◦ Vidyā Nivāsa Miśra concentra la propria attenzione sulla vibrazione interiore che può essere percepita a livello sottile in suṣumṇā, il centrale dei tre principali canali sottili (nāḍī) del corpo umano. Inoltre, se nella prima parte della relazione si sofferma su alcuni aspetti tecnici della pratica, evidenziando i diversi tipi di vibrazione definiti da questo metodo, nella seconda fornisce alcuni spunti di carattere tradizionale, per poi porre l’accento sul fluire della vibrazione sonora più sottile, che ha il potere di dissolvere qualsiasi attaccamento e quindi ogni residuo di individualità. È questa un’esperienza che, con altro linguaggio, richiama la folgorante, improvvisa comparsa della Conoscenza ultima e che conferma, al più elevato livello di Śrī Vidyā, la possibilità di accesso a Brahman nirguṇa, la Conoscenza del Supremo, unica in grado di schiudere le porte a mokṣa.
Gāyatrī Ānanda

Il concetto di nāda nel pensiero indiano

L’argomento che mi accingo a trattare è troppo profondo per chiunque, e a maggior ragione per me, in quanto è necessaria una vasta esperienza prima di potersi avvicinare a nāda e parlarne con cognizione. Ciononostante, per quanto limitata possa essere la mia conoscenza delle fonti tantriche e per quanto limitato sia stato ciò che ho potuto esperire di persona, tenterò di esprimerlo in questo breve intervento.
Bene, innanzitutto nāda non è l’essenza ultima. È bindu l’essenza ultima. Recita il Śāradātilaka Tantra[1]:
Tasmāt bindor bhidymāṅāt ravonadatmako’bhavat
Saravah śrutisaṃpannaih śabdo brahmeti gīyate
Naturalmente nāda è śabdabrahman[2], ma c’è qualcosa al di là di esso: Parabrahman è al di là di esso. Come sancisce la Maitrī Upaniṣad (6.22):
Śabda brahmaṇiniṣṇatah para brahmadhigacchati
Ci si deve conformare a śabdabrahman per poi giungere a Parabrahman. Perciò la Realtà ultima assoluta è bindu. Bindu è niśkala, ciò che non può essere diviso in parti; tutt’al più si dovrebbe dire che sono le parti a essere incluse in esso. Ma solo bindu è l’intero e per questo è detto pūrṇa [pieno, completo]. Quando si divide, si genera nāda.
Tuttavia vi sono due stadi di nāda. Il più elevato è mahānāda, che può essere sperimentato in suṣumṇā[3] ed è descritto come il suono senza alcuna vocale[4]. Non possiamo pronunciarlo né possiamo ritrarlo. Una volta che fluisce in suṣumṇā non possiamo fermarlo. Ma quand’è che ciò accade? Quand’è che mahānāda fluisce? Quando si passa attraverso le differenti fasi di manifestazione. La manifestazione è un processo che non accade una sola volta, ma ogni giorno, in ogni momento di creatività. Accade ripetutamente, ancora e ancora, e questo accadimento è ben descritto nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (I.4.3):
… ekākī na ramate […] sa imam evātmānaṃ dvedhāpātayat…
“L’Uno non sente piacere di essere solo […] così si divide in due e da ciò parte la manifestazione”. Ma, prima di dividersi, Esso deve compiere tapas. Cos’è tapas? È l’intensità, l’intenso calore del desiderio. Fino a che non vi è intenso calore di desiderio, non può esservi alcuna manifestazione. La manifestazione ha bisogno di intensità di calore, del desiderio e, a causa di tale intensità, l’Uno giunge a sacrificare se stesso. Fin quando l’Uno non ha sacrificato se stesso, la manifestazione non può avere inizio. Questo è tapas. Questa è la fiamma. Solo allora può manifestarsi nāda, e il primo a sorgere è l’essenza del più sottile dei suoni, anāhata nāda[5]. Anāhata nāda è mahānāda. Non può essere descritto. È senza confini. haṃsa. Dopo haṃsa non c’è nulla se non l’intensità del processo di nascita. Haṃ è l’espirazione e sa è l’ispirazione. Ma cercare di limitarlo a questa descrizione di carattere fisiologico risulta riduttivo.
Partiamo, dunque, considerando quali sono diversi tipi di nāda: la tradizione ne enumera otto. Il primo è ghoṣa; ghoṣa significa quando si chiudono gli orecchi con le dita e si cerca di udire qualcosa nel silenzio. Negli orecchi allora si ode una sorta di suono: qualche sorta di suono che sembra provenire da diversi punti. In acustica è chiamato brusio, ma è qualcosa in più d’un brusio. Non è semplicemente la vibrazione di corde vocali, è qualcosa in più. Lo si descrive come dīptovahnerivabhāti “quando il fuoco è acceso, vi è un suono in quel fuoco”. Risuona come un fuoco fiammeggiante. Esso è il più sottile. Poi viene per secondo svāna che è un po’ più articolato e viene descritto come una pioggerella quando il vento è cessato: allora si dice che quel suono è svāna. All’altro estremo, il più articolato di tutti è huṅgkṛta [ruggito] che è descritto come il suono tra le alte nuvole, un rimbombo tra le alte nuvole. Appena meno articolato di questo è jhaṅkṛta, il suono che si produce quando tutte le corde della vīṇā sono pizzicate assieme. Ancor meno articolato è dhvani, e ancor più sottile è sphoṭa, descritto come il ronzio delle api. E ancor più sottile è śabda. Śabda che è la predisposizione della parola che si può percepire nella gola, l’intera parola che si può percepire quando è ancora nella gola. Non è una parola bisbigliata. È una parola già predeterminata, già pienamente soffiata su per la gola, ma non ancora articolata e perciò ancor più sottile di quanto finora descritto. Questi sono gli otto tipi di suoni, nāda, che vanno compresi.
Nāda letteralmente significa ‘ciò che risuona’; ma questa, naturalmente, è soltanto una definizione. Una vibrazione può risuonare in uno spazio, uno spazio limitato, e al contempo fissa anche un ambito temporale in quanto può durare solo per un intervallo di tempo definito. In ogni pratica di dhyāna [meditazione], questi suoni rappresentano gradi successivi fino al raggiungimento del suono più astratto. È necessario concentrarsi su questi suoni: il suono creato dalla piggerella, il suono creato dalle api, il suono creato dal fuoco fiammeggiante, il suono creato da un leggero pizzicare la quinta corda di una vīṇā e il suono creato da tutte le corde percosse assieme. Vi sono diversi tipi di suoni ed è necessario concentrarsi su di essi prima di raggiungere il più sottile di tutti che è ghoṣa. Dopo di che è possibile giungere ad anāhata nāda.
Anāhata nāda li comprende tutti e in esso tutti si fondono; allora si può udire una sorta di ha [suono aspirato dell’acca]. Quando ha è accompagnato da una vocale diviene articolato, ma il suono, la vibrazione reale di h non è seguita da alcuna vocale. È pura h e se ne può sentire la vibrazione in tutto il corpo quando sale dall’ombelico alla testa. Può essere percepita quella vibrazione. Ma non a lungo. Vi è bisogno di pratica; può essere colta in certi particolari momenti della giornata, solo in alcuni luoghi e solo per alcuni istanti. Quello è anāhata nāda, il suono senza colpo da cui si emana tutto poiché, in quasi tutte le scuole di pensiero Indiano, il suono, il suono non pronunciato, il suono non pronunciabile è il sottofondo sottile di vāc, che è il seme di tutto:
vāgeva viśvā bhuvanāni jajñe [6]
Vāc è il seme di tutto. Cosa significa? Cosa esprime vāc? È semplice parola? No. Vāc è il desiderio di manifestazione. Vāc è il desiderio di raggiungere l’altro, l’altro che ancora non è, che deve essere manifestato per primo, prima che la manifestazione stessa possa prendere forma. Questa concezione di vāc è un concetto fondamentale nella cultura Indiana, non solo nella letteratura, non solo nell’ambito spirituale, non solo per la pratica dello yoga: è un concetto fondamentale per tutte le arti, anche per un’arte come l’architettura, dove i diversi tipi di risonanza sono costruiti, creati. A Hampi vi è il tempio Viṭṭhala ove si possono percuotere le colonne e ne esce un suono come di mṛdaṅgam, uno strumento simile alla vīṇā. Ciascuna colonna produce un suono diverso.
Allo stesso modo, è possibile trovare qualcosa di simile a Suchindram, così come a Madurai. Il suono è parte dell’edificio, il suono è parte dell’architettura. È parte integrante dell’architettura. Così per qualsiasi tipo di arte in cui non si pensa possa esservi posto per il suono, anche là suono e suono sottile hanno un ben determinato ruolo. Non un banale rumore: è il suono sottile ad avere un ruolo.
Ci si può chiedere: “Non è forse il silenzio qualcosa di pieno, qualcosa già di intero in sé?” Sì, lo è, a patto che il silenzio sia connotato di contemplazione. Se non lo è, è semplicemente giacere addormentati: non si tratta del vero silenzio. È un silenzio senza significato, come quello che di solito si sperimenta, quel genere di silenzio che non ha significato perché non è preceduto né seguito dalla contemplazione. Ma quando è preceduto dalla contemplazione, quando si è riempiti dall’essenza del suono, solo allora il silenzio ha significato e può manifestare cose che altrimenti sarebbe impossibile esperire. Questo genere di silenzio è descritto in molti sūtra vedici ed è ben riassunto dal termine dhī. Dhī è molto importante. Dhī significa aver contemplato alcune cose tanto da essere in grado di vederne l’essenza e, riempiendosi di tale essenza, assorbirsi nel silenzio.
Maṅ masta huā to kyā boleṇ?[7]
Anche Kabīr dice le stesse cose con altre parole. Quando si è nella pienezza, quando si è assorbiti interamente in qualcosa, non v’è bisogno di dire più alcunché. Ma tale sorta di silenzio è molto raro.
Quando parliamo dei diversi tipi di nāda, per prima cosa si deve iniziare con bindu. Vi sono tre coppie fondamentali nel pensiero tantrico indiano: Śiva-Śakti, prakāśa-vimarśa e bindu-nāda. Esse vanno assieme. Śiva si esplica attraverso Śakti, prakāśa [la luce] si manifesta attraverso vimarśa [la vibrazione principiale] e bindu diviene manifestato in nāda. Si tratta essenzialmente della stessa cosa descritta in tre differenti modi. Così bindu è prakāśa in uno stato inattivo, potenziale. Esso esiste prima della manifestazione ed esiste dopo che la manifestazione si è dissolta: precede e include tutti i processi della creazione. Tutto dipende da esso, tuttavia esso ha bisogno di kriyā, ha bisogno dell’azione. In ciascun sistema di pensiero, perfino nella grammatica, kartā [l’agente] è chiamato svatantra [autonomo]: è indipendente eppure ha bisogno di kriyā [l’azione]. Senza kriyā, kartā non può agire. Solo quando è unito a kriyā assume significato, perciò l’agente non è importante se non quando è in relazione con l’azione. Prakāśa è quindi importante solo quando è unito a vimarśa. Cos’è vimarśa? Vimarśa è la vibrazione, la vibrazione di cui ho tratteggiato sommariamente la forma. Non sono in grado di descriverla. Non posso pronunciarla. Essa giunge e fluisce per un attimo per poi sparire. È una vibrazione assolutamente ineffabile, eppure da essa si dispiega l’intero cosmo. L’intero cosmo è l’espansione di questa vibrazione.
Ananda Coomaraswamy l’ha messa in relazione a sūrya. Quando si parla di sūrya in quest’accezione, non ci si riferisce al sole del sistema eliocentrico. Si tratta di qualcosa di diverso. Essa corrisponde alla luce e deriva da due differenti radici verbali. Una riferita al bagliore e l’altra riferita al suono. Così la luce non è solo bagliore, ma anche esplosione sonora. Vi è una sorta di esplosione. Ma non è possibile udirla. Essa è sottile pur essendo un’esplosione. Non intendo dire che ciò possa essere collegato alla teoria del Big Bang, perché non abbiamo evidenze tali da affermarlo, ma inizialmente vi è un suono[8]. Si percepisce l’emergere di una luce e ogni cosa è risvegliata manifestandosi in una moltitudine di suoni: i cinguettii degli uccelli, i fruscii delle foglie che cadono, i diversi canti del vento tra le foglie. Tale era la vita dell’uomo primordiale. Aveva una profonda sintonia con tutto ciò che lo circondava ed egli era un acuto uditore, un acuto osservatore, attivo e partecipe di ciò in cui era immerso. Per questo egli poteva comprendere la relazione tra le diverse sfaccettature d’ogni fenomeno, tra le diverse componenti del cosmo, e poteva relazionarsi con esse perché era in armonia con il proprio ambiente.
Senza questa armonia, senza questa intimità, non penso abbia senso parlare di nāda e del silenzio, in quanto non è più possibile coglierne lo spessore, le sfaccettature. La tecnologia del giorno d’oggi ha disperso tutte le distinzioni, tutte le più sottili ombreggiature della musica, tutte le più sottili sfumature delle vibrazioni sonore, ed esse sono finite per scomparire. Vi è stato un livellamento in ogni campo: un livellamento di forme e un livellamento di modalità, e ciò ha creato un enorme danno. L’uomo non è più in grado di distinguere tra le differenti cose. I suoi occhi non possono più distinguere tra le sfumature sottili dei colori. Le sue orecchie non possono più distinguere i differenti suoni, non possono più distinguere tra la risata di un bimbo o quella di una donna anziana. Ha perduto questa capacità. Ciascuno deve recuperare questa capacità attraverso una più profonda relazione con ciò che lo circonda. Soltanto allora si potrà parlare di cose come nāda e bindu. Le attuali condizioni sono assai inadatte per poterne parlare. Sono argomenti che mal si adattano alla presente situazione. Perfino i sistemi di aria condizionata e di amplificazione di questa sala producono vibrazioni che ci impediscono di percepire con chiarezza e precisione. Perciò, quando mi è stato chiesto di parlare su questo argomento, non sono stato certo di poterlo fare, di poterlo fare in questa sala. Forse sarebbe stato meglio parlarne sotto l’ombra di un albero di pippal nel profondo della foresta. Parlarne qui è l’espressione del più futile dei tentativi. So che si tratta di un tentativo futile: ho sperimentato questa situazione molte volte e ho compreso che, se si vuole penetrare l’essenza della nostra cultura, non possiamo farlo senza la foresta. E, infatti, io sono stato iniziato nella foresta dal mio antico amico Sacchidānanda Hirānanda Vātsyāyana. Egli mi ci ha accompagnato molte volte, in diversi luoghi, ma non c’è mai stato il bisogno di parlare. Semplicemente vi siamo andati assieme, abbiamo camminato assieme per capire quale fosse il canto di quel luogo, cosa in quel luogo si accompagnasse alla follia, cosa fluisse da quel luogo; e ciò è stato l’essenza stessa dell’esperienza.
Una volta avuta questa esperienza, anche per un solo attimo, si deve provare a pensare a come nāda possa essere descritto attraverso il Tantra della musica e della poesia. Solo allora si potrà capire come il suono del flauto sia assimilato a Rudra, la forma di Śiva distruttore. Quel suono spazza via tutte le relazioni, tutti gli attaccamenti, l’attaccamento alla casa, alla famiglia, a tutte le cose. Esse sono tutte spazzate via. Sono tutte bruciate. Questo è il ruolo di baṃśī, il flauto di Śrī Kṛṣṇa. E dopo di ciò, in solitudine, quando si entra nel rāsa maṇḍala, non si è gopī, non si è semplici pastorelle[9]. Non si è parti di Śrī Kṛṣṇa, si è interamente Śrī Kṛṣṇa. Si è tutti manifestazioni di Śrī Kṛṣṇa poiché, in qualità di gopī, siamo stati annichiliti da quel suono, dall’eco di quel suono. Non solo noi, ma anche il fiume, gli alberi, le colline, sono trasformati in qualcosa d’altro. Si perde l’identità, l’identità fisica.
Dunque tale è l’impatto del suono. Esso inizialmente annichilisce l’identitificazione con questo e con quello; questo e quello, assieme a ogni identità che ci appartiene, vengono annichiliti. Non si è preparati a una simile esperienza, a maggior ragione in quest’epoca di libertà individuale. A nessuno piace perdere la propria identità. Ciascuno è in cerca d’identità perché non ha alcuna identità vera. Perciò si ha paura di perdere la propria falsa identità, per quanto passeggera possa essere.
Dovremmo dunque provare a parlare sul modo di emettere la voce, come articolarla, soffermarci sui processi interiori ed essere soddisfatti di quel poco che otteniamo. Ma quando le persone analizzano il suono dal punto di vista dell’acustica o fanno considerazioni di carattere politico sulla lingua, si perdono in questo genere di dettagli. Così non riescono a comprendere la reale essenza delle cose: vedono che vi sono delle particolarità, ma non sono in grado di descrivere quali esse siano. Non possono realizzare che il suono è il seme di tutte le cose. È assurdo affermare che ha crea a, e a crea questo, e questo crea quest’altro, e quest’altro crea quello. Questo crea l’intero insieme degli elementi e gli elementi assieme a ciò creano l’intero mondo. È tutto assurdo. È pura immaginazione, ma al contempo non lo è. C’è un senso dietro tutto questo. C’è un ordine. Quell’ordine può essere compreso solo attraverso la contemplazione e contemplare nāda e descriverlo è di gran lunga superiore a quanto le persone comuni, che parlano semplicemente di canto, possano mai comprendere.
Ciascuno può pensare in termini astratti al suono, ma non raggiunge l’astrazione assoluta di colpo. Bisogna andare passo dopo passo. Vi sono dei passaggi da compiere. La lingua parlata, la struttura ritmica della lingua, il tempo della lingua sono tutte componenti che guidano verso l’astrazione del suono. E la musica, in assoluto, è il più sottile di questi passi. Anche la danza è un passaggio molto sottile perché in essa il movimento è sincronizzato con il suono.
Adesso forse è possibile capire come sia importante il suono. Kalidāsa così lo descrisse:
pādmanyāsam layamanuyatuh
Pādmanyāsam, lo slancio del piede, segue laya [la dissoluzione]”[10] e questa sincronia è difficile da raggiungere e può essere acquisita solo attraverso la pratica. Questa pratica rende l’idea di come le cose accadono assieme. Esse sono inter-relate.
Perciò nāda è la sola chiave per comprendere il tutto.

* Dal sito Veda Vyāsa Maṇḍala: www.vedavyasamandala.com



[1] Letteralmente il tilaka, il segno sulla fronte della dea Śāradā o Pārvatī. Testo tantrico che raccoglie mantra e istruzioni rituali compilato da Śrī Lakṣmaṇa Deśikendra nel 800 d.C. circa [NdT].
[2] Śabdabrahman indica il Verbo divino, il Veda. Qui viene messo in relazione con Parabrahman, il Brahman Supremo, l’Assoluto, riproponendo in altri termini il binomio Brahman saguṇa – Brahman nirguṇa, cioè la differenza tra l’apparente realtà del non supremo (Brahma saguṇa) e il Supremo, che supera ogni determinazione qualitativa [NdT].
[3] Suṣumṇā è il centrale tra i tre principali canali sottili (nāḍī), che attraversano il corpo umano. Essa risale la colonna vertebrale (merudaṇḍa) dal mūlādhāra cakra, posto alla sua base, in corrispondenza del coccige, inanellando tutti i centri sottili, per fuoriuscire dalla sommità del capo attraverso il sahasrāra-cakra, il loto dai mille petali [NdT].
[4] Ogni lettera, nel sistema di scrittura devanāgarī, è sostenuta dalla vocale ‘a’. Qui, come più avanti quando il relatore si soffermerà sulla lettera ha (l’aspirata h, acca), la mancanza della vocale vuole indicare il suono puro, già prodotto dal soffio interiore, ma non ancora espresso esteriormente [NdT].
[5] L’aspetto udibile è detto ahata, letteralmente “colpito”, il suono che sorge dalla percussione tra due oggetti. Diversamente anāhata significa “non colpito”, cioè un suono sottile che non sorge da alcun contatto fisico [NdT].
[6]  L’autore ha omesso di indicare la fonte della presente citazione.
[7] In hindī: “Quando la mente è felice, che altro c’è da dire?” [N.d.T.].
[8] D’altra parte in Ṛg Veda 10.71.1-4, vāc è indicata come produzione principiale così come nel Vangelo di S. Giovanni si dice “All’inizio fu il Verbo” [NdT].
[9] I seguaci di Kṛṣṇa sono considerati come gopī, la cerchia danzante (rāsa maṇḍala) di pastorelle che rimasero incantate dal flauto del Dio.
[10] Si tratta dello stesso movimento che compie Śiva Naṭarāja, il cui piede sollevato nella danza di manifestazione e dissoluzione cosmica è il rifugio ultimo dell’iniziato attraverso cui giungere a mokṣa [NdT].

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