Il buddhismo zen
come purificazione e liberazione
Nella sua essenza lo Zen è l'arte di vedere nella propria
natura. Esso indica la via che dalla servitù conduce alla libertà.
Facendoci attingere direttamente alla fonte della vita, esso ci emancipa dai gioghi sotto i quali noi, quali esseri finiti, di solito soffriamo in questo mondo. Può dirsi che lo Zen libera tutte quelle energie naturalmente immagazzinate in ciascuno di noi che nelle circostanze normali sono contratte e deviate, tanto da non trovare un modo adeguato di esplicazione.
Facendoci attingere direttamente alla fonte della vita, esso ci emancipa dai gioghi sotto i quali noi, quali esseri finiti, di solito soffriamo in questo mondo. Può dirsi che lo Zen libera tutte quelle energie naturalmente immagazzinate in ciascuno di noi che nelle circostanze normali sono contratte e deviate, tanto da non trovare un modo adeguato di esplicazione.
Il nostro essere lo si può paragonare ad una batteria
elettrica che racchiude, allo stato latente, un potere misterioso. Quando non è
portato all'atto in modo conveniente questo potere intristisce, ovvero,
alterandosi, va a manifestarsi in forme anormali. Ora, Io scopo dello Zen è di
preservarci sia dalla follia che da una interna mutilazione. Ciò io intendo per
libertà: dar libero gioco a tutti gli impulsi creativi e benefici insiti nel
nostro animo. In genere, siamo ciechi di fronte al fatto che noi possediamo le
facoltà necessarie per essere felici e per amarci gli uni con gli altri. Tutte
le lotte che vediamo intorno a noi derivano da siffatta ignoranza. Perciò lo
Zen vuole che in noi un terzo occhio» - come i buddhisti lo chiamano - si apra
su quella regione insospettata da cui siamo esclusi a causa della nostra ignoranza.
Quando la nube dell'ignoranza si dissipa, si manifesta l'infinito dei cieli e
per la prima volta noi scorgiamo la vera natura dello stesso essere. Allora noi
conosciamo il significato della vita, comprendiamo che essa non è un cieco
tendere, né un mero dispiegamento di forze brute; pur non conoscendone
esattamente lo scopo ultimo, sentiamo in essa qualcosa che ci rende
infinitamente felici di viverla, che ci fa restare contenti in ogni sviluppo di
essa di là da ogni problema e da ogni dubbio pessimistico.
Finché siamo pieni di attività e non ancora desti alla
conoscenza della vita possiamo non sentire la serietà di tutti i conflitti che
essa racchiude e che sul momento sembrano essere risolti per essere in uno
stato di quiescenza. Ma prima o poi verrà il tempo in cui dovremo metterci
senz'altro faccia a faccia con la vita e sciogliere i suoi enigmi più
incalzanti e preoccupanti. Confucio dice: «A quindici anni la mia mente era
dedicata allo studio e a trenta sapevo a che punto mi trovavo». Questo è uno dei
detti più interessanti Saggio cinese. Ogni psicologo converrà nella sua verità.
Infatti, in genere è verso i quindici anni che si comincia a considerare con
serietà quanto ci è d'intorno ed a cercare il senso della vita. Tutte le
energie spirituali fino ad allora nascoste nella parte inconscia della psiche
prorompono quasi simultaneamente. E quando questa emergenza è troppo brusca e
violenta la mente può perdere in modo più o meno permanente il proprio
equilibrio: di fatto, tanti casi di prostrazione nervosa che si verificano
durante l'adolescenza sono principalmente dovuti a questa rottura
dell'equilibrio mentale. In molti, gli effetti non sono tanto gravi e la crisi
può passare senza lasciare tracce profonde; ma in certi caratteri, per via di
tendenze innate o dell'influenza dell'ambiente su di una costituzione interna
poco salda, il risveglio spirituale sommuove gli strati più profondi della
personalità. Questo è il momento nel quale si impone lo scegliere fra un
«eterno No» e un «eterno Sì». Per «studio» Confucio intende tale scelta: non la
lettura dei classici, ma il sondare i misteri della vita.
Normalmente la lotta si conclude con I'«eterno Sì» o con
il «sia fatta la tua volontà», perché, dopo tutto, la vita è sempre una forma
di affermazione, per negativo che sia il modo con cui i pessimisti la
concepiscono. Però non possiamo negare il fatto, che in questo mondo esistono
molte cose atte a spingere uno spirito troppo sensibile nell'altra direzione e
a fargli esclamare, come Andreieff nella Vita
dell'uomo: «Maledico ogni cosa che mi hai data. Maledico il giorno in cui
sono nato. Maledico il giorno in cui morirò. Maledico tutta la mia vita. Ogni
cosa, la rigetto contro la tua faccia crudele, o Fato assurdo! Sii maledetto,
sii per sempre maledetto! Con la mia maledizione, io ti vinco. Che puoi fare più contro di me?... Col mio
ultimo pensiero io griderò nelle tue orecchie bestiali: Sii maledetto! sii
maledetto!». Questa è una terribile accusa contro la vita, una completa
negazione della vita, l'immagine più sinistra del destino dell'uomo su questa
terra. «Senza lasciare una traccia» - è vero perché non sappiamo nulla del
nostro avvenire, salvo che noi tutti spariremo, insieme alla stessa terra che
ci ha generati. Certo, vi sono abbastanza cose che giustificano il pessimismo.
Come la gran parte di noi la vive, la vita è un dolore.
Questo fatto non può essere contestato. Finché la vita è una forma di lotta,
essa non può non essere sofferenza. La lotta non significa forse lo scontro di
due forze che cercano ognuna di sopraffare l'altra? Se si perde la battaglia,
l'esito è la morte, e la morte è la cosa che più si teme al mondo. Anche se si
evita la morte, può attenderci la solitudine, talvolta più intollerabile della
stessa morte. Si può non essere coscienti di tutto ciò e continuare a darsi ai
piaceri passeggeri che i sensi ci procurano. Ma questa incoscienza non cambia
nulla nella realtà della vita. Il cieco può insistere nel negare l'esistenza
del sole, ma non potrà annientarlo. Il caldo tropicale continuerà a bruciarlo
senza pietà e se egli non se ne difende sarà spazzato via dalla superficie
della terra.
Il Buddha aveva perfettamente ragione nel proclamare le
«quattro nobili verità», la prima delle quali è che la vita è dolore. Forse che
ognuno di noi non è venuto al mondo gridando e, in un certo modo, protestando?
Il meno che si possa dire è che il passaggio da un dolce, caldo grembo materno
ad un ambiente freddo e nemico è un accidente doloroso. La crescenza è sempre
accompagnata dal dolore. La dentizione è un processo più o meno doloroso. La
pubertà è generalmente connessa a disturbi sia fisici che psichici. Lo sviluppo
di quell'organismo superiore che noi chiamiamo società è esso stesso
contrassegnato da tragici cataclismi, e noi attualmente assistiamo proprio ad
una di queste convulsioni da parto. Possiamo ragionare freddamente e dire che
tutto ciò è inevitabile, che, nella misura in cui ogni ricostruzione implica la
distruzione della situazione precedente, non possiamo fare a meno di
attraversare stati dolorosi. Ma la fredda analisi intellettuale non allevia in
alcun modo queste sofferenze che non si possono evitare, inflitte
inesorabilmente al nostro essere. Dopo ogni ragionamento, resta pur fermo che
la vita è una lotta commista a dolore.
Senonché proprio in ciò sta qualcosa di provvidenziale.
Quanto maggiore è il dolore, tanto più il carattere si sviluppa in profondità e
questo approfondirsi del carattere mette in grado di leggere in modo più
penetrante i segreti della vita. Tutti i grandi artisti, tutti i grandi capi
religiosi si sono formati attraverso dure lotte da essi combattute
intrepidamente, spessissimo presso alle maggiori sofferenze. Prima di cibarsi
del pane del dolore e della tristezza non si può conoscere il gusto della vita
reale. Mencio ha ragione nel dire che il Cielo, quando vuole formare un grande
uomo, lo prova in ogni modo, finché egli sorge trionfante di là da tutte le sue
esperienze dolorose.
A me sembra che Oscar Wilde abbia sempre posato,
preoccupandosi soltanto di far colpo; può essere stato un grande artista, ma vi
è in lui qualche cosa che me lo allontana. Eppure nel De Profundis egli scrive: «In questi ultimi
mesi, dopo difficoltà e lotte terribili, sono stato in grado di comprendere
alcune delle lezioni nascoste nel profondo della sofferenza. I preti e le
persone che usano frasi prive di sapienza parlano talvolta della sofferenza
come di un mistero. Essa è in realtà una rivelazione. Si discernono cose che
prima non si erano mai intraviste. Si guarda tutta la propria storia da un diverso
punto di vista». Dal che si vede quali effetti trasfiguranti abbia avuto, sul
carattere di Wilde, la sua vita in prigione. Se egli fosse passato attraverso
una simile prova all'inizio della sua carriera avrebbe di certo creato opere
ben più grandi di quelle che ci ha lasciato.
Noi siamo troppo centrati nel nostro Io. Il guscio dell'Io
entro cui viviamo è la cosa più difficile a superare durante la nostra
crescenza. Lo portiamo continuamente con noi, dalla fanciullezza fino al
momento del nostro trapasso. Eppure ci sono date molte occasioni per far
saltare questo guscio, e la prima, la più grande di esse, ci si offre appunto
quando raggiungiamo l'adolescenza. È allora che l'lo, per la prima volta, va a
riconoscere l'«altro». Intendo riferirmi al destarsi dell'amore sessuale. Un lo
prima intero e indiviso comincia ora ad avvertire una specie di frattura.
L'amore dormiente nel profondo del suo essere alza la testa e suscita in lui le
forti emozioni. Una volta destatosi, l'amore chiede sia l'affermazione dell'Io
che la sua distruzione. L'amore fa perdere l'Io nell'oggetto amato e, nello
stesso tempo, esige il possesso di questo oggetto. È, questa, una contraddizione
e una tragedia della vita. Un tale sentimento elementare deve essere una delle
forze divine dalle quali l'uomo è spinto verso un cammino ascendente. Dio manda
tragedie all'uomo perfetto. La massima parte della letteratura prodotta in
questo mondo, altro non è che una ripetizione del tema dell'amore: tema, di cui
sembriamo non essere mai sazi. Ma non è propriamente questo il soggetto che,
qui, desidero trattare. Ho solo, voluto mettere in rilievo che col destarsi
dell'amore si ha una breve visione dell'infinito e che codesta visione spinge i
giovani verso il romanticismo o verso il razionalismo - a seconda del
temperamento, dell'ambiente e dell'educazione.
Una volta che il guscio dell'Io si è spezzato e che
I'«altro» viene assunto nel nostro stesso essere, possiamo dire che l'Io ha
negato se stesso, ovvero che l'Io ha fatto il suo primo passo verso l'infinito.
Sul piano religioso ne segue un'aspra lotta fra il finito e l'infinito, fra
l'intelletto e un potere più alto, o, più semplicemente, fra la carne e lo
spirito. Questo è il problema dei problemi, che ha spinto più di un giovane fra
le mani di Satana. Quando un adulto rievoca questi giorni della sua giovinezza,
non può fare a meno di sentire una specie di brivido in tutto il suo essere. La
lotta, da combattere in sincerità, può protrarsi sino all'età di trent'anni,
che è quella in cui Confucio dichiara di aver saputo a che punto si trovava.
Ormai la coscienza religiosa è completamente desta e vengono provate con
serietà in ogni direzione, le vie possibili per sottrarsi alla lotta o per
mettere fine ad essa. Si leggono libri, si assiste a conferenze, si ascolta con
avidità la parola di religiosi, si prova ogni specie di esercizi o di
discipline spirituali. Ed è naturale che si venga anche a chiedere che cosa sia
lo Zen.
Lo Zen come risolve il problema dei problemi?
Anzitutto lo Zen per la sua soluzione si appella
direttamente a certi fatti dell'esperienza personale, e non a conoscenze
libresche. Una facoltà più alta dell'intelletto deve cogliere la natura del
proprio essere, ove sembra prorompere il conflitto fra il finito e l'infinito.
Infatti lo Zen afferma che all'intelletto è proprio il far sorgere un problema
che lui stesso non è in grado risolvere; per cui, esso va messo da parte e
bisogna ricorrere a qualcosa di più alto e di più luminoso. Si è che
I'intelletto ha in proprio una peculiare qualità perturbatrice. Pone abbastanza
problemi per alterare la serenità dell'animo, ma, fin troppo spesso, è incapace
di dare ad essi delle soluzioni soddisfacenti. Distrugge la felice pace
dell'ignoranza senza saper ristabilire il precedente stato di equilibrio con
l'offrire qualcosa d'altro. Poiché svela l'ignoranza, esso spesso viene
considerato come una facoltà illuminatrice; di fatto, esso invece disturba,
senza portare sempre e necessariamente della luce sul cammino. Esso non
rappresenta l'ultima istanza: esso aspetta sempre qualcosa di più alto per la
soluzione di tutti i problemi che usa far sorgere senza preoccuparsi affatto
delle conseguenze. Se fosse capace di portare un ordine nuovo di là dallo
sconvolgimento che causa e di stabilirlo una volta per tutte, non vi sarebbe
stato più bisogno di filosofia dopo i sistemi creati da grandi pensatori, come
Aristotele o Hegel. Ma la storia del pensiero prova che ogni nuovo edificio
costruito da una mente eccezionale è destinato ad essere abbattuto da coloro che
vengono dopo. Finché si tratta di semplice filosofia, non vi è nulla da
eccepire contro questo continuo demolire e ricostruire; infatti la natura
intrinseca dell'intelletto, quale io lo concepisco, l'esige, e noi non possiamo
arrestare il processo dell'indagine filosofica più di quel che possiamo
arrestare il nostro stesso respiro. Ma se è della stessa vita che è questione,
non possiamo aspettare la soluzione ultima che l'intelletto, quand'anche ne sia
capace potrà offrire. Non, possiamo sospendere nemmeno per un istante la nostra
attività vitale nell'attesa che la filosofia ce ne sveli i misteri. I misteri
restino pur tali: noi dobbiamo vivere. L'affamato non può attendere che sia finita una analisi completa del cibo, che determini il valore nutritivo di ogni
elemento. Per chi è morto, questa conoscenza scientifica del cibo non sarà di
alcun valore. Così lo Zen non si affida all'intelletto per la soluzione dei
suoi problemi più profondi.
Ho parlato di esperienza personale; per essa devesi
intendere un rapporto diretto, senza intermediari, coi fatti, qualunque essi
siano. Una immagine prediletta dello Zen è che indicare la luna col dito è
necessario, ma guai a coloro che scambiano il dito per la luna. Un cesto è
certo, utile per portare a casa il pesce, ma una volta che il pesce sta sulla
tavola non ha senso continuare a pensare al paniere. Qui sono i fatti:
afferrarli a mani nude, a che non ci sfuggano - ecco ciò che lo Zen si propone.
Come la natura ha orrore per il vuoto, così lo Zen aborre tutto ciò che può
inserirsi fra noi e i dati immediati dell'esperienza. Secondo lo Zen, se ci si
riferisce ai fatti in quanto tali non esistono conflitti, come quello fra il
finito e l'infinito o fra la carne e lo spirito. A base di codesti conflitti
stanno distinzioni vane, tracciate fittiziamente dall'intelletto per i propri
usi. Chi le prende troppo sul serio o chi cerca di ritrovarle dentro il fatto
stesso della vita rassomiglia a chi scambia il dito per la luna. Quando abbiamo
fame mangiamo; quando abbiamo sonno ci stendiamo - in tutto ciò che c'entra il
finito o l'infinito? Non siamo forse completi, ciascuno in se stesso? La vita
quale viene vissuta basta. Solo quando il potere disturbatore dell'intelletto
interviene e cerca di ucciderla noi cessiamo di vivere e ci immaginiamo che
qualcosa ci manchi. Si lasci in pace l'intelletto; utile nella sua propria
sfera, esso non deve interferire nella corrente della vita. Se volete scrutare
la vita, fatelo mentre fluisce e lasciandola fluire. In nessun caso se ne deve
arrestare il flusso o immischiarsi in esso, perché nel punto in cui vi
immergerete le mani la sua trasparenza sarà alterata, esso cesserà di
riflettere il volto che aveste fin dalle origini e che continuerete a portare
sino alla fine dei tempi.
Più o meno in corrispondenza con le «Quattro Massime» della
scuola Nichire, lo Zen ha in proprio quattro principi:
«Una trasmissione speciale al di fuori delle Scritture;
Indipendenza dalle parole e dalla lettera;
Riferimento diretto all'anima dell'uomo;
Visione della propria natura e conseguimento dello stato di
Buddha».
Ciò riassume tutto quel che lo Zen vuole, in quanto
religione. Naturalmente, non si deve dimenticare che vi è tutto uno sfondo
storico, dietro a questa audace presa di posizione. Al tempo dell'introduzione
dello Zen in Cina, la maggior parte dei buddhisti era dedita alla discussione
di grandi problemi metafisici, o si limitava alla mera osservanza dei precetti
etici statuiti dal Buddha o, ancora, coltivava una vita letargica nel segno
della contemplazione della contingenza delle cose di questo mondo. Ad essi
tutti mancava la presa sul gran fatto costituito dalla stessa vita, che fluisce
di là da tali vane esercitazioni dell'intelletto o dell'immaginazione.
Riconoscendo questo deprecabile stato delle cose, Bodhidarma e i suoi
successori proclamarono le «Quattro Grandi Massime» dello Zen dianzi riferite.
In una parola, esse significano che lo Zen ha un proprio modo di avviare ognuno
verso la natura profonda del proprio essere e che usando tale modo si raggiunge
lo stato di Buddha, nel quale tutte le contraddizioni e tutti i dissidi creati
dall'intelletto si risolvono senza residuo in una superiore unità.
Per questo lo Zen non «spiega» mai ma indica soltanto; non
usa circonlocuzioni e non generalizza. Tratta sempre di fatti concreti e
tangibili. Dal punto di vista logico, lo Zen può apparire pieno di
contraddizioni e di ripetizioni. Di fatto, esso si tiene al disopra di tutto ciò
e procede calmo per la sua via. Secondo l'espressione acconcia di un maestro
Zen, «portando sulla spalla il bastone che ci si è fatto a casa, va dritto fra
i monti innalzantisi l'uno dietro l'altro». Non vuole misurarsi con la logica,
procede semplicemente sul cammino dei fatti lasciando il resto al proprio
destino. Solo quando la logica, disconoscendo la propria funzione, cerca di por
piede nella via dello Zen, esso proclama i suoi principi e mette rudemente
fuori l'intrusa. In sé lo Zen non è però nemico di nulla. Non vi è ragione a
che esso si faccia l'antagonista dell'intelletto, questo potendo essere
talvolta utilizzato per la causa stessa dello Zen. Volendo dare qualche esempio
del modo con cui lo Zen si rifà direttamente ai fatti fondamentali
dell'esistenza, riferirò il seguente episodio:
Una volta Lin-chi [2] (Rinzai) [3] tenne un discorso, dicendo:
«Su di una massa di carne rossastra sta seduto un uomo vero senza titoli; di
continuo esso entra nei vostri organi dei sensi e ne esce. Se ancora non vi
siete resi conto di questo fatto, guardate! guardate!». Un monaco si fece
avanti e domandò: «Chi è questo uomo vero senza titoli?». Lin-chi scese d'un
balzo dal suo seggio e afferrando il monaco esclamò: «Parla! Parla!». Il monaco
restò perplesso, senza saper che dire. Allora il maestro lo lasciò esclamando:
«Ma di che roba senza valore è fatto questo uomo vero senza titoli!» e
senz'altro si ritirò nella sua stanza.
Lin-chi era noto per il suo modo rude e diretto di trattare
i discepoli. Disprezzava le maniere approssimative che generalmente
caratterizzano i metodi di maestri privi di fuoco. Un tale stile inattenuato
egli deve averlo ereditato dal suo maestro Huang-nieh (Obaku), da cui fu
bastonato tre volte perché gli aveva chiesto quale è il principio fondamentale
del buddhismo. Non occorre dire che lo Zen non consiste nel battere o scuotere
brutalmente chi fa delle domande. Chi vedesse in ciò un elemento essenziale
dello Zen, commetterebbe lo stesso errore grossolano di colui che scambia il
dito per la luna. Più che in qualsiasi altra dottrina, nello Zen tutte le
manifestazioni o dimostrazioni esteriori non vanno considerate in se stesse.
Esse indicano solo la direzione lungo la quale si debbono cercare certi fatti.
Come indicazioni, sono importanti, ed è difficile farne a meno. Ma se ci si
lascia prendere nelle loro maglie si è perduti, perché non si comprenderà più
lo Zen. Alcuni pensano che lo Zen cerchi di prendervi nella rete della logica o
al laccio delle denominazioni. Se fate un falso passo, vi attende l'eterna
dannazione, mai raggiungerete quella libertà che il vostro cuore così
ardentemente desidera. Per questo Lin-chi afferra a mani nude ciò che si
presenta direttamente a ciascuno di noi. Se il nostro terzo occhio si apre
storbidato, riconosceremo subito, senza errore possibile, dove Lin-chi vuole
condurci. Per prima cosa, dobbiamo penetrare nello spirito stesso del maestro e
parlare all'uomo interiore che vi risiede. Non vi è spiegazione a parole che
possa farci mai penetrare la natura, del nostro Io. Sarebbe come cercare di
afferrare la propria ombra. Correndo dietro ad essa, l'ombra si allontanerà
alla stessa velocità. Nel punto in cui vi renderete conto di ciò, leggerete
profondamente nello spirito di un Lin-chi o di un Huang-nieh e comincerete a
scoprire quale è effettivamente il loro animo.
Yu-men (Ummon) [4] fu un altro grande maestro dello Zen,
vissuto verso la fine della dinastia T'ang. Egli pagò con una gamba la visione
del principio di vita dal quale scaturisce l'intero universo, inclusavi la sua
stessa umile esistenza. Tre volte egli dovette recarsi dal suo maestro, Mu-chou
(Bokuju), che era stato un discepolo anziano di Lin-chi sotto Huang-nieh, prima
che gli fosse concesso di vederlo. Il maestro gli chiese: «Chi sei?». «Sono
Bun-yen», rispose il monaco. (Bun-yen era il suo nome, mentre Yu-men era quello
del monastero ove in seguito si stabilì). Il monaco in cerca della verità fu
autorizzato a varcare la soglia dell'abitazione del maestro: ma questi lo
afferrò nello stesso istante per il petto chiedendogli: «Parla! Su, parla!».
Yu-men esitò allora il maestro lo scaraventò daccapo fuori gridando: «Oh, che
essere buono a nulla!» [5]. La pesante porta fu chiusa così bruscamente, che
una gamba di Yu-men restò presa fra i battenti e si ruppe. Si vuole che proprio
l'acuto dolore sentito aprisse l'occhio di quel monaco al più grande fatto della
vita. L'essere ansioso implorante pietà sparì, la realizzazione conseguita in
quell'istante ebbe molto più valore della gamba perduta. Questo, del resto, non
è un caso isolato; nella storia dello Zen s'incontrano molti esempi di uomini
pronti a sacrificare membra del loro corpo per raggiungere a la verità.
Confucio dice: «Se un uomo intende il Tao la mattina, ciò è bene per lui, ne
dovesse anche morire la sera». Alcuni sentono realmente che la verità ha
maggior valore del mero vivere, di una esistenza semplicemente vegetativa o
animale. Purtroppo nel mondo sono numerosi i cadaveri viventi che si rotolano
nella melma dell'ignoranza e della sensualità.
È in ciò che lo Zen è più difficile da capire. Perché
quell'ingiuria sarcastica? Perché quell'apparente crudeltà? Che colpa aveva
commesso Yu-men per meritare di perdere la gamba? Egli era un povero monaco in
cerca della verità, animato da un vivo, serio desiderio di essere illuminato
dal maestro. Era davvero necessario che questi, per il suo modo di intendere lo
Zen, per tre volte non lo ricevesse e poi, avendo socchiusa la porta, gliela
sbattesse di nuovo in faccia in modo così inumano? Era questa la verità del
buddhismo che Yu-men tanto desiderava raggiungere? Ma, cosa singolare, il
risultato di tutto ciò fu proprio quel che entrambi desideravano. Quanto al
maestro, egli fu lieto di vedere che il discepolo aveva conseguita la visione
dei segreti del suo essere; quanto al discepolo, egli fu grato per quanto gli
era stato fatto. Evidentemente, è quel che può esservi al mondo di più
irrazionale e di più inconcepibile. Ecco perché poco fa ho detto che dello Zen
non sì può fare l'oggetto di una analisi logica o di una esposizione
intellettualistica. Esso deve essere sperimentato da ciascuno direttamente e
personalmente nel più profondo dello spirito. Come due specchi senza macchia si
riflettono a vicenda, del pari il fatto e il nostro spirito debbono stare l'uno
di fronte all'altro senza nulla che s'intrometta. È allora che si sarà capaci
di cogliere il fatto nella sua realtà viva e vibrante.
Prima di tale momento, la libertà è una vuota parola. Il
nostro primo scopo è sottrarci ai vincoli che gravano su tutti gli esseri
finiti; ma se non spezziamo la catena stessa dell'ignoranza con cui siamo
legati mani e piedi, dove potremo cercare la liberazione? E questa catena
dell'ignoranza l'ha creata unicamente l'intelletto insieme alla febbre dei
sensi che si attacca ad ogni nostro pensiero, ad ogni nostra sensazione.
Sbarazzarsene è difficile: sono come vesti bagnate - dicono giustamente i
maestri Zen. «Siamo nati liberi ed uguali». Quale pur sia il significato che
tale formula ha sul piano sociale o politico, lo Zen afferma che nel dominio
spirituale essa è vera e che tutte le catene e le manette che a noi sembra di
portare sono sorte in un secondo tempo, causa la nostra ignoranza della vera
condizione dell'esistenza. Tutto ciò che, ora sul piano intellettuale ed ora
sul piano fisico, i maestri fanno liberalmente e con animo aperto per coloro
che ad essi si rivolgono, è inteso a ripristinare lo stato dell'originaria
libertà. E un tale stato mai lo si realizzerà per davvero prima che lo si
esperimenti personalmente coi propri sforzi, fuor da ogni rappresentazione
ideologica. La verità ultima dello Zen è che a causa dell'ignoranza si è
prodotta una frattura nel nostro essere; è che fin dagli inizi non è mai
esistita una lotta fra il finito e l'infinito; è che proprio la pace che ora
stiamo cercando con tanto ardore è già esistita in ogni tempo. Su Tun-p'o
(Sotoba), noto poeta e uomo di Stato cinese, esprime tale idea nei seguenti
versi:
Pioggia e nebbia sul monte Lu,
Ed onde che si gonfiano nel Che-chiang;
Se non vi sei ancora stato,
È certo che assai lo rimpiangerai;
Ma dopo essere stato là, tornato a casa
Come ogni cosa ti sembrerà naturale!
Pioggia e nebbia sul monte Lu
Ed onde che si gonfiano nel Che-chiang.
È ciò che anche afferma Ch'ing-yuan Wei-hsin (Seigen I
shin) dicendo: «Prima che una persona studi lo Zen, per essa i monti sono monti
e le acque sono acque; dopo che, grazie all'insegnamento di un buon maestro,
essa ha penetrato la verità dello Zen, per essa i monti non sono monti e le
acque non sono acque; ma quando alla fine essa davvero raggiunge la sede della
pace, per essa i monti sono di nuovo monti e, le acque, acque».
A Mu-chou (Bokuju), che visse verso la metà del IX secolo,
una volta fu domandato: «Ogni giorno dobbiamo vestirci e mangiare - come
liberarci da tutto ciò?». Il maestro rispose: «Noi ci vestiamo, noi mangiamo».
«Non capisco» - fece l'altro. «Se non capisci, mettiti il vestito e mangia il
tuo cibo», fu la risposta.
Lo Zen tratta sempre dei fatti concreti, non si abbandona a
considerazioni generiche. Non vorrei «aggiungere gambe superflue alla serpe
dipinta», ma come commento filosofico alle parole di Mu-chou potrei dire
questo: noi tutti siamo degli esseri finiti e non possiamo vivere fuori dello
spazio e del tempo; nella misura in cui siamo creature della terra, per noi non
vi è modo di cogliere l'infinito. Come possiamo liberarci dalle limitazioni di
questa esistenza? Forse era questo il senso della prima domanda del monaco,
alla quale il maestro risponde: La salvazione va cercata nello stesso finito
non essendovi un infinito separato dalle cose finite; se cercate qualcosa di
trascendente, vi taglierete fuori da questo mondo di relatività il che equivale
a distruggervi. Voi non desiderate una salvazione che vi costi l'esistenza. Per
cui, mangiate e bevete, e trovate la vostra via verso la liberazione proprio in
questo mangiare e bere. Ma ciò andava troppo oltre le capacità di comprensione
di chi aveva posta la domanda, per cui il monaco confessò di non intendere che
cosa il maestro avesse voluto dire. Il maestro allora soggiunse: Che tu capisca
o non capisca, continua a vivere nel finito e col finito - perché morirai se
non mangerai e se non ti difenderai dal freddo a causa del tuo desiderio
dell'infinito. Quale pur sia il tuo sforzo, il nirvana va cercato in mezzo al samsara (al mondo diveniente). Si tratti
di un maestro giunto all'illuminazione oppure dell'ultimo ignorante, né l'uno
né l'altro può sottrarsi alle cosidette leggi di natura. Quando lo stomaco è
vuoto, entrambi hanno fame; quando nevica, entrambi debbono indossare abiti
pesanti. Non voglio dire che v'è solo l'esistenza materiale, ma quegli uomini,
a parte il loro, grado di spiritualità sono quello che sono. Come è detto nei
testi buddhisti, l'oscurità stessa della caverna si trasforma in luce quando
arde la torcia della visione interiore. Non è che in un primo tempo si tolga
una cosa chiamata oscurità e poi si porti un'altra cosa chiamata illuminazione:
in sostanza, oscurità e illuminazione sono, sin dal principio, una sola e
medesima cosa; il passaggio dall'uno stato all'altro avviene solo all'interno,
soggettivamente. Così il finito è l'infinito, è viceversa. Non si tratta di due
realtà separate anche se intellettualmente non possiamo concepirli altrimenti.
Tradotta in termini di logica, questa è forse l'idea contenuta nella risposta
data da Mu-chou al monaco. L'errore consiste nel nostro spezzare in due cose
distinte ciò che, in realtà è assolutamente uno. La vita quale la viviamo è
una, anche se la facciamo a pezzi applicandovi senza, scrupoli il bisturi
dell'intelletto.
Pregato dai monaci di tener loro un discorso, Hyakujo Nehan
(Pai-chang Nieh-p'an) disse loro di andare a lavorare alla fattoria, dopo di
che egli avrebbe parlato sul grande argomento del buddhismo. Così essi fecero,
poi si recarono dal maestro per il discorso: questi non disse una parola ma
stese semplicemente le braccia verso i monaci. Forse, dopo tutto, non vi è
nulla di misterioso nello Zen. Ogni cosa vi viene presentata nuda sotto gli
occhi. Se mangiate il vostro cibo, se vi tenete vestiti puliti o se andate a
lavorare in una fattoria a coltivare riso o ortaggi, fate tutto ciò che vi si
chiede di fare su questa terra, e l'infinito si realizza in voi. Come si
realizza? Quando a Mu-chou fu chiesto che cosa sia lo Zen, egli pronunciò la
frase di un testo sanscrito: «Mahapraiñaparamita!»
(= la grande sapienza dell'altra sponda). Chi aveva domandato, confessò di non
capire il senso di una tale strana frase; il maestro allora la commentò
dicendo:
«Dopo anni che l'ho usata, la mia veste è consunta.
Parti di essa, appese a brandelli e svolazzanti,
sono state portate via dal vento fra le nubi».
L'infinito, dopo tutto, non è come un nudo mendicante?
Comunque, a tale riguardo vi è una cosa che non si deve mai
perdere di vista, e cioè che la pace della povertà - e la pace è possibile solo
nella povertà - la si consegue dopo una dura battaglia affrontata con tutte le
forze del proprio essere. Il soddisfacimento dato da una attitudine oziosa o di
«lasciar fare» è ciò che si deve più aborrire. In esso non vi è nulla dello
Zen, esso è solo pigrizia e vita vegetativa. Una battaglia in cui si abbia
impegnata tutta la propria forza, tutta la propria qualità virile, deve prima
infuriare. Senza di ciò ogni pace non è che una parvenza, è priva di basi
profonde la prima tempesta la distruggerà. Lo Zen sottolinea particolarmente
questo punto. È cosa certa che l'interna virilità che, a parte i voli mistici,
si ritrova nello Zen, deriva dall'aver combattuto intrepidamente e strenuamente
la battaglia della vita.
Così dal punto di vista etico lo Zen lo si può considerare
come una disciplina che mira alla costruzione del carattere. La nostra vita
ordinaria si svolge solo ai margini della personalità essa non muove gli strati
più profondi dell'anima. Perfino quando si desta la coscienza religiosa, essa
per la gran parte di noi è una esperienza che passa senza lasciare i segni di
una dura battaglia. Siamo portati a vivere ogni cosa solo in superficie.
Possiamo anche essere intelligenti, svegli, brillanti e cosi via, ma tutto ciò
che produciamo manca di profondità e di sincerità, non impegna l'essere più profondo.
Molte persone sono assolutamente incapaci di creare qualcosa che non abbia il
carattere di un surrogato o di una imitazione di cui è ben visibile la vuotezza
e la nessuna relazione con una esperienza spirituale. Pur essendo in prima
linea religioso, lo Zen forma anche il carattere. 0, ancor meglio: è una
esperienza spirituale profonda tenuta ad effettuare una trasformazione della
struttura morale della personalità.
In che modo?
La verità dello Zen è tale, che se vogliamo comprenderla
appieno dobbiamo impegnarci in una lotta aspra, in una lotta spesso lunghissima
che richiede una continua, spossante vigilanza. La disciplina nel senso dello
Zen non è facile. Un maestro Zen disse una volta che la vita monacale può
essere seguita soltanto da una persona dotata di grande forza interna e che
perfino un ministro non deve immaginarsi di poter divenire senz'altro un buon
monaco. (Va notato che in Cina essere ministro rappresentava il massimo che un
uomo può sperare in questo mondo). Non che la vita monastica dello Zen richieda
la pratica di una eccezionale ascesi - si tratta piuttosto dell'elevazione al
massimo grado delle proprie forze spirituali. Ogni sentenza, ogni atto dei
grandi maestri Zen sono proceduti da questa altezza interna. Sono sentenze ed
atti che non vogliono essere enigmatici e che non intendono confonderci. Ma
finché non ci innalziamo alla stessa altezza di quei maestri non possiamo
ottenere la stessa sovrana visione della vita. Ruskin dice: «Siatene ben certi:
se l'autore vale qualcosa, non coglierete subito quel che vuole dire - anzi,
passerà un lungo tempo prima che giungiate a capirne tutto il significato. Non
che egli non lo abbia espresso, anzi lo ha espresso con vigore; ma egli non può
dire tutto e, cosa più strana, nemmeno lo vuole. L'essenziale lo esprimerà in
modo nascosto e in parabole, per mettervi alla prova. Non capisco completamente
la ragione di ciò, né voglio analizzare la crudele reticenza dell'animo del
saggio che gli fa sempre nascondere il suo pensiero più profondo. Egli ve lo offre
non per aiutarvi ma per ricompensarvi, e prima di permettervi di coglierlo vuol
essere sicuro che ve lo meritiate». Questa chiave del tesoro regale della
sapienza non la otteniamo che dopo una lotta interna tenace e dolorosa.
La mente umana ordinariamente è piena di sciocchezze
intellettuali e di detriti sentimentali di ogni specie. Certo, essi a loro modo
possono essere utili nella vita d'ogni giorno. Tuttavia è essenzialmente a
causa di questi aggregati che la nostra vita è miserabile e che noi soffriamo
sentendoci schiavi. Ogni volta che vogliamo fare un movimento essi ci
vincolano, ci soffocano, oscurano il nostro orizzonte spirituale. È come se
vivessimo di continuo sotto una costrizione. Desideriamo profondamente la
naturalezza e la libertà, ma sembra come se non ci fosse dato di raggiungerle.
I maestri dello Zen conoscono tutto ciò essendo passati attraverso queste
esperienze. Essi vogliono che ci sbarazziamo di tutti questi gravami, gravami
che non siamo davvero tenuti a portarci appresso se vogliamo vivere una vita di
verità e di illuminazione. Così essi pronunciano poche parole e dimostrano,
attivamente, che, a comprenderle nel modo giusto, esse ci libereranno
dall'oppressione e dalla tirannia di queste concrezioni intellettuali. Ma la
comprensione non è cosa facile. Essendoci abituati da tanto tempo alla
costrizione, ci è difficile rimuovere l'inerzia mentale. Essa ha messo radici
profonde nel nostro essere, tanto che ci è necessario sovvertire tutta la
struttura della nostra personalità. La via della reintegrazione è sparsa di
lacrime e di sangue. Ma non vi è altro modo di raggiungere le altezze
conquistate dai grandi maestri; non si perviene alla verità dello Zen che
impegnando tutte le energie della personalità. Il passaggio è pieno di cardi e
di rovi e la parete da scalare è quanto mai infida. Non è un gioco ma la cosa
più seria di tutta una vita, un compito che uno spirito vano non deve mai osare
di affrontare. Bisogna disporre di una incudine interna sulla quale il proprio
carattere andrà sempre di nuovo martellato. Alla domanda: «Che cosa è lo Zen?»
un maestro dette questa risposta: «Far bollire olio sulle fiamme». Dobbiamo
passare attraverso questa esperienza del fuoco prima che lo Zen ci sorrida e ci
dica: «Ecco la vostra casa».
Una delle risposte dei maestri dello Zen atte a sconcertare
il senso comune è questa: P'ang-yun (Hokoji), già seguace di Confucio, chiese a
Ma-tsu (Baso , 788): «Di che specie è l'uomo che non si attacca a cosa
alcuna?». Il maestro disse: «Te lo dirò quando avrai bevuto d'un fiato tutta
l'acqua del fiume d'occidente». Che risposta assurda alla più seria delle
domande che possa incontrarsi nella storia del pensiero! Sembra quasi
sacrilega. Eppure, come lo sa chiunque abbia studiato lo Zen, della serietà di
Ma-tsu non si può dubitare. In effetti, l'ascesa dello Zen dopo il sesto
patriarca, Hui-neng, la si deve alla meravigliosa attività di Ma-tsu; sotto la
sua guida si formarono più di ottanta maestri perfettamente qualificati, e
Hokojì che fu uno di primissimi seguaci laici dello Zen, si guadagnò la ben
meritata fama di essere il Vimalakirti del buddhismo cinese. Un colloquio fra
due maestri dello Zen di tale statura non poteva essere un vano gioco.
Malgrado l'apparenza di banalità e perfino di frivolezza, quelle parole nascondono
una delle gemme più preziose della letteratura dello Zen. Non si può dire
quanti seguaci dello Zen abbiano sudato e si siano disperati di fronte
all'impenetrabilità di quella risposta di Ma-tsu.
Ancora un esempio: un monaco chiese al maestro Shin di
Chosa (Chang-sha Ching-ch'en): «Dove è andato Nansen dopo morto?». Rispose il
maestro: «Quando Shih-tou (Sekito) era ancora nell'ordine dei giovani novizi,
vide il sesto patriarca». «Ma io non sto domandandovi circa i giovani novizi!
Voglio sapere dove è andato Nansen dopo morto». «Quanto a questo» disse il
maestro, «la cosa dà da pensare» .
L'immortalità dell'anima è un altro grande problema: si può
quasi dire che su di esso si basa tutta la storia della religione. Tutti
vogliono sapere circa il post-mortem. Dove andiamo quando lasciamo
questa terra? Vi è davvero una vita futura? Ovvero la fine di questa vita è la
fine di tutto? Mentre sono molti coloro che non si preoccupano troppo circa il
significato ultimo dell'Uno solitario e «senza un compagno», forse non vi è
nessuno che almeno una volta nella sua vita non si sia chiesto quale sia il suo
destino dopo la morte. Il fatto che Shih-tou da giovane avesse visto o no il
sesto patriarca, sembra non avere la menoma attinenza con ciò che Nansen era
divenuto dopo morto. Questi essendo stato il maestro Shin di Chosa, era
naturale che il monaco domandasse proprio a Chosa circa il luogo in cui Nansen
era passato. Secondo la logica originaria, la risposta di Chosa non era una
risposta. Donde la nuova domanda, a cui, di nuovo, il maestro doveva rispondere
con parole equivoche - perché che cosa voleva dire quel «la cosa dà da
pensare». Da ciò appare chiaro che lo Zen è una cosa e la logica un'altra. Se,
non rendendoci conto di ciò, ci aspettiamo dallo Zen alcunché di razionalmente
coerente e di intellettualmente illuminativo, disconosciamo completamente il
significato dello Zen. Già all'inizio ho detto che lo Zen si interessa di fatti
e non di idee generiche. E questo è proprio il punto in cui lo Zen investe
direttamente le basi della personalità. Generalmente l'intelletto non le
raggiunge, perché noi non viviamo nell'intelletto bensì nella volontà. Brother
Lawrence dice il vero quando - nella sua «Practice
of tbe presence of God» afferma:
«Dovremmo stabilire una grande differenza fra gli atti dell'intelletto e quelli
del volere; i primi hanno relativamente poco valore mentre i secondi hanno un
valore assoluto».
La letteratura dello Zen è piena di affermazioni del
genere, che sembrano essere state fatte casualmente e innocentemente; ma coloro
che davvero sanno che cosa è lo Zen, attesteranno che siffatte espressioni
uscite così naturalmente dalle labbra dei maestri sono come veleni mortali che,
una volta ingeriti, provocano un violento dolore, un dolore che - come i Cinesi
dicono - fa torcere le viscere nove volte e anche più. Ma solo con questo
dolore e con questo sconvolgimento le scorie interne si staccano e si rinasce
con una visione completamente nuova della vita. Il carattere precipuo dello Zen
è che esso diviene intelligibile solo dopo che si è passati attraverso queste
lotte interne. Si è che lo Zen è una esperienza diretta e personale, non un
sapere raggiunto mediante analisi o confronti. «Non parlate di poesia che ad un
poeta; solo il malato sa simpatizzare col malato». In questo senso bisogna
orientarsi. Occorre raggiungere una maturità spirituale atta a sintonizzarsi
con lo spirito dei maestri. Giunti a tanto, toocata l'una corda l'altra non
mancherà di rispondere. Gli accordi armoniosi derivano sempre dal risuonare in
simpatia di due o più corde. E ciò che lo Zen fa, è preparare la nostra mente
affinché sappia riconoscere gli antichi maestri ed essere ricettiva di fronte
ad essi. Sul piano psicologico si può anche dire che Io Zen libera energie in
noi accumulate, di cui nelle circostanze normali non siamo consci.
Alcuni vogliono che lo Zen si riduca a una autosuggestione.
Ma ciò non spiega nulla. A pronunciare le parole Yamatodamashi si desta, nella maggioranza dei
Giapponesi, un fervore patriottico. Si insegna ai bambini di riverire la
bandiera del Sole Levante, e quando i soldati passano dinanzi alle insegne del
reggimento involontariamente salutano. Quando si rimprovera ad un giovinetto di
non agire come un piccolo Samurai e di disonorare il nome degli antenati, egli
non esita a dar prova di coraggio e resiste ad ogni tentazione. Per un
Giapponese, tutte queste cose sono suscitatrici di forza e, secondo alcuni
psicologi, tale risveglio è autosuggestione. Anche le convenzioni sociali e gli
istinti di imitazione possono essere considerati come autosuggestioni, lo
stesso valendo per la stessa disciplina morale. Agli studenti si dà un esempio
a che lo seguano o lo imitino. L'idea mette a poco a poco radice in loro
attraverso la forza della suggestione finché noi li vediamo agire come se fosse
una loro idea. Quella dell'autosuggestione, è una teoria sterile che nulla
spiega. Dicendo che lo Zen è autosuggestione, abbiamo forse una idea più chiara
dello Zen? Si è che alcuni credono di essere scientifici quando designano certi
fenomeni con qualche nuovo termine venuto alla moda; si tengono allora per
soddisfatti, quasi che così su quei fenomeni fosse venuta una nuova luce.
Invero. l'esame dello Zen deve essere intrapreso da psicologi più profondi.
Ormai si ammette che nella nostra coscienza vi è una
regione sconosciuta, una regione che non è stata ancora esplorata
sistematicamente. Essa viene talvolta chiamata l'inconscio o il subconscio. È
un regno popolato di figure oscure e, naturalmente, la maggior parte dei
ricercatori teme di inoltrarvisi. Ma non per questo essa è meno reale. Proprio
come il campo della nostra coscienza normale è pieno di ogni specie di immagini
- immagini benefiche o dannose, ordinate o confuse, chiare o oscure, piene di
forza o evanescenti - del pari il subconscio è il reservoir che alimenta ogni forma di
occultismo o di misticismo, se così vogliamo designare tutto ciò che ha
carattere latente, anormale, psichico o sovrannaturale. Anche il potere di
vedere la natura del proprio essere può nascondersi in quella zona, e lo Zen
può consistere nel destarlo alla nostra coscienza. In ogni modo, i maestri
parlano, figurativamente dell'aprirsi di un terzo occhio. Il termine corrente
dato in Giappone a questa dischiusura e a questo risveglio è satori.
Come lo si raggiunge?
Meditando su voci o su azioni che, scaturite direttamente
dalla ragione interiore non offuscata dall'intelletto o dall'immaginazione, sono
state studiate in modo da avere un potere distruttivo sui vortici generati
dall'ignoranza e dalla confusione [6]. E lo Zen ha metodi propri per la pratica
della cosiddetta meditazione, distinta da ciò che popolarmente o nell'Hinayana
viene inteso con tale termine.
Può essere interessante indicare fin d'ora qualcuno dei
mezzi usati dai maestri per aprire l'occhio spirituale del discepolo. È
naturale che essi spesso usino le varie insegne sacre che portano quando si
recano nella Sala del Dharma. In genere, si tratta dell'hossu (specie di frusta che in origine
in India era uno scacciamosche), il shippe (canna di bambù lunga qualche
piede), il nyol(bastone di
forma varia e di vario materiale - letteralmente la parola vuol dire «come lo
si desidera o pensa», cinta in sanscrito) o loshujvo. (una specie di scettro). L'ultimo
sembra essere stato lo strumento preferito per la illustrazione delle verità
dello Zen. Citerò qualche esempio del suo uso.
Secondo Hui-leng (Ye-ryo), di Chokei, «quando si conosce
che cosa sia questa verga, tutto lo studio dello Zen è al termine» - il che
ricorda il fiore nella screpolatura del muro di Tennyson. Giacché - vien detto
- se noi intendiamo il senso della verga, sapremo «ciò che sono Dio e l'uomo»,
vale a dire avremo la visione della natura del nostro essere e una tale visione
porrà finalmente termine a tutti i dubbi e a tutte le brame che turbano il
nostro animo. Così si può facilmente comprendere l'importanza che il bastone ha
nello Zen.
Hui-ch'ing (Ye-sei), di Basho, che probabilmente visse nel
X secolo, fece una volta la seguente dichiarazione: «Se avete un bastone, ve ne
darò uno; se non ne avete, ve lo prenderò». Questo è uno dei detti più
caratteristici dello Zen; ma più tardi Mu-chi (Bokitsu), di Daiyi, osò opporre
un altro detto che del primo è l'aperta contraddizione: «lo la penso altrimenti.
Se avete un bastone ve lo prenderò e se non ne avete nessuno ve ne darò uno.
Questa è la mia opinione. Potete servirvi del bastone? 0 non potete servirvene?
Se lo potete, Te-shan (Tokusan) sarà la vostra avanguardia e Lin-chi (Rinzai)
la vostra retroguardia. Ma se non lo potete, che esso venga restituito al
maestro che lo ebbe per primo».
Un monaco si avvicinò a Bokuju e disse: «Quale è la formula
che supera [la sapienza di] tutti i Buddha e [di] tutti i patriarchi?» Il
maestro brandì immediatamente il suo bastone dinanzi alla congregazione dicendo:
«Questo, io lo chiamo un bastone, e tu, come lo chiami?». Il monaco che aveva
fatto la domanda non seppe che dire. Allora il maestro alzò di nuovo il bastone
e disse: «0 monaco, non avevi domandato quale è la formula che supera [la
sapienza di] tutti i Buddha e [di] tutti i patriarchi?».
Detti, come quelli di Bokuju, possono essere ritenuti
affatto privi di senso e non degni di attenzione. Quale nome pur si dia al
bastone, ciò sembra non importare molto, quanto alla sapienza sacra che
trascende i limiti della nostra conoscenza. Il detto di un altro grande maestro
dello Zen, Ummon, sarà forse più accessibile. Una volta egli alzò il suo
bastone dinanzi ai monaci riuniti e osservò «Si legge nelle scritture che gli
ignoranti prendono questo bastone per una cosa reale, i seguaci dell'Hinayana
ne fanno una non-entità, i Pratyekabuddha lo considerano una allucinazione
mentre i Bodbisattva ammettono la sua apparente realtà che tuttavia è fatta di
vuoto. Ma, voi monaci» continuò il maestro - «vedendo un bastone, chiamatelo
semplicemente un bastone. Camminate o restate seduti a piacere, ma non siate
indecisi».
Ecco un altro episodio ove figura lo stesso vecchio e
insignificante bastone e un detto ancor più mistico di Ummon. Un giorno questi
annunciò: «Il mio bastone si è trasformato in un drago ed ha inghiottito tutto
l'universo; dove sarà ormai la vasta terra coi suoi monti e i suoi fiumi?». In
un'altra occasione Ummon, citando un antico filosofo buddhista che disse:
«Colpite il vuoto dello spazio e udrete una voce; battete un pezzo di legno e
non udrete alcun suono», prese il suo bastone, colpì nel vuoto ed esclamò «Oh,
come fa male!». Poi batté la tavola e chiese: «Udite forse qualche rumore?».
Un monaco rispose: «Sì, vi è un tumore». Allora il maestro
esclamò «Ignorante che sei!» [7].
A continuare con analoghi esempi, non si finirebbe più
Dunque non andrò oltre, aspettandomi che qualcuno mi chieda: «Simili detti
hanno qualcosa a che fare con la visione della natura del proprio essere? Vi è
una qualche relazione fra questi discorsi apparentemente assurdi sul bastone e
il problema più importante nella realtà della vita?».
Come risposta riferirò due passi, tratti l'uno da Tz'u-ming
(Jimyo) e l'altro da Yuan-wu (Yengo). In un discorso Tz'u-ming disse: «Prendete
un granello di polvere e in esso vi si manifesterà tutta la vasta terra. In un
unico leone si rivelano milioni di leoni. In verità vi sono migliaia e migliaia
di leoni, ma voi conoscetene uno, solo uno». Ciò dicendo, egli alzò il bastone e
soggiunse: «Ecco il mio bastone - e quell'unico leone, dove è?». Aspettò poi
dette in una esclamazione, depose il bastone e lasciò il pulpito.
Nell'Hekigan [8]
Yuan-wu nell'introduzione allo «Zen
dell'un dito» di Gutei [9]
esprime la stessa idea: «Si prenda un granello di polvere e in essa si troverà
la vasta terra; un bocciolo fiorisce, e l'universo si dischiude con esso. Ma
dove dovrebbe fissarsi l'occhio se la polvere ancora non si alza e se il fiore
non si è ancora dischiuso? Così è detto che tagliando un groviglio di fili essi
tutti restano tagliati e che immergendolo in una tintura essi tutti prendono lo
stesso colore. Ebbene, uscite dal groviglio di tutte le relazioni vincolanti e
fatelo a pezzi, senza però perdere la traccia del vostro tesoro interiore,
perché è per mezzo di esso che l'alto e il basso stando dovunque in
corrispondenza e ciò che ha proceduto non distinguendosi da ciò che è rimasto
indietro, ogni cosa si manifesterà secondo una perfezione assoluta».
Spero che con ciò il lettore avrà già una idea, sia pure
necessariamente vaga e generale, dello Zen quale viene insegnato in Estremo
Oriente da più di mille anni. In quanto seguirà cercherò anzitutto di
ricondurre l'origine dello Zen alla stessa illuminazione spirituale del Buddha,
dato che lo Zen è stato spesso accusato di essersi troppo allontanato da quel
che si considera generalmente essere l'insegnamento del Buddha, specie da
quello esposto negli Agama e nei Nikaya. Benché lo Zen, così come è,
rappresenti indubbiamente una creazione dello spirito cinese, risalendo la
linea del suo sviluppo si trova l'esperienza personale dello stesso fondatore
indù della dottrina. Se non s'intende questo tenendo in pari tempo presenti le
caratteristiche psicologiche del popolo cinese, la diffusione dello Zen fra i
buddhisti dell'Estremo Oriente risulterà inintelligibile. In ultima analisi, lo
Zen è una delle scuole mahayaniche del buddhismo, spogliata della sua veste
indù.
Note
[1] Si tratta di una delle lezioni
divulgative preparate dall'autore per gli studenti di Buddhismo nel 1911. Venne
pubblicata per la prima volta in The
Eastern Buddbist, con il
titolo «The Buddhism as Purifier and Liberator of Life». Poiché tratta dello
Zen nei suoi aspetti generali, ho ritenuto opportuno adottarla come Introduzione
alla presente opera.
[2] L'Autore dà in vari casi, i nomi di
persone e di luoghi sia in cinese che in giapponese. I nomi giapponesi sono
quelli tra parentesi. (N.d.T.).
[3] Fondatore della scuola Rinzai del
Buddhismo Zen, morto nell'867.
[4] Fondatore della scuola Ummon del
Buddhismo Zen, morto nel 996.
[5] Letteralmente: rozzo succhiello, del
tempo della dinastia Ch'in.
[6] Lo Zen ha un metodo proprio per
praticare le meditazioni, così chiamato, perché si devono distinguere i metodi
Zen da cì ò che si intende comunemente nel senso binayanistico del termine. Lo
Zen non ha nulla a che fare con il quietismo o con l'abbandono alla trance Avrò
altre occasioni di ritornare sull'argomento.
[7] Ciò ricorda le parole del maestro Chan
di Pao-fu che, vedendo avvicinarsi un monaco, prese il suo bastone e con esso
batté prima un pilastro e poi il monaco. Avendo il monaco gridato per il
dolore, il maestro gli disse:, «Come mai al pì astro non ho fatto male?»
[8] L'Hekisanshu è una collezione di cento «casi»
con commenti poetici di Hsueh-tou (Seccho) e con annotazioni, in parte critiche
e in parte esplicative, di Yengo. Il libro fu introdotto in Giappone durante
l'epoca Kamakura e da allora è stato considerato uno dei testi più importanti
dello Zen, specie dalla scuola di Rinzai.
[9] Gutei era un discepolo di T'ien-lung
(Tenryu), probabilmente vissuto verso la fine della dinastia T'ang. Abitava in
un piccolo tempio, ove ricevette una volta la visita di una monaca errante, che
entrò direttamente nel tempio senza togliersi il panno che portava avvolto
attorno alla testa. Stringendo il bastone, la donna girò tre volte attorno alla
sedia di meditazione su cui stava Gutei. Poi gli disse: «Dimmi una parola dello
Zen e io mi leverò il panno dalla testa». Ripeté l'invito tre volte, ma Gutei
non seppe che dire. La monaca, allora, fece per andarsene, e Gutei le disse:
«Si sta facendo tardi, non vuoi passare qui la notte?». Shih-chi (jissai) -
così si chiamava la monaca - rispose: «Se mi dici una parola dello Zen,
resterò». Anche questa volta, egli non seppe che dire, e la monaca se ne andò.
Fu un colpo terribile per il povero Gutei,
il quale si disse: «Pur avendo aspetto di uomo, sembra che io non possegga
alcuna forza virile!» Si dette allora allo studio dello Zen, deciso ad
acquisirne una perfetta padronanza. Mentre stava per ì iziare le
«peregrinazioni» dello Zen, ebbe la visione del dio delle montagne che gli
disse di non lasciare il tempio, perché un Bodhisattva incarnato vi sarebbe giunto
e lo avrebbe illuminato sulla verità dello Zen. Effettivamente, la mattina dopo
si presentò al tempio un maestro dello Zen, chiamato T'ien-lung (Tenryu). Gutei
gli raccontò l'episodio umiliante del giorno precedente e gli esternò la sua
ferma decisione di penetrare i misteri della Zen. T'ien-lung si limitò ad
alzare un dito, senza pronunciare parola. Ciò fu sufficiente per aprire la
mente di Gutei al significato supremo dello Zen, e si vuole che da quel giorno
Gutei, quando ponevano problemi relativi allo Zen, non dicesse né facesse altro
che alzare un dito.
Nel tempio vi era un ragazzo il quale,
vedendo il maestro compiere quel gesto, prese a imitarlo ogni volta che gli
veniva domandato che genere di discorsi teneva il maestro. Ma quando riferì al
maestro quella sua abitudine, Gutei gli recise il dito con un coltello. Il
ragazzo fuggì urlando per il dolore, ma Gutei lo richiamò. Il ragazzo tornò
indietro, il maestro alzò a sua volta il dito e in quell'istante il giovanotto
realizzò il significato dello «Zen di un dito» sia di Tenryu che di Gutei.
Da: Saggi sul buddhismo zen Mediterranee,
Roma 1984 vol. I, 21-45 trad. Julius Evola
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