Titus
Burckhardt
Introduzione
alle dottrine esoteriche dell’Islam
I - La
Realizzazione Spirituale
La Contemplazione
Secondo Muhyi-d-dîn ibn 'Arabî
lo «stato spirituale» (al-hâl), cioè
l'illuminazione improvvisa del cuore, è causata dall'azione reciproca dell'«irraggiamento»
(at-tajallî)[1] divino
e dalla «predisposizione» (al-isti'dâd)
del cuore, due poli, ognuno dei quali sembrerà determinante o determinato,
secondo la prospettiva dalla quale ci si pone.
Di fronte alla Realtà divina, non-formale ed onnipresente che non può essere definita da alcuna qualità, il carattere particolare di uno stato spirituale può essere attribuito soltanto alla predisposizione del cuore, ossia alla ricettività innata ed intima dell'anima, secondo il famoso detto di al-Junayd: «Il colore dell'acqua è il colore del suo recipiente».
Di fronte alla Realtà divina, non-formale ed onnipresente che non può essere definita da alcuna qualità, il carattere particolare di uno stato spirituale può essere attribuito soltanto alla predisposizione del cuore, ossia alla ricettività innata ed intima dell'anima, secondo il famoso detto di al-Junayd: «Il colore dell'acqua è il colore del suo recipiente».
D'altronde, la predisposizione
del cuore è solo pura potenzialità; essa non può essere conosciuta fuori
dell'irradiazione divina, poiché la potenzialità può essere indagata soltanto
nella misura in cui i suoi contenuti si attuano. È l'irradiazione ad attuare la
predisposizione; è lei a conferire allo stato spirituale la sua qualità intelligibile;
- è «evidente per sé stesso», dice Ibn 'Arabî - poiché vi si afferma
immediatameme e positivamente come un «nome» o un «aspetto» divino, mentre la
predisposizione in quanto tale rimane «la cosa piu nascosta», come scrive il
nostro autore ne La Sagesse des Prophètes
(capitolo su Seth).
Secondo quest'ultimo aspetto
delle cose, non c'è quindi niente nella ricettività del cuore che non sia la
risposta all'irradiazione o rivelazione divina di cui subisce di volta in volta
le folgorazioni; queste variano secondo i diversi «aspetti» o «nomi» di Dio, e questo
processo non si esaurisce mai, né da parte dell'irradiazione divina,
essenzialmente inesauribile, né da parte della plasticità primordiale del
cuore.
Ibn 'Arabi si pone
alternativamente dall'uno e dall'altro di questi due punti di vista: da un
lato, afferma che il «contenuto» divino dell'illuminazione è inafferrabile e
che solo la «forma» ricettiva del cuore - «forma» che sboccia dalla
predisposizione innata dell'essere - conferisce all'irradiazione la sua qualità
o la sua «colorazione»; dall'altro, dice che la «forma» che il cuore assume
durante la contemplazione di Dio aderisce interamente alle modalità
d'irradiazione. Ciò che il recipiente può imporre all'irraggiamento divino è
dunque soltanto un limite, che è nullo· rispetto al suo contenuto qualitativo:
ciò che si manifesta in esso - e, in un certo senso, per mezzo suo - altro non
è che una Qualità (sîfah) o una Realtà (Haqîqah) divina inclusa
nell'Essenza una ed infinita. I due punti di vista in apparenza si
contraddicono, perché uno si riferisce alla manifestazione di Dio nelle Qualità
universali, essendo tale manifestazione in qualche modo «oggettiva», mentre
l'altro si rivolge alla realtà «soggettiva» dell'Essenza. Ibn 'Arabî scrive a
questo proposito (ibid., capitolo su Jetro): «…il cuore dello gnostico (al-'ârif) [2] possiede una tale vastità che Abu Yazîd al-Bistâmi diceva di esso: se il Trono
divino, con tutto ciò che lo circonda si trovasse cento milioni di volte in un
angolo del cuore dello gnostico, questi non lo sentirebbe; e Junayd afferma
ugualmente: se l'effimero e l'eterno si congiungono, non rimane piu traccia del
primo; ora come potrebbe il cuore che contiene l'eterno sentire l'esistenza
dell'effimero? – Ma l'irradiazione divina può mutar forma; occorre quindi che
il cuore si allarghi o si contragga secondo quest'irradiazione, poiché non può
in alcun modo sottrarsi alle modalità di essa… Questo rappresenta il contrario
di ciò che pensavano gli uomini della nostra Via quando dicevano che Dio si
rivela nella misura della predisposiziooe dell'adoratore; non è così infatti
che noi l'intendiamo: l'adoratore si manifesta a Dio secondo la 'forma' con cui
Dio gli si rivela (tajallâ)». La predisposiziooe, spiega poi il maestro, ha il suo
fondamento nell'essenza (al-'ayn-ath-thâbitah) dell'essere;
è dunque l'espressione di ciò che questo stesso essere è in quanto possibilità permanente,
contenuta in Dio. In tal senso, il «cuore» cioè il «nucleo» essenziale ed
imperituro dell'essere, riceve la sua «predisposizione»
nello stato prindpiale di non-manifestazione (al-ghayb): Dio gliela
«comunica» nel mistero della Aseità (al-huwiyah)
pura, poi Si rivela a lui in modo «oggettivo» imprimendogli
le «forme» dei Suoi «nomi» o «aspetti»: «…in modo che
l'uno veda l'altro e che il cuore
si manifesti a sua volta con
l'aspetto di ciò che ad esso si rivela…» (ibid.). Cosi la polarità spirituale
dell'«irradiazione» e della «predisposizione»
è riducibile, in sostanza, alla
polarità puramente metafisica dell'Essere (al-Wujûd)
e delle «essenze immutabili» (al-a'yân ath-thâbitah) incluse
nell'«abisso» non-manifestato dell'Essenza.
L'Essere
«trabocca» (afâda) nelle essenze immutabili in quanto esse pongono
implicitamente le distinzioni o limitazioni che costituiscono il mondo; ma queste distinzioni non sono nulla
di per sé stesse, non aggiungono nulla alla luce dell'Essere, cosi come le
essenze immutabili non sono qualcosa che si distingua veramente dall'Essenza
una (adh-Dhât). D'altra parte,
rifrangendo l'Essere, le possibilità relative, contenute negli archetipi, si
realizzano secondo i loro diversi modi, e rispetto a queste stesse possibilità
relative l'Essere divino Si polarizza a Sua volta in molteplici aspetti
personali. È sottinteso che tale
visione totale delle cose non ha nulla in comune con una spiegazione
psicologica e nemmeno con una spiegazione alchemica o mistica; ha soltanto il
senso di una chiave intellettuale che
aiuti ad oltrepassare l'antitesi tra soggetto ed oggetto.
Considerata
secondo questa prospettiva, la «predisposizione del cuore», la sua attitudine a ricevere una tale
rivelazione divina, non si riduce dunque alla psicologia, tuttavia possiede un
certo aspetto psicologico che apparirà come l'ombra di ciò che essa è per
essenza. Si possono cogliere alcune modalità della predisposizione in una
visione retrospettiva, si può aderirvi per mezzo di simboli, ma questi non sono
che percezioni imperfette[3];
nella sua totalità, si sottrarrà sempre all'influsso della coscienza. Si può conoscere
la «predisposizione» direttamente soltanto
mediante la sua integrazione intellettuale nell'archetipo[4],
integrazione che oltrepassa ogni ordine creato: «…Infatti è
evidentemente al di là delle
facoltà della creatura in quanto tale… conoscere per mezzo della Conoscenza divina, che
comprende gli archetipi (al-a'yân ath-thâbitah) nel loro
stato di non-manifestazione non essendo questi archetipi che pure relazioni [all'interno] dell'Essenza, e senza forme… [La conoscenza diretta della
predisposizione innata dell'essere è
dunque possibile soltanto grazie ad una partecipazione di questo alla Conoscenza divina], partecipazione che rappresenta un aiuto divino predestinato a questo
essere… in virtù di un certo contenuto
della propria essenza immutabile…» (ibid., capitolo su Seth).
***
La conoscenza del proprio
archetipo altro non è che quella del Sé (Atman), secondo un'espressione
tratta dalla dottrina indù, o dell'Aseità o Ipseità (al-huwiyah), secondo
un'espressione sufica. Questa conoscenza può chiamarsi divinamente «soggettiva»
poiché suppone l'identificazione - definitiva o incidentale - dello spirito con
il «Soggetto» divino, e perché Dio non vi si presenta come l'«oggetto» della
contemplazione o della conoscenza; al contrario, il soggetto relativo, l'ego,
sarà allora - nella sua possibilità principiale - «oggetto» rispetto al
Soggetto universale ed assoluto, il solo che sia, per quanto tali distinzioni
siano ancora valide sul «piano divino»[5]. Il
«punto di vista» proprio della conoscenza del Sé è dunque, in un certo senso,
il contrario di quello implicato dalla contemplazione «oggettiva» di Dio, nei
Suoi Nomi e nelle Sue Qualità, sebbene non si possa collegare quest'ultima
«visione» col soggetto relativo in quanto tale, poiché, in realtà, non siamo
noi a contemplare Dio, ma è Dio Stesso che Si contempla nelle Sue Qualità di
cui noi siamo sostegni di manifestazione.
Nella Sua Essenza (Dhât)
infinita ed impersonale, Dio non può divenire «oggetto» d'alcuna
conoscenza. Egli resta sempre il testimone (shahîd) implicito di ogni
atto conoscitivo, ciò per cui o in cui ogni essere si conosce: «Gli sguardi non
Lo raggiungono, mentre Lui raggiunge gli sguardi» (Corano, VI, 102). Il Testimone divino non può essere «colto» ,
poiché è Lui a «cogliere» ogni cosa; cosi, l'identilicazione spirituale con il
Soggetto divino procede dal Soggetto stesso, la qual cosa è espressa da Ibn
'Arabî quando dice che si realizza «in virtu di un certo contenuto dell'essenza
immutabile di tale essere, contenuto che questo riconoscerà non appena Dio glielo
mostrerà», ciò vuoi dire che la conoscenza di se stessi deriva dal «Sé»[6].
L'identificazione spirituale con il Soggetto divino ha tuttavia le proprie
prcligurazioni intellettuali, che anticipano, in un certo senso, la sua
realizzazione effettiva, la quale può avere dei gradi di attuazione nell'uomo,
benché l'identificazione essenziale non implichi, di per sé, alcuna gradazione;
in tutti i gradi il soggetto relativo sarà «oggettivato» in modo più o meno
perfetto[7].
«L'Essenza (adh-Dhât)
- afferma Ibn 'Arabî - si 'rivela' soltanto nella 'forma' della
predisposizione dell'Essere, che riceve questa 'rivelazione'; non accade mai
diversamente. Perciò, l'essere che riceve la 'rivelazione' essenziale (Tajallî
dhâti) vedrà nello specchio
divino soltanto la propria 'forma'; non vedrà Dio – è impossibile che Lo veda -
pur sapendo che vede la propria 'forma' solo in virtù di quello specchio
divino. Ciò è del tutto analogo a quanto accade in uno specchio fisico:
contemplandovi delle forme, tu non vedi lo specchio, pur sapendo che vedi
queste forme - o la tua forma - solo grazie allo specchio. Dio ha manifestato questo
fenomeno quale simbolo particolarmente appropriato alla Sua rivelazione
essenziale, perché colui al quale Dio si rivela sappia che non Lo vede ...
Sforzati quindi di vedere lo specchio, mentre guardi la forma che vi si
riflette: non li vedrai mai contemporaneamente. Questo è talmente vero che
alcuni, osservando questa legge della riflessione negli specchi [fisici e
spirituali], hanno sostenuto che la forma riflessa s'interponga tra la vista di
colui che contempla e lo specchio stesso; questo è il massimo che hanno colto
nella sfera della conoscenza intellettuale; ma, in realtà, le cose stanno come
abbfamo detto» - cioè, la «forma» riflessa non cela sostanzialmente lo
specchio, perché questo manifesta la forma, e perché sappiamo implicitamente
che la vediamo soltanto in virtù dello specchio. La prospettiva spirituale
proprio di questo simbolismo è analoga a quella del Vedanta: l'impossibilità di
cogliere «oggettivamente» lo specchio mentre vi contempliamo la nostra immagine
esprime il carattere inafferrabile del «Soggetto» assoluto, Atman, di cui ogni cosa, compreso il
soggetto individuale, è solamente una «aggettivazione» illusoria. Come
l'espressione «Soggetto» divino, così il simbolo dello specchio rappresenta una
polarità, mentre l'Essenza oltrepassa ogni dualismo di «soggetto» e di «oggetto»;
ma nessun simbolo può esprimere ciò.
Ibn 'Arabî continua: «Se
assapori questo, [cioè Che l'essere contemplante non vede mai l'essenza stessa,
ma la propria 'forma' nello specchio dell'Essenza], tu assapori l'estremo
limite che la creatura possa raggiungere; non aspirare dunque oltre e non
affaticare la sua anima per superare tale grado [in modo 'oggettivo'] poiché a
quel punto, in principio ed in conclusione, vi è solo pura non-esistenza…». -
Questo non significa che l'Essenza non può essere conosciuta: «Alcuni di noi
ignorano la conoscenza diretta di Dio e citano a questo proposito il detto del
califfo Abu Bekr: 'Cogliere la propria impotenza a conoscere la conoscenza è
una conoscenza'[8]; ma vi è tra noi qualcuno
che conosce veramente e non si esprime cosi, perché la sua conoscenza non
implica alcuna impotenza nel conoscere; essa implica l'inesprimibile» (ibid., capitolo su Seth).
La nostra spiegazione è
riassunta con queste parole dal maestro: «Dio è dunque lo specchio nel quale
vedi te stesso, come tu sei il Suo specchio nel quale Egli contempla i Suoi
Nomi; e questi non sono altro che Lui, cosicché l'analogia dei rapporti è
invertita» (ibid., capitolo su Seth).
Fine
Fine
[1] Abbiamo già fatto notare che at-tajallî significa al tempo stesso «irraggiamento»,
«rivelazione» e «svelamento». Per capire il legame tra l'idea di «svelamento»
e quella di «irraggiamento», bisogna ricordare
l'immagine del sole che diffonde i suoi raggi non appena
le
nuvole
si
diradano; la stessa ambivalenza di aspetti è pure presente nel versetto coranico: «Per la notte
quando ricopre, e per il giorno quando svela (tajallâ) - o: quando irraggia» - (Sura
della Notte, XCII).
[2] Ustamo il termine «gnostico»
secondo il suo significato etimologico, e secondo l'intendimento dei
Padri della Chiesa, come san Clemente d' Alessandria, prescindendo dalla sua utilizzazione nei
riguardi di talune sette
[3] Queste «percezioni» hanno qualche relazione con ciò che il
Buddhismo descrive come la memoria delle esistenze precedenti alla vita terrena
dell'individuo.
[4] Dal punto di vista principiale, la potenzialità è riducibile alla possibilità,
la quale è permanente - non potenziale - nell'Intelletto divino.
[5] Lo sono nella loro realtà principiale, ma non in ciò che
comportano di limitativo, psicologicamente e materialmente, sul piano della
creatura. Nell'ordine principiale il «soggetto» e l'«oggetto» sono i due poli
di ogni conoscenza, cioè il «conoscente» (al-'âqil)
e il «conosciuto» (al-ma'qûl).
[6] Anche nella dottrina del Vedanta, il
Soggetto assoluto si chiama il «testimone» (Sâkshin).
[7] L'oggettivazionc metodica del proprio soggetto relativo -
l'ego empirico - e l'identificazione essenziale con il «punto di vista» del
Soggetto divino sono indicati in questa definizione - già citata - della virtù
spirituale (al-ihsân): «Adora Dio come se Lo vedessi, e se non Lo vedi,
Egli tuttavia vede te» (hadîth Jabrâil).
[8] Secondo il suo significato piu profondo, questa sentenza è
simile
alla
discriminazione vedantica
tra il «Soggetto» puro, Atman, e la
sua illusoria «aggettivazione» come soggetro individuale o jiva.
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