Franco Peregrino
Sulla fratellanza
Considerando in quale misura vengono messi in rilievo i pregi della fratellanza presso la
maggior parte delle organizzazioni iniziatiche, non appare privo d’interesse
spendere alcune parole a questo riguardo, per cercare di stabilirne le ragioni.
Al fine di rendere più semplice e chiara la nostra esposizione ci limiteremo
qui a esaminare l’argomento dal particolare punto di vista delle forme
iniziatiche occidentali, più familiare se non per tutti almeno per una parte
dei lettori; ciò non vuol dire, tuttavia, che non ricorreremo ad altre fonti quando
ciò sembri opportuno allo scopo di meglio illustrare
il nostro pensiero.
Risalendo agli Antichi Doveri
della Libera Muratorìa vi si scopre, inserita in modo più o meno
velato tra le norme ivi elencate, una preziosa indicazione ai fini di questa
ricerca: in essi viene affermato che «l’amore fraterno [costituisce] la pietra
di fondazione e di volta, il cemento e la gloria di questa antica Fratellanza»[1].
Una tale formulazione, a un
tempo estremamente concisa e ricca di contenuti,
rispecchia in modo ammirevole la dottrina tradizionale, nella sua applicazione
all’ambito proprio della Libera Muratorìa.
In essa i termini impiegati
hanno un carattere tecnico che, nel caso degli antichi operativi, doveva essere
in grado di richiamare immediatamente una serie di nozioni legate alla pratica del
mestiere, ma anche e soprattutto suscettibili, almeno per coloro
che ne erano capaci, di un adattamento altrettanto rigorosamente
«tecnico» all’arte della vita.
Ora, è chiaro che
l’assimilazione dell’amore fraterno alla «pietra di fondazione» non può corrispondere,
nel significato, all’assimilazione dello stesso alla «pietra» o «chiave di
volta», tra le due intercorrendo tutta la distanza che separa la «virtualità»
dalla «effettività». Invero, una tale discriminazione
allude alla necessità di perseguire lo sviluppo dell’amore fraterno fin dall’inizio
e lungo tutto il percorso della via iniziatica, il massone essendo tenuto a
sforzarsi di portare a termine in se stesso l’opera di costruzione dello
spirito di fratellanza affinché gli sia infine
possibile stabilirsi nella «perfetta unione». Non v’è dubbio, inoltre, che un
allenamento mentale e comportamentale volto a privilegiare
ognora lo spirito di fratellanza sugli interessi egoistici, agisce quale
«cemento» o collante tra i singoli componenti dell’organizzazione iniziatica,
garantendo una maggiore o minore coesione del vincolo fraterno a misura del
grado di maturazione raggiunto da ciascuno[2].
Si tratta, in fin dei conti, di un processo tutto interiore che trova
corrispondenza in una pratica metodica, in grado di avviare verso la
realizzazione iniziatica. A questo proposito è bene ricordare come gli Antichi
Doveri forniscano una certa regola di vita richiedente, tra l’altro, di
«evitare tutte le dispute e questioni, tutte le maldicenze e calunnie, non
consentendo ad altri di diffamare qualsiasi onesto fratello, ma difendendo il suo
carattere e dedicandogli i migliori uffici per quanto consentito dal [proprio]
onore e sicurezza e non oltre»[3].
Ma, al di
là delle norme tramandate per iscritto nei documenti pervenutici, ormai reperibili
nelle varie raccolte pubblicate, negli Antichi Doveri v’è anche un’esplicita
apertura a «doveri» comunicabili «per altra via», il che può alludere a
qualcosa di ben più consono al carattere strettamente «riservato» e piuttosto
personale che riveste un metodo di realizzazione iniziatica, del quale tutt’al
più possono apparire all’esterno, cristallizzate in uno scritto, solo indicazioni
di applicazione generale e che vanno perciò ritenute in qualche modo
relativamente exoteriche.
Su questo punto, altre vie
iniziatiche, diverse da quella massonica, possono offrire precisazioni più
dettagliate e può essere utile, al fine di favorirne la comprensione,
riprodurre alcuni passaggi estratti da testi del Sufismo dovuti agli Shuyukh
Muhammad at-Tâdilî e Jâlalud-dîn Rumî.
«Le qualità proprie del
carattere del Sûfî – dice lo Sheikh at-Tâdilî – fanno sì che quando
tu sei irritato con lui, egli ti risponde con l’equanimità […]. Esse lo portano
anche a perdonare colui che gli ha fatto un torto, a
sforzarsi di riallacciare le relazioni di amicizia con colui che le ha rotte, a
soddisfare le richieste di colui che ha respinto le sue. L’amicizia
obbliga alla sincerità, sia esteriore sia interiore, tra iniziati, secondo la
massima: “Quando siete in compagnia dei Sûfî, siatelo con sincerità, perché
essi sono le spie dei cuori. Essi entrano ed escono
dai vostri cuori in modo per voi imprevedibile”. In effetti, tu sei lo
specchio dei tuoi fratelli: essi vedono in questo specchio ciò che è nascosto
in profondità […]. E v’è un adagio che dice: “Nessuno dissimula una cosa senza ch’essa traspaia dal suo volto e dalle parole che si lascia
sfuggire” […]. Ma i Sûfî sono preservati dalla dissimulazione perché essi hanno
indossato il mantello della purezza e proprio per ciò si chiamano
Sûfî».
L’amicizia implica la
modestia (nelle relazioni) tra fratelli, il controllo degli impeti del carattere
proprio di ciascuno, la convinzione di essere
inferiori agli altri fratelli […]. Questa amicizia
conduce a far finta di non notare i passi falsi dei fratelli, a nascondere i
loro difetti, […] a cercargli tutte le scuse possibili, mettendo in pratica la
massima sufica che dice: “Cerca per tuo fratello settanta scuse e se non le
trovi, rivolgiti all’anima tua con sospetto e dille: Quello che vedi in tuo
fratello è ciò che è nascosto in te!”[4].
A questo riguardo, Jâlal-ud-dîn Rumî dice: «Se scopri un difetto in tuo
fratello, devi sapere che tale difetto esiste in te stesso […]. Elimina il
difetto che ti ferisce: in realtà ti sei ferito da te stesso
[…]. Tutti i difetti: la prepotenza, l’odio, la
gelosia, la bramosia, l’assenza di pietà, l’orgoglio, se esistono in te non ti
feriscono, ma quando li scopri negli altri, ti spaventi e ne sei ferito»[5].
«L’amicizia – continua
a dire lo Sheikh at-Tâdilî – implica che ci si informi
delle preoccupazioni dei fratelli, che si presti loro aiuto nella misura del
possibile, che si vada sovente a trovarli per rendere loro visita e rinnovare
l’alleanza».
«La nobiltà del carattere è
tutto il Tasawwuf [la via
iniziatica]. Essa presuppone la rinuncia al desiderio di comandare tra gl’iniziati, la rinuncia all’ostentazione e agli onori.
L’iniziato non dovrà vantarsi di essere superiore ai suoi fratelli per la
scienza, per la conoscenza o per gli stati [spirituali], ma rifletterà
piuttosto sulla lentezza con cui sbarazza la propria anima dalle passioni e con
cui procede alla ricerca di quello che può accontentare i suoi fratelli».
«In una parola, la via dei
Sûfî è la via dell’Unione. I loro respiri e la loro condotta sono diretti
all’amicizia nell’Unione. L’Unione è infatti il
principio dell’esistenza e di ciò che si differenzia in tutti i mondi»[6].
Queste citazioni, selezionate
da una fonte che, nella sua attuazione, si rivela pressoché inesauribile a
causa dei molteplici e via via sempre più sottili adattamenti alle varie
possibilità, possono comunque bastare per capire che questo metodo persegue il
superamento delle barriere limitative che determinano un «io» per opposizione
agli «altri», tramite la progressiva rinuncia alle
limitazioni derivanti dall’autonomia individuale.
In Massoneria, almeno per un
certo verso, le cose non sembrano stare in modo poi così diverso, se
consideriamo che il simbolismo muratorio vuole che le
varie pietre vengano squadrate e levigate sino a cancellare ogni singolo
difetto che possa compromettere il loro assemblaggio, per concorrere così alla
maggiore solidità dell’opera[7].
Riguardo al metodo di
realizzazione dell’unione fraterna si può, per sommi capi, avanzare l’idea di
un «processo di costruzione della fratellanza» che sia una conseguenza naturale
del progredire dello sforzo teso a un parallelo «processo
di demolizione» di quella tendenza all’individualismo che è propria dello stato
profano; non vediamo altra possibilità e, tutto sommato, riteniamo che questo
sia l’unico modo realistico e positivo di affrontare il problema, per evitare
che le buone intenzioni si esauriscano nel nulla. Naturalmente, nel «lavoro collettivo»
v’è uno strumento «operativo» coadiuvante a questo fine, a patto però che vengano rispettati determinati presupposti, tra i quali
bisogna annoverare in primo luogo la qualità dell’ambiente collettivo[8].
Inoltre, sul piano personale, non va dimenticato che l’attitudine che può
considerarsi consona all’iniziato deve essere tutt’altro che passiva, almeno al
proprio interno, e questo fin dai primi passi dell’apprendistato: attento al
lavoro collettivo, egli deve essere pronto ad afferrare ogni occasione propizia
per individuare i propri difetti; ciò è di gran lunga
la cosa più difficile poiché richiede una salda intenzione e una grande
sincerità, anche verso se stesso; individuata l’imperfezione, in seguito si
tratterà solo d’impegnarsi a cancellarla, il che appartiene esclusivamente alla
sfera della volontà.
A questo punto diventa forse
più facile capire perché in genere l’attività dell’iniziato deve essere
principalmente rivolta verso l’interno: in effetti, anche quando siano i fatti
esteriori a reclamare la sua attenzione, ciò avviene non in
quanto essi possano come tali incuriosirlo e quindi trascinarlo a
giudicare le faccende altrui, ma in quanto per loro tramite ne riesca a trarre
un giovamento, un’indicazione atta a essere trasferita al proprio interno, in
un’attività tutta tesa a progredire nello sgrossamento delle proprie asperità,
dei propri difetti. A questo proposito ci viene in mente la figura del massone
che, ripiegato su se stesso, si cimenta nella squadratura della propria pietra,
ben conscio che giammai nessuno potrà dall’esterno supplire a questo suo
sforzo, che è e rimane prettamente personale.
Beninteso, quanto testé detto si riferisce in particolar modo a ciò che
abbiamo definito «processo di demolizione»; l’altra faccia della medaglia, e
cioè il «processo di costruzione della fratellanza» che ne deriva, fa sì che la
virtù dell’iniziato si riversi sull’ambiente più o meno effettivamente secondo
il grado di sviluppo raggiunto e con caratteristiche che potranno anche differire
in ordine alle attribuzioni qualitative che determinano le varie nature.
Chiaramente, quanto più si riesca a progredire nella via della «demolizione»
tanto più si sarà in grado di «vivere» la fratellanza.
Diciamo infine che, una volta
superato un determinato limite del «processo di demolizione», si sarà passati
da una certa visione della «realtà», offuscata dal predominio disordinato delle
passioni e dove tutto viene misurato in termini di
opposizione al proprio «io», a un’altra diversa dalla prima, caratterizzata dal
prevalere della virtù, dove ogni cosa viene considerata sotto l’aspetto della
complementarità e dove l’io cede il passo al «noi»; a questo punto, gli
attributi manifestati dalle diverse nature si rafforzeranno a vicenda, rendendo
possibile quell’armonia d’intenti necessaria per procedere spediti nell’opera
comune. In un simile caso, si potrà quindi affermare che l’iniziale
«opposizione» è stata ormai superata, operandosi la sua trasmutazione in «complementarità»[9].
Non bisogna, tuttavia,
ritenere con ciò che il traguardo sia stato raggiunto: come in qualche modo
avevamo già anticipato all’inizio di questo studio, si tratta in realtà di una
tappa, sia pure importantissima e necessaria, ma una tappa soltanto lungo il corso della via massonica che porta all’unione
fraterna, poiché, difatti, l’«unione» va ben oltre la «complementarità».
Ed è proprio per questo
motivo che negli Antichi Doveri si giunge, alla fine, ad assimilare l’amore
fraterno a una pietra da costruzione molto speciale, una pietra che, sia per la
forma sia per la posizione che è destinata a occupare,
è unica in tutto l’edificio: ci riferiamo alla «chiave di volta», la cui posa
sta a segnalare pure la conclusione, il «coronamento» vero e proprio dell’opera
muratoria; collocata dall’alto, essa va a incunearsi nell’occhio della cupola o
della volta, assicurando così, secondo le regole dell’arte, la massima solidità
all’intera costruzione.
Capolavoro nel capolavoro, a
un tempo fine dell’opera architettonica e principio della sua indistruttibilità,
essa ne esprime la ragione ultima e come la sintesi di tutto l’operato[10].
Orbene, mettere in rapporto
l’amore fraterno con ciò che viene raffigurato dalla
«chiave di volta» implica verosimilmente la possibilità di una «esaltazione»,
non già soltanto virtuale, bensì pienamente effettiva, al di là di ogni forma,
capace di trasporre colui che la realizza nella «perfetta unione», ove tutto
diviene Uno.
Ancorché la lettura dei
simboli costruttivi ci consenta di concepire una possibilità di questo genere,
così estranea alla mentalità del mondo profano ma riscontrabile ovunque nelle tradizioni
iniziatiche di cui abbiamo notizia, la sua presa in considerazione – se
vuol essere seria –, pur senza perdere di vista l’estrema difficoltà che
si trova a voler misurare dall’esterno un tale ordine di cose, richiederebbe quanto meno che a essa facesse riscontro un qualche metodo
che si dimostri, almeno in teoria, capace di favorire – per certi casi e
in determinate circostanze – la sua messa in atto; altrimenti,
bisognerebbe concludere che la questione si riduce a essere soltanto un «gioco
di parole» più o meno ingegnoso che non porta da nessuna parte e che a
null’altro serve se non a stimolare l’autocompiacimento e a gonfiare il proprio
«io».
Come può ben capirsi
l’argomento introdotto è irto di difficoltà sotto più di un aspetto e una sua
trattazione, per quanto succinta, comporterebbe sviluppi tali da evadere i
limiti di questo studio. Ciò nonostante, forse potrà essere d’aiuto rilevare
qual è l’indirizzo perseguito, in un modo o nell’altro, dalle diverse tecniche
di realizzazione spirituale.
In generale, si tratti di
«meditazione» o di «contemplazione», o ancora d’«invocazione»[11], è possibile sostenere che ciò che viene invariabilmente
favorito con tali mezzi non è altro che la «concentrazione»[12].
Che l’esercizio di mantenere sotto controllo la propria attenzione sia un modo
per evitare di venire strattonati qua e là dagli
stimoli derivanti dall’incessante e disordinato fluire dei pensieri, è una
constatazione che chiunque – anche solo per qualche attimo – può
fare da sé. Inoltre, è fuor di dubbio che una tale pratica sia in grado di assecondare
e anche di accelerare quel «processo di demolizione»
di cui parlavamo prima. Per ultimo, visto che la
«concentrazione» viene metodicamente condotta sulla base di una simbologia di
portata universale che cancella ogni volta dal campo di attività mentale
qualsiasi riferimento alle cose sensibili, e tenendo conto che la frequenza
della pratica può essere accresciuta fino a divenire abituale, anche senza
scendere in maggiori particolari ci pare che sia possibile concepire come, al
limite, essa possa disporre il soggetto nelle condizioni necessarie per
permettere che si verifichi un cambiamento di mentalità tale per cui ogni cosa
non venga più riferita alla propria individualità, bensì alla sua vera origine[13].
In realtà, basta riesaminare
con un po’ di attenzione le varie fasi abbozzate lungo questo studio per
convenire sull’impossibilità pratica di emergere da un simile processo di purificazione
nello stesso identico stato in cui si era al momento dell’entrata; così pure,
quando tale processo sia stato spinto fino alle sue ultime conseguenze, non
appare impossibile sperare che il cambiamento indotto raggiunga le caratteristiche
di un capovolgimento nel modo di vedere le cose: in questo caso si sarà passati
da una visione della realtà ancora relativamente frammentaria e individuale
– dato che la complementarità non supera ancora
la sfera formale – a un’altra di ben diverso ordine. Questa metamorfosi
intellettuale è proprio ciò che esprime, ad esempio, il termine greco metànoia:
al di là di nous, della mente individuale[14].
Ma un simile passaggio, che può di fatto assumere le
sembianze di un pauroso salto nel buio per chi si trovi ad affrontarlo, dove
conduce?
Tutte le dottrine
tradizionali – scrive René Guénon – mostrano come il mentale
nell’uomo abbia una doppia sembianza, a seconda lo si
consideri rivolto verso le cose sensibili, caso che è quello del mentale inteso
nel senso abituale e individuale, o che si trasponga in un senso superiore,
dove viene identificato con lo hêgêmon [la Guida o Maestro interiore] di
Platone o con l’antaryâmî [l’Ordinatore interno] della tradizione indù; la
metanoia è propriamente il passaggio cosciente dall’uno all’altro, da dove
risulta in qualche modo la nascita di un “uomo nuovo”; e seppure sotto diverse
formulazioni – ma che in realtà si equivalgono – tutte le tradizioni
affermano all’unanimità la nozione e la necessità di tale metanoia[15].
Codesto «Maestro interiore»,
che Platone identifica nella nostra «parte più divina»
(theiòtatos), non è diverso dal
nostro spirito o intelletto trascendente, il quale essendo d’ordine universale
permette di conoscere tutte le cose in modo diretto nel dominio dei princìpi
eterni e immutabili.
Analogamente, se ci
soffermiamo a considerare la struttura di un edificio terminato in una cupola,
si può notare che solo dall’alto dell’opera, ovverosia dal suo apice o «chiave di volta», diviene possibile una visione di assieme
altrettanto universale, capace di abbracciare i molteplici elementi che ne
fanno parte.
Orbene, dato
che nel nostro «processo di costruzione della fratellanza» l’equivalente
di tale «chiave di volta» è ciò che nell’odierna Massoneria si chiama «perfetta
unione», viene da chiedersi, arrivati a questo punto, se abbia senso parlare
ancora di «fratellanza », dal momento che, pur essendo vero che questa parola
serve adeguatamente a esprimere quella tendenza verso l’unità che porta gli
esseri a coagularsi nella ricerca del bene comune al di là di tutte le differenze
che li separano, è comunque altrettanto incontrovertibile che, recando in sé un
necessario riferimento alla molteplicità, essa appare certamente inadeguata a
esprimere l’unità stessa, la quale non ammette nemmeno un’ombra di accenno alla
separatività. Ragione d’essere della fratellanza, l’unità costituisce il
principio che la determina e che in essa si rispecchia, nonché
il fine ultimo verso il quale essa è ordinata. Per questo, in una massima sufica
si dice: «I rapporti tra due fratelli non raggiungono la perfezione fin quando
non si rivolgano l’uno all’altro dicendosi: oh, me
stesso!»[16]; in uno stato in cui l’intera molteplicità si vede
nell’Unità, come potrebbero sussistere ancora delle distinzioni contrassegnate
da un tu e un io[17]?
Con queste considerazioni
dedicate alla fratellanza, materia che taluni, magari per ragioni di radicata
familiarità con l’uso corrente del termine, liquidano frettolosamente come
prodotto esclusivo della sfera sentimentale[18], in questo modo finendo per escluderla dalle questioni che
collocano al centro del proprio interesse intellettuale – ciò che chiama
alla memoria quella leggenda massonica riferita alla «chiave di volta», dove
tale pietra viene scartata dai costruttori proprio perché essi non sono capaci
di riconoscerla –, con queste considerazioni – dicevamo – speriamo
d’aver contribuito a gettare un po’ di luce su un altro tema, quello della
realizzazione iniziatica, che manifestamente interessa a tutti coloro che non
si accontentano del carattere virtuale dell’iniziazione ricevuta.
E per quanto sia vero che
all’interno della Massoneria manca ormai da lungo tempo l’equivalente di quei
mezzi a cui si accennava più sopra, ciò non vuol dire
che si debba abbracciare la posizione di chi presume che la realizzazione
spirituale sia il prodotto specifico dell’applicazione di una qualche specie di
ricetta più o meno «magica»: vi è in tutto ciò una evidente confusione, dal
momento che si attribuisce a un semplice mezzo il carattere di causa, quando
quel che ci si può attendere da esso è una funzione di ausilio al porsi nelle
condizioni richieste per raggiungere il fine perseguito; e d’altro canto si
dimentica che in realtà non è affatto questione di produrre qualcosa che non
esiste ancora, ma di giungere a prendere coscienza effettiva di ciò che è, e
che mai ha cessato di essere.
Per conto nostro, pur senza
tralasciare di valutare l’incontestabile gravità della perdita subita,
consideriamo sia di maggior costrutto dirigere l’attenzione sul fatto che una
tale questione non intacca la prima parte del processo di purificazione che
abbiamo esaminato e, se si tiene conto che, nella stragrande maggioranza dei
casi, appare illusorio pensare di accedere direttamente alla realizzazione del
fine ultimo senza dover passare prima per tutte quelle tappe collegate con le
caratteristiche più specifiche di ogni individualità, non vediamo per qualeragione
si debba rinunciare a mettere in pratica ciò di cui si dispone e che per se
stesso richiede una capacità, un impegno e uno sforzo certamente considerevoli
(fino al punto che ci si potrebbe chiedere quanti siano oggi gli aspiranti che posseggono le qualificazioni necessarie per portare a
termine una simile impresa).
Concludendo, pensiamo che, invece di
sperperare tempo e sforzi dietro le mille e una suggestioni che con ogni
probabilità provengono esclusivamente dal desiderio incosciente di tutelare il
proprio io dalla morte iniziatica, quei pochi che abbiano maturato l’intenzione
sincera di impegnarsi in un processo di realizzazione spirituale faranno bene a
cominciare, qui e ora, a dedicarsi per intero a combattere in se stessi la
causa di tutte quelle contrapposizioni che scorgono nei loro rapporti con il
mondo esteriore, le quali, se per un verso si manifestano come un fattore di
divisione, per un altro verso invece costituiscono una effettiva opportunità per
riuscire a superare i propri limiti, poiché, come dicono i Sûfî, «Se le
creature sono i grandi veli che ci separano dal Creatore, la via che porta ad Allâh
passa attraverso di esse»[19].
Tratto da: La Lettera G N°1 – 2004 -
http://www.laletterag.it
[1]
Antichi Doveri, Costituzione
e Regolamento del Grande Oriente d’Italia, 2002, p. XIII.
[2]
L’analogia
stabilita negli Antichi Doveri fra
l’amore fraterno e il «cemento» ammette un’altra interpretazione, più profonda,
che ci rimanda allo Spirito: difatti, l’intera manifestazione si tiene insieme
grazie alla sua «azione di presenza», nel mentre il
suo ritirarsi comporta, ineluttabilmente, che «la carne si separi dalle ossa».
[3]
Antichi Doveri, Costituzione
e Regolamento del Grande Oriente d’Italia, cit., p. XIII.
[4]
Sheikh Muhammad at-Tâdilî, «La vita
tradizionale è la sincerità», in «Rivista di Studi
Tradizionali», n. 68-69, gennaio-dicembre 1989, pp. 145-46.
[5]
Jâlal-ud-dîn Rumî, Il libro delle profondità interiori, Luni Editrice, Milano 1996, VI,
pp. 43-44.
[6]
Sheikh Muhammad at-Tâdilî, «La vita tradizionale è la sincerità», cit., pp. 146-47 e p.
156.
[7]
Circa
l’aspetto purificatorio che comporta il metodo che deve condurre alla «unione
fraterna» degli iniziati, ci viene in mente che Dante, proprio nel Purgatorio, mette costantemente in bocca
alle «anime» l’appellativo di «frate», cioè fratello.
[8]
Considerando
il caso particolare di coloro che, attratti dall’opera di R. Guénon, intendono
dirigere i loro sforzi nell’indirizzo ivi tracciato, ci pare conveniente riprodurre
per esteso alcune precisazioni tratte da un interessante articolo di Giovanni
Ponte, a cominciare da un’indicazione suscettibile di essere messa in pratica
anche da tutti quelli che, mancando del ricollegamento iniziatico, si trovano ancora
nella preliminare quanto delicata tappa della «ricerca». «In un certo senso, può
esserci già un aspetto di “operatività” in un lavoro di concentrazione e purificazione
mentale che prenda quale supporto lo studio delle dottrine tradizionali (specialmente
nell’esposizione che ne fa R. Guénon, adattata in modo particolare alla
mentalità occidentale): un’“operatività” certo parziale, ma
suscettibile poi di ben altri sviluppi (…). In un ambito massonico,
caratterizzato da un lavoro collettivo, ciò può dar luogo a un’applicazione
particolarmente rilevante allorché questo
approfondimento teorico si può realizzare in una collettività sufficientemente
equilibrata e armonica, capace inoltre di esercitare una certa influenza
equilibratrice sui singoli (…). Questo non significa però che si debba sminuire
l’importanza delle barriere e degli ostacoli esistenti, e in particolare di quelli rappresentati insieme dall’incomprensione e
dalla falsa comprensione. Del resto, il fatto stesso di incontrarli
consapevolmente è un’occasione positiva per combatterli, entro se stessi e nel
proprio ambiente; e anche questo può presentare senza dubbio un aspetto di
“operatività” da considerare con particolare attenzione, beninteso senza farsi
illusioni sui risultati esteriori, i quali non
costituiscono affatto lo scopo verso il quale orientarsi» (il corsivo è nostro)
– (G. Ponte, «Equivoci riguardanti tipi diversi di iniziazione» in
«Rivista di Studi Tradizionali»,
n. 51, luglio-dicembre 1979, pp. 145-47).
[9]
Ciò
corrisponde alla realizzazione effettiva del grado di Compagno d’Arte, per cui
la «pietra cubica», oramai perfettamente squadrata e
levigata, può giudicarsi adatta a occupare il posto che le compete
nell’edificio.
[10] A proposito
del simbolismo della «pietra di volta», si veda R.
Guénon, Simboli della Scienza sacra,
Adelphi, Milano 1975, capitoli da XXXIX a VL.
[11] Considerando
il carattere itinerante che era proprio dei compagnoni e dei massoni operativi,
l’«invocazione», fra le tecniche qui citate sembrerebbe essere quella più adatta
al loro caso; difatti, si parla di una particolare «invocazione»
per lungo tempo custodita dagli antichi operativi. Si veda R. Guénon, Études sur la Franc-Maçonnerie et le Compagnonnage, tomo II, Éditions Traditionnelles,
Parigi 1965, pp. 164-65.
[12] Si
confronti, a questo proposito, quanto detto da R. Guénon in L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta,
Adelphi, Milano 1992, cap. XXII.
[13] Come ben sottolinea Pietro Nutrizio, (…) la conoscenza più che il
frutto di un’acquisizione da parte dell’individuo è il risultato di uno sforzo
teso a liberare l’essere dai condizionamenti che costituiscono questa
individualità (P. Nutrizio, «Povertà e ricchezza», in «Rivista di Studi
Tradizionali», n. 62-63, gennaio dicembre 1985, p. 63).
[14] Si veda lo
studio di A. K. Coomaraswamy «Sull’avere“l’intelletto
sano”», in «Rivista di Studi Tradizionali», n. 71, luglio-dicembre 1990. In questo articolo l’autore si applica a ristabilire l’esatto
significato del termine metànoia, da
lungo tempo tradotto riduttivamente come «pentimento».
[15] R. Guénon, Studi sull’Induismo, Luni Editrice,
Milano 15. 1996, pp. 260-61.
[16] Sheikh
Muhammad at-Tâdilî, «La vita tradizionale è la
sincerità», cit., p. 145.
[17] Invero, il
principio della fratellanza deve essere considerato, in se stesso, necessariamente
situato al di là di essa, ciò che, nell’arte
muratoria, appare rappresentato in modo oltremodo chiaro in opere come il
Pantheon romano, dove è il cielo aperto a fare le veci della «chiave di volta»;
d’altro canto, e senza spingersi oltre, non è forse vero che la consanguineità
che qualifica la fratellanza carnale risale a un principio – quello del
progenitore comune – che si trova al di là di essa?
[18] Dante, nel Convivio (III, III), dichiara in modo
netto che è dall’amore per la verità e la virtù che «nasce
la vera e perfetta amistà», cioè la fratellanza di cui parliamo.
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