Shankarâchârya
Estratti del Commento della “Bhagavad-Gîtâ”Di tutti gli scritti provenienti dall’India, la Bhagavad-Gîtâ è certamente quello che gode del più grande prestigio in Occidente: ne sono una prova le numerose traduzioni che ne son state fatte e rifatte in quasi tutte le lingue europee.
Questa reputazione corrisponde senz’altro all’importanza che ha la Gîtâ tra gli scritti fondamentali del Brahmanesirno; bisogna anzi parlare di un posto privilegiato, poiché questo famoso episodio del Mahâbhârata è considerato come parte integrante del Vêdânta allo stesso titolo dei Brahma-Sûtra, il che gli conferisce un’autorità quasi uguale a quella delle Upanishad; non deve dunque sorprendere che essa sia stata l’oggetto di commenti ad opera delle autorità più eminenti della Tradizione vedica, quali Shankarâchârya e Râmânuia, A giudizio di ogni Indù competente, questi commenti sono l’espressione della più stretta ortodossia, anche se i punti di vista dei loro rispettivi autori non sono sempre identici; non vi è in ciò alcuna contraddizione, poiché queste differenze dipendono solo dal grado di approfondimento legittimo del deposito della Rivelazione e non comportano affatto da parte dei singoli commentatori il rifiuto di qualche dato tradizionale. Anzi, lo studio di questi commenti permette di cogliere meglio l’unità profonda che sta sotto ai molteplici aspetti messi in luce dai diversi rami delle dottrine indù; esso fa vedere come tutti questi dati si completino a vicenda e si concilino in un insieme armonioso, senza perdere di vista l’affermazione del Principio trascendente dal quale tutte le discipline proprie del Brahmanesimo dipendono più o meno direttamente. Tutta la Saggezza indù, in vero, si appella a questa comprensione “elevata ed ampia”, ma è d’accordo nel riconoscere ch’essa è offerta, in modo eminentemente esemplare, dalla Bhagavad-Gîtâ la quale, appunto, costituisce un’espressione particolarmente significativa di questa Saggezza.
Del commento di Shrî Shankarâchârya abbiamo scelto la parte relativa a Sat (il “Sé”) ed a Asat (il “Non-Sé”), alla quale, nel prossimo numero di questa rivista, faremo seguire quella riguardante le due prime stanze del tredicesimo capitolo, in cui l’illustre “liberato in vita” compie una rigorosa discriminazione del Sé, il principio fondamentale della metafisica indù e, nello stesso tempo, la vera essenza mediante la quale ogni essere, in non importa quale stato d’esistenza, sfugge all’esistenza condizionata, cioè al samsâra (1).
René Allar
1) La radice di samsâra è sri, andare, scorrere, con il prefisso sam, che vi aggiunge un’idea di totalità; si tratta dunque dell’insieme della manifestazione considerata sotto l’aspetto di quel divenire con il quale gli esseri illusoriamente si identificano fintantoché la loro ignoranza non sia del tutto dissipata.
“Sat” e “Asat”
Se è vero che il turbamento (moha) provocato dalla
distruzione (apparente) del Sé non tocca chi ha realizzato che il Sé è eterno,
si constata tuttavia, nel mondo, il turbamento causato dall’esperienza del
freddo e del caldo, del piacere e del dolore (e questa percezione appare tutt’altro
che illusoria). Tale turbamento è originato dalla separazione da ciò che è
piacevole e la sofferenza è originata dall’unione con ciò che è spiacevole.
Prevedendo questa constatazione di Argiuna, il Signore
disse:
14 - O figlio di Kunti, le sensazioni di caldo, di
freddo, di piacere, di dolore, sono prodotte dal contatto dei sensi con gli
oggetti sensibili; esse hanno principio e fine, sono transitorie. Perciò, o Bhârata,
sopportale con pazienza.
I sensi (indriya) come l’udito, sono qui chiamati mâtrâ
(misura), perché è da essi che gli oggetti vengono determinati (alla lettera:
misurati, mîyantê). Per «contatti dei sensi», bisogna intendere la loro
unione con i rispettivi oggetti. Questi contatti fanno provare il freddo, il
caldo, il piacere ed il dolore; in altri termini, sono i sensi ed i loro
oggetti a procurare le diverse sensazioni. Il freddo ed il caldo sono talvolta
gradevoli e talvolta sgradevoli, mentre il piacere ed il dolore presentano
sempre lo stesso effetto ed è per questo motivo che il testo li menziona a
parte. Dal momento che essi appaiono e scompaiono, che hanno un inizio ed una
fine, questi contatti dei sensi sono impermanenti: sopportali quindi con
fermezza, e non essere né felice né abbattuto per causa loro.
Cosa succede a colui che così sopporta il freddo ed il
caldo? Questo:
15 - L’uomo dotato di sensi, ma da essi non turbato, o
potente fra gli uomini, quegli per cui dolore e piacere sono uguali, quell’uomo,
o Bhârata, è fatto per l’immortalità.
Colui per cui il gradevole e lo sgradevole sono la stessa
cosa, che sperimentandoli non prova né gioia né infelicità, quest’uomo fermo e
saggio che non è afflitto dal freddo e dal caldo, perché sa che il Sé è
imperituro (e al di là di qualsiasi mutamento), un uomo simile, paziente nelle
avversità e costantemente volto verso la sua essenza eterna, è fatto per l’immortalità,
è maturo per la Liberazione.
Anche un’altra ragione impone di sopportare il freddo ed il
caldo e gli altri “contrari” (dwandwa) senza cedere alla gioia e all’afflizione;
la seguente:
16 - Da ciò che non è (asat) non può derivare
nessuna esistenza (bhava), e ciò che è (sat) non può cessare di
esistere. Tale è la natura ultima di questi due termini, così come viene
percepita da coloro che contemplano la Realtà (tattwa).
Ciò che non è (di per se stesso), il freddo, il caldo e gli altri
accidenti, così come le loro cause particolari non esistono (al di fuori di
certe condizioni), non posseggono l’esistenza (in senso assoluto,
corrispondente qui alla parola sat, participio presente di asti, “egli
è”). In effetti, il freddo, il caldo e le loro cause, come tutto ciò che viene
percepito dai nostri strumenti di conoscenza, non posseggono una realtà
(stabile), poiché sono modificazioni (di un’altra cosa) ed ogni modificazione (vikâra)
è transitoria.
Una forma, come quella di un vaso, ad esempio, non può
essere percepita indipendentemente dall’argilla e di conseguenza è asat;
per questo motivo, tutte le modificazioni, non potendo essere percepite
indipendentemente dalla loro causa (Kârama) sono asat (in se
stesse inesistenti). D’altra parte, ogni effetto (Kârya) è asat,
poiché non può essere percepito prima della sua produzione e dopo la sua
distruzione; ciò vale anche per l’argilla, la quale non può essere percepita
indipendentemente dalla sua propria causa, e così di seguito.
Obiezione: Se è così, si deve concludere che nulla
esiste.
Risposta: No! perché ogni cosa è il supporto di due
cognizioni (buddhi) immediate, quella di sat (l’esistenza come
attributo) e quella di asat (il non-esistente come soggetto). La
cognizione di cui esiste l’oggetto è sat e quella di cui l’oggetto non
esiste è asat. La distinzione tra sat e asat, tra ciò che
esiste realmente e ciò che esiste in modo illusorio. dipende dunque da una
cognizione immediata (buddhi, il principio che determina la natura delle
cose). In tutto ciò che viene percepito, queste due cognizioni immediate sono
ottenute da chiunque nello stesso ed unico supporto (cioè in tutta l’estensione
della sua comprensione) quando si dice, ad esempio, «questo vaso è», «questa
stoffa è», «questo elefante è», mentre non lo sono quando si dice «questo loto
è azzurro» (ove le due cognizioni, loto e azzurro, non sono pertinenti ad uno
stesso oggetto, ma si riferiscono a due cose distinte, in questo caso la
sostanza e l’accidente).
Obiezione: Quando il vaso viene distrutto e la sua
cognizione scompare, anche quella di sat scompare.
Risposta: No, perché la cognizione di sat la
si ottiene anche nel caso della stoffa o di qualsiasi altro oggetto. La
cognizione di sat si presenta necessariamente come un attributo distintivo
(vishêshana).
Obiezione: Come la cognizione di sat (si
ottiene con un altro supporto), così quella del vaso si ottiene con un altro
vaso.
Risposta: Ma non come una stoffa o con un’altra cosa.
Obiezione: Quando il vaso è distrutto, anche la
cognizione (afferente) di sat viene meno.
Risposta: Affatto (non perché la cognizione di sat
sia impermanente, ma) perché non v’è più ciò che è qualificato da sat.
Avendo la cognizione di sat per oggetto (formale) una qualificazione (vishêshana),
quando viene a mancare il qualificato (vishêshya), la qualificazione è
impossibile; infatti, a cosa si riferirebbe? Ma non è (come per il vaso) perché
non vi è un (altro) oggetto della cognizione di sat.
Obiezione: Se il vaso, od un’altra cosa qualificata
(da sat), non esiste, la duplice cognizione di cui esso è l’unico
supporto è impossibile (poiché non si può ammettere che un oggetto inesistente
sia occasione di una percezione reale).
Risposta: Una duplice cognizione riferentesi allo
stesso supporto è possibile anche quando uno dei due oggetti di questa
cognizione è inesistente. Se ne ha la prova con il miraggio, quando si dice
«questo è acqua»: nel caso specifico l’acqua non esiste, ma «questo», cioè il
deserto, esiste eccome.
Da quanto su esposto risulta evidente che i corpi e le altre
forme, le coppie degli opposti (dwandwa), nonché le loro cause, sono asat,
non esistono (di per se stessi); mentre sat, ciò che è realmente, il Sé,
non può non essere, essendo presente ovunque, come abbiamo spiegato.
Questa verità ultima riguardante il Sé e il Non-Sé, sat
e asat, è ben nota a coloro che contemplano la Realtà: tattwa,
termine di cui la radice tat, “quello”, designa la Totalità, ovvero
Brahma. Prendendo quindi come sostegno questa verità, respingendo la sofferenza
ed il turbamento, nella certezza che il freddo ed il caldo e le altre coppie di
opposti, variabili o no, sono modificazioni che, come nel caso di un miraggio,
non esistono di per se stesse, sopportale con pazienza: tale è l’insegnamento
di quest’ultima stanza del poema (1).
(Traduzione dal
sanscrito di René Allar)
Da: Rivista di Studi Tradizionali n° 31
1) A proposito
del paragone del vaso d’argilla o di altri simili, impiegati nel Vêdânta
per esporre la teoria della causalità, trattandosi di un punto abbastanza
importante, non possiamo passare sotto silenzio l’inverosimile confusione che
abbiamo rilevato in una recente opera di un filosofo vedantino, il quale
sostiene che è impossibile individuare, in una stessa percezione, la causa e l’effetto,
portando come esempio quello della stoffa e del filo, nel quale, come nel caso
del vaso di argilla, «la causa e l’effetto hanno un comune legame nella nostra
esperienza empirica».
Questo sproposito corrisponde, sebbene in senso
inverso, a quell’altro errore marchiano, commesso da un teologo che insinuò che
gli Indù, essendo incapaci di spiegare la produzione del mondo, sono stati
costretti a negarla ed hanno saputo analizzare solo dei prodotti umani ove la
causa e l’effetto sono percepiti simultaneamente e non comportano alcun
mutamento sostanziale. In entrambi i casi si tratta pur sempre della stessa
incomprensione filosofica dei simboli ai quali è legato l’intendimento di una
dottrina metafisica; ed è questo un punto su cui vale la pena di soffermarsi.
Si constata cioè, in questi casi, la medesima tendenza ad assumere tali simboli
come il fondamento di induzioni senz’altro estranee alla metafisica, perché
questa ha per oggetto l’universale e non generalizzazioni più o meno abusive e
nulla più che questa tendenza sta a provare quanto sia illusorio il “primato
della ragione” nei confronti dell’intuizione intellettuale, la quale fa tutt’uno
con i principi metafisici. Il particolare riflette l’universale, ricevendo da
questo tutta la sua realtà, ed i testi tradizionali sono dunque tenuti ad
utilizzarlo come illustrazione e supporto di questa intuizione, rispetto la
quale l’intera Natura è come uno specchio tenebroso destinato ad essere
illuminato dallo spirito che vi si mira, o come una traduzione frammentaria che
si può interpretare correttamente solo osservando le leggi del suo linguaggio.
Non dimentichiamoci che un simbolo può rappresentare
la realtà di un piano superiore solo parzialmente, secondo un angolo limitato
ma atto ad essere completato e corretto mediante un altro simbolo; cercare in
qualcosa di contingente la spiegazione perfetta di una verità trascendente equivale
né più né meno a materializzare lo spirito: in tal modo si attribuisce a ciò
che è superiore il lato negativo delle cose di quaggiù, il che vizia
necessariamente la magnificazione spirituale di questa rappresentazione. Quel
che il suddetto teologo non ha compreso, o ha fatto finta di non comprendere, è
che una produzione artificiale, come quella di un vaso, costituisce sotto un
certo aspetto, un paragone adeguato alla intellezione divina di tutti gli
ordini di causalità, i quali ci appaiono come un’alterazione essenziale, sia a
motivo dei nostri mezzi inadeguati di percezione, e, soprattutto, a motivo
della nostra incapacità di considerare le cose al di fuori della successione
temporale. Le dottrine indù, il Vêdânta compreso, prendono in
considerazione, se ne è il caso, un divenire ben più complesso di quello dei tota
artificialia, generazione, germinazione, ecc., ma il fine del Vêdânta
non è di spiegarci i fenomeni fisici, bensì di liberarcene, rivelandoci la
natura di Brahma e, se così sovente vengono impiegati gli esempi del vaso
d’argilla, della stoffa, della schiuma del mare, è perché un tale processo
causale si situa interamente nel campo della nostra percezione (upalabdhi),
così come, mutatis mutandis, la conoscenza illimitata di Brahma
comprende (e quindi elimina) i termini estremi e mediati della manifestazione
universale. Quest’ultima è illusoria (mayâ), non perché sia priva di un
fondamento reale, ma perché essa ci procura effetti le cui cause sfuggono alle
nostre condizioni e che sono come un vaso di cui l’argilla non fosse percepita,
astrazione questa, che implica l’ignoranza (avidya), creatrice dei nomi
e delle forme (nâma-rûpa) in quanto che percepiti distintamente. Abbiamo
così visto ciò che ha dato luogo al malinteso, oggetto di questa nota, e che si
fonda su qualcosa d’inverosimile dal momento che esso pone in dubbio un’evidenza
d’ordine sensibile ripetutamente impiegata da Shankara a motivo del suo valore
analogico: «… Bisogna ammettere la non-differenza tra l’effetto e la causa
perché l’intelligenza è impressionata dall’una e dall’altra (simultaneamente); ...
questa non-differenza della causa e dell’effetto si fonda non unicamente sulla
rivelazione ma anche sulla percezione diretta, ... ad esempio su quella di un
tessuto...» (Commento dei Brahma-Sûtra, II, 1, 15 e passim).
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