Sufismo e new age: incompatibilità ed interferenze
Fu chiesto una volta ad uno studente di lingue e cultura orientali cosa fosse il “sufismo” e la risposta fu che si trattava di una scuola di pensiero. Ma soffermandosi a considerare la vita e l’esperienza di vita che il sufismo comporta, lo studente si corresse dicendo: “No è di più, forse è l’islâm nella sua interezza e profondità”.
Ed in effetti l’islâm, come sottomissione a Dio altro non è se non vita, preghiera rituale e conoscenza.
Il sufismo, ma preferisco dire con termine arabo il tasawwuf è approfondimento di tutto ciò e purificazione, come dice il termine stesso. E’ noto a tutti infatti che quando si chiedeva un’etimologia della parola tasawwuf e la si è cercata nei testi dei primi trattatisti, la risposta è stata varia, ma sempre riferita alla purezza e alla purificazione.
Ciò anche perchè se il termine sufismo è un conio
recente, non altrettanto nuovo è il vocabolo arabo tasawwuf che compare, se non nel Corano,
in numerosi ahadith (detti del
Profeta) tra i più noti. Ne basti uno fra tutti: “Colui che
sente la voce dei sufi (ahl al-tasawwuf)
e non dice amîn è considerato tra i
miscredenti di fronte a Dio”.
Il vocabolo sufismo,
invece, risale soltanto al 1821 quando il pastore protestante Friedrich August
Tholluck forgiò la parola latina ssufismus come calco dell’arabo tasawwuf attribuendogli dei significati che furono
origine di molti malintesi: sia perchè il suffisso -ismo fece e fa pensare ad un sistema filosofico chiuso, sia perchè
il sottotitolo della sua opera: theosophia
persarum pantheistica indicò false assimilazioni ed una interpretazione
della dottrina a dir poco fuorviante.
Prima di soffermarci, allora, a considerare
ulteriormente cosa sia il sufismo, sarà bene stabilire cosa non sia, per
evitare malintesi nel linguaggio:
- non si tratta di una setta o di una qualche associazione, perchè una delle finalità intrinseche ad esso è quella di liberare l’individuo dalle limitazioni del mondo terreno e quindi se anche alle volte delle organizzazioni visibili sono note alla storia, tutto ciò non è altro che un adattamento a delle necessità contingenti e lo spirito settario è quanto di più restrittivo si possa avere in un gruppo di persone con finalità ed intenti affini;
- non è una scuola di pensiero, né un cenacolo filosofico perchè se anche le dottrine che gli sono peculiari hanno talvolta formulazioni simili a queste modalità del pensiero umano, non è tuttavia solo alla sfera di questo che sono pertinenti ed anzi, nel loro più alto grado, sono inerenti modalità non-umane di espressione, essenzialmente formulate mediante simboli di riferimento metafisico;
- inoltre non è un’ideologia perchè non ha intenti politici, né strutture di pensiero edificate razionalmente ad uso di collettività sociali;
- non è una via di pratica ascetica, né una dottrina di perfezionamento morale, anche se questi sono elementi pedagogici utilizzati al suo interno;
- non è occultismo, teosofia, magia o pratica salutistica per la ricerca di poteri o anche solo di equilibrio psico-fisico perchè se anche le tecniche iniziatiche utilizzate conducono talvolta a manifestazioni corporee o psichiche in apparenza straordinarie, si tratta di fenomeni considerati dai maestri come passeggeri e contingenti, da tenere sotto controllo per l’acquisizione stabile di certe forme di conoscenza, o anche e meglio, per evitare pericoli, da rigettare del tutto secondo le indicazioni dei sufi più elevati.
Si obietterà che in tutto
questo non compare la parola amore, ma ciò accade semplicemente perchè questo, in
quanto legame universale, è il “fil rouge” del percorso e il veicolo per
eccellenza, non un fine in sé per sé. L’identificazione con l’Amato con il
conseguente annullamento di un qualsiasi rapporto dualistico Amato-Amante è un
adagio della poesia sufi di tutti i tempi.
Tornando dunque alle
considerazioni iniziali sul fatto che si può parlare di sufismo come pratica di
vita volta alla sfera spirituale vediamo come questo
abbia consentito a qualcuno di considerarlo in sintonia con quanto proposto
dalla New Age, anche perchè è
altrettanto difficile inquadrare quest’ultima in una definizione esaustiva.
Laddove gli esponenti di
questo movimento parlano di “stili di vita” o di “ambiente”, considerandolo
come un gran “contenitore” in cui poter accogliere fenomeni di “moda” o di
“costume” ecco che ci si può imbattere in pratiche
rituali “sufi” altrettanto quanto in dottrine yoga o tantriche, o buddistiche o
di qualsivoglia tradizione o movimento spiritualistico in generale. Una delle
caratteristiche peculiari alla New Age, in effetti, è quella di consentire la
pratica sincretistica di molti culti, senza tuttavia identificarsi in nessuno
di essi, altrettanto come di non considerarsi essa stessa un sincretismo, in quanto non si riconosce racchiudibile in un peculiare sistema filosofico o
religioso, sia pur esso derivato dalla mescolanza di altri.
Per cercare di approfondire alquanto cosa sia dunque la New Age che considera di sua
pertinenza anche il sufismo, cercheremo di far ricorso alle descrizioni datene
da osservatori e studiosi, descrizioni che si possono riassumere in quattro
punti complementari tra loro:
- una descrizione che parte da un punto di vista psicologico
- una di tipo storicistico
- una di tipo dottrinale
- una, infine, di tipo sociologico[1].
La descrizione di tipo
storico vede la New Age come un fenomeno di “risveglio” del teosofismo,
appoggiandosi sul fatto che fu Alice Bailey ad utilizzare per prima il
termine New Age ad Ascona negli anni ‘20. Nel 1962 un gruppo di suoi seguaci a
Findhorn, in Scozia, iniziò a coltivare un “giardino dello spirito” secondo le
indicazioni fornite dai “devas” o “spiriti della natura” associati alle piante;
Negli anni successivi analoghe iniziative sorsero in
California ove uno dei fondatori: David Spangler, divenne ben presto noto per
aver pubblicato alcuni dei più importanti documenti della New Age. Nel 1982, a
vent’anni dalla sua fondazione, affluivano a Findhorn “pellegrini” da tutto il
mondo, mostrando come la New Age, che solitamente viene
considerata un fenomeno americano, sia nata in realtà nella vecchia Europa per
poi diffondersi negli Stati Uniti e di lì rimbalzare in tutto il mondo.
La descrizione di tipo dottrinale
appare come la più difficile da arginare proprio perchè i vari “guru” della New
Age hanno spesso dichiarato di non avere una visione del mondo conclusiva, né
una dottrina specifica, perchè caratteristica loro peculiare è quella di essere
liberi da tutte le visioni del mondo e da qualsiasi dottrina. Da questo punto
di vista si tratta di praticare un certo “relativismo assoluto” caratterizzato
da un aspetto “volontaristico”, sulla base del quale ciascuno
può realizzare il proprio mondo ideale, trasformandolo e concretizzandolo in un
mondo reale. Cioè chiunque con un adeguato sforzo di volontà o di
concentrazione, seguendo una qualche “pratica” può costruirsi un mondo “ideale”
e trasformare il mondo oggettivo, quello in cui si
vive abitualmente, in questo mondo “ideale”.
E’ qui che si inserisce un’altra idea di fondo della New Age, quella
che più di ogni altro argomento la rende incompatibile con il sufismo o anche
con qualsiasi altra vera tradizione spirituale: l’idea che “Noi siamo Dio”
confondendo l’individualità con la persona e considerando l’aspetto spirituale
che si trova in ciascun essere umano, con la non ben identificata “energia
cosmica universale”. Una scintilla di tale energia si
troverebbe in ciascun individuo, secondo le formulazioni New Age, ma
dimenticata e sepolta sotto il peso delle scienze e delle religioni e può
essere risvegliata e riscoperta attraverso una delle mille tecniche a
disposizione che possono a tal fine, ben mescolarsi tra loro, non essendo
questione qui di interferenze tra psichismi di varia natura. Ed
ancor meno può dar pensiero il fatto che tale divinizzazione dell’io si scontra
con la credenza nella reincarnazione, molto diffusa tra i seguaci della New
Age, soprattutto quelli di derivazione teosofica. Naturalmente è appena il caso
di dire che nel sufismo non si trovano né egocentrismi panteistici, né
tantomeno contraddittòri reincarnazionismi e tutte le dottrine che possono dar
adito ad erronei parallelismi sono per lo più
fraintendimenti semplicistici di concetti metafisici molto elevati e complessi.
La descrizione di carattere
sociologico fa della New Age una network, una
struttura a rete di cui fanno parte in modo informale gruppi, circoli o
individui che hanno interessi comuni, ma che non fanno riferimento ad una
struttura organizzata, non essendo la New Age né un’organizzazione, né un
gruppo di affiliati, né una associazione di derivazione ideologica.
Elementi comuni possono
essere idee, ambienti, località, eventi, luoghi che fanno incontrare chi si sente
o si dichiara appartenente alla New Age e la “rete” che collega tra loro altre
reti è il concetto di nuova era in cui si incontrano ed interagiscono la rete delle spiritualità
alternative, quella delle terapie alternative e quella delle politiche
alternative; se ci si identifica con uno solo di questi gruppi non si è New
Age, ma se si partecipa a più di una di queste reti ci si può caratterizzare
come interessati alla New Age.
Tuttavia già a metà degli
anni ‘90 negli Stati Uniti si parlava di crisi della New Age e di spostamento di interesse sulla Next Age incentrata sul rinnovamento
volontaristico diretto dell’individuo che non si interessa più del rinnovamento
cosmico, universale da età dell’Acquario, bensì del proprio rigenerarsi
interiore che spesso è anche soltanto benessere individuale di tipo materiale.
Figura di spicco in questa nuova prospettiva è il medico indiano Deepak Chapra,
che ha tra i propri seguaci Madonna e Demi Moore.
E’ dunque nelle connotazioni
negative delle descrizioni di entrambi che si possono trovare i maggiori punti
di contatto tra New Age e Sufismo, perchè andando poi ad analizzare le componenti di ciascuno in positivo, si trovano punti di
divergenza così netti da far meravigliare che qualcuno possa trovare
compatibile partecipare dell’uno e dell’altra contemporaneamente.
Il fatto è che nella New Age
si trovano molti monconi di dottrine e pratiche cultuali del passato, frammiste
a concezioni di stampo occultistico o neospiritualistico, il tutto tenuto
insieme dalla necessità di ricercare equilibrio e benessere sia a livello
psichico, sia a livello corporeo.
Tutt’altra cosa è una via
iniziatica tradizionale e dunque il sufismo.
Essendo pratica di vita, il tasawwuf è anche insieme di persone che
tale vita attuano.
Persone che cercano approfondimento spirituale, apertura
verso esperienze conoscitive vere e volte alla sfera metafisica perciò
universale o anche, più semplicemente, risposte efficaci alle proprie domande
esistenziali.
Ma c’è anche la storia, cioè
c’è tutto il divenire di persone siffatte che da un inizio fino ad ora hanno cercato questo approfondimento spirituale.
Nell’islâm noto storicamente il tasawwuf
è nato con esso.
E’ nato quando il Profeta
dell’islâm ha cominciato a ritirarsi
sul monte Hira che ora è una piccola
collinetta nei sobborghi di Mecca, cui si accede con una camminata in salita di
circa due ore, sotto il sole secco e cocente, per un cammino di strada sterrata
cosparso di botteghini con bibite gasate ad ogni
curva. Su questo monte, nominato “monte della luce” ....
quello che sarebbe divenuto l’Inviato di Dio si ritrovò diverse volte nella
solitudine per concentrarsi e pregare Allâh, probabilmente con le forme di
culto legate alla filiazione spirituale degli hanif , gli arabi non politeisti, che seguivano il monoteismo
abramico.
Durante questa esperienza di
periodico romitaggio che il Profeta praticò diverse volte nell’arco di tre
anni, scaturì la rivelazione che diede origine all’islâm, ma che per la persona
di Muhammad fu anche apertura spirituale estrema, ricezione totale e servitù
perfetta di fronte a Dio, avvicinamento a Lui, Principio di Realtà nonchè Amorevole
dedizione all’Amato e suprema
acquisizione di conoscenza.
Questo archetipo dell’esperienza
sufi della khalwa, la pratica
dell’isolamento per concentrarsi
nella menzione di Dio, non è
immediatamente riscontrabile nella vita dei musulmani e nemmeno in quella di
tutti i primi compagni, perchè tale forma rituale esoterica, in quanto
interiore e riservata a pochi,
rimase sempre una pratica particolare, certamente tramandata nelle
cerchie interne delle varie turuq (le
vie interne al tasawwuf), ma per lo
più praticata solo da quei pochi che raggiungevano vette spirituali elevate.
E’ da dire, inoltre, che la
vita ascetica, di rinuncia ad una famiglia e al mondo,
propria del monachesimo cristiano che molti arabi beduini avevano avuto modo di
conoscere nei loro numerosi viaggi mercantili o nelle scorribande guerriere, è
stata espressamente indicata nell’islâm come non adatta ai musulmani. Un hadith sintetico sull’argomento è “non
c’è monachesimo nell’islâm”, mentre altri hadith
lo includono nell’ambito stesso della shari’a (la legge sacra) laddove, ad
esempio si dice che l’abluzione rituale di purificazione compiuta con acqua
fredda è equivalente alla pratica di ascesi dei monaci.
Ma l’esperienza spirituale
comunque perdurò tra i compagni del Profeta con altri modi, per esempio come
quando lo riconobbero, oltre che come Inviato di Dio, anche in
qualità di maestro spirituale, santo tra i santi, eletto e sigillo dei
Profeti. Alcuni compagni lo seguirono come, in tutti i tempi dell’islâm, i
musulmani appartenenti al tasawwuf
hanno seguito e seguono il loro shaikh, il maestro, la guida nella via di Dio, per Dio e in Dio.
Tra essi alcuni, gli “ahl al-suffa”
ossia le “genti della tettoia” avevano scelto di vivere in assoluta povertà,
senza cercare mezzi di sussistenza, pur di essergli il più
possibile vicini in corpo ed in spirito. Altri, come Abu Bakr o Alî
ebbero una vita sociale intensa senza per questo rinunciare alla prossimità a
Dio e al Suo Inviato, tanto che figurano subito dopo di lui, ai vertici delle
catene di trasmissione dell’influenza spirituale che vivificano di generazione
in generazione quasi tutte le vie particolari note come turûq (sing.: tariqa).
Non sono poi assenti
riferimenti diretti al “maestro ineriore”, ossia al riconoscimento dell’eredità
spirituale muhammadiana, ricevuta per via interiore diretta, senza il supporto
fisico del maestro, al modo di Uways al-Qaranî che seguì gli insegnamenti del
Profeta, pur non avendolo mai visto in vita, sebbene fosse suo contemporaneo.
Ma questi sufi “uwaysî”, a quanto se
ne sa, sono pochissimi e rientrano nelle modalità
eccezionali di trasmissione dello spirito nell’ambito del tasawwuf; inoltre il
riconoscimento del “maestro interiore” è una delle cosiddette “tappe” del
viaggio iniziatico per coloro che, appartenendo ad una via regolare, percorrono
una via di avvicinamento a Dio percepita come graduale.
Per esplorare alquanto il
punto di vista “tecnico” della via iniziatica islamica, diremmo che il rito per
eccellenza è l’ormai famoso “dhikr”:
ricordo, menzione, evocazione, invocazione di Allâh, che nei gradi più elevati
di concentrazione è stato anche definito come rito di
“incantazione” in quanto aspirazione interiore e totale dell’essere verso
l’Universale, che in termini islamici può anche indicarsi come realizzazione
della Presenza (hadra) divina.
Ma questo rito, nella sua modalità iniziatica, non è praticabile in modo legittimo e
diviene un veicolo di squilibrio psichico se non vi siano ben salde le premesse
per far sì che sia effettivamente operativo. Tali premesse sono essenzialmente
tre:
- la necessità del patto iniziale di collegamento ad una vera via, viva ed agente, che spesso si esprime con il ricevere la possibilità di praticare gli “awrâd” della tariqa, ossia la menzione rituale di versetti coranici o particolari eulogie sul Profeta atti a stabilire il legame spirituale con la silsila o catena iniziatica di appartenenza;
- la necessità che vi sia la guida di un maestro in grado di trasmettere tale rito, in quanto conoscitore per eccellenza della modalità più appropriata alla progressione spirituale del discepolo;
- che si mantenga operante, il legame con l’exoterismo di supporto che nel caso specifico del tasawwuf altro non è se non la pratica dell’islâm nella sua modalità esteriore di religione e legge sacra.
Diverse scienze esoteriche sono presenti all’interno
del tasawwuf, per esempio l’alchimia
o l’astrologia o la chirologia, per dirne alcune, ma esse non sono considerate
altro che sviluppi parziali della vera conoscenza, sapienziale e profetica che
non ha altra finalità che il raggiungimento di un tahwid perfetto con
l’annullamento dell’io individuale nella conoscenza
del Sé impersonale, ossia del Principio divino, Dio Vero.
Il cammino iniziatico, a volte formulato a tappe, a
volte effettuato con un subitaneo processo di rapimento spirituale, è noto per
il suo necessitare una disposizione favorevole dell’anima a riconoscersi pienamente
debitrice dello Spirito.
Si tratta del raggiungimento del fana’ dell’estinzione
dell’anima (nafs) di fronte al
Principio Ultimo che opera mediante lo Spirito (rûh). Ma nella raffigurazione simbolica del cammino iniziatico come
un viaggio, questo percorso è identificato al viaggio orizzontale, del raggio
che dalla circonferenza (il mondo esteriore) si dirige verso il centro (il
cuore dell’aspirante) percorrendo sì una via spirituale, ma
ancora rivolta alla liberazione dell’anima dalle passioni e da ogni forma di
egoismo ed egocentricità, per raggiungere la condizione di equilibrio
dell’anima pacificata (al-nafs
al-mutmaynna), luogo per eccellenza della pace divina paradisiaca (al-salâm). Solo dopo il raggiungimento
di questo stadio di equilibrio e di ricettività interiore si potrà avere
accesso alla percorrenza verticale della effettiva
conoscenza spirituale.
Non si tratta quindi di sperimentare esperienze
psichiche alternative o di seguire dottrine rigeneratrici concepite come
successive reincarnazioni, si tratta semmai di conoscere le condizioni
limitative della propria identità di essere umano, per trascenderle mediante
mezzi adeguati di carattere tradizionale e spirituale. Solo dopo questa prima “politura” dello “specchio del cuore” si avrà
effettiva apertura spirituale, non nel senso che prima non v’era presenza dello
Spirito, ma nel senso che dopo se ne acquisisce la coscienza.
E’ in questo stadio di apertura che si può
verificare facilmente, il manifestarsi dei fenomeni noti come “poteri” o “effetti
miracolosi”. Tutto questo, tuttavia, è sempre stato considerato come nullo di
fronte all’effettiva realizzazione spirituale e ogni qualvolta tali fenomeni si
sono verificati sono sempre stati considerati come
elementi accidentali, da non ricercarsi di per sé stessi. Laddove in certe turuq vengono
praticati riti implicanti il passaggio sulle braci ardenti o l’uso degli spiedi
bollenti o ancora il trafiggersi con spade o spilloni, come ad esempio nella tariqa rifa’iyya, si tratta di rituali atti a dimostrare certe modalità di
rottura delle consuetudini proprie alla Potenza divina e per lo più erano
modalità adatte a certi strati guerrieri della popolazione, non da tutti
praticati e senz’altro circoscritti e controllati dallo shaikh, pena il disconoscimento dell’effettiva operatività
spirituale, con le conseguenze disastrose che si possono ben immaginare.
E’ la confusione tra mondo psichico e sfera
spirituale che genera spesso indebite attribuzioni e l’attrazione per i
fenomeni ne è uno degli aspetti più evidenti. In un mondo in cui la scienza
riduce tutto all’uomo, in cui la religione viene
sostituita con la più indeterminata religiosità, è più che legittimo chiedersi
se è possibile incontrare un vero maestro in grado di farci riconoscere la
differenza fra suggestioni di natura animica (awhâm min al-nafs) ed
intuizioni d’ordine spirituale (tajalliyyât)
e a questo proposito non posso far a meno di ricordare le parole di un maestro
che solo da qualche anno ha lasciato questo mondo: Il tasawwuf non è sogni e poesie (rû’iyy
am waridât), ma epifanie divine e beatitudini del paradiso (tajalliyyât wa ni’matu-l-janna).
Il tasawwuf
dunque, come via iniziatica, ossia via spirituale
necessitante di una trasmissione iniziale dello spirito mediante un particolare
rito di ricezione, è quindi una via esoterica, cioè interiore, riservata a
pochi. Si potrebbe dire, con un eco di cristianesimo, che si tratta di una via
propriamente riservata agli “eletti” fra i “chiamati”, comunque pervasa
dell’eredità sacrale del Profeta Muhammad, sigillo degli altri profeti. E’ la
via degli amanti “perduti d’Amore” per Dio ed in Lui
ed è per eccellenza via di conoscenza di sé, perchè “chi conosce sé stesso
conosce il Suo Signore”. Non è solo ricerca di una Via
unificatrice ed unificante, ma raggiungimento e pratica del più puro tahwid, la professione dell’Unicità
Divina. In tal senso non sarà
questione di ricerca della felicità o di un imprecisato Sé da confondersi con
un Super-Io, ma naturalmente del ripristinare in noi il Sé divino che informa la
trascendenza umana e che nulla ha a che fare con l’io dell’individuo
egocentrico pervaso della propria anima.
Il concetto di questa terza persona, diversa dall’io e dal Tu, esprime innanzi tutto la trascendenza di Dio
rispetto all’uomo e al mondo e se anche versetti coranici ed ahadith indicano
la possibilità per il cuore dell’uomo di contenerLo, gli stessi passi ne
indicano tuttavia la distinzione e ribadiscono la subordinazione dell’uomo
rispetto a Dio: “Né i cieli, né la terra Mi contengono, ma Mi contiene il cuore del Mio servo fedele”.
E’ dunque chiaro che nessuna pratica rituale o
tecnica di liberazione, nessuno sforzo dell’uomo potrà mai salvarlo senza la
Presenza sacra ed effettiva di Dio e la preghiera non può intendersi solo come
riscoperta o risveglio dell’io profondo, ma è da potersi considerare innanzi
tutto come puro e disinteressato atto di adorazione, chè a Dio spetta la Lode e
dunque a Lui sia Lode.
Articolo
pubblicato sulla rivista “Idea, il Giornale del Pensiero”. Ed. Gei
[1] Il
materiale per queste descrizioni è tratto da una comunicazione inedita di Ali
Musafir Domenico Paterna della tariqa Jerrahi Halveti, gentilmente offertami in
occasione del convegno Identità e pluralità nelle città d’Europa, tenutosi a
Milano il 14-15 e 16 Giugno 2000.
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