L’inferno dantesco e «Il liber Scalae Machometi»
Nel canto
XXXI dell’Inferno, il gigante Nembrot grida le seguenti parole: “Raphèl maì amècche zabì almi”(v. 67).
A
proposito di tale verso, sono state ipotizzate molte differenti
interpretazioni, nel tentativo di ascrivere ciascun termine alla lingua ebraica[1],
oppure a quella araba. Senza entrare nel merito della legittimità delle proposte
suggerite dagli studiosi, preme soltanto segnalare che nel 1866, Charles H.
Schier pubblicò un proprio saggio[2]
per attestare che Dante conosceva le lingue semitiche e in particolare l’arabo.
Lo studioso
si schierava dunque a favore di quanti consideravano la cultura Islamica quale
elemento essenziale di confronto e fonte di ispirazione per la società
occidentale, in età medievale: una prospettiva che, nel corso degli ultimi decenni,
è stata ampiamente documentata, come ben attestano i saggi di Alessandro
Bausani (La tradizione arabo-islamica
nella cultura europea, in “I
quaderni di Ulisse, giugno 1977) e Maria Rosa Menocal (Principi, poeti e visir,trad. M. E.
Morin, Il Saggiatore, 2003), un libro appassionato che ricostruisce la storia
dei rapporti culturali e sociali intercorsi tra arabi, cristiani ed ebrei nella
penisola Iberica, a partire dal 755 e cioè da quando un principe islamico, Abd
al-Rahman, fuggito da Damasco, aveva fondato il proprio regno in Andalusia (ad
al-Andalus), sino al 1492, ossia l’anno della cacciata di mori ed ebrei dalla
Spagna.
Limitandoci
al caso di Dante, appare fondamentale punto di partenza la tesi sostenuta nel
1919 dall’islamista Miguél Asin Palacios, autore del ben noto saggio Dante e l’Islam. L’escatologia islamica
nella Divina Commedia.
Effettuando
una comparazione tra il poema dell’Alighieri e alcuni manoscritti arabi, che
narrano il viaggio del profeta Maometto nell’aldilà, Palacios colse somiglianze
rilevanti, sia sotto il profilo simbolico, sia sotto il profilo formale.
Il sintetico
riassunto di uno dei manoscritti analizzati dallo studioso può, da solo,
illustrare il realismo delle pene che affliggono i dannati dell’inferno
musulmano; leggiamo infatti che Maometto, accompagnato da due guide
nell’inferno, ha modo di osservare una serie di raccapriccianti supplizi: “Vede
per primo un uomo a terra supino e al suo fianco, in piedi, un'altra persona,
uomo, angelo o demone: costui tiene nella propria mano un enorme masso o pilone
di pietra, che scaglia violentemente sulla testa della sua vittima,
schiacciandogli il cervello; il masso rotola, e quando il carnefice torna con
esso al fianco della vittima, già il capo di questa riappare integro e sano, affinché
il boia possa ripetere indefinitamente il suo supplizio.
Maometto, spaventato
alla vista di uno spettacolo tanto atroce, vuole sapere di quali colpe sia rea
la vittima, ma le sue guide lo obbligano a proseguire il cammino, finché
trovano un uomo seduto, vicino al quale un altro carnefice, in piedi, introduce
alternativamente in ognuna delle commessure della bocca un arpione di ferro che
gli strazia le guance, gli occhi e le narici.
Un po' più in là si presenta
alla sua vista un fiume rosso di sangue, agitato come se fosse pece bollente,
tra le cui onde nuota a fatica un uomo che lotta per guadagnare la riva; ma nel
giungere a questa ecco che un feroce boia lo aspetta con la mano piena di
pietre roventi come braci e con violenza gliele introduce in bocca
facendogliele inghiottire e obbligandolo a ritornare a nuoto fino al centro del
fiume. E il supplizio si ripete, come i precedenti, all'infinito.
Più in là
una costruzione a torre, stretta in alto e larga in basso, s'innalza davanti
agli occhi dei viaggiatori. Si ode una confusa gazzarra di voci umane
attraverso le mura. Una volta entrato all'interno, Maometto vede che esso è
come un forno acceso, tra le cui fiamme si agitano donne e uomini nudi, che
alternativamente sono scagliati fino alla bocca superiore del forno dalla forza
delle fiamme, o scendono fino al fondo, a seconda che l'ardore del fuoco
aumenti o diminuisca; la scena si ripete con un ritmo incessante, che i lamenti
delle vittime sottolineano”[3].
L’uomo dal
capo schiacciato è l’ipocrita; il dannato con il volto straziato dagli arpioni
è il bugiardo; l’uomo che nuota nel fiume di sangue è l'usuraio; quelli che
bruciano nel forno sono gli adulteri. Non è difficile cogliere il contrappasso,
il rapporto di analogia tra colpa commessa e punizione. Occorre peraltro
osservare che una forma di contrappasso è implicata anche nella legge mosaica
del taglione.
Un confronto
tra la pianta dell’inferno musulmano e la pianta dell’inferno dantesco offre
peraltro un buon parametro per valutare l’analogia formale esistente tra le due
rappresentazioni ‘geografiche’ dell’aldilà. [Tav. 1]
Tav. 1 [Immagine tratta dal testo di Miguel Asín Palacios, Dante e l’Islam. L’escatologia islamica
nella Divina Commedia,
trad. R. Rossi Testa e Y. Tawfik, vol. I, Pratiche
editrice, Parma 1993].
Nel 1949 lo
studioso italiano Enrico Cerulli fornì un’edizione a stampa del Liber Schalae Machometi[4]. Si tratta di un testo arabo dell’VIII
secolo, tradotto in castigliano da Abraham Alfaquì, presso la corte toledana di
Alfonso X il Savio, tra il 1264 e il 1277, e poi tradotto in latino e francese
dal notaio Bonaventura da Siena. Il viaggio del profeta si compie con la guida
dell’arcangelo Gabriele (arcangelo della rivelazione e della conoscenza,
secondo un itinerario che procede, salendo la scala menzionata nel titolo,
dagli 8 cieli del paradiso verso le 7 terre dell’inferno, per un totale di 85
capitoli). Il capitolo 54 segna il passaggio all’inferno, la cui descrizione si
protrae sino al 79, nel quale Maometto riceve il mandato di raccontare agli
uomini ciò che ha visto, affinché possano salvarsi dall’eterna dannazione.
Cap.
LXXIX 202 [...] Post hec autem dixit michi Gabriel: "Machomete,
habes tu bene cordetenus omnia que vidisti?" Ego quidem respondi:
"Utique". Tunc ipse: "Vade ergo et prout hec vidisti, sic
omnia tuo dicas populo et ostendas ut ea sciant, et legis teneant viam
rectam; pensent eciam et procurent quod in Paradisum vadant et se custodiant
ab inferno".
|
[...] Al che Gabriele mi disse:
"Maometto, ti sei bene impresso nel cuore tutto quel che hai
visto?" E io risposi di sì. Allora lui disse: "Va', dunque, e tutto
quello che hai visto, riferiscilo e illustralo ai tuoi, affinché lo sappiano,
e si tengano nella giusta via della legge, e pensino e facciano in modo di
meritarsi il Paradiso e di scampare all'Inferno". (trad. R. Rossi Testa)
|
E' lo stesso
mandato che Dante riceve da Beatrice, nel momento in cui sta per accomiatarsi
dal Purgatorio, come rileva opportunamente Carlo Ossola [5].
Tu nota; e sì
come da me son porte,
queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a
la morte
(Purgatorio, XXXIII, vv. 52-54)
Vale la pena
sottolineare che la terzina dantesca è suffragata da fonti Bibliche,
puntualmente indicate da Ossola.
Il Liber
Scalae è stato attentamente studiato da Maria Corti, che ha dimostrato una
inequivocabile conoscenza del testo da parte di Dante; proprio in riferimento
ai seminatori di discordia, il poeta fiorentino, cedendo la parola al
personaggio di Bertran de Born, spiega che l’orribile mutilazione è in stretta
pertinenza con la colpa commessa:
Perch’io
parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo
principio ch’è in questo troncone.
Così s’osserva in me lo contrappasso.
(Inferno, XXVIII, vv.139-142)
Il
contrappasso è spiegato anche nel capitolo 79 del Liber Scalae.
CAPITOLO
LXXIX
199. E quando Gabriele ebbe concluso la sua relazione io, Maometto,
profeta e nunzio di Dio, vidi i peccatori tormentati all'inferno in tanti modi
diversi, per cui nel mio cuore sentii una così grande pietà che per l'angoscia
cominciai tutto a sudare; e vidi alcuni tra loro ai quali venivano amputate le
labbra con forbici infuocate. E allora chiesi a Gabriele chi fossero. E lui mi
rispose che erano quelli che seminano parole per mettere discordia fra le
genti. Ed altri, a cui era stata amputata la lingua, erano quelli che avevano
testimoniato il falso.
200. Ne vidi altri appesi per il membro ad uncini di
fuoco, ed erano quelli che nel mondo avevano commesso adulterio. E dopo vidi un
grande stuolo di donne, in numero quasi incredibile, e tutte erano appese per
la matrice a grandi travi infuocate. E queste pendevano da catene di fuoco,
così straordinariamente ardenti che nessuno sarebbe in grado di esprimerlo. E
io chiesi a Gabriele chi fossero quelle donne. E lui mi rispose che erano
meretrici che non avevano mai abbandonato fornicazione e lussuria.
201. E vidi
ancora molti uomini bellissimi d'aspetto e molto ben vestiti. E capii che erano
i ricchi tra la mia gente, e tutti bruciavano nel fuoco. E chiesi a Gabriele
perché bruciassero così, poiché sapevo bene che facevano molte elemosine ai
poveri. E Gabriele mi rispose che pur essendo elemosinieri, erano gonfi di
superbia e infliggevano molte ingiustizie alla gente minuta. E così vidi tutti
i peccatori, ognuno tormentato con supplizi diversi, a seconda dei suoi particolari peccati. (trad. R. Rossi Testa)
Recatosi nel
1260 a Toledo, alla corte di Alfonso di Castiglia, quale ambasciatore della
Repubblica fiorentina, Brunetto Latini può ipoteticamente essere considerato il
tramite per una trasmissione orale del Liber Scalae, al suo ritorno a Firenze.
L’intermediazione di Brunetto Latini vale a giustificare la conoscenza del
Liber stesso da parte di Dante, ma a ciò si aggiunge anche il fenomeno della
interdiscorsività che consente il passaggio di parole e concetti tra due
culture che sono a stretto contatto, in modo spontaneo, senza che sia poi
possibile decifrarne la fonte.
In una
lettera indirizzata a Giovanni Dondi (Seniles, XII, 2), il Petrarca scriveva:
"Arabes vero quales medici tu scis. Quales autem Poetae scio ego, nihil
blandius, nihil mollius, nihil enervatius, nihil turpius"! Il
commento del Petrarca, pur nella negatività espressa, ci conferma che la
cultura araba, non solo nei suoi aspetti scientifici, ma anche letterari, era
ben nota e diffusa in Toscana, ancora nel XIV secolo.
Per quanto
riguarda l’età medievale, basterà invece riflettere su queste parole di Paolo
Àlvaro: “I cristiani amano leggere le poesie e le storie d'amore degli arabi;
studiano i teologi e i filosofi arabi, non per confutarli ma per apprendere un
arabo corretto ed elegante. Quale laico oggi legge i commentari latini alle
Sacre Scritture o studia i Vangeli, i profeti o gli apostoli? Ahimè! Tutti i
giovani cristiani di talento leggono e studiano con entusiasmo i testi arabi;
mettono insieme immense biblioteche molto costose; disprezzano la letteratura
cristiana giudicandola indegna di attenzione. Hanno dimenticato la loro lingua.
Per ogni persona capace di scrivere una lettera in latino a un amico, ve ne
sono mille che sanno esprimersi in arabo con eleganza e scrivono poesie in
questa lingua meglio degli stessi arabi” [6].
Il versante
della poesia può dunque ispirare alcune significative letture, per quanto
cariche di blandizie, sensualità e mollezze. Ibn Hazm, nato a Cordova nel 994,
è autore di un trattato sull’amore: Il
collare della colomba, definito da Francesco Gabrieli, che lo tradusse nel
1949, “un pilastro della tesi araba sulle origini della lirica provenzale, per
quanto riguarda le affinità concettuali” [7].
L’opera di
Hazm è suddivisa in XXX capitoli; in ciascuno di essi i versi sono corredati da
un ampio testo in prosa; la selezione poetica di seguito proposta è tratta dal
capitolo V, Su chi amò a un solo sguardo.
Come accade nella tradizione occidentale, la fenomenologia amorosa si esplica
attraverso la comunicazione visiva, che comporta una sofferente reazione a
carattere psicodrammatico.
Il mio occhio
si è reso colpevole di avere inflitto al cuore
il tormento dei pensieri
d'amore, e il cuore,
per vendicarsi dell'occhio, ne ha fatto scorrere le
lacrime.
Come puoi considerare l'azione delle lacrime qual giusta
vendetta
sull'occhio, con l'annegarlo addirittura
nelle fluenti sue stille di
pianto?
Mai l'avevo vista prima, sì da conoscerla, e l'ultima volta
che l'ho
vista fu quel momento in cui la guardai.
Supposto che
esistano analogie o affinità tra alcuni aspetti della letteratura araba e della
letteratura europea, è necessario ipotizzare i tramiti di diffusione della
cultura islamica in Europa e in particolare nella nostra penisola. A
prescindere dalle città spagnole soggette alla dominazione araba, si possono
individuare alcuni altri determinanti fattori:
·
il
ritorno in Italia di religiosi recatisi in Oriente con finalità
evangelizzatrici: il francescano spagnolo Raimondo Lullo, conoscitore e
imitatore delle dottrine di Ibn 'Arabi [8],
ebbe una straordinaria cultura islamica, fra il 1287 e il 1296 soggiornò a
Roma, a Genova, Pisa e Napoli; il domenicano fiorentino Riccoldo da Monte
Croce, dopo aver predicato il Vangelo in Siria, Persia e Turkestan, dal 1288 al
1301, ritornò al monastero di Santa Maria Novella, in Firenze e morì nel 1320,
a settantaquattro anni, dopo aver redatto il suo libro Contra legem sarracenorum o Improbatio
Alchorani; al capitolo XIV, l’autore tratta della leggenda del mi'rag [9]. Peraltro
nel Dittamondo (1350-1360) di Fazio
degli Uberti, il personaggio di Riccoldo espressamente ricorda il Liber Scalae:
Ancor nel
libro suo, che Scala ha nome,
dove
l’ordine pon del mangiar loro,
divisa e scrive qui ogni buon pome.
Vasellami
d’ariento e d’oro,
dilicate vivande e dolci stima
su per le mense, ove faran
dimoro.
De le vivande, dice che la prima
iecur,
fegato, è e pesce apresso,
poi albebut [10], che d’ogni cibo è cima
(XII, 94-102).
·
l’influenza
della cultura scientifica, filosofica e soprattutto dell’alchimia;
·
la
presenza a Pisa di prigionieri musulmani;
·
il
soggiorno di trovatori italiani alla corte di Alfonso il Saggio;
·
le tappe
di scalo dei navigatori e dei mercanti italiani a Barcellona e nei porti
musulmani dell'Africa e del Levante;
· il ruolo del mercante di Pisa Leonardo
Fibonacci che introdusse in Italia le norme di calcolo con le cifre arabe.
L’influenza
del mondo arabo si può peraltro cogliere anche nelle fogge dell’abbigliamento,
come documentano le fonti iconografiche.
Nel 1423, Palla Strozzi, uno degli
uomini più abbienti di Firenze, commissionò a Gentile da Fabriano L’adorazione dei Magi (Firenze,
Uffizi). La scena riflette il clima cortese che domina la cultura del gotico
internazionale: i Magi hanno le sembianze di elegantissimi campagne di un
universo fiabesco; l’abito della donna in primo piano, a sinistra, sfoggia
tessuti e motivi ornamentali di produzione islamica, secondo i
dettami di una moda esotica assolutamente disinibita rispetto a
possibili contaminazioni culturali: ciò che interessa è il calligrafismo dei
disegni e non il loro contenuto simbolico. Questa moda giunse da Baghdad a
Granada, per poi diffondersi in Europa.
Nel 1133, le botteghe tessili di
Palermo produssero il famoso mantello per l’incoronazione di Ruggero II il
normanno, re di Sicilia: il margine del mantello stesso è ricamato con motivi
tipici della calligrafia cufica, che tradotti significano: “Questa fu fatta
nell’officina reale (tirāz) per la buona fortuna e l’onore supremo e la
perfezione e la forza e il meglio e la capacità e la prosperità e la custodia e
la difesa e la protezione e la buona fortuna e la salvezza e la vittoria e
l’abilità. Nella capitale della Sicilia nell’anno 528 (dell’Egira)
(1133-1134)” (traduzione da Johns, I
Titoli Arabi, p. 40).
Alla luce
delle componenti multiculturali che caratterizzano la società medievale, non è
dunque difficile ipotizzare ricerche intertestuali che esulano dalla
prospettiva europeista. Nel XX secolo, lo studio dei poeti persiani Attâr (Il verbo degli uccelli, Se, Milano 1986)
e Sanâ (Viaggio nel regno del ritorno,
Pratiche, Parma 1993), che descrivono nei loro poemi esperienze mistiche e
viaggi dell’anima nell’aldilà, ha suggerito infatti di indagare le possibili
consonanze tra Dante e le concezioni amorose espresse nella cultura araba. Il
terreno d’indagine coinvolge in particolare la poetica del dolce stil novo e la
figura della donna-angelo.
Un’ulteriore
pista di ricerca è quella suggerita da Gotthard Strohmaier che presuppone un
canale ebraico per la divulgazione delle tematiche arabe. Secondo l’ipotesi
avanzata dallo studioso, il poeta ebreo Abrham Ibn Esra, traduttore del
racconto di Avicenna, Hayy ibn yaqzan (Il vivente, figlio del vigilante),
potrebbe aver ispirato, mediante la sua opera, l’impianto strutturale della
commedia dantesca. Non è forse irrilevante sottolineare la presenza dello
stesso Ibn Esra in Verona, nella prima metà del XII secolo: in questa città,
l’insegnamento di alcuni rabbini esperti di escatologia islamica può veramente
aver contribuito a diffondere la cultura del confronto.
A ciò si
aggiunge il fatto che la corte di Can Grande della Scala accolse profughi e
dissidenti, rivelando grande apertura verso una pluralità di etnie e religioni.
Un poeta ebreo, Immanuello, contemporaneo e amico di Dante, nell’opera Bisbidis, dedicata al signore di Verona,
scrive: “In quell’acqua chiara / Che ‘l bel fiume [11] schiara / la mia donna cara [12] / Vertù fa regnare /[...] Qui Babbuini / Romei et Pellegrini, / Giudei
et Sarracini / Vedrai capitare” [13]. Immanuello è anche autore di Ha-Tofet
ve-ha-Eden, L’inferno e il Paradiso,
ovverosia il racconto di un viaggio nell’aldilà in compagnia del profeta
Daniele, il profeta rispetto al quale “Dante commisurò la propria opera e la
sua stessa vita” [14].
Nel 1921,
all’interno dell’arca di Can Grande, fu rinvenuto un prezioso guardaroba di
tessuti islamici: ciò non stupisce, data la passione di questo signore per il
mondo arabo. Peraltro è possibile ipotizzare che anche la sua collezione
libraria si fosse arricchita di testi arabi e forse di quello stesso Liber Scalae, ricordato – come detto in
precedenza – da Fazio degli Uberti che, ospite di Mastino II, consultò le opere
della biblioteca scaligera, la stessa frequentata dall’Alighieri.
Dante è un
autore canonico della cultura occidentale che deve essere letto anche in una
dimensione anticanonica. Un testo canonico rappresenta una sorta di pietra di
paragone, nella lettura e nell’insegnamento della letteratura, ma sono proprio
le componenti non occidentali, per così dire non ortodosse rispetto alla
tradizione, a chiarirci la complessità e la versatilità di un’opera. Le fonti
di Dante sono dunque molteplici e non soltanto classiche: affondano radici
nella produzione islamica ed ebraica, perché la civiltà europea medievale,
presso le corti di alcuni illuminati signori, si basava proprio su questi
continui raffronti. La supervalutazione del debito della cultura occidentale
rispetto al mondo classico ha invece agito in modo tale da rimuovere il dovuto
riconoscimento nei confronti di altre culture, la cui fede religiosa presentava
tratti spiccatamente monoteistici e dunque potenzialmente concorrenziali.
Potremo a
questo punto chiudere la nostra breve esposizione con una sequenza narrativa
che funge da vero e proprio elogio della tolleranza, in chiave metaforica. La
3^ novella della I giornata del Decamerone, attraverso la simbologia dei tre
anelli, fornisce una oculata risposta in merito a quale legge “o la giudaica o
la saracina o la cristiana” sia la verace: “E così vi dico, signor mio, delle
tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion
proponeste: ciascun la sua eredità, la sua vera legge ed i suoi comandamenti
dirittamente si crede avere e fare, ma chi se l'abbia, come degli anelli,
ancora ne pende la quistione”.
Tali parole
hanno peraltro un possibile termine di riscontro in quelle scritte da Ibn
‘Arabi attorno al 1230: “Il mio cuore può prendere qualunque forma: è un prato
per gazzelle ed un convento per monaci cristiani. Un tempio per idoli, e per la
Ka'aba dei pellegrini, e per le tavole della Torah, e per il libro del Corano.
Segue la religione d'amore: qualunque sia la direzione dei cammelli del mio
amore, lì stanno la mia religione e la mia fede”. (Dalla raccolta poetica Tarjuman al-Ashwaq, ovvero L'interprete dell'ardente desiderio)
[1]
Nel 1909, il Guerri interpretava il verso, rapportandolo all’ebraico della
vulgata, tradotto in latino da San Gerolamo, attribuendogli il seguente
significato: “Giganti! Che è questo? Gente lambisce la dimora santa”.
[2]
Ciel et Enfer ou description du globe céleste arabe qui est conservé au Musée
Mathématique Royal de Dresde (en latin et en allemand) suivie d’un Supplément
des Commentaires sur la « Divine Comédie » de Dante Alighieri (en
français), par Charles H. Schier. Dresde et Lipsie, Teubner, 1866.
[3]
Miguel Asín Palacios, Dante e l’Islam.
L’escatologia islamica nella Divina Commedia, trad. R.Rossi Testa e Y.
Tawfik, vol. I, Pratiche editrice, Parma 1993
[4]
Enrico Cerulli, Il «Libro della Scala» e
la questione delle fonti arabo-spagnole della «Divina Commedia», Biblioteca
Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1949
[5]
Cfr l’introduzione di Carlo Ossola, al testo di Miguel Asín Palacios, Dante e l’Islam. L’escatologia islamica
nella Divina Commedia, trad. R.Rossi Testa e Y. Tawfik, vol. I, Pratiche
editrice, Parma 1993
[6]
Il passo citato è stato estrapolato dal testo di Maria Rosa Menocal, Principi, poeti e visir, trad. M.E.
Morin, Il Saggiatore, 2003.
[7]
Ibn Hazm, Il collare della colomba,
traduzione dall’arabo di F. Gabrieli, Laterza, Bari 1949.
[8]
Si tratta del mistico andaluso, morto nel 1240, autore di Kitâb al isrâ, narrazione del viaggio notturno di Maometto.
[9]
La leggenda del mi’rag (ascensione) è da ricollegarsi al 1° versetto della XVII
Sura del Corano: “Gloria a Colui che di notte trasportò il Suo servo dalla
Santa Moschea alla Moschea remota di cui benedicemmo i dintorni, per mostrargli
qualcuno dei Nostri segni. Egli è Colui che tutto ascolta e tutto osserva”. L’interpretazione
allude al mistico viaggio di Maometto dalla Moschea della Mecca a quella di
Gerusalemme.
[10] La menzione di albebuth è
riportata nel testo di Riccoldo, Contra
legem Sarracenorum (150-54): “In libro autem de Doctrina Mahometi, qui est magne auctoritatis, exponit ordinem
comestionum, et dicit quod primum ferculum quod proponetur ìbi erit iecur
piscis Albebuth, cibus summe delectabilis, et postea succedent fructus arborum”.
[11] Il fiume è evidentemente l’Adige.
[12] Immanuello allude alla sapienza.
[13] MANOELLO GIUDEO, Bisbidis, a
cura di A. Contò, Colpo di fulmine, Verona 1997.
[14] IMMANUELLO ROMANO, L’Inferno e
il Paradiso, introduzione, note, commenti di Giorgio Battistoni, trad. E
Weiss Levi, La Giuntina, Firenze 2000, p.XIX.
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