Ibn ‘Arabî
Il libro della Verità - II*
(segue)
SEZIONE (FAṢL)
Quanto alla emanazione (sudûr) [o: al procedere] delle cose da
Lui, non è ammissibile che Egli, Gloria a Lui l'Altissimo, sia l'origine (maṣdar) di una cosa, se non in senso
metaforico (bi-ḥukmi l-majâz)[1],
e se è in senso metaforico e non in senso vero (bi-ḥukmi l-ḥaqîqa) non possiamo impiegare questa
espressione poiché non è pervenuta l'autorizzazione (idhn) al riguardo.
È indispensabile per noi applicare a Lui solo [quelle espressioni] che Egli ha utilizzato riguardo a Se stesso, e che ci è stato così autorizzato di applicare a Lui, tanto che i realizzati tra di noi negano che si possa utilizzare nei Suoi riguardi, Gloria a Lui, il termine “Qualità (ṣifât)” poiché non è pervenuta alcuna autorizzazione in merito, mentre usano per Lui il termine “Nomi (asma’)” in quanto è pervenuta l'autorizzazione a farlo[2]. Quanto è più forte la loro proibizione (taḥrîm) [di usare termini inappropriati] nei confronti della Divinità (ulûhiyya), la soddisfazione (riḍwân) di Allah sia su di loro! Ho constatato personalmente, tra i loro realizzati, un fermo rifiuto (inkâr) ad adoperare il termine “eternità (qidam)” riguardo a Lui; [uno di loro] ha detto: “Non si addice impiegare per Lui, Gloria a Lui, questo termine, anche se razionalmente (‘aqlan) Egli è Colui che è denominato (musammâ) dal suo significato!”, e non ha detto: “qualificato (man‘ût) dal suo significato”, in modo che non fosse attaccato a Lui ciò stesso che egli rigettava e rifiutava.
È indispensabile per noi applicare a Lui solo [quelle espressioni] che Egli ha utilizzato riguardo a Se stesso, e che ci è stato così autorizzato di applicare a Lui, tanto che i realizzati tra di noi negano che si possa utilizzare nei Suoi riguardi, Gloria a Lui, il termine “Qualità (ṣifât)” poiché non è pervenuta alcuna autorizzazione in merito, mentre usano per Lui il termine “Nomi (asma’)” in quanto è pervenuta l'autorizzazione a farlo[2]. Quanto è più forte la loro proibizione (taḥrîm) [di usare termini inappropriati] nei confronti della Divinità (ulûhiyya), la soddisfazione (riḍwân) di Allah sia su di loro! Ho constatato personalmente, tra i loro realizzati, un fermo rifiuto (inkâr) ad adoperare il termine “eternità (qidam)” riguardo a Lui; [uno di loro] ha detto: “Non si addice impiegare per Lui, Gloria a Lui, questo termine, anche se razionalmente (‘aqlan) Egli è Colui che è denominato (musammâ) dal suo significato!”, e non ha detto: “qualificato (man‘ût) dal suo significato”, in modo che non fosse attaccato a Lui ciò stesso che egli rigettava e rifiutava.
Egli, Gloria a Lui, è troppo
elevato per essere l'origine delle cose, per la mancanza di correlazione (munâsaba)[3]
tra il possibile (mumkin) [45a] ed
il necessario (wajîb)[4],
e tra chi ammette la primordìalità (awwaliyya) [o la condizione
iniziale] e chi non la ammette [come Colui che è qualificato dall'eternità
senza inizio (azal)], e tra chi è dipendente e chi non è qualificato dalla
dipendenza (iftiqâr). Ma Egli ha
dato l'esistenza (awjâda) alle cose in conformità (muwâfaqatan) alla
[Sua] Scienza di esse, dopo che esse non avevano esistenza nelle loro essenze (a‘yân):
esse sono legate a Colui che ha dato
loro l’esistenza con il legame (irtibâṭ) di un dipendente possibile (faqîr mumkin) ad un indipendente necessario (ghanî
wâjib)[5].
Non è concepibile esistenza
per esse se non per Lui, né è concepibile un dominio (ḥukm) per Lui se non per esse: quindi Egli è mediante esse per Scienza ed esse
sono mediante Lui per esistenza (fa-huwa
bi-hâ 'ilman wa-hiya bi-hi wujûdan),
e la Sua precedenza (taqaddum) rispetto
ad esse è una precedenza che riguarda l'esistenza[6]. Se la
non-esistenza (‘udum) fosse una realtà
che Lo indica, la loro emanazione sarebbe dalla non-esistenza, per il Potere (qudra) di Colui che dà loro l'esistenza,
ed Egli è Allah, l'Altissimo, ed Egli è più degno che questa espressione [Colui
che dà loro l'esistenza] venga applicata a Lui, poiché Egli ha più diritto (aḥaqq) ad essa. Invero il possibile
si manifesta (ẓahara) nell'esistenza dopo che era non esistente, e se fosse originato da Allah
procederebbe da un'esistenza ad un'esistenza[7] e
sarebbe caratterizzato dall’avere un’essenza [esistente] che sussiste nell’etemità
senza inizio (azal), ma questo
è tra le cose che non diciamo di Lui, ci rifugiamo in Allah! Quindi Egli,
Gloria a Lui non è affatto origine di una cosa possibile[8], così
come Egli, l'Altissimo, non procede (yaṣduru)[9] da una
cosa; sopra di Lui non c'è altro che Lui ed Egli è Colui la cui esistenza è
necessaria per la Sua Essenza, senza comunanza (ishtirâk) [con altri] in questa realtà essenziale. Questo argomento
(fasl) è [così] verificato (muḥaqqaq); ad esso abbiamo dedicato un
piccolo libro in cui abbiamo descritto la modalità di manifestazione (kayfiyyat
ẓuhûr) delle possibilità, e per questo non la menzioniamo qui. In questo momento
non ho a disposizione il testo (tarjama) di quel libro, ma
abbiamo accennato ad una parte di questo argomento ne “Il libro delle tabelle (Kitâb al-jadâwil)”[10],
all'inizio, quando abbiamo trattato dei gradi dell'esistenza.
Poi diciamo: quando, per la
proprietà dello stato (bi-ḥukmi l-ḥal),
si verificò (sahha)
da parte delle possibilità, in quanto possibili, il ricorso (iltijâ’)[11] ad
Allah, l’Altissimo, riguardo alla manifestazione delle loro essenze (fî ẓuhûri a‘yâni-hâ)[12], a questa condizione (khâla)
intellegibile per il possibile venne rivolto il discorso (khûṭibat)[13] con il “kun” della Presenza dell’Allocuzione divina (fahwâniyya)[14], non
poteva essere altrimenti. Il “kun”
non sta a significare (‘ibâra) la disponibilità (tahayyu’) di ciò che è voluto (murâd)
nei confronti della Volontà specifica, ma nei confronti della
Allocuzione divina[15],
secondo l'ordinamento (tartîb) di
questo stato [principiale]: “Invero la nostra Parola (qawl) ad una cosa, quando la vogliamo, è che le diciamo: Sii (kun)!, ed essa è” (Cor. XVI-40)[16]. Quindi
la Parola, la Volontà ed il Potere sono fissi (thabita) insieme alla Scienza,
[e] sono oggetto di intellezione (‘uqilat),
con il Necessario incondizionato, l'Indipendente (ghanî), al momento della contemplazione (mushâhada). La riflessione (fikr)
comprende (adraka) queste proprietà ad eccezione della proprietà della
Parola, che l'udito [45b] afferma (athbata)
e che lo svelamento (kashf) vede.
La Realtà essenziale divina è tale che la ragione (‘aql), quanto alla riflessione, non la conoscerà mai; ed ogni
riflessivo (mufakkir) volge (sarrafa)
questa proprietà ad altro che la Parola ed esprime un giudizio (taḥakkama) su di Allah con ciò che non Gli si addice, e sarebbe
meglio per lui l'assenso (taslîm). Il Verbo (kalima) della Presenza [cioè il “kun”] è contemplato da coloro che sono
presenti ad esso; esso è diretto (mutawajjiha)
ad ogni esistente possibile, e la forma dell’ordinamento in queste proprietà è
Scienza, Volontà, Parola e poi Potere: un'Essenza unica e una diversa
proprietà.
Il motivo che fa negare alla
gente della riflessione la proprietà della Allocuzione divina è che essi non contemplano
il suo effetto nel possibile. L'esistenza testimonia il Potere, la specificazione
(takhṣîṣ) è testimone (shahid)[17]
della Volontà e le proprietà sono testimoni della Scienza, ed essi
non percepiscono testimone alla Parola e quindi la negano e non sono giusti (ansafû).
La prova (dalîl) della ragione
non può rendere impossibile [questa proprietà] (lâ yuḥayyilu-hu) e non si addice di
distoglierla (sarfu-hu) dall'aspetto della Parola per volgerla ad un altro
aspetto che non apporta la sua realtà essenziale, e questo da parte loro
sarebbe un giudizio puro (taḥakkum maḥḍ)s! Ma sarebbe meglio che dicessero al riguardo: “Allah è più Sapiente
riguardo a ciò che ha detto!”.
Quanto ai realizzati, la
gente dello svelamento e della contemplazione, essi ascoltano il Verbo e non
possono negarlo dopo che l'hanno compreso. Se il raziocinante approfondisse il
Suo detto, l'Altissimo, ad Abramo, su di lui la Pace: “[Prendi quattro uccelli
e poi falli a pezzi e metti un pezzo su ogni montagna], poi chiamali: verranno
da te correndo!” (Cor. 11-260)[18] [in
cui] il Vero lo ha informato del Verbo della Presenza e del fatto che l'essere contingente
(kawm)
non si manifesta se non per mezzo della Parola - apparirebbe a loro ciò che
è loro nascosto (khafiya)[19] - e [il
Vero] non ha fatto (ja‘ala) quello
per ciò che concerne la Volontà, né per altro[20]. Ed
egli [Abramo, su di lui la Pace] li chiamò ed era una lingua di verità ed un
interprete del “kun”, e quando
realizzò questo grado di contemplazione (mashhad) elevato
(sanî) essi si affrettarono a
rispondere e manifestarono nelle loro essenze delle forme non esistenti in
sostanze (jawâhir) esistenti[21], e
l'essere contingente fu per la forma, non per la sostanza. Questo ricorso (istijâ’) da parte dell'essere
contingente non è correlato se non all'Attributo di essere Colui di cui tutti
hanno bisogno (ṣamadâniyya) e questo Verbo non appartiene se
non all'Attributo di essere Colui di cui tutti hanno bisogno. Invero il Verbo
di altri che Colui di cui tutti hanno bisogno (aṣ-ṣamad) non ha potere (ḥukm) direttamente (ra’san).
Questo Attributo di essere
Colui di cui tutti hanno bisogno ha una epifania (tagallî) che la caratterizza,
che abbiamo menzionato nel nostro Libro
dei luoghi di tramonto delle stelle (Kitâb Mawâqi‘ an-nujûm), riguardo alla
sfera del cuore al momento della discesa essenziale[22]. Chi vuole soffermarsi sulla sua
forma e sulla modalità [46a] dell'ottenimento della teofania dell'Attributo
di essere Colui di cui tutti hanno bisogno e su ciò che essa comporta quanto alle
realtà essenziali (ḥaqâ‘iq) ed alle scienze lo ricerchi in quella sede, se
Allah, l'Altissimo, vuole[23]. Esso
fa parte esteriormente degli attributi intrinseci (awṣâf) della Divinità ed in modo
allusivo (ishâratan) degli attributi intrinseci della
Personalità. La Divinità fa parte degli attributi di relazione (nu‘ut)
della Personalità, poi [di ciò che][24] viene
dopo la Divinità tra i Nomi. Talvolta i conoscitori lo ascrivono (yahmilu-hâ)
alla Divinità e talvolta lo ascrivono al Sé (huwa) e quindi la
Divinità che sorpassa (tujawizu)[25]
il Nome è in conformità a ciò in cui essi sono fatti stare (yuqâmûna);
su questa strada larga (mahya‘)[26]
scorre (jarat) la Via degli iniziati!
Abbiamo dedicato un libro
alla Personalità e lo abbiamo intitolato Il libro del Sé[27],
un libro della Divinità, che abbiamo intitolato Il libro della Maestà (jalâla)[28],
ed un libro all'Unità (waḥdâniyya), che abbiamo intitolato Il libro dell'Unità (aḥadiyya)[29],
in cui abbiamo parlato dell’Unico e dell’Uno, del pari
e del dispari. Quanto alla Allocuzione divina, anche se vi abbiamo dedicato
un'opera[30],
questo libro esige da noi una [ulteriore] considerazione riguardo ad essa.
Diciamo dunque: il Verbo della Presenza talvolta si identifica alle entità delle
essenze (a‘yân adh-dhâwât), se si tratta dell'essenza della
Gente della elezione (ikhtiṣâṣ), e da essa viene fatto (yanfa‘ilu)
ciò che viene fatto dal Verbo della Presenza; quindi questa essenza è
un manto (ridâ’) sul Verbo ed il Verbo è ammantato da essa. A
questa essenza si applica il nome del Verbo, per l’avverarsi (taḥaqquq) della manifestazione dei suoi
effetti al momento del suo orientamento (tawajjuh) alla esistenziazione (îjâd)
dell'effetto.
Per questo l'Altissimo ha
detto riguardo a Gesù, su di lui la Pace: “Invero il Messia, Gesù, figlio di
Maria, è l'Inviato di Allah ed un Verbo che Egli ha proiettato verso Maria, ed
uno Spirito da parte Sua” (Cor. IV-171), quindi egli, anche se è uno Spirito, è
stato sostenuto (mu’ayyad) per mezzo dello Spirito, ed egli, anche se è
Verbo, si è manifestato per mezzo del Verbo, e vivificò i morti e guarì il
lebbroso ed il cieco nato [cfr. Cor. III-49 e V-110] per mezzo della sola
Parola o, al suo posto, per mezzo di un altro attributo che è stato indicato
con [il termine] insufflazione (nafkh). Egli ha detto: “e
tu soffiasti in essa e divenne un uccello per il Mio permesso” (Cor. V-110), ed
il Suo detto “'per il Mio permesso (bi-idhnî) fa parte del
Verbo della Presenza[31]. Invero
il permesso è identico al Verbo della Presenza ed il Verbo non cessa di
manifestarsi con una manifestazione immensa. Se venissero enumerate (‘uddat)
le Parole divine nei Libri rivelati (munazzala) e vedesse
ciò che esse [le Parole] hanno preceduto (sabaqat), colui che
osserva vedrebbe in quello una meraviglia!
L'Altissimo ha detto: “Verso
di Lui salgono le buone parole (kalim) [e l’opera pia le innalza]”
(Cor. XXXV-l0), che è il plurale di kalima [Verbo], e ciò che si intende con quello sono le essenze (dhâwât)
[46b] e la buona parola (al-qawl
al-ḥasan) insieme, non solo una di
queste cose[32].
Quindi la salita (su‘ûd)
delle essenze è una salita essenziale e la salita delle parole è una salita
intelligibile (ma‘nawî)[33]. Se il
luogo verso cui si sale (mas‘ad) è
indicato con la localizzazione (makâniyya),
la salita verso di Lui per ciò che concerne il verbo corporeo (jismâniyya) è un trasferimento (intiqâl) e la salita verso di Lui
per ciò che concerne il verbo spirituale è il volgere (ṣarf) di un volto (wajh) verso il lato di un certo
essere esistente; se ciò verso cui si sale non è indicato con la
localizzazione, il verbo corporeo non avrebbe mai una salita in questo luogo di
ascensione (ma‘râj), ma il
verbo spirituale sì; e se ciò verso cui si sale con questo verbo spirituale è
simile ad esso, come la salita verso l'Intelletto Primo e gli spiriti
perdutamente innamorati, è una salita di relazione. E se non è simile sotto
questo aspetto e si tratta della Personalità è una salita senza somiglianza (shibh)[34]
né connessione (nasab). E non c'è mai arrivo (wuṣûl) se non verso un Verbo del Sé
in modo speciale, e la Sua Presenza è l'Allocuzione (khiṭâb)[35] e la Sua stazione è la conversazione (mukâlama) ed a Lui appartiene
il sostegno (ta’yîd) nel Mondo dell'esistenza contingente al momento del
ritorno verso i luoghi di origine (mawâṭin) degli effetti (âthâr)[36]
per mezzo dell'effetto. Ed il Verbo è esecutivo (yakûnu tanfudhu) e
non è mai oggetto di esecuzione (lâ tunfadhu)[37].
È stato riportato nella
notificazione che “all'Intimo nel Paradiso si presenterà l'Angelo da presso di
Allah con un libro sigillato ed entrerà da lui per la richiesta di permesso”, e
nel libro [è scritto] “da parte del Vivente permanente che non muore al vivente
permanente che non muore, quanto segue: Io dico alla cosa “sii” ed essa è, ed
abbiamo stabilito che da oggi tu dirai alla cosa “sii” ed essa sarà!”[38]. Quindi
l'Intimo nel Paradiso non dirà ad una cosa “sii” senza che quella cosa sia.
Si racconta che Abu Yazid
al-Bisṭâmî, [Allah sia soddisfatto di
lui][39], trascinò la sua mano sulla sua gamba
(sâq)
ed uccise una formica, e quando si accorse di essa insuffiò in essa ed essa
si rimise a camminare viva, per il permesso di Allah, [l’Altissimo][40]. Tutto
ciò fa parte del Verbo della Presenza e della Stazione dell'Allocuzione divina
faccia a faccia.
Questo è quanto basta per
questo libro. Già si è fatta mattina ed è sorta l’aurora (fajr) ed il Vero ci chiama verso la
sede del colloquio intimo (munâjâh), affinché noi
realizziamo il Verbo della Presenza. Esso ha una permanenza (ṭubût) ed una manifestazione (ẓuhûr)[41] nell'ambito
della ṣalât, poiché colui che fa la ṣalât parla con il suo Signore[42].
Prendiamo dunque le redini (al-‘inân) ed alziamoci per adempiere
alla purificazione (tuhûr) ed al colloquio del
Misericordioso. Il relatore (muqarrir) di ciò che è stato
messo per iscritto (marsûm) ha terminato. Sia lode [47a]
ad Allah, il Possessore (walî) della lode e Colui
che è degno di essa. Il libro è completo, ed Allah faccia scendere la Sua ṣalât e la Pace sul signore degli Inviati, Muhammad, sulla sua famiglia e sui
suoi compagni.
(Fine)
(*) Questo breve trattato di
Ibn 'Arabi non è mai stato pubblicato a stampa ed esiste solo in forma
manoscritta. 'Utmân Yahya nel Répertoire
Général (RG) della Histoire et
classification de l'oeuvre d'lbn ‘Arabî, Damasco, 1964, elenca 35 manoscritti di quest'opera (RG. 219). La traduzione è stata fatta su due manoscritti conservati nelle biblioteche di Istanbul, il Shehit ‘Alî 2813 ed il Bayazid 3750. Il primo, che 'Utmân Yahya descrive come autografo, è stato in realtà redatto da Ayyûb ibn Badr al-Maqqari, nell'anno 621 dall'Egira, e contiene un certificato di ascolto (samâ‘) che inizia come segue: “Lo ha copiato Ayyûb ibn Badr per se stesso, in presenza del suo autore, nella [Grande] Moschea [di Damasco] nella seconda decade del mese di Ramadan, mentre egli, Allah sia soddisfatto di lui, era in ritiro spirituale. Ed ho anche letto questo libro, il Libro della Verità, al suo autore, il signore, il Maestro, l'Imam, il sapiente, [ ... ] Muhyiddîn Abû 'Abdallah ibn 'Ali ibn Muhammad ibn al-'Arabî at-Tâ'î al-Hatimi [ ... ]". Il secondo è stato redatto nell'anno 782 dall'Egira.
[1] Ibn ‘Arabî riprende
qui la critica formulata da al-Ghazalî ai filosofi che sostengono l'emanazione
o la processione della creazione dal
Principio, come al-Farabi e Avicenna. Su questo argomento si può consultare un
recente studio di Olga Pizzini, intitolato “Fluxus (fayḍ). Indagine sui fondamenti della metafisica e della
fisica di Avicenna”, Edizioni
di pagina, 2011, pagg. 550-554.
[2] L'espressione “i Nomi
più belli” ricorre nel Corano quattro volte: VII-180, XVII-110, XX-8 e LIX-24. D termine ṣifât invece non è mai utilizzato, ed il verbo
corrispondente ricorre solo in espressioni come “‘amma yaṣifûn” riferite a ciò che gli uomini attribuiscono ad
Allah, e non a ciò che Allah attribuisce a Se stesso.
[3] Il termine “munâsaba” è l'infinito della terza forma di “nasaba”, “mettere in relazione”, la quale implica una reciprocità, cioè una relazione reciproca.
Pertanto non va tradotto come “relazione” (nisba), ma piuttosto
come “correlazione”, “analogia” o “corrispondenza”. Talora assune anche il significato di “similitudine”.
[4] Nell'Introduzione [I
41.6] Ibn ‘Arabî afferma: “Quale correlazione (munâsaba) può esserci
tra il Vero, la Cui esistenza è
necessaria per la Sua Essenza, ed il possibile (mumkin), anche se esso
è necessario per Lui, secondo chi sostiene ciò, per la implicazione necessaria (iqtiḍâ’) dell'Essenza o quella della Scienza? La validità di una
simile correlazione concettuale può essere stabilita solo per mezzo delle
dimostrazioni esistenziali! Ed è indispensabile che tra la prova e la cosa
provata e tra la dimostrazione e ciò che è dimostrato vi sia un aspetto per
mezzo di cui si stabilisca la connessione, il quale abbia una relazione con la
prova ed una relazione con ciò che è provato da quella prova. In mancanza di
questo aspetto, la prova di chi argomenta non raggiungerebbe mai ciò che è
provato! Ora, la creazione (khalq) ed il Vero non si
riuniscono mai in un aspetto per quanto attiene all'Essenza, ma solo in quanto
questa Essenza è qualificata (man‘ût) dalla Divinità (ulûha)”.
In altri punti della sua opera la mancanza di correlazione riguarda
Allah e le Sue creature; cfr. Cap. 2 [I 92.5], Cap. 3 [I 93.7 e 94.1], Cap. 28
[I 194.2], Cap. 68 [I 372.25], Cap. 69 [I 431.1] “Non c'è correlazione tra
Allah e le Sue creature: Se non c'è cosa simile a Lui, come potrebbe essere
simile ad una cosa o una cosa essere simile a Lui?”, Cap. 73,
questione LIX [II 81.5], Cap. 140 [II 226.25]. Analogamente, nel Cap. 272 [II
579.91, egli precisa: “La correlazione (munâsaba) tra il Vero e la
manifestazione non è né intellegibile né esistente. Nulla deriva da Lui quanto
alla Sua Essenza. Ogni cosa indicata dalla Legge o presa dalla ragione come una
indicazione è correlata con la Divinità, non con l'Essenza. Allah in quanto Dio
è ciò da cui la cosa possibile è sostenuta per la sua possibilità!”. Altrove
però la negazione della correlazione è più sfumata; nel Cap. 69 [I 415.14] Ibn
‘Arabî precisa: “Egli non genera (yalid) per mezzo della Sua
esistenziazione delle creature, poiché non c'è correlazione tra l’esistenza
delle creature e l'Esistenza del Vero. La correlazione è concepibile tra il
genitore ed il figlio in quanto ogni premessa (muqaddima) non causa
altro che il suo corrispondente (munâsib) e non c'è correlazione
tra Allah e le Sue creature se non la dipendenza (iftiqâr) delle creature
nei Suoi riguardi nella loro esistenziazione, mentre Egli è indipendente dai
Mondi”, e nel Cap. 72 [I 684.22] aggiunge: “[…] viene meno alla sua umanità e
ritorna a far parte dell'insieme degli esseri animati e decade per lui
l'imposizione legale (taklîf) e viene a cessare la
correlazione tra lui ed Allah; intendo dire la correlazione dell'avvicinamento (taqrîb)
in modo specifico, non la correlazione della dipendenza, poiché la
correlazione della dipendenza non viene mai meno al possibile, né nel suo stato
di non-esistenza, né nel suo stato di esistenza”.
[5] I termini tradotti come
dipendente ed indipendente significano letteralmente povero, o bisognoso, e ricco. Nel Cap. 293 [II 665.15] Ibn ‘Arabî
precisa: “Non c'è nell'esistenza assolutamente alcuna cosa che non abbia
un legame (irtibât) con un'altra cosa, persino il Signore (rabb)
ed il suo vassallo (marbûb). Ciò che è creato esige il Creatore ed il
Creatore esige ciò che è creato e per questo la scienza del sapiente è sulla forma dell'oggetto della scienza”;
nel Cap. 451 [IV 66.7],
aggiunge: “Ogni creatura è legata ad Allah con
il legame (irtibâṭ) del possibile al necessario, sia esso esistente o non esistente, beato o dannato. Il
Vero, per ciò che conceme i Suoi Nomi, è legato alle creature, in quanto i Nomi
divini cercano il Mondo per una esigenza (talab)
essenziale. Non c'è dunque scampo nell'esistenza (wujûd) dall'essere vincolati (taqyîd), per entrambe
le parti, e come noi siamo per mezzo di Lui, Egli è per mezzo di noi e per noi,
altrimenti non sarebbe per noi né Signore, né Creatore, mentre Egli è senza
dubbio il nostro Signore ed il nostro Creatore […] Se questo legame (irtibâṭ) lega,
come abbiamo detto, le due realtà (amrân)
è necessario che vi sia ciò che le riunisce ed esso è ciò che lega (râbiṭ) e non è altro se non ciò che comporta l'essenza di
ciascuna di esse due, senza che sia necessaria una realtà esistente aggiuntiva.
Esse quindi sono collegate per loro stesse poiché non c'è che creature (khalq)
e Vero ed è inevitabile che ciò che lega sia una di esse due o entrambe,
ed è impossibile che una di esse possieda esclusivamente questa proprietà ad
esclusione dell'altra, poiché è necessario che entrambe ammettano questo
legame, ed esso quindi si manifesta per entrambe, non per una sola di esse.
Malgrado questo legame esse non sono simili, ma per ciascuna di esse non c'è
cosa simile ad essa e quindi inevitabilmente si distinguono per un'altra
realtà; in nessuna delle due vi è la realtà dell'altra per mezzo di cui
ciascuna di esse è indicata. La dipendenza rende necessaria l'inclinazione e
l'accettazione del movimento, mentre l'indipendenza non ha quella proprietà in
Colui che è indipendente. Noi sappiamo che tra il magnete ed il ferro vi è
necessariamente una correlazione (munâsaba) ed un legame, come il
legame delle creature con il Creatore, ma se prendiamo il magnete, il ferro è
attratto verso di esso e noi sappiamo che l'attrazione sta nel magnete, mentre
nel ferro sta la disposizione (qubûl) [ad essere attratto], e
per questo reagisce con il movimento verso di esso. Se invece prendiamo il
ferro, il magnete non attratto verso di esso, e anche se essi sono
reciprocamente legati restano separati e distinti. Gli uomini, anzi il Mondo è
dipendente verso Allah ed Allah è indipendente dai Mondi”.
[6] Nel Cap. 356 [III 255.8] Ibn 'Arabi precisa:
“Poiché la qualità propria (al-wasf an.nafsî), per ciò che ne è qualificato, non può essere tolta se non
togliendo con essa anche ciò che ne è qualificato, essendo essa identica a ciò
che ne è qualificato e niente altro che quello, e poiché la precedenza (taqaddum) della non esistenza (‘udum)
è un attributo (na‘t) proprio delle possibilità,
in quanto per il possibile è impossibile l'esistenza dall'eternità senza inizio
(azalan) e non resta che sia
non-esistente nell’etemità senza inizio, la precedenza della non esistenza è
per esso un attributo proprio”; nel Cap. 382 [III 512.32] aggiunge: “Noi non
affermiamo che il possibile sia non
esistente per se stesso, poiché se la non esistenza fosse per esso una qualità
propria sarebbe impossibile la sua
esistenza, così come è impossibile l'esistenza dell'impossibile (muḥât), ma noi
sosteniamo la precedenza per esso della non esistenza rispetto all'esistenza, e
non la non esistenza, come qualità propria, e tra queste due affermazioni vi è una differenza immensa”; e nel
Cap. 406 [IV 9.19] conclude: “Non c'è precedenza, né posteriorità, in quanto il
possibile, nello stato della sua non esistenza, non è posteriore
all'eternità senza inizio (azal)
attribuita all'esistenza del Vero: l'eternità senza inizio è necessaria per
l'esistenza del Vero così come è necessaria per la non esistenza del possibile, per la sua immutabilità
(thubût) e la sua
differenziazione (ta‘yîn) presso il Vero”.
[7] Nel Cap. 69 [I 538.33]
Ibn ‘Arabî afferma che “la manifestazione delle cose è da un'esistenza ad un'esistenza, da un esistenza di scienza ad
un'esistenza di entità”, in quanto le possibilità nel loro stato di
non-esistenza sono comunque oggetto della Scienza di Allah. L'esposizione
dottrinale di Ibn ‘Arabî non
è mai sistematica, perché la Verità non è tale, e la presenza di apparenti
contraddizioni ha portato alcuni studiosi superficiali a parlare di “opera
astrusa e piena di incongruità”!
[8] Va osservato che Ibn
‘Arabî non parla di “cosa esistente”, ma di “cosa possibile”, espressione che si riferisce alla possibilità, come dimostra il
versetto “La Nostra Parola quando vogliamo una cosa è che le diciamo “Sii (kun)
ed essa è” (Cor. XVI-40) in cui la “cosa” è oggetto del Verbo prima di
esistere e indipendentemente dalla Volontà divina [cfr. Cap. 73, questione XXX (II 62.16)]. La frase “Egli, Gloria a
Lui non è affatto origine di una cosa possibile” va quindi intesa nel senso che
la possibilità, nel suo stato permanente di non-manifestazione, non “procede”,
ma sussiste dall'eternità senza inizio.
René Guénon, ne “Les états multiples de l’être”
affermava che “la Possibilité universelle contient nécessairement la totalité
des possibilités” [pag. 26] e che “quand nous disons que la Possibilité
universelle est infinie ou illimitée, il faut entendre par là qu'elle n'est pas autre chose que
l'Infini même, envisagé sous un certain aspect, dans la mesure où il est
perrnis de dire qu'il y a des aspects de l'Infini” [pag. 17]. Quando invece si
tratta della “cosa esistente” Ibn ‘Arabî non disdegna di utilizzare, in senso
“metaforico” come ha precisato all'inizio di questa sezione, il verbo
“procedere (ṣadara)”; ad
esempio, nel Cap. 353 [III 239.30], egli parla di “come le cose procedono e si
manifestano nell'esistenza da Lui (ṣudûr al-ashyâ’ wa-ẓuhûru-hâ fî
l-wujûd min ‘inda-hu)”, nel Cap. 396 [III 559. 7] del “procedere delle cose da
Allah mediante la genesi (ṣudûr al-ashyâ’ ‘an Allah bi-t-takwîn)”, nel Cap. 405 [lV 7.3] del “procedere di quella cosa da
Lui (ṣudûr dhâlika ash-shay’ min-hu)” e nel Cap. 559 [IV 42 7 .2] precisa che “tutte le cose esistenti che sono
generate nel tempo non sono uscite verso l'esistenza se non da Allah”,
ricorrendo al verbo kharaja.
Quanto al senso reale in cui intendere questo “'procedere” è chiarificatore
il seguente brano tratto dall'opera già citata di René Guénon, [pagg. 38-39]:
“On s'est souvent demandé, et assez vainement, comment la multiplicité pouvait
sortir de l'unité, sans s'apercevoir que la question, ainsi posée, ne comporte
aucune solution, pour la simple raison qu'elle est mal posée et, sous cette
forme, ne correspond à aucune réalité; en effet, la multiplicité ne sort pas de
l'unité, pas plus que l'unité ne sort du Zéro métaphysique, ou que quelque
chose ne sort du Tout universel, ou que quelque possibilité ne peut se trouver
en dehors de l'Infini ou de la Possibilité totale [In nota aggiungeva: “C'est
pourquoi nous pensons qu'on doit, autant que possible, éviter l'emploi d'un
terme tel que celui d’«émanation», qui évoque une idée ou plutòt une image
fausse, celle d'une «sortie» hors du Principe”].
La multiplicité est comprise dans l'unité primordiale, et elle ne cesse pas d'y
être comprise par le fait de son
développement en mode manifesté […] Ainsi, le principe de la manifestation
universelle, tout en étant un, et en étant meme l'unité en soi, contient
nécessairement la multiplicité; et celle-ci, […] procède tout entière de
l'unité primordiale, dans laquelle elle demeure toujours comprise, et qui ne
peut etre aucunement affectée ou modifiée par l'existence en elle de cette
multiplicité, car elle ne saurait évidemment cesser d'ètre elle-mème par un
effet de sa propre nature, et c'est précisément en tant qu’elle est l'unité
qu'elle implique essentiellement les possibilités multiples dont il s'agit. C'est donc dans l'unité
meme que la multiplicité existe; et, comme elle n'affecte pas l'unité, c'est
qu'elle n'a qu'une existence toute contingente par rapport à celle-ci; nous
pouvons meme dire que cette existence, tant qu'on ne la rapporte pas à l'unité
comme nous venons de le faire, est purement illusoire; c'est
l'unité seule qui, étant son principe, lui donne toute la réalité dont elle est
susceptible”.
[9] L'espressione yaṣduru ricorre nel Corano solo una volta, nella Sûra XCIX al versetto 6.
[10] Si tratta di una
variante del titolo dell'opera più comunemente nota come Il libro della produzione dei cerchi (Kitâb inshâ’ ad-dawâ’ir), classificata come RG. 289 da ‘Uthmân Yaḥyâ. Di questo testo è disponibile una traduzione francese
a cura di P. Fenton e M. Gloton, intitolata “La production des cercles”,
Editions de l'Eclat, 1996; il punto a cui fa riferimento Ibn 'Arabi è sviluppato
nelle pagine 6-10.
[11] Questo verbo, che
significa letteralmente “rifugiarsi”, non ricorre come tale nel Corano, ove è invece presente [Cor. IX-57 e 118, e XLII-47] il nome
di luogo, malja’a, “rifugio”,
derivato dalla sua radice. Anche nelle Futûḥât il suo uso non è molto frequente; oltre al brano del
Cap. 558 citato nella nota 6,
esso ricorre nei capitoli 5 [I 103.23],
69 [I 463.6], 72 [I 736.26], 178 [II 338.29 e 32], 356
[III 256.9] e 559 [IV 3 78.31 e
386.26].
[12] La richiesta ai Nomi
divini da parte delle possibilità di essere rivestite dal manto dell'esistenza
è descritta ampiamente da Ibn ‘Arabî nel
Cap. 66 [I 323.9].
[13] Khûṭibat è la forma passiva
del verbo khâṭaba, terza forma della radice verbale khaṭaba, che significa tenere una allocuzione. Da questa radice deriva il
sostantivo khiṭab, che non si riscontra nel Corano e che
significa allocuzione, cioè un discorso rivolto a qualcuno: il soliloquio non è
una allocuzione nel senso arabo del termine. Ibn ‘Arabî distingue diversi tipi
di allocuzione divina in base allo stato in cui si trova colui che ascolta, il
Mondo in cui essa ha luogo e la modalità con cui viene effettuata. Per quanto
riguarda il primo aspetto egli precisa nel Cap. 198, sezione II [II 400. 7]:
"Il Discorso (kalam) e la Parola (qawl) sono due attributi di
relazione (na‘tan) di Allah: per mezzo della Parola ascolta chi non è
esistente (ma‘dûm), e ciò corrisponde al detto di Allah, l'Altissimo:
“Invero la nostra Parola ad una cosa, quando la vogliamo, è che le diciamo: Sii
(kun)! Ed essa è" (Cor. XVI-40);
per mezzo del Discorso ascolta chi è esistente (mawjûd), e ciò corrisponde al Suo detto, l'Altissimo: “Ed Allah si
rivolse a Mosé con un discorso” (Cor. IV-164). […] La Parola ha un effetto su
ciò che è non-esistente ed esso è l'esistenza, e il Discorso ha un effetto su
ciò che è esistente, ed esso è la scienza”. Per quanto riguarda il secondo
aspetto egli distingue “l'Allocuzione del Vero faccia a faccia nel Mondo della
similitudine (‘âlam al-mithâl)”
che chiama “fahwâniyya” [Cap.
73, questione CLIII (III 28.33)], “l’Allocuzione
del Vero ai conoscitori dal Mondo dei segreti e dei misteri”, che chiama “musâmara” o discorso notturno [Cap. 73,
questione CLIII (II 130.1)], è “l'Allocuzione del Vero ai conoscitori tra i
Suoi servitori dal Mondo della manifestazione sensibile (mulk)”, che chiama “muḥâdatha) [Cap. 73, questione CLIII (II 130.3)]. Per quanto riguarda infine la
modalità di effettuazione, Ibn ‘Arabî si riferisce al versetto: “Non è dato all’uomo che Allah gli
parli se non per rivelazione (wahy), o dietro un velo, o
mandando un messaggero” (Cor. XLII-51), e nel Cap. 366 [III 332.17] precisa: “Quanto alla rivelazione (wahy) essa ha luogo quando Egli pronuncia l’allocuzione (khiṭab) nei loro cuori sotto forma di discorso (hadîth) ed essi
ottengono per quello la scienza di qualcosa di nuovo, cioè del contenuto di
quel discorso. Se non è
così allora non si tratta di rivelazione, né di allocuzione. Alcuni trovano nei
loro cuori una scienza riguardo ad una qualche realtà, appartenente alle
scienze innate per gli uomini: si tratta di una scienza autentica, ma non è
ottenuta tramite una allocuzione ed il nostro discorso riguarda qui solo
l'allocuzione divina chiamata rivelazione (wahy). lnvero Allah,
l'Altissimo, ha assimilato questa categoria della rivelazione a un discorso (kalâm) e dal discorso egli acquisisce la
scienza di ciò che gli apporta quel discorso e per questo [la rivelazione] si
differenzia [da altri generi di ispirazione], quando egli ha coscienza di
questo fatto.
Quanto
al detto dell'Altissimo: “…o dietro un
velo”, si tratta di una allocuzione divina pronunciata all'udito, non al cuore,
e colui a cui viene pronunciata la percepisce e comprende da essa ciò che
voleva dire Colui che gli ha fatto sentire quello. Talora ciò avviene nella
forma della manifestazione divina (tajallî), nel qual caso quella
forma divina rivolge a lui il discorso ed essa è il velo stesso. Ed egli
comprende da quella allocuzione la scienza di ciò che indica e sa che quello è
un velo e che Colui che parla è dietro quel velo. Non tutti coloro che
percepiscono la forma della manifestazione divina sanno che quella è Allah ed
il possessore di questo stato ha in più rispetto agli altri il fatto che
riconosce che quella forma, anche se è un velo, è essa stessa la manifestazione
del Vero per lui. Quanto al detto dell'Altissimo: “…o inviando un messaggero”
si tratta di ciò che rivela l'Angelo o di ciò che ci apporta l'Inviato umano,
quando essi trasmettono in modo specifìco il discorso di Allah. Tale è il caso
del detto dell'Altissimo: “…accordagli asilo affinché possa sentire il discorso
di Allah” (Cor. IX-7) e del detto dell'Altissimo: “…e lo abbiamo chiamato dal
lato destro della montagna e lo abbiamo fatto avvicinare per parlare con lui in
segreto” (Cor. XIX-51) e del detto dell'Altissimo: “…e una voce gridò:
Benedetto Colui che è nel fuoco e intorno a lui!” (Cor. XXVII-18). Ma se essi
[questi messaggeri] trasmettono o danno espressione ad una scienza che hanno
trovato in loro stessi, quello non è un discorso divino. Talvolta il messaggero
e la forma sono insieme, come nell'atto della scrittura [del Libro]. Il Libro è un messaggero ed esso
è anche il velo di Colui che parla, cosi che ti fa capire ciò che ha apportato;
ma ciò non ha luogo quando il messaggero scrive ciò che sa, bensì solo quando
scrive in base ad un discorso che rivolgono a lui quelle lettere che egli
trascrive. Quando non è così allora non è un discorso [divino]! Questa è la
regola generale”.
[14] Questo termine,
probabilmente derivato dalla parola fâh,
che vuol dire bocca, è ignorato dai dizionari della
lingua araba e non si riscontra in opere antecedenti a quella di Ibn ‘Arabî.
Nel Cap. 73, questione CLIII [II 128.32], Ibn ‘Arabî definisce la fahwâniyya come: '”l’allocuzione del Vero faccia a faccia nel
Mondo della similitudine (‘âlam al-mithâl).
Esso corrisponde al suo detto, che Allah faccia scendere su di lui la Sua ṣalât e la Pace, che l’Iḥsân consiste nell’adorare Allah come se lo vedessi”.
Altri punti delle Futûḥât in cui è riportato questo termine sono i seguenti:
Cap. 22 [I 173. 25], ove è menzionata la dimora spirituale (manzil) dell'uguaglianza di livello
nell'allocuzione (al-istiwâ’ al-fahwânî),
e [I 176.12] ove è menzionata la dimora spirituale delle allocuzioni del
Misericordioso nel Mondo della similitudine; Cap. 24 [I 185.20], ove sono
menzionate 200 dimore nella Presenza della fahwâniyya;
Cap. 33
[I 213.5];
Cap. 71 [I 609.29 e 61 0.3], ove Ibn ‘Arabî precisa: “ll bacio viene
dall'avvicinamento (iqbâl) e la
ricezione (qubûl) dell’allocuzione
faccia a faccia (fahwâniyya) fa parte dalla Presenza della
lingua, che è il supporto del Discorso. L’avvicinamento verso di Lui ha luogo
anche per mezzo del Discorso che viene sentito, poiché avviene nella
contemplazione della similitudine. Si può concepire che colui che vi si trova cerchi di
avvicinarsi verso l’allocuzione faccia a faccia, ma quando Egli gli parla, non
gli consente di contemplare. Questa è la stazione mosaica. Io l’ho gustata
nella situazione (mawḍi‘) in cui Mosé, su di lui la Pace, la gustò, sennonché
io la gustai nell’umidità (billa) di
un pugno di sabbia. Mosé, su di lui la Pace, la gustò in ciò di cui aveva
bisogno (fî hâjati-hi), poiché cercava del fuoco per i suoi;
io mi rallegrai che fosse acqua […] Colui che è arrivato non cerca di ritornare
dalla contemplazione al Discorso (kalâm), abbandonando la
contemplazione e procedendo verso l'allocuzione faccia a faccia (fahwâniyya), poiché essa è attuabile solo con il velo, avendo
l’Altissimo detto: “Non è dato che Allah parli ad un uomo se non per
rivelazione o dietro ad un velo” (Cor. XLII-51)”; Cap. 72 [I 725.35] ove è
menzionata la Presenza fahwâniyya; Cap. 273 [II 585.11] ove è
menzionata la Presenza della allocuzione fahwânî;
Cap. 384 [III 524.14] e Cap. 387 [III 53 7 .22] ove sono menzionate le lingue (alsina) della fahwâniyya. Oltre che nelle Futûḥât questo
termine ricorre nel ‘Uqlat al-mustawfiz,
a pag. 43 dell'edizione di Nyberg in Kleinere
schriften des Ibn –‘Arabî, Brill, 1919 e a pag. 120 della traduzione di
Carmela Crescenti, intitolata “Il nodo
del sagace”, Mimesis, 2000; nel Kitâb
at-Tajalliyât, a pag.
114 della traduzione di Stephane Ruspoli intitolata Le livre des théophanies d’Ibn ‘Arabî, Cerf, 2000; e soprattutto,
più di dieci volte, nel Tarjumân al-ashwâq
e nel suo commentario da parte dell'autore, entrambi tradotti da Maurice Gloton
in L’interprète des désirs, Albin Michel, 1996: per i riferimenti
si può consultare l'indice glossario a pag. 468, alla voce fahwâniyya.
Il verbo arabo fâha, che significa profferire,
pronunciare [un discorso], ha un'assonanza fonetica sia con il verbo greco phêmi, che significa parlare, dire, sia
con il verbo latino fari [for, faris, fatus sum], che ha lo stesso significato e da cui
derivano numerose espressioni italiane, come fato, cioè “ciò che è detto”,
favola, favella, infante, cioè “il bimbo che non parla ancora”, ineffabile,
nefando, ecc. Nel Dizionario del Tommaseo si trova un termine, favellatòria,
che quanto a costruzione [aggettivo sostantivato] è l'equivalente dell'arabo fahwâniyya.
[15] Il termine tahayyu’spesso usato nel linguaggio
teologico e filosofico insieme a isti‘dâd,
predisposizione, indica l’essere preparati per
qualcosa. Ad esempio, nel Cap. 360 [III 286.15] Ibn ‘Arabî precisa: “Per la fissità
(thubut) della sua entità (‘ayn) nella non-esistenza ha luogo la
disponibilità a ricevere gli effetti (at-tahayyu’
li-qubûl al-âthâr), e la sua fissità nella non-esistenza è come il
seme per l'albero dell'esistenza: nella non-esistenza è un seme e nell'esistenza
è un albero”. Va osservato che nella Introduzione [I 46.14] lbn 'Arabi precisa:
“L'argomento razionale prova che esistenziazione (îjâd) è connessa con il Potere (qudra)
ed il Vero ha affermato che l'esistenza ha luogo dall'Ordine divino, dicendo di
Se Stesso: “Invero la Nostra Parola ad una cosa, quando la vogliamo, è che le
diciamo “Sii” (kun) ed essa è!” (Cor.
XVI-40). È indispensabile per noi considerare ciò con cui è connesso l'Ordine e
ciò con cui è connesso il Potere, in modo da poter mettere insieme il dato
tradizionale e la ragione. Noi diciamo che l'obbedienza [all'Ordine] ha avuto
luogo per il Suo detto: “ed essa è!”, e ciò che è stato ordinato è l'esistenza: quindi
la Volontà è connessa con la specificazione di uno dei due [stati] possibili,
cioè l'esistenza [l'altro è la non-esistenza], mentre il Potere è connesso con
il possibile ed il suo effetto in esso è l'esistenziazione. Questa è una
condizione intellegibile [la stessa espressione ricorre nel testo qui tradotto
(pag. 14, penultima riga)] come intermedia tra la non-esistenza e l'esistenza.
Quindi l'Ordine è connesso con questa entità che è stata specificata [dalla
Volontà] affinché sia ed essa ubbidisce ed è. Altrimenti il possibile non
avrebbe entità e non sarebbe qualificato per mezzo di essa dall'esistenza, in
quanto l'Ordine dell'esistenza si rivolge a quella entità quando ha luogo
l'esistenza. Chi sostiene, nella spiegazione del "kun", la disponibilità (tahayyu’)
della cosa voluta, non è nel giusto!”. Quest'ultima affermazione contraddice
apparentemente quanto è riportato nel testo che stiamo traducendo.
[16] Questo versetto è
citato e commentato una cinquantina di volte nelle Futûḥât e meriterebbe uno studio a parte. Oltre ai brani già riportati nelle
note precedenti, mi limiterò a riportare il seguente passo tratto dal Cap. 198,
sezione V [II 401.28], “riguardo al Verbo della Presenza divina, che è il verbo “Sii (kun)!” […] L'Altissimo ha detto: “Invero la Nostra Parola ad una
cosa quando la vogliamo” – e [l’espressione] “'la Nostra Parola” sta ad indicare il
fatto che Egli sia Uno che parla (mutakallim) – “…è che le
diciamo: Sii”
- e “Sii” è proprio ciò che Egli dice, e da esso si manifesta (ẓahara) ciò a cui è stato detto “Sii”. Egli ha quindi
attribuito la genesi [o il venire ad essere (takwîn)] a ciò che “è (yakûnu)”,
non al Vero, né al Potere, ma ha dato un ordine e colui che ha sentito,
nello stato della sua non-esistenza come realtà (shay‘iyya) e della sua fissità (ṭubût), ha obbedito all'ordine del Vero […] Quindi il Suo
ordine è il Suo Potere e l'accettazione di colui a cui è stato ordinato di
essere è la sua predisposizione (isti‘dâd)”. Analogamente, nel Cap. 48 [I 265.14] Ibn ‘Arabî precisa:
“Allah,, l'Altissimo ha esplicitamente affermato che noi facciamo parte
dell'insieme dei vegetali della Terra; Egli ha detto: “Ed Allah vi ha fatto
crescere (anbata-kum) dalla Terra come dei vegetali (nabâtan)” (Cor. LXXI-17), intendendo
“siete cresciuti come vegetali (nabattum
nabâtan), in quanto l'infinito di anbata-[kum]
è inbâtan. Analogamente ha
detto, attribuendo il venire ad essere (takwîn) a ciò stesso a cui è
stato ordinato: “'Invero la Nostra Parola ad una
cosa, quando la vogliamo, è che le diciamo “Sii” (kun) ed essa è!” (Cor. XVI-40), ed ha
attribuito (ja‘ala)
il venire ad essere ad essa [cosa], così come ha
attribuito la manifestazione dei vegetali ai vegetali”.
[17] Nel Cap. 266 [II 567
.10] Ibn ‘Arabî precisa che “Il testimone (shâhid)
è l'attualizzazione nell'anima della
forma di ciò che è contemplato in occasione della contemplazione diretta (shuhûd)
e conferisce qualcosa di diverso da ciò che conferisce la visione (ru‘ya),
in quanto la visione non è preceduta dalla scienza di ciò che viene
visto, mentre la contemplazione diretta presuppone la scienza di ciò che è contemplato”.
[18] Ibn ‘Arabî commenta
questo versetto nel Cap. 225 [II 520.34],
ove spiega che il chiamare di Abramo,
su di lui la Pace, fa le veci del “kun”.
[19] Ciò che è nascosto
potrebbe anche riferirsi al segreto della “wâw”; nel Cap. 10 [I 136.34]
Ibn ‘Arabìi precisa: “…riguardo
all'esistenziazione delle cose dal kun: Egli ha apportato due
lettere [la kâf e la nûn]
che sono a guisa delle due premesse [di un sillogismo] e ciò che è (yakûnu)
al momento del kun è a guisa
della conclusione. Queste due lettere sono apparenti, mentre la terza, che lega
le due premesse, è nascosta
nel kun, ed è la wâw, che viene elisa per
l'incontro di due consonanti non vocalizzate [la wâw e la nûm]. Analogamente
quando l'uomo incontra la moglie alla verga (qalam) non resta entità apparente ed il
suo gettare il seme
nel ventre materno è invisibile, poiché è un segreto”.
[20] Nel manoscritto
Bayazid si trova ja‘alû, per cui si dovrebbe leggere: “essi [i raziocinanti] non
hanno fatto quello…”.
[21] Nel manoscritto Shehit
‘Alî si trova ma‘dûma al posto di mawjûda, cioè non-esistenti al posto di
esistenti. In considerazione della frase immediatamente seguente, mi
sembra sia più corretta la versione del manoscritto Bayazid.
[22] L'opera è classificata come RG.
443 da 'Uthmân Yaḥyâ. Il testo a cui si riferisce Ibn ‘Arabî si trova a pag. 158 dell'edizione del Cairo del 1907, ed a pag. 345
dell'edizione Dâr al-mujahha al-bayḍâ’ di Beirut
del 2000. Un riassunto di questo testo è stato riportato da
Miguel Asin Palacios in “L’islâm christianisé”,
ed. Guy Trédaniel, 1982,
a pag. 313.
[23] Come riporta Asin
Palacios, è necessario digiunare e vegliare per venti giorni, dedicandosi allo dhikr; se dopo dieci giorni di ulteriore attesa vigilante non
si manifesta la teofania, è necessario ripetere il rito.
[24] Le parole tra
parentesi mancano nel manoscritto Shehit ‘Alî.
[25] Nel manoscritto Shehit
‘Alî si legge tujâwiru, che significa “sta accanto, è
vicino”; quale che sia la
lettura corretta, il passo è di
difficile comprensione e non si trova nelle Futûhât
alcun punto che aiuti a capirlo.
[26] Nel manoscritto
Bayazid si trova manba‘, che
significa fonte.
[27] L'opera è classificata
come RG. 205 da 'Uthmân Yaḥyâ, con il titolo Kitâb al-Yâ’ wa-huwa
kitâb al-huwiyya. Una traduzione italiana è stata pubblicata da Chiara
Casseler presso le Edizioni Il Leone Verde nel 2004.
[28] L'opera è classificata
come RG. 169 da 'Uthmân Yaḥyâ. Di essa è disponibile una traduzione francese pubblicata nei numeri di
giugno-settembre 1948 di Études
Traditionnelles.
[29] L'opera è classificata
come RG. 26 da 'Uthmân Yaḥyâ, con il titolo Kitâb al-Alif wa-huwa
kitâb al- aḥadiyya. Il testo è stato edito nella raccolta di Epistole (rasâ‘il) di Ibn ‘Arabî pubblicata a Hyderabad nel 1948.
[30] Si tratta dell'opera classificata
come RG. 412 da 'Uthmân Yaḥyâ e pubblicata al Cairo nel 1995 a cura di Sa‘id ‘Abd al-Fattâḥ col titolo
“Kitâb Manzil al-manâzil
al-fahwâniyya” sulla base del manoscritto Veliyuddin 1759, datato 618
dall'Egira e letto in presenza dell'autore. In realtà il termine fahwâniyya vi ricorre solo quattro
volte, soprattutto nel contesto di elenchi privi di spiegazioni, probabilmente
perché il riferimento alla fahwâniyya
non è tanto testuale quanto “strutturale”: le dimore iniziatiche (manazil) di cui si tratta sono 19 ed
alla fine del libro, nella sezione dedicata ai corrispettivi (naẓâ‘ir) del numero 19, Ibn
‘Arabî: ricorda che 19 sono anche le lettere del primo versetto del Corano,
“che per gli Intimi equivale a ciò che è il “kun” per la Presenza divina”. [Nelle Futûḥât tale ruolo è
attribuito alla sola basmala, cioè
alla frase “bismillâh…”, e non
all'intero versetto: cfr. ad esempio Cap. 47 (I 258.22) e 198 (II 40 1.24)] ll contenuto del libro è
in parte riprodotto, con ulteriori sviluppi, nel Cap. 22 delle Futûḥât, dedicato appunto a queste 19 dimore
iniziatiche.
[31] Nel Cap. 396 [III
558.32] Ibn ‘Arabî precisa: “Egli ha detto riguardo a Gesù: “e tu soffiasti in
essa e divenne un uccello per il Mio permesso” (Cor. V-l l 0), non per la
tua insuffiazione. Essa è solo esteriormente la causa (sahab) della genesi, in
realtà la genesi dipende dal permesso divino”; e nel Cap. 7 4 [III 42.34]
aggiunge: “Voi avete tagliato molte delle loro palme e ne avete lasciate in
piedi un certo numero. Fu per il permesso di Allah” (Cor. LIX-5). Il permesso (idhn) è il comando (amr) divino: Egli ha
ordinato ad alcune piante che restassero in piedi ed esse restarono in piedi,
ed ha ordinato ad altre piante che venissero tagliate, ed esse furono tagliate
per il permesso di Allah, non per il loro [dei servitori] taglio, così come
restarono in piedi per il permesso di Allah, non per il loro lasciarle il
piedi, anche se essi sono qualificati dal tagliare e dal lasciare. Ciò non
contraddice il permesso di Allah, poiché il permesso di Allah agli alberi, in
questa forma, è come la predisposizione (isti ‘dâd) nella cosa: l'albero è
predisposto al taglio e lo riceve da chi lo taglia. Quindi il Suo detto: “…con
il permesso di Allah”, cioè all'albero, equivale al Suo detto: “…e divenne un
uccello per il Mio permesso" (Cor. V-110): l'insuffiazione (nafkh) di Gesù fu per via
dell'esistenza dello spirito vitale, poiché il soffio, cioè l'aria che uscì da
Gesù, è identico allo spirito vitale, ed esso entrò nel corpo di questo uccello
e lo pervase perché questo uccello era predisposto a ricevere la vita da questo
soffio, così come il vitello ricevette la vita da ciò che vi scagliò il
Samaritano [cfr. Cor. XX-88]. Quindi
l'uccello volò per il permesso di Allah, così come il vitello muggì per il
permesso di Allah!”. In arabo la radice di idhn è la stessa di udhun, orecchio, termini che differiscono
solo per la vocalizzazione: ciò si può forse ricollegare alla primordialità del
suono ed a quanto René Guénon ha scritto nell'articolo “L’hiéroglyphe du cancer”, Cap.
XIX dei Symboles de la Science sacrée, in
particolare nella nota in cui affermava: “Par une concordance assez
remarquable, ce schéma est également celui de l'oreille humaine, l'organe de
l'audition, qui doit effectivement, pour etre apte à la perception du son,
avoir une disposition conforme à la nature de celui-ci”. D'altra parte, come si
è visto, Ibn ‘Arabî attribuisce la facoltà dell'udito al possibile anche nel
suo stato di non-esistenza, e nel Cap. 182 [II 366.27] precisa: “L'Altissimo ha
detto: “[Allah] è Udente e Sapiente” (Cor. IX-98) ed ha detto: “[Allah] è
Udente e Vedente” (Cor. XXll-61) e quindi ha fatto precedere l'udito alla
scienza ed alla vista. La prima cosa che abbiamo appreso da Allah e che è stata
connessa con noi è da parte Sua la Parola e da parte nostra l'udito (sam‘)”.
[32] Nel Cap. 68 [I 366.1] Ibn ‘Arabî precisa: “ll
Mondo, nella sua totalità, è costituito dalle Parole (kalimât) di Allah
nell’esistenza. Allah, l’Altissimo, ha detto riguardo a Gesù, su di lui la
pace: “[…] un Verbo che Egli ha proiettato verso Maria” (Cor. IV-l71), e
l'Altissimo ha detto: “le Parole di Allah non si esaurirebbero” (Cor. XXXI-27),
e l'Altissimo ha detto: “Verso di Lui salgono le buone parole (kalim)” (Cor. XXXV-10) e kalim è il plurale di kalima, e l'Altissimo dice alla cosa quando la vuole “Sii” e quella cosa
si riveste del venire ad essere (takwîn)
ed è (yakûnu)”. Nel Cap. 308 [III 33.12] aggiunge: “…e queste opere
si manifestano nelle forme di cavalcature, e se sono pie salgono con lui verso
l’‘Illiyyûn. L’Altissimo ha detto:
“Verso di Lui salgono le buone parole (kalim)”
(Cor. XXXV-10) cioè gli spiriti buoni che sono le Parole (kalimât)
di Allah”.
[33] Il Cap. 384 è il primo
capitolo dedicato alle stazioni della mutua discesa (munâzala); il verbo nazala significa scendere, smontare da una
cavalcatura e quindi anche sostare, fermarsi, fare tappa, alloggiare, come in italiano si dice di un
viaggiatore che “scende” in un albergo. La terza forma verbale, nâzala, da cui deriva l'infinito munâzala, è il reciproco della prima ed
esprime l'atto comune di due che “scendono” nello stesso luogo. La parte
iniziale del capitolo contiene un commento al versetto citato nel testo che
stiamo traducendo ed anche un riferimento alla fahwâniyya, per cui può essere utile riportarne
degli estratti. Ibn ‘Arabî precisa [III 523.23]: “Sappi, che Allah assista te e
noi, che la mutua discesa (munazala) è in questo caso l'atto
di due attori ed è la discesa (tanazzul)
dei due, ciascuno dei quali cerca l'altro per scendere su di lui o [per
dimorare] presso di lui - dì quello che preferisci. Quindi essi si riuniscono
nella Via in una sede determinata e questa viene chiamata mutua discesa a causa
della ricerca di entrambi. In realtà, da parte del servitore, questa discesa è una salita (su‘ûd);
noi la chiamiamo discesa solo perché egli cerca tramite questo innalzamento di
scendere presso il Vero. L'Altissimo ha detto: “Verso di Lui salgono le buone
parole (kalim) e l'opera pia le
innalza” (Cor. XXXV-10). Questa è il loro burâq
su cui esse vengono fatte viaggiare verso di Lui di notte e tramite il quale
scendono da Lui. L'Altissimo ha detto di Se stesso, come ha riferito da parte
Sua l'Inviato di Allah, che Allah faccia scendere su di lui la Sua ṣalât e la Pace: “ll nostro Signore discende ogni notte verso il Cielo più
basso”, fino alla fine dello ḥadîth]. Quindi Egli
ha caratterizzato Se stesso con la discesa verso di noi. Questa è la discesa
del Vero verso una creatura, e da parte nostra vi è la discesa di una creatura
verso il Vero, in quanto noi siamo incapaci di avere elevatezza, grandezza ed
indipendenza da Lui. […] Che si tratti di una mutua discesa o di una discesa
completa Egli è Colui che parla e Colui che ascolta, e sa ciò che dice. Egli è
l'udito di colui che ha questa stazione, sicché nessuno sente il Suo discorso
al di fuori di Lui. […] Sappi che il Vero non parla ai Suoi servitori o rivolge
a loro l'allocuzione se non dietro il velo [cfr. Cor. XLII-51] della forma in
cui Egli Si manifesta a essi […] Colui che discende nella mutue discese
caratterizzate dall'Allocuzione (khiṭâb) non contempla se non forme, da cui egli apprende le realtà essenziali ed i
segreti di cui queste forme si fanno interpreti per lui da parte Sua e queste
sono le lingue dell'Allocuzione divina faccia a faccia (fahwâniyya). Il confine
(ḥadd) delle mutue discese va dalla Nube primordiale (‘amâ’) fino alla Terra, includendo ciò che c'è tra le due. Ogni
volta che la forma [divina] si separa dalla Nube e la forma umana interiore si
separa dalla Terra ed esse si incontrano si tratta di una mutua discesa. Se
invece [la forma umana] arriva alla Nube o l'Ordine viene ad essa fino alla
Terra quella è una discesa (nuzûl)
non una mutua discesa, e la sede in cui ha luogo l'incontro è una dimora (manzil)”.
[34] Nel manoscritto
Bayazid è riportato nisba, relazione.
[35] Cfr. il brano del Cap.
384 riportato nella nota 65.
[36] Nel linguaggio tecnico
di Ibn ‘Arabî [Cap. 131 (II 216.10)]
il termine “âthâr” si
riferisce agli effetti dei Nomi divini, conformemente al versetto Cor. XXX-50:
“Considera gli effetti della Misericordia di Allah, come Egli riporta in vita la terra dopo che era morta!”. Nel Cap. 559 [IV 419.4] Ibn ‘Arabî precisa che gli
effetti sono le proprietà (aḥkâm) dei Nomi.
[37] Entrambi i manoscritti
sono solo parzialmente vocalizzati per cui è possibile leggere sia “lâ tanfudhu” o “lâ tunfadhu”, ma nel primo caso il
significato sarebbe assurdo: “Ed il Verbo è esecutivo e non è mai esecutivo”. Potrebbe trattarsi di un errore del copista,
ed essere “lâ tanfudhu”, cioè “non si esaurisce”, tanto più
che l'affermazione che le Parole (kalimât) di Allah non si
esauriscono ricorre in Cor. XVIII-109 e XXXI-27. Ma il manoscritto più vecchio
è stato letto in presenza dell'autore,
per cui eventuali errori dovrebbero essere stati
emendati.
[38] Hadîth non recensito nelle raccolte canoniche. Nel
Cap. 361 [III 295.14] Ibn ‘Arabî afferma che venne notificato in occasione
della spedizione di Tabûk, nell'anno 9 dall'Egira, e ne attribuisce la
trasmissione ad Abû Dharr; d'altra parte, da quanto è riportato nelle Futûḥât, questa prerogativa
non sembra essere limitata agli Intimi, bensì essere estesa a tutti i beati. Cfr. Cap. 47 [I 258.22 e
259.29], 70 [I
584.30], 72 [I 667.20], 84 [II 157.26], 198 [ll440.34 e 441.26], 353 [lll
240.21], 380 [III 502.24] e 558 [IV 252.8]. Confrontare anche Cor. XU-31.
[39] Solo nel manoscritto
Bayazid.
[40] Questo
aneddoto è riportato anche nel Cap. 325 [III
93.4]
e nel Cap. 474 [IV 108.34], seppure con meno dettagli.
[41] In entrambi i
manoscritti si può leggere ṭuhûr, per l’assenza del punto diacritico sulla prima lettera.
[42] Hadîth riportato da al-Bukhari, VIII-39, IX-8, XXI-12, Muslim, V-54, e da lbn Ḥanbal.
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