"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 29 ottobre 2017

Ibn ‘Arabî, Il libro della Verità. (II - Fine)

Ibn ‘Arabî
Il libro della Verità - II*

(segue)

SEZIONE (FAL)
Quanto alla emanazione (sudûr) [o: al procedere] delle cose da Lui, non è ammissibile che Egli, Gloria a Lui l'Altissimo, sia l'origine (madar) di una cosa, se non in senso metaforico (bi-ukmi l-majâz)[1], e se è in senso metaforico e non in senso vero (bi-ukmi l-ḥaqîqa) non possiamo impiegare questa espressione poiché non è pervenuta l'autorizzazione (idhn) al riguardo.

È indispensabile per noi applicare a Lui solo [quelle espressioni] che Egli ha utilizzato riguardo a Se stesso, e che ci è stato così autorizzato di applicare a Lui, tanto che i realizzati tra di noi negano che si possa utilizzare nei Suoi riguardi, Gloria a Lui, il termine “Qualità (ifât)” poiché non è pervenuta alcuna autorizzazione in merito, mentre usano per Lui il termine “Nomi (asma’)” in quanto è pervenuta l'autorizzazione a farlo[2]. Quanto è più forte la loro proibizione (taḥrîm) [di usare termini inappropriati] nei confronti della Divinità (ulûhiyya), la soddisfazione (riwân) di Allah sia su di loro! Ho constatato personalmente, tra i loro realizzati, un fermo rifiuto (inkâr) ad adoperare il termine “eternità (qidam)” riguardo a Lui; [uno di loro] ha detto: “Non si addice impiegare per Lui, Gloria a Lui, questo termine, anche se razionalmente (‘aqlan) Egli è Colui che è denominato (musammâ) dal suo significato!”, e non ha detto: “qualificato (man‘ût) dal suo significato”, in modo che non fosse attaccato a Lui ciò stesso che egli rigettava e rifiutava.
Egli, Gloria a Lui, è troppo elevato per essere l'origine delle cose, per la mancanza di correlazione (munâsaba)[3] tra il possibile (mumkin) [45a] ed il necessario (wajîb)[4], e tra chi ammette la primordìalità (awwaliyya) [o la condizione iniziale] e chi non la ammette [come Colui che è qualificato dall'eternità senza inizio (azal)], e tra chi è dipendente e chi non è qualificato dalla dipendenza (iftiqâr). Ma Egli ha dato l'esistenza (awjâda) alle cose in conformità (muwâfaqatan) alla [Sua] Scienza di esse, dopo che esse non avevano esistenza nelle loro essenze (a‘yân): esse sono legate a Colui che ha dato loro l’esistenza con il legame (irtibâ) di un dipendente possibile (faqîr mumkin) ad un indipendente necessario (ghanî wâjib)[5].
Non è concepibile esistenza per esse se non per Lui, né è concepibile un dominio (ḥukm) per Lui se non per esse: quindi Egli è mediante esse per Scienza ed esse sono mediante Lui per esistenza (fa-huwa bi-hâ 'ilman wa-hiya bi-hi wujûdan), e la Sua precedenza (taqaddum) rispetto ad esse è una precedenza che riguarda l'esistenza[6]. Se la non-esistenza (‘udum) fosse una realtà che Lo indica, la loro emanazione sarebbe dalla non-esistenza, per il Potere (qudra) di Colui che dà loro l'esistenza, ed Egli è Allah, l'Altissimo, ed Egli è più degno che questa espressione [Colui che dà loro l'esistenza] venga applicata a Lui, poiché Egli ha più diritto (aaqq) ad essa. Invero il possibile si manifesta (ẓahara) nell'esistenza dopo che era non esistente, e se fosse originato da Allah procederebbe da un'esistenza ad un'esistenza[7] e sarebbe caratterizzato dall’avere un’essenza [esistente] che sussiste nell’etemità senza inizio (azal), ma questo è tra le cose che non diciamo di Lui, ci rifugiamo in Allah! Quindi Egli, Gloria a Lui non è affatto origine di una cosa possibile[8], così come Egli, l'Altissimo, non procede (yaṣduru)[9] da una cosa; sopra di Lui non c'è altro che Lui ed Egli è Colui la cui esistenza è necessaria per la Sua Essenza, senza comunanza (ishtirâk) [con altri] in questa realtà essenziale. Questo argomento (fasl) è [così] verificato (muaqqaq); ad esso abbiamo dedicato un piccolo libro in cui abbiamo descritto la modalità di manifestazione (kayfiyyat ẓuhûr) delle possibilità, e per questo non la menzioniamo qui. In questo momento non ho a disposizione il testo (tarjama) di quel libro, ma abbiamo accennato ad una parte di questo argomento ne “Il libro delle tabelle (Kitâb al-jadâwil)”[10], all'inizio, quando abbiamo trattato dei gradi dell'esistenza.
Poi diciamo: quando, per la proprietà dello stato (bi-ḥukmi l-ḥal), si verificò (sahha) da parte delle possibilità, in quanto possibili, il ricorso (iltijâ’)[11] ad Allah, l’Altissimo, riguardo alla manifestazione delle loro essenze (uhûri a‘yâni-hâ)[12], a questa condizione (khâla) intellegibile per il possibile venne rivolto il discorso (khûṭibat)[13] con il kundella Presenza dell’Allocuzione divina (fahwâniyya)[14], non poteva essere altrimenti. Il “kun” non sta a significare (‘ibâra) la disponibilità (tahayyu’) di ciò che è voluto (murâd) nei confronti della Volontà specifica, ma nei confronti della Allocuzione divina[15], secondo l'ordinamento (tartîb) di questo stato [principiale]: “Invero la nostra Parola (qawl) ad una cosa, quando la vogliamo, è che le diciamo: Sii (kun)!, ed essa è” (Cor. XVI-40)[16]. Quindi la Parola, la Volontà ed il Potere sono fissi (thabita) insieme alla Scienza, [e] sono oggetto di intellezione (‘uqilat), con il Necessario incondizionato, l'Indipendente (ghanî), al momento della contemplazione (mushâhada). La riflessione (fikr) comprende (adraka) queste proprietà ad eccezione della proprietà della Parola, che l'udito [45b] afferma (athbata) e che lo svelamento (kashf) vede. La Realtà essenziale divina è tale che la ragione (‘aql), quanto alla riflessione, non la conoscerà mai; ed ogni riflessivo (mufakkir) volge (sarrafa) questa proprietà ad altro che la Parola ed esprime un giudizio (taakkama) su di Allah con ciò che non Gli si addice, e sarebbe meglio per lui l'assenso (taslîm). Il Verbo (kalima) della Presenza [cioè il “kun”] è contemplato da coloro che sono presenti ad esso; esso è diretto (mutawajjiha) ad ogni esistente possibile, e la forma dell’ordinamento in queste proprietà è Scienza, Volontà, Parola e poi Potere: un'Essenza unica e una diversa proprietà.
Il motivo che fa negare alla gente della riflessione la proprietà della Allocuzione divina è che essi non contemplano il suo effetto nel possibile. L'esistenza testimonia il Potere, la specificazione (takhṣîṣ) è testimone (shahid)[17] della Volontà e le proprietà sono testimoni della Scienza, ed essi non percepiscono testimone alla Parola e quindi la negano e non sono giusti (ansafû). La prova (dalîl) della ragione non può rendere impossibile [questa proprietà] (lâ yuayyilu-hu) e non si addice di distoglierla (sarfu-hu) dall'aspetto della Parola per volgerla ad un altro aspetto che non apporta la sua realtà essenziale, e questo da parte loro sarebbe un giudizio puro (taḥakkum maḥ)s! Ma sarebbe meglio che dicessero al riguardo: “Allah è più Sapiente riguardo a ciò che ha detto!”.
Quanto ai realizzati, la gente dello svelamento e della contemplazione, essi ascoltano il Verbo e non possono negarlo dopo che l'hanno compreso. Se il raziocinante approfondisse il Suo detto, l'Altissimo, ad Abramo, su di lui la Pace: “[Prendi quattro uccelli e poi falli a pezzi e metti un pezzo su ogni montagna], poi chiamali: verranno da te correndo!” (Cor. 11-260)[18] [in cui] il Vero lo ha informato del Verbo della Presenza e del fatto che l'essere contingente (kawm) non si manifesta se non per mezzo della Parola - apparirebbe a loro ciò che è loro nascosto (khafiya)[19] - e [il Vero] non ha fatto (ja‘ala) quello per ciò che concerne la Volontà, né per altro[20]. Ed egli [Abramo, su di lui la Pace] li chiamò ed era una lingua di verità ed un interprete del “kun”, e quando realizzò questo grado di contemplazione (mashhad) elevato (sanî) essi si affrettarono a rispondere e manifestarono nelle loro essenze delle forme non esistenti in sostanze (jawâhir) esistenti[21], e l'essere contingente fu per la forma, non per la sostanza. Questo ricorso (istijâ’) da parte dell'essere contingente non è correlato se non all'Attributo di essere Colui di cui tutti hanno bisogno (amadâniyya) e questo Verbo non appartiene se non all'Attributo di essere Colui di cui tutti hanno bisogno. Invero il Verbo di altri che Colui di cui tutti hanno bisogno (a-amad) non ha potere (ḥukm) direttamente (ra’san).
Questo Attributo di essere Colui di cui tutti hanno bisogno ha una epifania (tagallî) che la caratterizza, che abbiamo menzionato nel nostro Libro dei luoghi di tramonto delle stelle (Kitâb Mawâqi‘ an-nujûm), riguardo alla sfera del cuore al momento della discesa essenziale[22]. Chi vuole soffermarsi sulla sua forma e sulla modalità [46a] dell'ottenimento della teofania dell'Attributo di essere Colui di cui tutti hanno bisogno e su ciò che essa comporta quanto alle realtà essenziali (aqâ‘iq) ed alle scienze lo ricerchi in quella sede, se Allah, l'Altissimo, vuole[23]. Esso fa parte esteriormente degli attributi intrinseci (awâf) della Divinità ed in modo allusivo (ishâratan) degli attributi intrinseci della Personalità. La Divinità fa parte degli attributi di relazione (nu‘ut) della Personalità, poi [di ciò che][24] viene dopo la Divinità tra i Nomi. Talvolta i conoscitori lo ascrivono (yahmilu-hâ) alla Divinità e talvolta lo ascrivono al Sé (huwa) e quindi la Divinità che sorpassa (tujawizu)[25] il Nome è in conformità a ciò in cui essi sono fatti stare (yuqâmûna); su questa strada larga (mahya‘)[26] scorre (jarat) la Via degli iniziati!
Abbiamo dedicato un libro alla Personalità e lo abbiamo intitolato Il libro del Sé[27], un libro della Divinità, che abbiamo intitolato Il libro della Maestà (jalâla)[28], ed un libro all'Unità (waḥdâniyya), che abbiamo intitolato Il libro dell'Unità (aḥadiyya)[29], in cui abbiamo parlato dell’Unico e dell’Uno, del pari e del dispari. Quanto alla Allocuzione divina, anche se vi abbiamo dedicato un'opera[30], questo libro esige da noi una [ulteriore] considerazione riguardo ad essa. Diciamo dunque: il Verbo della Presenza talvolta si identifica alle entità delle essenze (a‘yân adh-dhâwât), se si tratta dell'essenza della Gente della elezione (ikhtiâ), e da essa viene fatto (yanfa‘ilu) ciò che viene fatto dal Verbo della Presenza; quindi questa essenza è un manto (ridâ’) sul Verbo ed il Verbo è ammantato da essa. A questa essenza si applica il nome del Verbo, per l’avverarsi (taaqquq) della manifestazione dei suoi effetti al momento del suo orientamento (tawajjuh) alla esistenziazione (îjâd) dell'effetto.
Per questo l'Altissimo ha detto riguardo a Gesù, su di lui la Pace: “Invero il Messia, Gesù, figlio di Maria, è l'Inviato di Allah ed un Verbo che Egli ha proiettato verso Maria, ed uno Spirito da parte Sua” (Cor. IV-171), quindi egli, anche se è uno Spirito, è stato sostenuto (mu’ayyad) per mezzo dello Spirito, ed egli, anche se è Verbo, si è manifestato per mezzo del Verbo, e vivificò i morti e guarì il lebbroso ed il cieco nato [cfr. Cor. III-49 e V-110] per mezzo della sola Parola o, al suo posto, per mezzo di un altro attributo che è stato indicato con [il termine] insufflazione (nafkh). Egli ha detto: “e tu soffiasti in essa e divenne un uccello per il Mio permesso” (Cor. V-110), ed il Suo detto “'per il Mio permesso (bi-idh) fa parte del Verbo della Presenza[31]. Invero il permesso è identico al Verbo della Presenza ed il Verbo non cessa di manifestarsi con una manifestazione immensa. Se venissero enumerate (‘uddat) le Parole divine nei Libri rivelati (munazzala) e vedesse ciò che esse [le Parole] hanno preceduto (sabaqat), colui che osserva vedrebbe in quello una meraviglia!
L'Altissimo ha detto: “Verso di Lui salgono le buone parole (kalim) [e l’opera pia le innalza]” (Cor. XXXV-l0), che è il plurale di kalima [Verbo], e ciò che si intende con quello sono le essenze (dhâwât) [46b] e la buona parola (al-qawl al-asan) insieme, non solo una di queste cose[32]. Quindi la salita (su‘ûd) delle essenze è una salita essenziale e la salita delle parole è una salita intelligibile (ma‘nawî)[33]. Se il luogo verso cui si sale (mas‘ad) è indicato con la localizzazione (makâniyya), la salita verso di Lui per ciò che concerne il verbo corporeo (jismâniyya) è un trasferimento (intiqâl) e la salita verso di Lui per ciò che concerne il verbo spirituale è il volgere (arf) di un volto (wajh) verso il lato di un certo essere esistente; se ciò verso cui si sale non è indicato con la localizzazione, il verbo corporeo non avrebbe mai una salita in questo luogo di ascensione (ma‘râj), ma il verbo spirituale sì; e se ciò verso cui si sale con questo verbo spirituale è simile ad esso, come la salita verso l'Intelletto Primo e gli spiriti perdutamente innamorati, è una salita di relazione. E se non è simile sotto questo aspetto e si tratta della Personalità è una salita senza somiglianza (shibh)[34] né connessione (nasab). E non c'è mai arrivo (wuûl) se non verso un Verbo del Sé in modo speciale, e la Sua Presenza è l'Allocuzione (khiâb)[35] e la Sua stazione è la conversazione (mukâlama) ed a Lui appartiene il sostegno (ta’yîd) nel Mondo dell'esistenza contingente al momento del ritorno verso i luoghi di origine (mawâṭin) degli effetti (âthâr)[36] per mezzo dell'effetto. Ed il Verbo è esecutivo (yakûnu tanfudhu) e non è mai oggetto di esecuzione (lâ tunfadhu)[37].
È stato riportato nella notificazione che “all'Intimo nel Paradiso si presenterà l'Angelo da presso di Allah con un libro sigillato ed entrerà da lui per la richiesta di permesso”, e nel libro [è scritto] “da parte del Vivente permanente che non muore al vivente permanente che non muore, quanto segue: Io dico alla cosa “sii” ed essa è, ed abbiamo stabilito che da oggi tu dirai alla cosa “sii” ed essa sarà!”[38]. Quindi l'Intimo nel Paradiso non dirà ad una cosa “sii” senza che quella cosa sia.
Si racconta che Abu Yazid al-Bisṭâmî, [Allah sia soddisfatto di lui][39], trascinò la sua mano sulla sua gamba (sâq) ed uccise una formica, e quando si accorse di essa insuffiò in essa ed essa si rimise a camminare viva, per il permesso di Allah, [l’Altissimo][40]. Tutto ciò fa parte del Verbo della Presenza e della Stazione dell'Allocuzione divina faccia a faccia.
Questo è quanto basta per questo libro. Già si è fatta mattina ed è sorta l’aurora (fajr) ed il Vero ci chiama verso la sede del colloquio intimo (munâjâh), affinché noi realizziamo il Verbo della Presenza. Esso ha una permanenza (ṭubût) ed una manifestazione (ẓuhûr)[41] nell'ambito della alât, poiché colui che fa la alât parla con il suo Signore[42].
Prendiamo dunque le redini (al-‘inân) ed alziamoci per adempiere alla purificazione (tuhûr) ed al colloquio del Misericordioso. Il relatore (muqarrir) di ciò che è stato messo per iscritto (marsûm) ha terminato. Sia lode [47a] ad Allah, il Possessore (walî) della lode e Colui che è degno di essa. Il libro è completo, ed Allah faccia scendere la Sua alât e la Pace sul signore degli Inviati, Muhammad, sulla sua famiglia e sui suoi compagni.
(Fine)

(*) Questo breve trattato di Ibn 'Arabi non è mai stato pubblicato a stampa ed esiste solo in forma manoscritta. 'Utmân Yahya nel Répertoire Général (RG) della Histoire et classification de l'oeuvre d'lbn ‘Arabî, Damasco, 1964, elenca 35 manoscritti di quest'opera (RG. 219). La traduzione è stata fatta su due manoscritti conservati nelle biblioteche di Istanbul, il Shehit ‘Alî 2813 ed il Bayazid 3750. Il primo, che 'Utmân Yahya descrive come autografo, è stato in realtà redatto da Ayyûb ibn Badr al-Maqqari, nell'anno 621 dall'Egira, e contiene un certificato di ascolto (samâ‘) che inizia come segue: “Lo ha copiato Ayyûb ibn Badr per se stesso, in presenza del suo autore, nella [Grande] Moschea [di Damasco] nella seconda decade del mese di Ramadan, mentre egli, Allah sia soddisfatto di lui, era in ritiro spirituale. Ed ho anche letto questo libro, il Libro della Verità, al suo autore, il signore, il Maestro, l'Imam, il sapiente, [ ... ] Muhyiddîn Abû 'Abdallah ibn 'Ali ibn Muhammad ibn al-'Arabî at-Tâ'î al-Hatimi [ ... ]". Il secondo è stato redatto nell'anno 782 dall'Egira.


[1] Ibn ‘Arabî riprende qui la critica formulata da al-Ghazalî ai filosofi che sostengono l'emanazione o la processione della creazione dal Principio, come al-Farabi e Avicenna. Su questo argomento si può consultare un recente studio di Olga Pizzini, intitolato “Fluxus (fay). Indagine sui fondamenti della metafisica e della fisica di Avicenna”, Edizioni di pagina, 2011, pagg. 550-554.
[2] L'espressione “i Nomi più belli” ricorre nel Corano quattro volte: VII-180, XVII-110, XX-8 e LIX-24. D termine ifât invece non è mai utilizzato, ed il verbo corrispondente ricorre solo in espressioni come “‘amma yaṣifûn” riferite a ciò che gli uomini attribuiscono ad Allah, e non a ciò che Allah attribuisce a Se stesso.
[3] Il termine “munâsaba” è l'infinito della terza forma di “nasaba”, “mettere in relazione”, la quale implica una reciprocità, cioè una relazione reciproca. Pertanto non va tradotto come “relazione” (nisba), ma piuttosto come “correlazione”, “analogia” o “corrispondenza”. Talora assune anche il significato di “similitudine”.
[4] Nell'Introduzione [I 41.6] Ibn ‘Arabî afferma: “Quale correlazione (munâsaba) può esserci tra il Vero, la Cui esistenza è necessaria per la Sua Essenza, ed il possibile (mumkin), anche se esso è necessario per Lui, secondo chi sostiene ciò, per la implicazione necessaria (iqtiḍâ’) dell'Essenza o quella della Scienza? La validità di una simile correlazione concettuale può essere stabilita solo per mezzo delle dimostrazioni esistenziali! Ed è indispensabile che tra la prova e la cosa provata e tra la dimostrazione e ciò che è dimostrato vi sia un aspetto per mezzo di cui si stabilisca la connessione, il quale abbia una relazione con la prova ed una relazione con ciò che è provato da quella prova. In mancanza di questo aspetto, la prova di chi argomenta non raggiungerebbe mai ciò che è provato! Ora, la creazione (khalq) ed il Vero non si riuniscono mai in un aspetto per quanto attiene all'Essenza, ma solo in quanto questa Essenza è qualificata (man‘ût) dalla Divinità (ulûha)”. In altri punti della sua opera la mancanza di correlazione riguarda Allah e le Sue creature; cfr. Cap. 2 [I 92.5], Cap. 3 [I 93.7 e 94.1], Cap. 28 [I 194.2], Cap. 68 [I 372.25], Cap. 69 [I 431.1] “Non c'è correlazione tra Allah e le Sue creature: Se non c'è cosa simile a Lui, come potrebbe essere simile ad una cosa o una cosa essere simile a Lui?”, Cap. 73, questione LIX [II 81.5], Cap. 140 [II 226.25]. Analogamente, nel Cap. 272 [II 579.91, egli precisa: “La correlazione (munâsaba) tra il Vero e la manifestazione non è né intellegibile né esistente. Nulla deriva da Lui quanto alla Sua Essenza. Ogni cosa indicata dalla Legge o presa dalla ragione come una indicazione è correlata con la Divinità, non con l'Essenza. Allah in quanto Dio è ciò da cui la cosa possibile è sostenuta per la sua possibilità!”. Altrove però la negazione della correlazione è più sfumata; nel Cap. 69 [I 415.14] Ibn ‘Arabî precisa: “Egli non genera (yalid) per mezzo della Sua esistenziazione delle creature, poiché non c'è correlazione tra l’esistenza delle creature e l'Esistenza del Vero. La correlazione è concepibile tra il genitore ed il figlio in quanto ogni premessa (muqaddima) non causa altro che il suo corrispondente (munâsib) e non c'è correlazione tra Allah e le Sue creature se non la dipendenza (iftiqâr) delle creature nei Suoi riguardi nella loro esistenziazione, mentre Egli è indipendente dai Mondi”, e nel Cap. 72 [I 684.22] aggiunge: “[…] viene meno alla sua umanità e ritorna a far parte dell'insieme degli esseri animati e decade per lui l'imposizione legale (taklîf) e viene a cessare la correlazione tra lui ed Allah; intendo dire la correlazione dell'avvicinamento (taqrîb) in modo specifico, non la correlazione della dipendenza, poiché la correlazione della dipendenza non viene mai meno al possibile, né nel suo stato di non-esistenza, né nel suo stato di esistenza”.
[5] I termini tradotti come dipendente ed indipendente significano letteralmente povero, o bisognoso, e ricco. Nel Cap. 293 [II 665.15] Ibn ‘Arabî  precisa: “Non c'è nell'esistenza assolutamente alcuna cosa che non abbia un legame (irtibât) con un'altra cosa, persino il Signore (rabb) ed il suo vassallo (marbûb). Ciò che è creato esige il Creatore ed il Creatore esige ciò che è creato e per questo la scienza del sapiente è sulla forma dell'oggetto della scienza”; nel Cap. 451 [IV 66.7], aggiunge: “Ogni creatura è legata ad Allah con il legame (irtibâ) del possibile al necessario, sia esso esistente o non esistente, beato o dannato. Il Vero, per ciò che conceme i Suoi Nomi, è legato alle creature, in quanto i Nomi divini cercano il Mondo per una esigenza (talab) essenziale. Non c'è dunque scampo nell'esistenza (wujûd) dall'essere vincolati (taqyîd), per entrambe le parti, e come noi siamo per mezzo di Lui, Egli è per mezzo di noi e per noi, altrimenti non sarebbe per noi né Signore, né Creatore, mentre Egli è senza dubbio il nostro Signore ed il nostro Creatore […] Se questo legame (irtibâ) lega, come abbiamo detto, le due realtà (amrân) è necessario che vi sia ciò che le riunisce ed esso è ciò che lega (râbi) e non è altro se non ciò che comporta l'essenza di ciascuna di esse due, senza che sia necessaria una realtà esistente aggiuntiva. Esse quindi sono collegate per loro stesse poiché non c'è che creature (khalq) e Vero ed è inevitabile che ciò che lega sia una di esse due o entrambe, ed è impossibile che una di esse possieda esclusivamente questa proprietà ad esclusione dell'altra, poiché è necessario che entrambe ammettano questo legame, ed esso quindi si manifesta per entrambe, non per una sola di esse. Malgrado questo legame esse non sono simili, ma per ciascuna di esse non c'è cosa simile ad essa e quindi inevitabilmente si distinguono per un'altra realtà; in nessuna delle due vi è la realtà dell'altra per mezzo di cui ciascuna di esse è indicata. La dipendenza rende necessaria l'inclinazione e l'accettazione del movimento, mentre l'indipendenza non ha quella proprietà in Colui che è indipendente. Noi sappiamo che tra il magnete ed il ferro vi è necessariamente una correlazione (munâsaba) ed un legame, come il legame delle creature con il Creatore, ma se prendiamo il magnete, il ferro è attratto verso di esso e noi sappiamo che l'attrazione sta nel magnete, mentre nel ferro sta la disposizione (qubûl) [ad essere attratto], e per questo reagisce con il movimento verso di esso. Se invece prendiamo il ferro, il magnete non attratto verso di esso, e anche se essi sono reciprocamente legati restano separati e distinti. Gli uomini, anzi il Mondo è dipendente verso Allah ed Allah è indipendente dai Mondi”.
[6] Nel Cap. 356 [III 255.8] Ibn 'Arabi precisa: “Poiché la qualità propria (al-wasf an.nafsî), per ciò che ne è qualificato, non può essere tolta se non togliendo con essa anche ciò che ne è qualificato, essendo essa identica a ciò che ne è qualificato e niente altro che quello, e poiché la precedenza (taqaddum) della non esistenza (‘udum) è un attributo (na‘t) proprio delle possibilità, in quanto per il possibile è impossibile l'esistenza dall'eternità senza inizio (azalan) e non resta che sia non-esistente nell’etemità senza inizio, la precedenza della non esistenza è per esso un attributo proprio”; nel Cap. 382 [III 512.32] aggiunge: “Noi non affermiamo che il possibile sia non esistente per se stesso, poiché se la non esistenza fosse per esso una qualità propria sarebbe impossibile la sua esistenza, così come è impossibile l'esistenza dell'impossibile (muât), ma noi sosteniamo la precedenza per esso della non esistenza rispetto all'esistenza, e non la non esistenza, come qualità propria, e tra queste due affermazioni vi è una differenza immensa”; e nel Cap. 406 [IV 9.19] conclude: “Non c'è precedenza, né posteriorità, in quanto il possibile, nello stato della sua non esistenza, non è posteriore all'eternità senza inizio (azal) attribuita all'esistenza del Vero: l'eternità senza inizio è necessaria per l'esistenza del Vero così come è necessaria per la non esistenza del possibile, per la sua immutabilità (thubût) e la sua differenziazione (ta‘yîn) presso il Vero”.
[7] Nel Cap. 69 [I 538.33] Ibn ‘Arabî afferma che “la manifestazione delle cose è da un'esistenza ad un'esistenza, da un esistenza di scienza ad un'esistenza di entità”, in quanto le possibilità nel loro stato di non-esistenza sono comunque oggetto della Scienza di Allah. L'esposizione dottrinale di Ibn ‘Arabî non è mai sistematica, perché la Verità non è tale, e la presenza di apparenti contraddizioni ha portato alcuni studiosi superficiali a parlare di “opera astrusa e piena di incongruità”!
[8] Va osservato che Ibn ‘Arabî non parla di “cosa esistente”, ma di “cosa possibile”, espressione che si riferisce alla possibilità, come dimostra il versetto “La Nostra Parola quando vogliamo una cosa è che le diciamo “Sii (kun) ed essa è” (Cor. XVI-40) in cui la “cosa” è oggetto del Verbo prima di esistere e indipendentemente dalla Volontà divina [cfr. Cap. 73, questione XXX (II 62.16)]. La frase “Egli, Gloria a Lui non è affatto origine di una cosa possibile” va quindi intesa nel senso che la possibilità, nel suo stato permanente di non-manifestazione, non “procede”, ma sussiste dall'eternità senza inizio. René Guénon, ne Les états multiples de l’être” affermava che “la Possibilité universelle contient nécessairement la totalité des possibilités” [pag. 26] e che “quand nous disons que la Possibilité universelle est infinie ou illimitée, il faut entendre par qu'elle n'est pas autre chose que l'Infini même, envisagé sous un certain aspect, dans la mesure où il est perrnis de dire qu'il y a des aspects de l'Infini” [pag. 17]. Quando invece si tratta della “cosa esistente” Ibn ‘Arabî non disdegna di utilizzare, in senso “metaforico” come ha precisato all'inizio di questa sezione, il verbo “procedere (adara)”; ad esempio, nel Cap. 353 [III 239.30], egli parla di “come le cose procedono e si manifestano nell'esistenza da Lui (ṣudûr al-ashyâ’ wa-ẓuhûru-hâ fî l-wujûd min ‘inda-hu)”, nel Cap. 396 [III 559. 7] del “procedere delle cose da Allah mediante la genesi (ṣudûr al-ashyâ’ ‘an Allah bi-t-takwîn)”, nel Cap. 405 [lV 7.3] del “procedere di quella cosa da Lui (ṣudûr dhâlika ash-shay’ min-hu)” e nel Cap. 559 [IV 42 7 .2] precisa che “tutte le cose esistenti che sono generate nel tempo non sono uscite verso l'esistenza se non da Allah”, ricorrendo al verbo kharaja. Quanto al senso reale in cui intendere questo “'procedere” è chiarificatore il seguente brano tratto dall'opera già citata di René Guénon, [pagg. 38-39]: “On s'est souvent demandé, et assez vainement, comment la multiplicité pouvait sortir de l'unité, sans s'apercevoir que la question, ainsi posée, ne comporte aucune solution, pour la simple raison qu'elle est mal posée et, sous cette forme, ne correspond à aucune réalité; en effet, la multiplicité ne sort pas de l'unité, pas plus que l'unité ne sort du Zéro métaphysique, ou que quelque chose ne sort du Tout universel, ou que quelque possibilité ne peut se trouver en dehors de l'Infini ou de la Possibilité totale [In nota aggiungeva: “C'est pourquoi nous pensons qu'on doit, autant que possible, éviter l'emploi d'un terme tel que celui d’«émanation», qui évoque une idée ou plutòt une image fausse, celle d'une «sortie» hors du Principe”]. La multiplicité est comprise dans l'unité primordiale, et elle ne cesse pas d'y être comprise par le fait de son développement en mode manifesté […] Ainsi, le principe de la manifestation universelle, tout en étant un, et en étant meme l'unité en soi, contient nécessairement la multiplicité; et celle-ci, […] procède tout entière de l'unité primordiale, dans laquelle elle demeure toujours comprise, et qui ne peut etre aucunement affectée ou modifiée par l'existence en elle de cette multiplicité, car elle ne saurait évidemment cesser d'ètre elle-mème par un effet de sa propre nature, et c'est précisément en tant qu’elle est l'unité qu'elle implique essentiellement les possibilités multiples dont il s'agit. C'est donc dans l'unité meme que la multiplicité existe; et, comme elle n'affecte pas l'unité, c'est qu'elle n'a qu'une existence toute contingente par rapport à celle-ci; nous pouvons meme dire que cette existence, tant qu'on ne la rapporte pas à l'unité comme nous venons de le faire, est purement illusoire; c'est l'unité seule qui, étant son principe, lui donne toute la réalité dont elle est susceptible”.
[9] L'espressione yaṣduru ricorre nel Corano solo una volta, nella Sûra XCIX al versetto 6.
[10] Si tratta di una variante del titolo dell'opera più comunemente nota come Il libro della produzione dei cerchi (Kitâb inshâ’ ad-dawâ’ir), classificata come RG. 289 da ‘Uthmân Yayâ. Di questo testo è disponibile una traduzione francese a cura di P. Fenton e M. Gloton, intitolata “La production des cercles”, Editions de l'Eclat, 1996; il punto a cui fa riferimento Ibn 'Arabi è sviluppato nelle pagine 6-10.
[11] Questo verbo, che significa letteralmente “rifugiarsi”, non ricorre come tale nel Corano, ove è invece presente [Cor. IX-57 e 118, e XLII-47] il nome di luogo, malja’a, “rifugio”, derivato dalla sua radice. Anche nelle Futûât il suo uso non è molto frequente; oltre al brano del Cap. 558 citato nella nota 6, esso ricorre nei capitoli 5 [I 103.23], 69 [I 463.6], 72 [I 736.26], 178 [II 338.29 e 32], 356 [III 256.9] e 559 [IV 3 78.31 e 386.26].
[12] La richiesta ai Nomi divini da parte delle possibilità di essere rivestite dal manto dell'esistenza è descritta ampiamente da Ibn ‘Arabî nel Cap. 66 [I 323.9].
[13] Khûṭibat è la forma passiva del verbo khâṭaba, terza forma della radice verbale khaṭaba, che significa tenere una allocuzione. Da questa radice deriva il sostantivo khiṭab, che non si riscontra nel Corano e che significa allocuzione, cioè un discorso rivolto a qualcuno: il soliloquio non è una allocuzione nel senso arabo del termine. Ibn ‘Arabî distingue diversi tipi di allocuzione divina in base allo stato in cui si trova colui che ascolta, il Mondo in cui essa ha luogo e la modalità con cui viene effettuata. Per quanto riguarda il primo aspetto egli precisa nel Cap. 198, sezione II [II 400. 7]: "Il Discorso (kalam) e la Parola (qawl) sono due attributi di relazione (na‘tan) di Allah: per mezzo della Parola ascolta chi non è esistente (ma‘dûm), e ciò corrisponde al detto di Allah, l'Altissimo: “Invero la nostra Parola ad una cosa, quando la vogliamo, è che le diciamo: Sii (kun)! Ed essa è" (Cor. XVI-40); per mezzo del Discorso ascolta chi è esistente (mawjûd), e ciò corrisponde al Suo detto, l'Altissimo: “Ed Allah si rivolse a Mosé con un discorso” (Cor. IV-164). […] La Parola ha un effetto su ciò che è non-esistente ed esso è l'esistenza, e il Discorso ha un effetto su ciò che è esistente, ed esso è la scienza”. Per quanto riguarda il secondo aspetto egli distingue “l'Allocuzione del Vero faccia a faccia nel Mondo della similitudine (‘âlam al-mithâl)” che chiama “fahwâniyya [Cap. 73, questione CLIII (III 28.33)], “l’Allocuzione del Vero ai conoscitori dal Mondo dei segreti e dei misteri”, che chiama “musâmara” o discorso notturno [Cap. 73, questione CLIII (II 130.1)], è “l'Allocuzione del Vero ai conoscitori tra i Suoi servitori dal Mondo della manifestazione sensibile (mulk)”, che chiama muḥâdatha) [Cap. 73, questione CLIII (II 130.3)]. Per quanto riguarda infine la modalità di effettuazione, Ibn ‘Arabî si riferisce al versetto: “Non è dato alluomo che Allah gli parli se non per rivelazione (wahy), o dietro un velo, o mandando un messaggero” (Cor. XLII-51), e nel Cap. 366 [III 332.17] precisa: “Quanto alla rivelazione (wahy) essa ha luogo quando Egli pronuncia l’allocuzione (khiṭab) nei loro cuori sotto forma di discorso (hadîth) ed essi ottengono per quello la scienza di qualcosa di nuovo, cioè del contenuto di quel discorso. Se non è così allora non si tratta di rivelazione, né di allocuzione. Alcuni trovano nei loro cuori una scienza riguardo ad una qualche realtà, appartenente alle scienze innate per gli uomini: si tratta di una scienza autentica, ma non è ottenuta tramite una allocuzione ed il nostro discorso riguarda qui solo l'allocuzione divina chiamata rivelazione (wahy). lnvero Allah, l'Altissimo, ha assimilato questa categoria della rivelazione a un discorso (kalâm) e dal discorso egli acquisisce la scienza di ciò che gli apporta quel discorso e per questo [la rivelazione] si differenzia [da altri generi di ispirazione], quando egli ha coscienza di questo fatto.
Quanto al detto dell'Altissimo: “…o dietro un velo”, si tratta di una allocuzione divina pronunciata all'udito, non al cuore, e colui a cui viene pronunciata la percepisce e comprende da essa ciò che voleva dire Colui che gli ha fatto sentire quello. Talora ciò avviene nella forma della manifestazione divina (tajallî), nel qual caso quella forma divina rivolge a lui il discorso ed essa è il velo stesso. Ed egli comprende da quella allocuzione la scienza di ciò che indica e sa che quello è un velo e che Colui che parla è dietro quel velo. Non tutti coloro che percepiscono la forma della manifestazione divina sanno che quella è Allah ed il possessore di questo stato ha in più rispetto agli altri il fatto che riconosce che quella forma, anche se è un velo, è essa stessa la manifestazione del Vero per lui. Quanto al detto dell'Altissimo: “…o inviando un messaggero” si tratta di ciò che rivela l'Angelo o di ciò che ci apporta l'Inviato umano, quando essi trasmettono in modo specifìco il discorso di Allah. Tale è il caso del detto dell'Altissimo: “…accordagli asilo affinché possa sentire il discorso di Allah” (Cor. IX-7) e del detto dell'Altissimo: “…e lo abbiamo chiamato dal lato destro della montagna e lo abbiamo fatto avvicinare per parlare con lui in segreto” (Cor. XIX-51) e del detto dell'Altissimo: “…e una voce gridò: Benedetto Colui che è nel fuoco e intorno a lui!” (Cor. XXVII-18). Ma se essi [questi messaggeri] trasmettono o danno espressione ad una scienza che hanno trovato in loro stessi, quello non è un discorso divino. Talvolta il messaggero e la forma sono insieme, come nell'atto della scrittura  [del Libro]. Il Libro è un messaggero ed esso è anche il velo di Colui che parla, cosi che ti fa capire ciò che ha apportato; ma ciò non ha luogo quando il messaggero scrive ciò che sa, bensì solo quando scrive in base ad un discorso che rivolgono a lui quelle lettere che egli trascrive. Quando non è così allora non è un discorso [divino]! Questa è la regola generale”.
[14] Questo termine, probabilmente derivato dalla parola fâh, che vuol dire bocca, è ignorato dai dizionari della lingua araba e non si riscontra in opere antecedenti a quella di Ibn ‘Arabî. Nel Cap. 73, questione CLIII [II 128.32], Ibn ‘Arabî definisce la fahwâniyya come: '”l’allocuzione del Vero faccia a faccia nel Mondo della similitudine (‘âlam al-mithâl). Esso corrisponde al suo detto, che Allah faccia scendere su di lui la Sua alât e la Pace, che l’Iḥsân consiste nell’adorare Allah come se lo vedessi”. Altri punti delle Futûât in cui è riportato questo termine sono i seguenti: Cap. 22 [I 173. 25], ove è menzionata la dimora spirituale (manzil) dell'uguaglianza di livello nell'allocuzione (al-istiwâ’ al-fahwânî), e [I 176.12] ove è menzionata la dimora spirituale delle allocuzioni del Misericordioso nel Mondo della similitudine; Cap. 24 [I 185.20], ove sono menzionate 200 dimore nella Presenza della fahwâniyya; Cap. 33 [I 213.5]; Cap. 71 [I 609.29 e 61 0.3], ove Ibn ‘Arabî precisa: “ll bacio viene dall'avvicinamento (iqbâl) e la ricezione (qubûl) dell’allocuzione faccia a faccia (fahwâniyya) fa parte dalla Presenza della lingua, che è il supporto del Discorso. L’avvicinamento verso di Lui ha luogo anche per mezzo del Discorso che viene sentito, poiché avviene nella contemplazione della similitudine. Si può concepire che colui che vi si trova cerchi di avvicinarsi verso l’allocuzione faccia a faccia, ma quando Egli gli parla, non gli consente di contemplare. Questa è la stazione mosaica. Io l’ho gustata nella situazione (mawi‘) in cui Mosé, su di lui la Pace, la gustò, sennonché io la gustai nell’umidità (billa) di un pugno di sabbia. Mosé, su di lui la Pace, la gustò in ciò di cui aveva bisogno (fî hâjati-hi), poiché cercava del fuoco per i suoi; io mi rallegrai che fosse acqua […] Colui che è arrivato non cerca di ritornare dalla contemplazione al Discorso (kalâm), abbandonando la contemplazione e procedendo verso l'allocuzione faccia a faccia (fahwâniyya), poiché essa è attuabile solo con il velo, avendo l’Altissimo detto: “Non è dato che Allah parli ad un uomo se non per rivelazione o dietro ad un velo” (Cor. XLII-51)”; Cap. 72 [I 725.35] ove è menzionata la Presenza fahwâniyya; Cap. 273 [II 585.11] ove è menzionata la Presenza della allocuzione fahwânî; Cap. 384 [III 524.14] e Cap. 387 [III 53 7 .22] ove sono menzionate le lingue (alsina) della fahwâniyya. Oltre che nelle Futûât questo termine ricorre nel ‘Uqlat al-mustawfiz, a pag. 43 dell'edizione di Nyberg in Kleinere schriften des Ibn –‘Arabî, Brill, 1919 e a pag. 120 della traduzione di Carmela Crescenti, intitolata “Il nodo del sagace”, Mimesis, 2000; nel Kitâb at-Tajalliyât, a pag. 114 della traduzione di Stephane Ruspoli intitolata Le livre des théophanies d’Ibn ‘Arabî, Cerf, 2000; e soprattutto, più di dieci volte, nel Tarjumân al-ashwâq e nel suo commentario da parte dell'autore, entrambi tradotti da Maurice Gloton in L’interprète des désirs, Albin Michel, 1996: per i riferimenti si può consultare l'indice glossario a pag. 468, alla voce fahwâniyya.
Il verbo arabo fâha, che significa profferire, pronunciare [un discorso], ha un'assonanza fonetica sia con il verbo greco phêmi, che significa parlare, dire, sia con il verbo latino fari [for, faris, fatus sum], che ha lo stesso significato e da cui derivano numerose espressioni italiane, come fato, cioè “ciò che è detto”, favola, favella, infante, cioè “il bimbo che non parla ancora”, ineffabile, nefando, ecc. Nel Dizionario del Tommaseo si trova un termine, favellatòria, che quanto a costruzione [aggettivo sostantivato] è l'equivalente dell'arabo fahwâniyya.
[15] Il termine tahayyu’spesso usato nel linguaggio teologico e filosofico insieme a isti‘dâd, predisposizione, indica l’essere preparati per qualcosa. Ad esempio, nel Cap. 360 [III 286.15] Ibn ‘Arabî precisa: “Per la fissità (thubut) della sua entità (‘ayn) nella non-esistenza ha luogo la disponibilità a ricevere gli effetti (at-tahayyu’ li-qubûl al-âthâr), e la sua fissità nella non-esistenza è come il seme per l'albero dell'esistenza: nella non-esistenza è un seme e nell'esistenza è un albero”. Va osservato che nella Introduzione [I 46.14] lbn 'Arabi precisa: “L'argomento razionale prova che esistenziazione (îjâd) è connessa con il Potere (qudra) ed il Vero ha affermato che l'esistenza ha luogo dall'Ordine divino, dicendo di Se Stesso: “Invero la Nostra Parola ad una cosa, quando la vogliamo, è che le diciamo “Sii” (kun) ed essa è!” (Cor. XVI-40). È indispensabile per noi considerare ciò con cui è connesso l'Ordine e ciò con cui è connesso il Potere, in modo da poter mettere insieme il dato tradizionale e la ragione. Noi diciamo che l'obbedienza [all'Ordine] ha avuto luogo per il Suo detto: “ed essa è!”, e ciò che è stato ordinato è l'esistenza: quindi la Volontà è connessa con la specificazione di uno dei due [stati] possibili, cioè l'esistenza [l'altro è la non-esistenza], mentre il Potere è connesso con il possibile ed il suo effetto in esso è l'esistenziazione. Questa è una condizione intellegibile [la stessa espressione ricorre nel testo qui tradotto (pag. 14, penultima riga)] come intermedia tra la non-esistenza e l'esistenza. Quindi l'Ordine è connesso con questa entità che è stata specificata [dalla Volontà] affinché sia ed essa ubbidisce ed è. Altrimenti il possibile non avrebbe entità e non sarebbe qualificato per mezzo di essa dall'esistenza, in quanto l'Ordine dell'esistenza si rivolge a quella entità quando ha luogo l'esistenza. Chi sostiene, nella spiegazione del "kun", la disponibilità (tahayyu’) della cosa voluta, non è nel giusto!”. Quest'ultima affermazione contraddice apparentemente quanto è riportato nel testo che stiamo traducendo.
[16] Questo versetto è citato e commentato una cinquantina di volte nelle Futûât e meriterebbe uno studio a parte. Oltre ai brani già riportati nelle note precedenti, mi limiterò a riportare il seguente passo tratto dal Cap. 198, sezione V [II 401.28], “riguardo al Verbo della Presenza divina, che è il verbo “Sii (kun)!” […] L'Altissimo ha detto: “Invero la Nostra Parola ad una cosa quando la vogliamo” – e [l’espressione] “'la Nostra Parola” sta ad indicare il fatto che Egli sia Uno che parla (mutakallim) – “…è che le diciamo: Sii” - e “Sii” è proprio ciò che Egli dice, e da esso si manifesta (ahara) ciò a cui è stato detto “Sii”. Egli ha quindi attribuito la genesi [o il venire ad essere (takwîn)] a ciò che “è (yakûnu)”, non al Vero, né al Potere, ma ha dato un ordine e colui che ha sentito, nello stato della sua non-esistenza come realtà (shay‘iyya) e della sua fissità (ubût), ha obbedito all'ordine del Vero […] Quindi il Suo ordine è il Suo Potere e l'accettazione di colui a cui è stato ordinato di essere è la sua predisposizione (isti‘dâd)”. Analogamente, nel Cap. 48 [I 265.14] Ibn ‘Arabî precisa: “Allah,, l'Altissimo ha esplicitamente affermato che noi facciamo parte dell'insieme dei vegetali della Terra; Egli ha detto: “Ed Allah vi ha fatto crescere (anbata-kum) dalla Terra come dei vegetali (nabâtan)” (Cor. LXXI-17), intendendo “siete cresciuti come vegetali (nabattum nabâtan), in quanto l'infinito di anbata-[kum] è inbâtan. Analogamente ha detto, attribuendo il venire ad essere (takwîn) a ciò stesso a cui è stato ordinato: “'Invero la Nostra Parola ad una
cosa, quando la vogliamo, è che le diciamo “Sii” (kun) ed essa è!” (Cor. XVI-40), ed ha attribuito (ja‘ala)
il venire ad essere ad essa [cosa], così come ha attribuito la manifestazione dei vegetali ai vegetali”.
[17] Nel Cap. 266 [II 567 .10] Ibn ‘Arabî precisa che “Il testimone (shâhid) è l'attualizzazione nell'anima della forma di ciò che è contemplato in occasione della contemplazione diretta (shuhûd) e conferisce qualcosa di diverso da ciò che conferisce la visione (ru‘ya), in quanto la visione non è preceduta dalla scienza di ciò che viene visto, mentre la contemplazione diretta presuppone la scienza di ciò che è contemplato”.
[18] Ibn ‘Arabî commenta questo versetto nel Cap. 225 [II 520.34], ove spiega che il chiamare di Abramo, su di lui la Pace, fa le veci del kun”.
[19] Ciò che è nascosto potrebbe anche riferirsi al segreto della “wâw”; nel Cap. 10 [I 136.34] Ibn ‘Arabìi precisa: “…riguardo all'esistenziazione delle cose dal kun: Egli ha apportato due lettere [la kâf e la nûn] che sono a guisa delle due premesse [di un sillogismo] e ciò che è (yakûnu) al momento del kun è a guisa della conclusione. Queste due lettere sono apparenti, mentre la terza, che lega le due premesse, è nascosta nel kun, ed è la wâw, che viene elisa per l'incontro di due consonanti non vocalizzate [la wâw e la nûm]. Analogamente quando l'uomo incontra la moglie alla verga (qalam) non resta entità apparente ed il suo gettare il seme nel ventre materno è invisibile, poiché è un segreto”.
[20] Nel manoscritto Bayazid si trova ja‘alû, per cui si dovrebbe leggere: “essi [i raziocinanti] non hanno fatto quello…”.
[21] Nel manoscritto Shehit ‘Alî si trova ma‘dûma al posto di mawjûda, cioè non-esistenti al posto di esistenti. In considerazione della frase immediatamente seguente, mi sembra sia più corretta la versione del manoscritto Bayazid.
[22] L'opera è classificata come RG. 443 da 'Uthmân Yayâ. Il testo a cui si riferisce Ibn ‘Arabî si trova a pag. 158 dell'edizione del Cairo del 1907, ed a pag. 345 dell'edizione Dâr al-mujahha al-bayâ’ di Beirut
del 2000. Un riassunto di questo testo è stato riportato da Miguel Asin Palacios in “L’islâm christianisé”, ed. Guy Trédaniel, 1982, a pag. 313.
[23] Come riporta Asin Palacios, è necessario digiunare e vegliare per venti giorni, dedicandosi allo dhikr; se dopo dieci giorni di ulteriore attesa vigilante non si manifesta la teofania, è necessario ripetere il rito.
[24] Le parole tra parentesi mancano nel manoscritto Shehit ‘Alî.
[25] Nel manoscritto Shehit ‘Alî si legge tujâwiru, che significa “sta accanto, è vicino”; quale che sia la lettura corretta, il passo è di difficile comprensione e non si trova nelle Futûhât alcun punto che aiuti a capirlo.
[26] Nel manoscritto Bayazid si trova manba‘, che significa fonte.
[27] L'opera è classificata come RG. 205 da 'Uthmân Ya, con il titolo Kitâb al-Yâ’ wa-huwa kitâb al-huwiyya. Una traduzione italiana è stata pubblicata da Chiara Casseler presso le Edizioni Il Leone Verde nel 2004.
[28] L'opera è classificata come RG. 169 da 'Uthmân Ya. Di essa è disponibile una traduzione francese pubblicata nei numeri di giugno-settembre 1948 di Études Traditionnelles.
[29] L'opera è classificata come RG. 26 da 'Uthmân Ya, con il titolo Kitâb al-Alif wa-huwa kitâb al- aḥadiyya. Il testo è stato edito nella raccolta di Epistole (rasâ‘il) di Ibn ‘Arabî pubblicata a Hyderabad nel 1948.
[30] Si tratta dell'opera classificata come RG. 412 da 'Uthmân Ya e pubblicata al Cairo nel 1995 a cura di Sa‘id ‘Abd al-Fattâ col titolo “Kitâb Manzil al-manâzil al-fahwâniyya” sulla base del manoscritto Veliyuddin 1759, datato 618 dall'Egira e letto in presenza dell'autore. In realtà il termine fahwâniyya vi ricorre solo quattro volte, soprattutto nel contesto di elenchi privi di spiegazioni, probabilmente perché il riferimento alla fahwâniyya non è tanto testuale quanto “strutturale”: le dimore iniziatiche (manazil) di cui si tratta sono 19 ed alla fine del libro, nella sezione dedicata ai corrispettivi (naâ‘ir) del numero 19, Ibn ‘Arabî: ricorda che 19 sono anche le lettere del primo versetto del Corano, “che per gli Intimi equivale a ciò che è il “kun” per la Presenza divina”. [Nelle Futûât tale ruolo è attribuito alla sola basmala, cioè alla frase “bismillâh…”, e non all'intero versetto: cfr. ad esempio Cap. 47 (I 258.22)  e 198 (II 40 1.24)] ll contenuto del libro è in parte riprodotto, con ulteriori sviluppi, nel Cap. 22 delle Futûât, dedicato appunto a queste 19 dimore iniziatiche.
[31] Nel Cap. 396 [III 558.32] Ibn ‘Arabî precisa: “Egli ha detto riguardo a Gesù: “e tu soffiasti in essa e divenne un uccello per il Mio permesso” (Cor. V-l l 0), non per la tua insuffiazione. Essa è solo esteriormente la causa (sahab) della genesi, in realtà la genesi dipende dal permesso divino”; e nel Cap. 7 4 [III 42.34] aggiunge: “Voi avete tagliato molte delle loro palme e ne avete lasciate in piedi un certo numero. Fu per il permesso di Allah” (Cor. LIX-5). Il permesso (idhn) è il comando (amr) divino: Egli ha ordinato ad alcune piante che restassero in piedi ed esse restarono in piedi, ed ha ordinato ad altre piante che venissero tagliate, ed esse furono tagliate per il permesso di Allah, non per il loro [dei servitori] taglio, così come restarono in piedi per il permesso di Allah, non per il loro lasciarle il piedi, anche se essi sono qualificati dal tagliare e dal lasciare. Ciò non contraddice il permesso di Allah, poiché il permesso di Allah agli alberi, in questa forma, è come la predisposizione (isti ‘dâd) nella cosa: l'albero è predisposto al taglio e lo riceve da chi lo taglia. Quindi il Suo detto: “…con il permesso di Allah”, cioè all'albero, equivale al Suo detto: “…e divenne un uccello per il Mio permesso" (Cor. V-110): l'insuffiazione (nafkh) di Gesù fu per via dell'esistenza dello spirito vitale, poiché il soffio, cioè l'aria che uscì da Gesù, è identico allo spirito vitale, ed esso entrò nel corpo di questo uccello e lo pervase perché questo uccello era predisposto a ricevere la vita da questo soffio, così come il vitello ricevette la vita da ciò che vi scagliò il Samaritano [cfr. Cor. XX-88]. Quindi l'uccello volò per il permesso di Allah, così come il vitello muggì per il permesso di Allah!”. In arabo la radice di idhn è la stessa di udhun, orecchio, termini che differiscono solo per la vocalizzazione: ciò si può forse ricollegare alla primordialità del suono ed a quanto René Guénon ha scritto nell'articolo L’hiéroglyphe du cancer”, Cap. XIX dei Symboles de la Science sacrée, in particolare nella nota in cui affermava: “Par une concordance assez remarquable, ce schéma est également celui de l'oreille humaine, l'organe de l'audition, qui doit effectivement, pour etre apte à la perception du son, avoir une disposition conforme à la nature de celui-ci”. D'altra parte, come si è visto, Ibn ‘Arabî attribuisce la facoltà dell'udito al possibile anche nel suo stato di non-esistenza, e nel Cap. 182 [II 366.27] precisa: “L'Altissimo ha detto: “[Allah] è Udente e Sapiente” (Cor. IX-98) ed ha detto: “[Allah] è Udente e Vedente” (Cor. XXll-61) e quindi ha fatto precedere l'udito alla scienza ed alla vista. La prima cosa che abbiamo appreso da Allah e che è stata connessa con noi è da parte Sua la Parola e da parte nostra l'udito (sam‘)”.
[32] Nel Cap. 68 [I 366.1] Ibn ‘Arabî precisa: “ll Mondo, nella sua totalità, è costituito dalle Parole (kalimât) di Allah nell’esistenza. Allah, l’Altissimo, ha detto riguardo a Gesù, su di lui la pace: “[…] un Verbo che Egli ha proiettato verso Maria” (Cor. IV-l71), e l'Altissimo ha detto: “le Parole di Allah non si esaurirebbero” (Cor. XXXI-27), e l'Altissimo ha detto: “Verso di Lui salgono le buone parole (kalim)” (Cor. XXXV-10) e kalim è il plurale di kalima, e l'Altissimo dice alla cosa quando la vuole “Sii” e quella cosa si riveste del venire ad essere (takwîn) ed è (yakûnu)”. Nel Cap. 308 [III 33.12] aggiunge: “…e queste opere si manifestano nelle forme di cavalcature, e se sono pie salgono con lui verso l’‘Illiyyûn. L’Altissimo ha detto: “Verso di Lui salgono le buone parole (kalim)” (Cor. XXXV-10) cioè gli spiriti buoni che sono le Parole (kalimât) di Allah”.
[33] Il Cap. 384 è il primo capitolo dedicato alle stazioni della mutua discesa (munâzala); il verbo nazala significa scendere, smontare da una cavalcatura e quindi anche sostare, fermarsi, fare tappa, alloggiare, come in italiano si dice di un viaggiatore che “scende” in un albergo. La terza forma verbale, nâzala, da cui deriva l'infinito munâzala, è il reciproco della prima ed esprime l'atto comune di due che “scendono” nello stesso luogo. La parte iniziale del capitolo contiene un commento al versetto citato nel testo che stiamo traducendo ed anche un riferimento alla fahwâniyya, per cui può essere utile riportarne degli estratti. Ibn ‘Arabî precisa [III 523.23]: “Sappi, che Allah assista te e noi, che la mutua discesa (munazala) è in questo caso l'atto di due attori ed è la discesa (tanazzul) dei due, ciascuno dei quali cerca l'altro per scendere su di lui o [per dimorare] presso di lui - dì quello che preferisci. Quindi essi si riuniscono nella Via in una sede determinata e questa viene chiamata mutua discesa a causa della ricerca di entrambi. In realtà, da parte del servitore, questa discesa è una salita (su‘ûd); noi la chiamiamo discesa solo perché egli cerca tramite questo innalzamento di scendere presso il Vero. L'Altissimo ha detto: “Verso di Lui salgono le buone parole (kalim) e l'opera pia le innalza” (Cor. XXXV-10). Questa è il loro burâq su cui esse vengono fatte viaggiare verso di Lui di notte e tramite il quale scendono da Lui. L'Altissimo ha detto di Se stesso, come ha riferito da parte Sua l'Inviato di Allah, che Allah faccia scendere su di lui la Sua ṣalât e la Pace: “ll nostro Signore discende ogni notte verso il Cielo più basso”, fino alla fine dello ḥadîth]. Quindi Egli ha caratterizzato Se stesso con la discesa verso di noi. Questa è la discesa del Vero verso una creatura, e da parte nostra vi è la discesa di una creatura verso il Vero, in quanto noi siamo incapaci di avere elevatezza, grandezza ed indipendenza da Lui. […] Che si tratti di una mutua discesa o di una discesa completa Egli è Colui che parla e Colui che ascolta, e sa ciò che dice. Egli è l'udito di colui che ha questa stazione, sicché nessuno sente il Suo discorso al di fuori di Lui. […] Sappi che il Vero non parla ai Suoi servitori o rivolge a loro l'allocuzione se non dietro il velo [cfr. Cor. XLII-51] della forma in cui Egli Si manifesta a essi […] Colui che discende nella mutue discese caratterizzate dall'Allocuzione (khiâb) non contempla se non forme, da cui egli apprende le realtà essenziali ed i segreti di cui queste forme si fanno interpreti per lui da parte Sua e queste sono le lingue dell'Allocuzione divina faccia a faccia (fahwâniyya). Il confine (ḥadd) delle mutue discese va dalla Nube primordiale (‘amâ’) fino alla Terra, includendo ciò che c'è tra le due. Ogni volta che la forma [divina] si separa dalla Nube e la forma umana interiore si separa dalla Terra ed esse si incontrano si tratta di una mutua discesa. Se invece [la forma umana] arriva alla Nube o l'Ordine viene ad essa fino alla Terra quella è una discesa (nuzûl) non una mutua discesa, e la sede in cui ha luogo l'incontro è una dimora (manzil)”.
[34] Nel manoscritto Bayazid è riportato nisba, relazione.
[35] Cfr. il brano del Cap. 384 riportato nella nota 65.
[36] Nel linguaggio tecnico di Ibn ‘Arabî [Cap. 131 (II 216.10)] il termine “âthâr” si riferisce agli effetti dei Nomi divini, conformemente al versetto Cor. XXX-50: “Considera gli effetti della Misericordia di Allah, come Egli riporta in vita la terra dopo che era morta!”. Nel Cap. 559 [IV 419.4] Ibn ‘Arabî precisa che gli effetti sono le proprietà (akâm) dei Nomi.
[37] Entrambi i manoscritti sono solo parzialmente vocalizzati per cui è possibile leggere sia “lâ tanfudhuo lâ tunfadhu, ma nel primo caso il significato sarebbe assurdo: “Ed il Verbo è esecutivo e non è mai esecutivo”. Potrebbe trattarsi di un errore del copista, ed essere “lâ tanfudhu”, cioè “non si esaurisce”, tanto più che l'affermazione che le Parole (kalimât) di Allah non si esauriscono ricorre in Cor. XVIII-109 e XXXI-27. Ma il manoscritto più vecchio è stato letto in presenza dell'autore, per cui eventuali errori dovrebbero essere stati emendati.
[38] Hadîth non recensito nelle raccolte canoniche. Nel Cap. 361 [III 295.14] Ibn ‘Arabî afferma che venne notificato in occasione della spedizione di Tabûk, nell'anno 9 dall'Egira, e ne attribuisce la trasmissione ad Abû Dharr; d'altra parte, da quanto è riportato nelle Futûât, questa prerogativa non sembra essere limitata agli Intimi, bensì essere estesa a tutti i beati. Cfr. Cap. 47 [I 258.22 e 259.29], 70 [I 584.30], 72 [I 667.20], 84 [II 157.26], 198 [ll440.34 e 441.26], 353 [lll 240.21], 380 [III 502.24] e 558 [IV 252.8]. Confrontare anche Cor. XU-31.
[39] Solo nel manoscritto Bayazid.
[40] Questo aneddoto è riportato anche nel Cap. 325 [III 93.4] e nel Cap. 474 [IV 108.34], seppure con meno dettagli.
[41] In entrambi i manoscritti si può leggere uhûr, per l’assenza del punto diacritico sulla prima lettera.
[42] Hadîth riportato da al-Bukhari, VIII-39, IX-8, XXI-12, Muslim, V-54, e da lbn Ḥanbal.

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