Autorità spirituale e Potere temporale
II - Funzioni del sacerdozio e della regalità
Sotto l’una o l’altra forma, l’opposizione dei due poteri,
spirituale e temporale, si incontra in quasi tutti i popoli; ciò non deve far
meraviglia, corrispondendo a una legge generale della storia umana, la quale
d’altra parte si ricollega all’insieme delle «leggi cicliche», a cui ci è
accaduto di alludere frequentemente in quasi tutte le nostre opere.
Nei periodi
più antichi tale opposizione si trova abitualmente espressa, nei dati
tradizionali, sotto forma simbolica, come abbiamo indicato precedentemente nel
caso dei Celti; ma non è questo l’aspetto della questione che ci proponiamo di
sviluppare qui. Per il momento ci basterà ricordare soprattutto due esempi
storici, tratti l’uno dall’Oriente e l’altro dall’Occidente: in India
l’antagonismo a cui ci riferiamo si incontra sotto forma di una rivalità tra Brâhmani e Ksatriya, rivalità di cui descriveremo nelle pagine seguenti taluni
episodi; nell’Europa medioevale esso assume soprattutto l’aspetto di quella che
è stata chiamata la «controversia tra il Sacerdozio e l’Impero», quantunque
abbia avuto allora anche aspetti più specifici, ma non meno caratterizzati,
come mostreremo in segu ito[1].
Sarebbe del resto persino troppo facile constatare come la
stessa lotta continui ancora oggi, anche se, a causa del disordine moderno e
della «confusione delle caste», essa si complica di elementi eterogenei, i
quali possono talvolta dissimularla agli occhi di un osservatore superficiale.
In genere, non si è mai contestato, tranne in casi estremi,
che i due poteri, che possiamo chiamare potere sacerdotale e potere regale,
essendo queste le loro vere denominazioni tradizionali, abbiano entrambi la loro
ragion d’essere e la loro propria sfera d’influenza. In altre parole, il
dibattito verte abitualmente soltanto sul problema dei rapporti gerarchici che
devono esistere fra di loro; si tratta di una lotta per la supremazia, e tale
lotta assume invariabilmente sempre lo stesso aspetto: vediamo costantemente i
guerrieri, detentori del potere temporale e sottomessi inizialmente
all’autorità spirituale, rivoltarsi contro di essa, dichiararsi indipendenti da
ogni potere superiore o addirittura cercare di subordinare quell’autorità nella
quale avevano riconosciuto, all’origine, la fonte del proprio potere, per
trasformarla infine in uno strumento al servizio del proprio dominio.
Può bastare questo per mostrare come debba esserci, in una
rivolta del genere, un rovesciamento dei rapporti normali; ma ciò si capisce
ancora più chiaramente se si considerano tali rapporti non semplicemente come
quelli di due funzioni sociali più o meno nettamente definite, ciascuna delle
quali può avere una tendenza abbastanza naturale a prevalere sull’altra, ma
come quelli delle due sfere che debbono logicamente determinare quelle dei
poteri corrispondenti. Tuttavia, prima di affrontare direttamente queste
argomentazioni, ci restano da formulare alcune osservazioni che ne faciliteranno
la comprensione, precisando il senso di certi termini, dei quali dovremo
servirci costantemente; ciò è tanto più necessario in quanto tali termini hanno
assunto nell’uso comune un significato piuttosto vago, talvolta assai lontano
dalla loro accezione primitiva.
Innanzi tutto, anche se parliamo di due poteri, e se ci è
lecito farlo nei casi in cui per vari motivi sia opportuno mantenere tra di
essi una specie di simmetria esteriore, preferiamo tuttavia, nella maggior
parte dei casi, e per sottolineare meglio la distinzione, servirci per la sfera
spirituale della parola «autorità» invece della parola «potere», che sarà
riservata alla sfera temporale, alla quale più propriamente conviene quando si
voglia intenderla nel suo significato più rigoroso. Il termine «potere» evoca infatti quasi inevitabilmente l’idea di potenza o di forza, soprattutto di una forza materiale[2], di una potenza che si manifesta visibilmente all’esterno e si afferma con l’impiego di mezzi esteriori; e tale è, per definizione, il potere temporale[3]. L’autorità spirituale invece, interiore per essenza, non si afferma se non di per se stessa, indipendentemente da ogni appoggio sensibile, e si esercita in
qualche modo invisibilmente. Se si può parlare anche in questo campo di potenza
o di forza, è solo per trasposizione analogica e, almeno nel caso di
un’autorità spirituale allo stato puro, se così si può dire, è indispensabile
capire che si tratta di una potenza totalmente intellettuale, che ha nome
«saggezza», e della pura forza della verità[4].
Altre espressioni che richiedono una spiegazione, e anche
una spiegazione un po’ più ampia, sono quelle, da noi usate poco fa, di potere
sacerdotale e di potere regale; che cosa si deve intendere esattamente per
sacerdozio e che cosa per regalità? Volendo incominciare dall’ultima, diremo
che la funzione regale comprende tutto ciò che nella sfera sociale costituisce
il «governo» propriamente detto, anche quando tale governo non abbia la forma
monarchica; questa funzione appartiene infatti a tutta la casta degli Ksatriya, e il re è soltanto il primo
fra di essi. Essa è in certo modo duplice: amministrativa e giudiziaria da un
lato, militare dall’altro, poiché deve garantire il mantenimento dell’ordine
sia all’interno, in quanto funzione regolatrice ed equilibratrice, sia
all’esterno, in quanto funzione protettrice dell’organizzazione sociale; questi
due elementi costitutivi del potere regale sono, in diverse tradizioni,
simboleggiati rispettivamente dalla bilancia e dalla spada. Si vede da ciò come
«potere regale» sia di fatto veramente un sinonimo di «potere temporale», anche
quando si assuma quest’ultima espressione in tutta l’estensione di cui è
suscettibile; ma l’idea molto più circoscritta che l’Occidente moderno si fa
della regalità può impedire a questa equivalenza di apparire immediatamente:
per questo motivo era necessario formulare subito tale definizione, che non
dovrà mai essere persa di vista neppure in seguito.
Per quanto riguarda il sacerdozio, la sua funzione
essenziale è la conservazione e la trasmissione della dottrina tradizionale,
nella quale ogni organizzazione sociale regolare trova i suoi principi
fondamentali; questa funzione è, del resto, indipendente da tutte le forme
particolari che la dottrina può assumere nel suo esprimersi, al fine di
adattarsi alle condizioni di tale popolo o di tale epoca, e che non toccano
assolutamente il nocciolo della dottrina, il quale permane sempre e dappertutto
identico a se stesso e immutabile, purché si tratti di tradizioni
autenticamente ortodosse.
È facile capire come la funzione del sacerdozio non sia
precisamente quella che le concezioni occidentali, soprattutto oggi,
attribuiscono al «clero» o ai «preti», o per lo meno, anche se può essere tale
in certa misura e in certi casi, come possa essere anche molto diversa. In
effetti, è la dottrina tradizionale, e quanto a essa direttamente si ricollega,
a possedere propriamente il carattere di «sacralità», e questa dottrina non
assume necessariamente la forma religiosa[5]; i due termini «sacro» e «religioso» non sono perciò equivalenti, il primo dei due
essendo molto più ampio del secondo; e benché la religione appartenga alla
sfera del «sacro», quest’ultima comprende elementi e modalità che non hanno
nulla di religioso, e il sacerdozio, come il suo nome sta a esprimere, si
riferisce senza nessuna restrizione a tutto quel che può essere veramente detto
«sacro».
La vera funzione del sacerdozio è dunque innanzi tutto una
funzione di conoscenza e di insegname nto[6]; per questo motivo, come dicevamo più sopra, il suo attributo specifico è la saggezza; naturalmente, appartengono al sacerdozio anche altre funzioni più esteriori, come il compimento dei riti, funzioni che presuppongono, per lo meno in linea di principio, la conoscenza della dottrina e partecipano del carattere «sacro» proprio di quest’ultima; ma esse sono soltanto secondarie, contingenti e in qualche modo accidentali[7].
Se nel mondo occidentale l’accessorio sembra, in questa
materia, essere diventato funzione principale, o addirittura unica, la ragione
è che la natura reale del sacerdozio vi è stata quasi completamente
dimenticata: è uno degli effetti della deviazione moderna, che nega
l’intellettuali tà[8] e che, benché non abbia potuto far sparire ogni insegnamento dottrinale, l’ha però «minimizzato» e relegato in secondo piano. Che le cose tuttavia non siano sempre state così, la stessa parola «clero» ne fornisce la prova, giacché originariamente «chierico» non vuol dire altro che «dotto»[9], e si oppone a «laico», che designa l’uomo del popolo, cioè il «volgo», assimilato all’ignorante o al «profano»: a quest’ultimo si può soltanto chiedere di credere quanto non è capace di comprendere, poiché è questo il solo mezzo per farlo partecipare alla tradizione nella misura delle sue possibilità[10].
Vale la pena di notare che certa gente, che nella nostra
epoca si vanta di essere «laica», insieme con quella che si compiace di dirsi
«agnostica» (e spesso si tratta delle stesse persone), non fa che gloriarsi
della propria ignoranza; e questa ignoranza deve essere in effetti molto grande
e veramente irrimediabile, se non si accorge che tale è il significato delle
etichette di cui si fregia.
Se il sacerdozio è, in essenza, il depositario della
conoscenza tradizionale, ciò che non vuol dire che ne abbia il monopolio,
essendo la sua missione non soltanto di conservarla integralmente, ma anche di
comunicarla a tutti coloro che siano disposti a riceverla, di distribuirla in
certo modo gerarchicamente secondo le capacità intellettuali di ognuno.
Qualsiasi conoscenza di questo tipo ha quindi la propria origine
nell’insegnamento sacerdotale, il quale è l’organo della sua trasmissione
regolare. Quella che appare riservata particolarmente al sacerdozio, a causa
del suo carattere di intellettualità pura, è la parte superiore della dottrina,
cioè la conoscenza dei principi, mentre lo sviluppo di certe applicazioni si
adatta meglio ad altri uomini, posti dalle loro funzioni in contatto diretto e
costante con il mondo manifestato, cioè con la sfera alla quale appartengono
queste applicazioni. Per questo motivo vediamo che in India, ad esempio, certe
suddivisioni secondarie della dottrina sono state studiate specialmente dagli Ksatriya, mentre i Brâhmani danno loro solo un’importanza molto relativa, essendo
concentrati sulla sfera dei principi trascendenti e immutabili, di cui tutto il
resto è soltanto conseguenza accidentale, o meglio, se si vogliono considerare
le cose in senso inverso, sul fine supremo nei confronti del quale tutto il
resto è soltanto mezzo contingente e subordinato[11].
Esistono anche libri tradizionali che sono destinati particolarmente all’uso degli Ksatriya, perché presentano aspetti dottrinali conformi alla loro natura[12]; esistono «scienze tradizionali» che si adattano soprattutto agli Ksatriya, mentre la metafisica pura è
appannaggio dei Brâhmani[13]. Tutto ciò è
perfettamente legittimo, perché anche queste applicazioni, o adattamenti, fanno
parte della conoscenza sacra intesa nella sua integralità; e, del resto,
sebbene la casta sacerdotale non se ne interessi direttamente e per se stessa,
sono opera sua, in quanto essa è la sola qualificata a controllarne la perfetta
conformità con i principi. Tuttavia, può accadere che gli Ksatriya, quando entrino in conflitto con l’autorità spirituale,
disconoscano il carattere relativo e subordinato di queste conoscenze, le
considerino allo stesso tempo quale bene proprio, neghino di averle avute dai Brâhmani e giungano a considerarle
superiori a quelle che appartengono esclusivamente a questi ultimi.
Conseguenza di tale atteggiamento, nelle concezioni degli Ksatriya in rivolta, è il rovesciamento
dei rapporti normali tra i principi e le loro applicazioni, o talvolta, nei
casi più estremi, addirittura la negazione di ogni principio trascendente; si
tratta, in entrambi i casi, della sostituzione della «fisica» alla
«metafisica», intendendo questi termini nel loro senso rigorosamente
etimologico, in altre parole, di quello che può essere definito «naturalismo»,
come si vedrà meglio in seguito[14].
Da questa distinzione, nella conoscenza sacra o tradizionale, di due ordini che si possono definire quello dei principi e quello delle applicazioni, o anche, secondo ciò che abbiamo appena detto, sfera «metafisica» e sfera «fisica», era derivata nei misteri antichi, tanto in Oriente quanto in Occidente, la distinzione tra quelli che erano chiamati i «grandi misteri» e i «piccoli misteri», questi ultimi comprendenti di fatto essenzialmente la conoscenza della natura, mentre i primi comportavano la conoscenza di quanto è di là dalla natura[15]. La distinzione corrispondeva a quella dell’«iniziazione sacerdotale» e dell’«iniziazione regale»: le conoscenze insegnate in questi due tipi di misteri erano cioè quelle considerate necessarie all’esercizio delle funzioni rispettive dei Brâhmani e degli Ksatriya, o dell’equivalente delle due caste nelle istituzioni dei diversi popoli[16]; ma era, beninteso, il sacerdozio a conferire entrambe le iniziazioni e ad assicurare in tal modo la legittimità effettiva, non solo dei suoi propri membri, ma anche di quelli della casta a cui apparteneva il potere temporale; da ciò deriva, come vedremo, il «diritto divino» dei re[17].
Le cose stanno in questo modo perché il possesso dei «grandi
misteri» comporta, a fortiori e quasi
«per sovrabbondanza», quello dei «piccoli misteri»; come ogni conseguenza e
ogni applicazione sono contenute nel principio da cui procedono, così la
funzione superiore comporta, in modo «eminente», la possibilità delle funzioni
inferiori[18]; così avviene
necessariamente in ogni vera gerarchia fondata sulla natura degli esseri
stessi.
Ci resta ancora un punto da segnalare in questa sede, per lo
meno in modo sommario e senza insistervi più del necessario: a lato delle
espressioni «iniziazione sacerdotale» e «iniziazione regale», e per così dire
parallelamente a esse, si incontrano altresì quelle di «arte sacerdotale» e di
«arte regale», le quali designano la «messa in opera» delle conoscenze
insegnate delle corrispondenti iniziazioni, con tutto l’insieme delle
«tecniche» attinenti ai loro campi risp ettivi[19].
Queste denominazioni si conservarono a lungo nelle antiche corporazioni;
e la seconda, quella di «arte regale», ha avuto un destino abbastanza
singolare, essendosi trasmessa fino alla massoneria moderna nella quale,
inutile dirlo, non sussiste più, alla stregua di molti altri termini e simboli,
se non come un vestigio incompreso del passato. Quanto alla denominazione di
«arte sacerdotale», essa è completamente scomparsa; ciò nonostante quest’ultima
si applicava all’arte dei costruttori di cattedrali del medioevo altrettanto bene
quanto a quella dei costruttori di templi dell’antichità; ma a un certo punto
si verificò una confusione delle due sfere, dovuta a una perdita per lo meno
parziale della tradizione, conseguenza a sua volta delle usurpazioni del potere
temporale al danni di quello spirituale; e fu così che andò perduto financo il
nome di «arte sacerdotale», indubbiamente nei dintorni del Rinascimento, epoca
che segna di fatto, sotto ogni punto di vista, il compimento della rottura del
mondo occidentale con le proprie dottrine tradizionali[20].
[1] Non sarebbero difficili da trovare altri numerosi esempi, particolarmente in
Oriente: in Cina, le lotte che in certe epoche scoppiarono tra i taoisti e i
confuciani, le cui dottrine rispettive hanno rapporto con le sfere dei due
poteri, come spiegheremo più avanti; nel Tibet, l’ostilità iniziale dei re nei
confronti del lamaismo, il quale non solo finì col trionfare, ma assorbì
totalmente il potere temporale nell’organizzazione «teocratica» che esiste
ancora attualmente.
[2] In tale nozione si potrebbe del resto far rientrare anche la forza della volontà,
la quale non è «materiale» nel senso proprio del termine, ma che tuttavia è,
per noi, dello stesso ordine, in quanto essenzialmente orientata verso
l’azione.
[3] Il nome della casta degli Ksatriya
deriva da Ksatra, che significa
«forza».
[4] In ebraico questa distinzione è indicata dall’impiego di radici che si
corrispondono, ma differiscono per la presenza delle lettere kaph e qoph, le quali sono rispettivamente, in base alla loro
interpretazione geroglifica, i segni della forza spirituale e della forza materiale;
perciò da un lato si hanno i significati di verità, saggezza, conoscenza, e
dall’altro quelli di potenza, possesso, dominio: tali sono i radicali hak e haq, kan e qan, le prime
forme designando le attribuzioni del potere sacerdotale, le seconde quelle del
potere regale (cfr. Il Re del Mondo,
Milano, Adelphi, 1977, cap. VI).
[5] Si vedrà più avanti perché la forma religiosa propriamente detta sia particolare
dell’Occidente.
[6] È in virtù di questa funzione d’insegnamento che nel Purusha-sûkta del Rig Vêda i
Brâhmani sono fatti corrispondere
alla bocca di Purusha, considerato
«Uomo Universale», mentre gli Ksatriya
corrispondono alle sue braccia, in quanto le loro funzioni sono essenzialmente
legate all’azione.
[7] A volte l’esercizio, da una parte delle funzioni intellettuali, e dall’altra di
quelle rituali, ha dato vita nello stesso sacerdozio a due divisioni; se ne
trova nel Tibet un esempio chiarissimo: «La prima delle due grandi divisioni
comprende coloro che sono a favore dell’osservanza dei precetti morali e delle
regole monastiche quali mezzi di salvezza; la seconda riguarda tutti coloro che
preferiscono un metodo esclusivamente intellettuale (chiamato “via diretta”),
che affranca chi lo segue da ogni legge, qualunque essa sia. Tuttavia non
esiste una barriera impenetrabile che separi gli aderenti all’uno o all’altro
sistema. Rarissimi sono i religiosi dediti al primo sistema i quali non
riconoscano che la vita di virtù e la disciplina delle osservanze monastiche,
per quanto eccellenti siano, e in molti casi addirittura indispensabili,
rappresentano solamente una preparazione a una via superiore. In quanto ai
partigiani del secondo sistema, credono tutti, senza alcuna eccezione, agli
effetti benefici di una rigorosa fedeltà alle leggi morali e a quelle emesse
specialmente a uso dei membri del Sangha
(comunità buddhista). Inoltre sono tutti unanimi nel dichiarare che il primo
dei due metodi è il più raccomandabile per la maggioranza degli individui»
(Alexandra David-Neel, Le Thibet
mystique, in «Revue de Paris», 15 febbraio 1928). Abbiamo voluto riportare
testualmente questo passo, sebbene alcune delle espressioni contenute in esso
richiedano delle riserve: ad esempio, non si tratta di due «sistemi», i quali,
in quanto tali, si escluderebbero obbligatoriamente; l’ufficio di mezzo
contingente proprio dei riti e delle osservanze d’ogni tipo, e la loro
subordinazione nei confronti della via puramente intellettuale, vi sono però
nettamente definiti, e in modo che è esattamente conforme agli insegnamenti
della dottrina indù sullo stesso argomento.
[8] Crediamo quasi superfluo ricordare che adoperiamo sempre questo termine nel
senso di intelligenza pura e di conoscenza sovrarazionale.
[9] Non è
legittimo estendere il senso della parola «chierico» come è stato fatto da Jullen
Benda nel libro La Trahison des Clercs; tale estensione implica infatti il
disconoscimento della distinzione fondamentale fra «conoscenza sacra» e «sapere
profano»; è certo che la spiritualità e l’intellettualità non hanno lo stesso
significato per il Benda e per noi, così com’è certo che egli fa rientrare
nella sfera che denomina spirituale molte cose che, ai nostri occhi, hanno
soltanto un carattere temporale e umano. Ma questo non deve impedirci di
riconoscere che il suo libro contiene numerose considerazioni interessanti e
per molti versi giuste.
[10] La distinzione che nel cattolicesimo si fa tra «Chiesa docente» e «Chiesa
discente» dovrebbe precisamente essere una distinzione tra «coloro che sanno» e
«coloro che credono»; in linea di principio è così, ma nello stato attuale
delle cose si può dire che lo sia di fatto? Ci limitiamo a porre il quesito,
non essendo nostro compito risolverlo, e d’altronde non ne avremmo i mezzi; in
effetti, e anche se molti indizi ci fanno temere che la risposta sarebbe negativa,
non abbiamo tuttavia la pretesa di avere una conoscenza completa dell’attuale
organizzazione della Chiesa cattolica, cosicché possiamo auguraci che esista
ancora, al suo interno, un centro in cui si conservi integralmente, non
soltanto la «lettera», ma lo «spirito» della dottrina tradizionale.
[11] Abbiamo già avuto occasione di segnalare un caso al quale si applica quanto
andiamo dicendo: mentre i Brâhmani si
sono sempre dedicati in modo pressoché esclusivo, almeno per il loro uso
personale, alla realizzazione immediata della «Liberazione» finale, gli Ksatriya hanno sviluppato di preferenza
lo studio degli stati condizionati e transitori che corrispondono ai diversi
stadi delle due «vie del mondo manifestato», chiamate devayâna e pitryâna (L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta,
Milano, Adelphi, 1992, cap. XXI).
[12] È questo, in India, il caso degli Itihâsa
e dei Purâna, mentre lo studio del Vêda concerne particolarmente i Brâhmani, perché in esso è contenuto il
principio di ogni conoscenza sacra; si vedrà del resto più avanti come la
distinzione degli oggetti di studio che convengono alle due caste corrisponda,
in modo del tutto generale, a quella delle due parti della tradizione che nella
dottrina indù sono chiamate Shruti e Smrti.
[13] Noi
trattiamo sempre dei Brâhmani e degli
Ksatriya intesi nel loro insieme; se
esistono eccezioni individuali, queste non intaccano in nessun modo il
principio delle caste in se stesso, e provano solamente che l’applicazione di
tale principio non può essere se non approssimativa, soprattutto in condizioni
come quelle del Kali-Yuga.
[14] Anche se parliamo sempre di Brâhmani
e di Ksatriya, in quanto l’uso di
tali parole facilita notevolmente l’espressione delle realtà di cui trattiamo,
è sottinteso che tutto quello che diciamo qui non si applica soltanto
all’India; la stessa considerazione avrà valore tutte le volte che ci serviremo
di questi termini senza fare espresso riferimento alla forma tradizionale indù;
dovremo d’altronde spiegarci più compiutamente su questo particolare un po’ più
avanti.
[15] Ponendosi da un punto di vista leggermente diverso, anche se strettamente
legato a questo, si può dire che i «piccoli misteri» si riferiscono soltanto
alle possibilità dello stato umano, mentre i «grandi misteri» si riferiscono
agli stati sovrumani; attraverso la realizzazione di tali possibilità o di tali
stati, essi conducono rispettivamente al «Paradiso terrestre» e al «Paradiso
celeste», com’è detto da Dante in un testo del De Monarchia che citeremo più innanzi; e occorre non dimenticare
che, come lo stesso Dante indica abbastanza chiaramente nella sua Divina Commedia, e come avremo ancora noi stessi l’occasione di ripetere in
seguito, il «Paradiso terrestre» dev’essere considerato, in realtà, nient’altro
che una tappa sulla via che porta al «Paradiso celeste».
[16] Nell’antico Egitto, la cui costituzione era nettamente «teocratica», sembra che
il re fosse considerato integrato alla casta sacerdotale in virtù della sua
iniziazione ai misteri, e che talvolta fosse anzi scelto fra i membri di tale
casta; questo è, almeno, quanto afferma Plutarco: «I re erano scelti fra i
sacerdoti o fra i guerrieri, perché queste due classi, l’una a causa del suo
coraggio, l’altra in virtù della sua saggezza, godevano di una stima e di una
considerazione particolari. Quando il re era scelto nella classe dei guerrieri,
dal momento della sua elezione entrava a far parte della classe dei sacerdoti;
veniva allora iniziato a quella filosofia, nella quale tante cose, sotto
formule e miti che avvolgevano di un’apparenza oscura la verità e la
manifestavano per trasparenza, erano nascoste» (Iside e Osiride, 9). Si
rileverà che il finale di questo brano contiene l’indicazione chiarissima del
duplice senso della parola «rivelazione» (cfr. Il Re del Mondo).
[17] Occorre aggiungere che in India la terza casta, quella dei Vaishya, le cui funzioni sono di ordine economico, è anch’essa
ammessa a un’iniziazione che le dà diritto alle qualificazioni, comuni ad essa
e alle due prime caste, di ârya, o
«nobile», e di dvija, o «nato due volte»; le conoscenze che le
si addicono in modo particolare sono soltanto, per lo meno in linea di
principio, una ristretta parte dei «piccoli misteri» quali siamo venuti
definendo; ma non è nostro compito insistere su questo punto, giacché l’argomento
del presente studio riguarda soltanto i rapporti tra le prime due caste.
[18] Si può dunque affermare che il potere spirituale appartiene «formalmente» alla
casta sacerdotale, mentre il potere temporale appartiene «eminentemente» a
quest’ultima e «formalmente» alla casta regale. Secondo Aristotele è così che
le «forme» superiori contengono «eminentemente» le «forme» inferiori.
[19] È necessario rilevare a tale proposito che presso i Romani, Giano, il quale era
il dio dell’iniziazione ai misteri, era nello stesso tempo il dio dei Collegia fabrorum; questo accostamento è
particolarmente significativo sotto il profilo della corrispondenza da noi qui
indicata. A proposito della trasposizione mediante cui ogni arte, al pari di
ogni scienza, può assumere un valore propriamente «iniziatico», cfr. L’Esoterismo di Dante, Roma, Atanòr,
1951.
[20] Taluni indicano con precisione la metà del secolo XV come data di tale perdita
dell’antica tradizione, perdita che comportò la riorganizzazione, nel 1459,
delle confraternite di costruttori su nuovi fondamenti, ormai incompleti. È
opportuno notare che a partire da quest’epoca le chiese cessarono di essere
orientate regolarmente, e un tale fatto ha, riguardo alla questione trattata,
un’importanza molto più rilevante di quanto non si possa pensare di primo
acchito, cfr. Il Re del Mondo.
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