Il libro della Verità - I*
[43a][1] Nel Nome di Allah, il Misericordioso, il Clemente, ed Allah faccia scendere la Sua ṣalât sul nostro signore Muhammad e sulla sua famiglia, e la Sua Pace.
Il nostro
signore e la nostra guida (imâm), il Maestro, l'Imam, il dotto (faqîh), il sapiente,
colui che riferisce le novelle [profetiche] (muḥaddith)[2], il senza eguali (nasîj)[3]
della sua epoca, l'unico (farîd) del suo tempo, il Maestro della Via e l'Imâm della realizzazione (taḥqîq), Muḥyiddîn Abû 'Abdallah ibn 'Ali ibn Muḥammad ibn al-'Arabi at-Tâ'î
al-Hâtimî, Allah perdoni noi e
lui, ha detto:
Sia lode ad Allah, l'Unico (wâḥid)[4]
sotto tutti gli aspetti, “Colui che non ha bisogno di
nulla e di Cui tutti hanno bisogno” (aṣ-ṣamad)[5],
che non ammette la comparabilità (tashbîh) Colui che Si manifesta (al-mutajallî)
ai cuori di coloro che Lo conoscono
per mezzo della stazione della prossimità (maqâm al-qurba)[6]
e Colui che Si manifesta esteriormente (aẓ-ẓâhir) a tutte le Sue creature per mezzo della Presenza della comunanza (ishtirâk)
tra la incomparabilità (tanzîh) e la comparabilità. E
dopo questa teofania santissima onnipervadente (sârî), che essi hanno
realizzato, non sussiste per loro un velo al di fuori di Lui (dûna-hu)
senza che essi Lo riconoscano in esso, e non è nascosto (istatara)
a loro un segreto (sirr) senza
che essi lo contemplino per mezzo del Suo occhio. E non appare (laḥa) loro un mistero (ghayb)
senza che essi ne prendano possesso (malakû-hu) per mezzo
della Sua Potenza (quwwa). E quando viene separata (infaraqa) per loro una
realtà (amr), per mezzo della Sua
Singolarità (fardâniyya) la ricongiungono (waṣṣalû-hu). E quando si congiunge a
loro (waṣala-hum) una proprietà (ḥukm), per mezzo del Suo
Attributo di essere Colui di cui
tutti hanno bisogno (ṣamadaniyya) la distinguono (faṣṣalû-hu). E quando viene disgiunto (tafarraqa)
a loro uno stato (ḥal) a causa degli effetti dell'esistenza
contingente (âthâr al-kawm), per mezzo della Sua Unità lo
riuniscono.
E quando Egli Si riunisce (ijtama'a)
a loro nell'Essenza della Sintesi e della Realizzazione (‘ayn
al-jam‘wa-l-wujûd), per mezzo della Sua Personalità (huwiyya)
Lo discriminano (farraqû-hu).
Gloria a Colui che non procede (yaṣduru) da una cosa e da Cui non procede cosa, e che non è pari (kufu’)
ad alcuno e non c'è alcuno pari a Lui [cfr. Cor. CXII-4]. Per mezzo di
queste cose Lo conoscono i realizzati ed hanno scienza di Lui. Quando affiora (ruji‘a)
a loro il segno distintivo (‘alam) delle relazioni (nisah)
divine, in occasione della ricerca siriaca (aṭ-ṭalab as-suryânî)[7], essi lo recidono (qaṭa‘û-hu), e in occasione dell'estinzione (fanâ’) essi Lo trovano, ed in
occasione della permanenza (baqâ’) essi Lo adorano. Ed in
occasione dell'impotenza (‘ajz), dello
sconcerto (ḥayra) e della incapacità (quṣûr) essi Lo realizzano. Essi oscillano in questa stazione della “allocuzione
divina nel Mondo intermediario” (fahwânî)[8]
tra la Personalità, l'Unità (aḥadiyya), la Divinità (ulûhiyya)
e l'Attributo di essere Colui di
cui tutti hanno bisogno (ṣamadaniyya) fino al giorno in cui Lo
incontrano. La ṣalât e la Pace su colui che è qualificato dagli attributi di relazione (nu‘ût)[9]
dell'incomparabilità e che è chiamato
l'eminente approssimato (al-mad‘u bi-l-muqarrabi-l-wajîh) e
sulla sua famiglia ed i suoi compagni: non è stato scelto
un sagace ed Egli ha designato in modo esclusivo il Suo Profeta (mâ iṣṭuni‘a labîb
wa-ikhtassa nabiyya-hu).
Quanto segue: Il corrispettivo (naẓîr)[10] per
quanto concerne l'Attributo di relazione (na‘t) e l'Attributo
intrinseco (wasf) talvolta si trova in tutto l'insieme delle cose
esistenti (al-mawjûdât), siano esse superiori o inferiori. Invero gli
Attributi di relazione divini sono ripartiti su di esse e di essi vi è una
parte (qism) che è coestensiva al tutto come l'esistenza, la
manifestazione (ẓuhûr), la vita esteriore ed
interiore, la scienza e la parola (nutq) comprensibile e non
comprensibile, e simili a questo; e di essi una parte caratterizza specialmente
[43b] alcune cose esistenti. Essi
sono attributi di relazione essenziali per le cose esistenti e proprietà (aḥkâm) la cui correlazione (iḍafa) con la Divinità (ulûhiyya)
è valida, e l'Esistenza è tutta vera (al-wujûd ḥaqq
kullu-hu)[11], ed essi sono i corrispettivi (nuẓarâ’) ed i
pari (akfâ’); quanto al corrispettivo
per quanto concerne l'Atto (fi‘l), non c'è![12]. Quello
invero caratterizza più specificamente l'Attributo intrinseco divino, [che] non
ammette la condivisione (shirka) per ciò che
conferiscono le realtà essenziali dei gradi di contemplazione e della
riflessione (al-ḥaqâ’iq al-mashhadiyya wa-l-fikriyya). Sennonché alcuni di questi
attributi di relazione, che riguardano in particolare l'uomo quando li
manifesta in questa esistenza contingente, [sono] in sedi diverse da quelle
loro assegnate, in cui il Vero, l'Altissimo, ha ordinato di manifestarli, in
quanto appartenenti alla gente della marchiatura (tab‘) e del sigillo (khatm)[13],
e toccano, “a coloro che sono perduti, delle opere” [cfr. Cor. XVIII-103)].
L'Altissimo ha detto:
“Assapora [il supplizio infernale], tu che eri il potente (‘azîz), il nobile!” (Cor. XLIV-49), ed ha detto: “Così Allah
imprime un marchio sul cuore di ogni superbo e tiranno” (Cor. XL-35).
Analogamente per il servitore quando li impiega [letteralmente: cammina con
essi] nella loro sede assegnata, come ha detto l'Altissimo: “[è] penoso (‘azîz) per lui [ciò che manifestate (di
male)]” (Cor. IX-128). E l'Altissimo ha detto: “con i credenti gentile e
clemente” (Cor. ibidem). Ed [il
Profeta], su di lui la Pace, ha detto riguardo ad Abû Dujâna, quando incedeva
tronfio (bakhtara) tra le due
schiere: “Questo portamento è inviso ad Allah ed al Suo Inviato se non in
questa circostanza!”[14]. Sappi
che la lode ed il biasimo connessi agli attributi non si riferiscono alle loro
essenze, poiché se la proprietà (ḥukm) [o il giudizio] del biasimo
fosse riferita all'essenza dell'attributo non potrebbe mai succedere che esso
sia oggetto di lode e viceversa se la proprietà della lode [fosse riferita
all'essenza dell'attributo] non scorrerebbe mai la lingua del biasimo su di
esso[15].
L'attaccamento tenace (bahl)[16]
riguardo alle ricchezze è biasimato [mentre l'attaccamento tenace per la
tradizione (dîn) è lodato; la
codardia (jubn) verso il mondo (kawm) e la paura (khawf)
di esso è biasimata][17] mentre
la paura di Allah e di ciò che Egli ha ordinato di temere, in quanto lo ha
ordinato è lodata; la bramosia (ḥirs) nell'accumulare la ricchezza
e nel conservarla è biasimata, mentre la bramosia nella ricerca della scienza e
delle conoscenze e nel conformarsi al massimo possibile a ciò a cui si addice
conformarsi è lodata; l'invidia (ḥasad) riguardo all'ottenimento dei mezzi del benessere per usarli (isti‘mâl)
è lodata mentre riguardo ad altro che quello è biasimata. [Il Profeta],
su di lui la Pace, ha detto, nel Ṣaḥîḥ: “L'invidia non può
[legittimamente] riguardare che due persone”[18] ḥadît, e quindi ha attestato (qarrara)
l'invidia dal punto di vista della Legge tradizionale. Il non credere (kufr)
in ciò in cui è opportuno non credere è lodato, mentre la miscredenza
nei confronti di Allah e dei suoi favori (ni‘am) è biasimata. La
fede (îmân) in Allah, nei Suoi
Angeli, nei Suoi Libri e nei Suoi Inviati è lodata, mentre la fede nella
divinità degli astri (kawâkib), dei Faraoni e di altri
esseri contingenti (akwân) come al-Lât, al-‘Uzza,
Hubal, Manât, Yaqhût, Ya‘uq e Ba‘l[19] è
biasimata. Analogamente per tutte le realtà (umûr) da cui l'umanità
non può separarsi [44a] se non per mezzo della cessazione (zawâl) della loro realtà essenziale in
questa sede (mawṭin) del mondo di quaggiù (dunyâ) e dell'imposizione legale
(taklîf)[20]: la
bramosia, l'avarizia, la codardia, l'invidia e la rniscredenza non cessano mai
per l'uomo e quindi su di lui scorre la lingua della lode e del biasimo per
esse, conformemente alloro impiego (taṣrîf)[21]. Chi dice all'uomo: “Non essere codardo e non essere avaro!” è come se gli
dicesse: “Vieni meno a questa tua costituzione naturale (nash’a)[22],
annientati e diventa un'altra natura, cioè non essere uomo!”, e questo non è
nel potere dell’uomo, cioè che egli stesso produca un'altra costituzione
naturale. “invero l’uomo è stato creato avido, impaziente quando lo tocca il
male e ritroso quando lo tocca il bene”. (Cor. LXX-19 e 20). Egli non può
quindi separarsi (yanfakku) da ciò su cui è stato connaturato (jubila
‘alay-hi), e il Vero, l'Altissimo, ha determinato la sede [corretta]
in cui esercitare questi attributi di relazione.
La costituzione naturale (nash’a)di
questo mondo ha una caratteristica propria (ikhtiṣâṣ) che contrasta con l'altra [o
ultima] costituzione naturale, tanto che non vi è comunanza tra le due
costituzioni naturali sotto tutti gli aspetti[23]. La
costituzione naturale dell'altro [mondo]
ha una caratteristica propria e come potrebbe essere diversamente tra le due
costituzioni, dato che la costituzione naturale di questo mondo è una
costituzione di mescolanza (imtizâj)
e di mistura (amshâj)[24])
e la costituzione dell'altro mondo è una costituzione di purezza (khilâṣ) da questa complessione (mizâj)?[25]
Il dannato è caratterizzato puramente
per la sua infelicità e non vi è in lui nulla del bene, ed il beato è caratterizzato puramente per la sua
felicità e non vi è in lui nulla del male, perché l'essenza dell'altra dimora
comporta quello. Non vi è quindi assolutamente codardia, né avarizia, né
invidia nella costituzione naturale dei beati, e se fosse diversa da questa
costituzione naturale le sue caratteristiche inerenti (lawâzim)[26]
non si separerebbero da essa (tufâriqu-hâ)[27];
e non c’è assolutamente generosità (jûd), né tranquillità (amn)
nella costituzione naturale dei dannati, e se fosse diversa da quella costituzione naturale le
sue caratteristiche inerenti non si separerebbero da essa in successione
alterna (bi-t-ta‘âqub)[28]
e senza successione alterna, e con successione alterna intendo la
manifestazione di questi attributi (ṣifât) per mezzo della [loro] proprietà (ḥukm) sull'esterno della forma
modellata (ẓâhir al-qalâb), non in se stessi; essi sono
necessariamente inerenti (lâzima) all'anima per la
proprietà di questa composizione (tarkîb)
specifica e nell'altro [mondo] Egli comporrà una composizione
particolare che è simile a questa composizione nella forma, ma non sotto tutti
gli aspetti. L'anima avrà altre caratteristiche inerenti diverse da queste
caratteristiche inerenti. È opportuno che tu colga la costituzione dell'altro
mondo con questo occhio.
La Legge ha indicato questa
similitudine (mukâfâ) nella forma e quindi noi parliamo della forma (ṣûra) e del simile (mitl)[29], non
del corrispondente (naẓir) e del pari (kufû’),
per conformità all’adab prescritto.
Coloro che rispettano l’adab (al-udabâ’) siedono in compagnia del Vero e chi non ha adab non ha contemplazione diretta (shuhûd),
e chi non ha contemplazione diretta viaggia (yasîḥu) nel mare dei pensieri [44b]
razionali con i mezzi (wasâ‘ît)
dell'immaginazione (khayâl), ed egli è lo
sconcertato che non è mai guidato, poiché egli cerca Colui che, per la Sua
realtà essenziale, non può essere cercato[30]. E quando dice: ho trovato ed ho
ottenuto ciò che cercavo, si inganna (khasira) e cade in errore, senza accorgersene:
cerchiamo rifugio in Allah dalla massa (ghamra) degli ignoranti!
Il beato della gente della
riflessione e della ricerca, che non ha un piede saldo (lâ yathbitu lahu qadam) e non ha una dimora
spirituale stabilizzata (lâ yastaqarru la-hu manzil), che
sospira (yatanaffasa as-su‘adâ’) e dice: “La durata della vita (‘umr) è arrivata al termine e la mia ricerca non ha prodotto se non lo
sconcerto e la deficienza (quṣûr)”, quello sarà il più felice tra
le gente della riflessione! Ci rifugiamo in Allah dal danno (ẓulm) dei pensieri su ciò su cui
non si addice pensare!
Il sapiente realizzato entra
nelle case dalle loro porte e non entra in esse dal loro retro [cfr. Cor.
II-189]. Vi sono scienze che non sono ottenute se non per mezzo della
contemplazione e della visione, ed i pensieri non vi arrivano mai, come la
conoscenza dell'Essenza santissima, della costituzione naturale dell’aldilà,
delle sue proprietà e di altre cose simili[31]. Questa
è la separazione (faṣl) dei rispettivi (nuẓara) e dei simili (amthal), il cui ottenimento
riguarda specificamente i conoscitori ed i Sostituti (abdâl), e chi subisce
trasmutazioni (buddila) nella forma
conosce la realtà essenziale dell'uomo (bashar).
(Segue)
(*) Questo breve trattato di
Ibn 'Arabi non è mai stato pubblicato a stampa ed esiste solo in forma
manoscritta. 'Utmân Yahya nel Répertoire
Général (RG) della Histoire et
classification de l'oeuvre d'lbn ‘Arabî, Damasco, 1964, elenca 35
manoscritti di quest'opera (RG. 219). La traduzione è stata fatta su due manoscritti conservati nelle biblioteche di
Istanbul, il Shehit ‘Alî 2813 ed il Bayazid 3750. Il primo, che 'Utmân Yahya descrive come
autografo, è stato in realtà redatto da Ayyûb ibn Badr al-Maqqari, nell'anno 621 dall'Egira, e contiene un
certificato di ascolto (samâ‘) che
inizia come segue: “Lo ha copiato Ayyûb ibn Badr per se stesso, in presenza del
suo autore, nella [Grande] Moschea [di Damasco] nella seconda decade del mese
di Ramadan, mentre egli, Allah sia soddisfatto di lui, era in ritiro
spirituale. Ed ho anche letto questo libro, il Libro della Verità, al suo
autore, il signore, il Maestro, l'Imam, il sapiente, [ ... ] Muhyiddîn Abû
'Abdallah ibn 'Ali ibn Muhammad ibn al-'Arabî at-Tâ'î al-Hatimi [ ... ]".
Il secondo è stato redatto nell'anno 782 dall'Egira.
[1] La numerazione si riferisce alle
pagine del manoscritto Shehît ‘Ali, costituito in origine da una ventina di
testi di Ibn 'Arabi: trascritti da Ayyûb ibn Badr al-Muqri'. Dallo stesso
manoscritto sono stati riportati anche i segni di separazione.
[2] Il testo
non è vocalizzato, per cui potrebbe trattarsi anche di al-muhaddath, colui a cui [Allah] parla.
[3] Nel testo i due punti diacritici
della yâ’ si trovano in posizione
superiore, per cui si dovrebbe leggere natîj,
gravido, che non ha alcun senso nd contesto.
[4] Nel
manoscritto Bayazid si legge "Sia lode all'Essenza (dât) unica".
[5] Il Nome “aṣ-ṣamad”, che compare solo nella
Sura CXII, è uno dei più difficili da tradurre in una lingua occidentale, ed
anche i lessici arabi sono assai vagì al riguardo. Nel Cap. 558, nella sezione
dedicata alla Presenza di questo Nome [IV 295.3], Ibn ‘Arabî: spiega che:
“questa Presenza (ḥadra) è la Presenza della ricerca del rifugio (iltijâ’) e del sostegno
(istinâd)
nella quale cerca rifugio e sostegno ogni “povero (faqîr)”
per una faccenda o cosa, sapendo che quella cosa o faccenda di cui è
bisognoso si trova in questa Presenza [ ... ] Il Vero, poiché non c'è cosa i cui forzieri (hazâ’în) non
siano presso di Lui, è aṣ-Ṣamad, ma i forzieri non sono altro che gli oggetti permanenti di conoscenza (ma‘lûmât), che sono fissi presso di Lui ed
Egli li conosce e li vede”.
[6] Nel
manoscritto Bayazid si legge "la stazione trascendente (nazîh)".
[7] Questo aggettivo
ricorre nei titoli dei Capitoli 299 e 354, riferiti rispettivamente ad una
stazione (maqâm) e ad una dimora spirituale (manzil), ma non si trova mai nel testo delle Futûḥât. Réné Guénon, nell'articolo dedicato alla scienza delle lettere, Cap. VI
dei Symboles de la Science sacrée, precisa che questo termine non
si riferisce alla Siria, che in arabo si chiama Sham, ma alla "illuminazione solare".
[8] Questo aggettivo,
coniato da Ibn ‘Arabî, deriva dal verbo fâha, dire, pronunciare. Il sostantivo fâh è uno dei nomi arabi usati per
indicare la bocca. Nel seguito del testo verranno fornite ulteriori spiegazioni
sulla “fahwâniyya”.
[9] Nel Libro
dell'eternità (kitâb al-azal), Ibn ‘Arabî precisa: “Quanto agli Attributi
di relazione (nu‘ûl) ed alla
differenza tra essi ed i Nomi e gli Attributi intriseci (awṣâf), essi sono dei termini che non indicano un
significato (ma‘nâ) che sussiste nell'Essenza di ciò che è caratterizzato
dall'Attributo di relazione (man‘ût)
[come nel caso degli Attributi
intrinseci], né sono dei Nomi, poiché essi appartengono a ciò che è
caratterizzato dall'Attributo di relazione e che è determinato con un Nome con
cui è noto: gli Attributi di relazione (nu‘ût) sono solo dei termini che indicano l'Essenza in quanto messa in
correlazione, per cui noi li chiamiamo Nomi di correlazione (asmâ’
al-iḍâfa), come il Primo (al-awwal).
La negazione della Primordialità (awwaliyya) riguardo a Lui è
necessaria, e se Gli attribuiamo l'Attributo (na‘t) di essere Primo
è necessaria l'esistenza delle nostre entità [ ... ] Analogamente per
l'eternità: essa è stata attribuita a Lui a causa del tempo che ci
caratterizza. [...] Il termine “Nomi” è quello più generale, poiché comprende i
Nomi, gli Attributi di relazione e gli Attributi intrinseci. I Nomi vengono per
primi in quanto appartengono all'essenza (‘ayn)
senza comportare nulla della sua quiddità (mâhiyya), né dei
significati che sussistono in essa; poi seguono gli Attributi di relazione, in
quanto essi indicano la quiddità sotto un certo aspetto; per ultimo vengono gli
Attributi intriseci, poiché essi indicano un significato nell'Essenza per
coloro che affermano le Qualità (ṣifât), ed indicano una proprietà (ḥukm) per
coloro che le negano”. Analogamente, nel Cap. 73, questione CLIII [II 129.3]
egli definisce il termine na‘t, singolare di nu‘ût, come “ciò che cerca (talaba)
le relazioni non-esistenti”, ed il termine ṣifa come “ciò che cerca il significato esistente”.
Tuttavia nel corso della sua opera non sempre Ibn 'Arabi mantiene rigorosamente
questa distinzione ed usa invece indifferentemente na'i e na‘t e ṣifa, come
ad esempio nel Cap. 128 [II 212.20 e 21].
[10] La parola araba naẓîr è all'origine del
termine astronomico 'nadir', punto opposto allo zenit, termine anch'esso di
origine araba. Naẓîr deriva dalla radice verbale naẓara, che significa considerare, spicere
in latino, per cui “rispettivo” o “corrispettivo” ne è la traduzione letterale.
Nelle Futûḥât tale termine ricorre frequentemente: per citare alcuni esempi, nel Cap. 5 [I 105.32] è precisato che le vocali sono il corrispettivo delle
Qualità e le lettere quello di Colui che è qualificato; nel Cap. 6 [I 120.29] sono elencati i corrispettivi nell'uomo della
Realtà Muhammadiana, del Trono, del Seggio, ecc.; nel Cap. 7 [I 125.20] è precisato che l'uomo è il
corrispettivo dell'Intelletto Primo; nel Cap. 58 [I 289.33] è affermato che i
mutamenti (taqlîb) nel cuore sono i corrispettivi delle trasmutazioni divine nelle forme; nel Cap.
72 [I 697.20] è precisato che la
sacralizzazione (iḥrâm) per l'uomo è il corrispettivo della affermazione di trascendenza (tanzîh) per il Vero; e nel Cap. 355 [III
250.7] è affermato che la ragione nell'uomo è il corrispettivo della Luna.
[11] Cioè tutto ciò che
esiste partecipa della realtà del Vero. Una analoga affermazione, “tutta
l'Esistenza è vera (al-wujûd kullu-hu lwl/u-hu ḥaqq)”, si trova nel Cap. 73 [Il 21.35]
“Anche se Egli è identico all'Esistenza delle cose, Egli non è identico
alle cose. Le essenze (a‘yân) [o entità] delle delle
cose esistenti sono una materia (hayûlâ) per esse, o
spiriti (arwâḥ) per esse, e l'Esistenza è ciò che è apparente
(ẓâhir) di quegli spiriti o le forme di quelle entità materiali. Quindi tutta
l'Esistenza è vera [o reale] ed apparente, e ciò che è nascosto (bâṭin) di essa sono le cose” e nel Cap. 317
[III 68.12] “Non c'è altro nell'Esistenza se non Allah, l'Altissimo, i Suoi
Nomi ed i Suoi Atti. Egli è il Primo per il Suo Nome l'Apparente ed è l'Ultimo
per il Suo Nome il Nascosto. Quindi tutta l'Esistenza è vera [o reale] e non
c'è nulla di falso (bâṭil) [o irreale] in essa, poiché ciò che si intende usando il termine “falso” è
una nonesistenza (‘adam) in ciò che
il suo possessore pretende essere un'esistenza. Comprendi dunque!”. Nel Cap.
470 [IV 100.34] Ibn 'Arabi precisa: “ll Vero è l'Esistenza e le cose sono le
forme dell'esistenza” e nel Cap. 553 [IV 193.16] aggiunge: “ll Vero è identico
all'Esistenza”.
[12] Nel Cap. 3 [I 93.32], lbn ‘Arabi precisa:
"Poi abbiamo preso anche in considerazione l'insieme di ciò che è altro che il Vero, l’Altissimo, ed abbiamo
trovato che è suddiviso in due classi: una classe è percepita per la sua stessa essenza, ed è il sensibile ed il grossolano (kathîf); un'altra classe è
percepita per la sua attività (fi‘t)
[o atto], ed è l'intellegibile (ma‘qûl) ed il sottile (laṭîf). Quindi
l'intellegibile è elevato al di sopra del sensibile
per questa dimora, cioè per il fatto di non essere percepibile in se stesso
ma solo per mezzo del suo atto. Poiché
queste sono le attribuzioni (awṣâf) delle
creature, il Vero, l'Altissimo, è troppo Santo per potere essere percepito
tramite la Sua Essenza, come il sensibile, o tramite il Suo Atto, come il
sottile e l'intellegibile, in quanto
non c'è assolutamente alcuna corrispondenza (munâsaba) [o
correlazione] tra Lui, Gloria a lui, e le Sue creature. La Sua Essenza non è
percepibile da noi, perché sarebbe simile
al sensibile, né lo è il
Suo Atto come l'atto del sottile, poiché sarebbe simile al sottile. L'Atto del Vero, l'Altissimo, è la produzione
ex-nova di una cosa, non da una cosa, mentre per lo spirituale sottile si
tratta dell'atto della cosa dalle cose: come può esservi corrispondenza tra i due? Se è impossibile che vi sia una corrispondenza nell'atto, a
maggior ragione è impossibile
che vi sia similarità
nell'essenza”.
[13] Si tratta dei miscredenti
(kâfirûn),
come conferma Ibn 'Arabi nel Cap. 73, questione CLIV [II 136.6] e nel Cap. 560 [IV 525.27]. La sigillatura
è menzionata nel Corano nei seguenti versetti: II-7 e 46, XLII-24 e XLV-23; la
marchiatura nei versetti: IV-155, VII-100 e 101, IX-87 e 93, X-74, XVI-108,
XXX-59, XL-35, XLVII-16 e LXIII-3. Nelle Futûhât il termine tab‘ nella maggior parte dei casi
[oltre un centinaio di volte] indica la natura, e solo in rare occasioni ha il significato di marchiatura: nel
Cap. 73, questione CLIII [II 130.5] “il
sigillo (khatm) è il marchio
(‘alâma) del Vero sui cuori dei conoscitori, ed il marchio impresso (tab‘) è ciò che la Scienza sa in
precedenza riguardo ad ogni eletto tra i divini”; nel Cap. 178 [II 342.12] “L'Altissimo ha detto: “ed
Egli ama coloro che si purificano” (Cor. 11-222). La purificazione è un Attributo (ṣifa) di santifìcazione e trascendenza, che costituiscono la
Qualità dell'Altissimo. La purificazione
da parte del servitore consiste nell'allontanare dalla sua anima ogni impurità (adâ)
che non si addice di essere vista in lui [...], come la superbia, la
tirannia, il vanto, l'arroganza
e la vanità. Tra essi vi sono
attributi che non entrano nel cuore tutto ad un tratto, per l'impronta (tâbi‘)
divina che vi è sui
cuori; ciò corrisponde al Suo
detto: “Così Allah imprime un marchio sul cuore di ogni superbo e tiranno”
(Cor. XL-35). Egli fa apparire esteriormente la superbia e la tirannia su colui
della Sua gente che la esige o per la sua pretesa ed il suo intrigo, o per la realtà delle cose, ma nel suo cuore egli
è indenne da quella superbia e tirannia in quanto ha scienza della sua
impotenza, della sua meschinità e della sua povertà [...]. Questa è la
marchiatura divina sul suo cuore e quindi non penetra nulla di quegli attributi
in esso; quanto alla loro
manifestazione nella sua esteriorità egli è indenne. Allah ha stabilito delle
sedi in cui egli manifesta questi attributi senza essere biasimato e delle sedi
in cui invece è biasimato";
nel Cap. 337 [III 146.5] e nel
Cap. 418 [IV 26.1] ove è citata
insieme al sigillo.
[14] In occasione della
battaglia di Uhud, il Profeta, su di lui la Pace, brandì una spada e disse:
“Chi prenderà questa spada con il suo
diritto (ḥaqq)?”. Si fecero avanti prima 'Umar e poi az-Zubayr, ma la
spada non venne loro concessa. Allora Abû Dujâna chiese: “Qual è il suo
diritto, o Inviato di Allah?” ed egli rispose: “Che tu colpisca il nemico con
essa fino a farla piegare!”. Avendo Abû Dujâna detto che l'avrebbe presa con il
suo diritto, essa gli venne data ed egli si mise a brandirla tra le schiere dei
nemici. L'episodio è riportato da Ibn Isḥaq nella sua Vita dell'Inviato di Allah, tradotta da A. Guillaume, a pag.
373. Cfr. anche lo ḥadît riportato
da Abû Dâ’ûd, XV-104.
[15] Nel Cap. 149, di cui è
disponibile una traduzione italiana, lbn 'Arabi" precisa [II 242.20]: “Ma
vi sono nomi che sono attribuiti al
servitore e non sono attribuiti al Lato divino, anche se il loro significato
include quello. Per esempio, il nome l'avaro (bahil) è usato per il servitore ma non per il Vero.
L'avarizia consiste nel trattenere ed uno dei Suoi Nomi è “Colui che trattiene”
e colui che è avaro invero trattiene. Questo è vero, ma noi cerchiamo un altro
approccio alla questione e quindi diciamo: ogni avarizia è un trattenere, ma
non ogni trattenere è avarizia. Colui che trattiene ciò che è dovuto a chi ne
ha diritto è avaro; ma il Vero ha confermato la frase di Mosé: “Invero Allah dà
ad ogni cosa la sua creazione!” (Cor. XX-50). Chi ti ha dato la tua creazione
ed ha ottemperato al tuo diritto, non è stato avaro con te! Inoltre il
trattenere ciò di cui la creatura non ha diritto non è il trattenere
dell'avarizia. In questo modo abbiamo stabilito una distinzione tra i due
significati”; e nel Cap. 375 [III 472.23] aggiunge: “Non c'è nel Mondo realtà
che sia biasimata in modo assoluto, né lodata in modo assoluto, perché gli
aspetti ed i contesti la vincolano. La radice (asl) è l'essere
vincolati (taqyîd), non l'assolutezza (iṭlâq), in
quanto l'esistenza è necessariamente vincolata, e per questo l'indicazione
dimostra che tutto ciò che entra nell'esistenza è vincolato”.
[16] Si tratta
dell'avarizia, che è la traduzione comunemente adottata per i termini bahl e shuhhah. Per consentire una lettura positiva di questo attributo
l'ho tradotto con attaccamento tenace, ricordando che in altri tempi tenace significava anche avaro.
[17] Nel manoscritto Shehit
‘Alî il brano tra parentesi manca,
mentre è riportato nel manoscritto Bayazid.
[18] Ḥadît riportato da al-Bukhari, III-15, XXIV-5, XCill-3, XCIV-5, XCVI-13, XCVII-45, e da Ibn Hanbal. Il seguito del detto tradizionale è: “un uomo
a cui Allah ha concesso la ricchezza, rendendolo capace di spenderla per il Vero, ed un uomo a cui
Allah ha dato la saggezza, che giudica in base ad essa e che la insegna”.
[19] Ad eccezione di Hubal
e di Ba‘l, i nomi di queste divinità ricorrono nel Corano; i primi tre nel versetto 20 della Sûra LIII, e gli altri due nel
versetto 23 della Sûra LXXI.
[20] Nel Cap. 296 [II
682.8] Ibn ‘Arabî precisa che “La dimora dell'aldilà non è una dimora di
imposizione legale” e nel Cap 355 [III
248.14] ribadisce: “l'aldilà non è una dimora di imposizione legale, ma una
dimora di adorazione ‘ibâda)” e poco
oltre [III 249.32] aggiunge: “Questo perché Egli ti ha ordinato di adorarLo
nella Sua Terra solo fintanto che il tuo spirito abita nella terra del tuo
corpo: Quando il tuo spirito si separerà da esso l'imposizione legale (taklîf) decadrà per te, anche se il tuo
corpo continuerà ad esistere nella Terra, sepolto in essa”. In questo mondo
l'imposizione legale è peraltro condizionata dalla promulgazione di una Legge
tradizionale e quindi nell'epoca antediluviana, in cui non vi furono Inviati, e
nelle epoche di transizione (fatarât)
che intercorrono tra due Inviati tale imposizione non sussisteva per tutti gli
uomini. Nel Cap. 313 [III 50.6] Ibn ‘Arabî infatti precisa: “Sappi, che Allah ti assista, che la
radice (aṣl) dei nostri spiriti è lo spirito di Muhammad, che
Allah faccia scendere su di lui la Sua ṣalât e la Pace; egli è il primo dei Padri in spirito ed
Adamo è il primo dei Padri in corpo. Noé fu il primo Inviato (rasûl) ad essere inviato: prima di lui
non vi furono che Profeti, ognuno dei quali seguiva una legge tradizionale (shari‘a)
ricevuta dal suo Signore. Chi voleva,
poteva seguire con lui la sua legge, e chi non voleva non la seguiva; chi però
aderiva ad essa e poi tornava indietro era miscredente (kâfir), mentre chi non vi aderiva non era per questo miscredente!
Chi si metteva a seguire il resto ma accusava di menzogna i Profeti era un
miscredente, mentre chi non lo faceva e restava affrancato [dalla legge] non
era miscredente. Quanto al Suo detto: “Non c'è comunità in cui (fî-hâ) sia mancato un ammonitore (naḍîr)” (Cor. XXXV-24), esso non si riferisce alla Missione
(risâla), ma al fatto che in ogni
comunità vi fu chi aveva la scienza di Allah e delle realtà escatologiche, e
questo è il
caso del Profeta, non dell'Inviato, poiché se si fosse trattato dell'Inviato
[nel versetto citato Egli] avrebbe detto “verso cui” (ilay-hâ) e non “in cui” (fî-hâ)!".
Nel Cap. 335 [III 135.29] egli aggiunge: “Prima dell'imposizione legale egli
non è vincolato ma segue la sua indole naturale (tab‘) senza alcun biasimo (mu’akhadha),
e ciò corrisponde al Suo detto, l'Altissimo: “Non abbiamo mai punito prima di
aver suscitato un Inviato (rasûl)”
(Cor. XVII-15)”. E ancora, nel Cap. 298 [II 688.3] precisa: “Tra le cose
che questa dimora include è la scienza del momento in cui si uniscono all'uomo
i due compagni (qarînân) di natura
[rispettivamente] angelica e satanica. Sappi che quando Allah ha creato l'uomo
in una comunità in cui non è stato suscitato un Inviato, non si sono uniti a
lui né un Angelo, né un demone, ed egli ha continuato a comportarsi
conformemente alla sua indole naturale, con il suo ciuffo frontale (nâṣiya) specificamente nella mano del suo Signore, sì che
tutto ciò che egli compiva in quel momento era su un sentiero diritto, poiché
il suo Signore è su un sentiero diritto. L'Altissimo ha detto: “'Non c'è
animale che Egli non tenga saldo per il suo ciuffo. Invero il mio Signore è su
un sentiero diritto" (Cor. XI-56). Quando viene suscitato tra loro un Inviato o l'uomo
viene creato in una comunità in cui vi è un Inviato, sono inseparabili da lui,
dal momento della sua nascita, due compagni,
un Angelo ed un demone, dal momento in
cui nasce a causa della Legge tradizionale. Ciascuno dei due compagni
conferisce un tocco (lamma) con cui
lo sprona e lo frena, e non dire che il neonato non è soggetto all'imposizione
legale, perché altrimenti per quale motivo si unirebbero a lui questi due
compagni?”. Per quanto riguarda i periodi di transizione (fatarât, plurale fatra),
si possono consultare il Cap. 10 [I 134.27, 137.30, 138.15], che tratta in
particolare del periodo di transizione tra Gesù e Muhammad, su di loro la Pace,
il Cap. 65 [I 317.34], il Cap. 67 [I 326.6 e 21] ove è riportato il caso di
Quss ibn Sa‘îda, il Cap. 73, questione LXVII [II 84.34] e questione LXXXIV [II
91.5], il Cap. 160 [II 260.4], il Cap. 365 [III 322.21], il Cap. 369 [III
384.5, 400.31 e 35] ed il Cap. 371 [III 439.27].
[21] Nel Cap. 298 Ibn
‘Arabî precisa [II 687.12] “Gli attributi (ṣifât) che sono
connaturati all'uomo non cambiano, poiché essi gli
appartengono in modo essenziale nella costituzione naturale (nash’a)
di questo mondo e nella [sua] specifica complessione (mizâj). Essi includono
la codardia, l'attaccamento tenace, l'invidia, la bramosia, il raccontare
storie (namîma), l'arroganza, la rudezza, la ricerca di sopraffare,
ecc. Poiché non è proponibile il loro cambiamento, Allah ha spiegato diversi
campi di applicazione (maṣârif) per
esse, verso i quali possono essere dirette conformemente ad una norma della
Legge. Se l'anima dirige le proprietà di questi attributi verso questi campi di
applicazione, otterrà la felicità e gradi elevati. Questi campi di applicazioni
corrette sono i seguenti: l'anima dovrebbe essere codarda rispetto al
commettere atti proibiti a causa della perdita che può aspettarsi; dovrebbe
essere attaccata tenacemente nei riguardi della sua religione; dovrebbe
invidiare chi spende le sue ricchezze [nella via di Allah] e chi cerca la
scienza; dovrebbe avere bramosia verso il bene e sforzarsi di diffonderlo tra
gli uomini; dovrebbe raccontare la storia del bene così come i giardini
raccontano la storia dei fiori profumati in essi; dovrebbe essere arrogante per
Allah verso colui che è arrogante nei confronti dell'ordine di Allah; dovrebbe
essere rude nelle sue parole e nelle sue azioni nelle situazioni in cui sa che
Allah approva ciò; dovrebbe cercare di sopraffare
chi è ostile
verso Allah e compete con Lui.
Una siffatta anima non abbandona i suoi attributi ma li dirige verso
applicazioni che sono state lodate dal suo Signore, dai Suoi Angeli e dai Suoi
Inviati. Quindi la Legge ha apportato solo ciò che favorisce la natura (tab‘). Non so come l'uomo provi difficoltà,
poiché con la spiegazione dei campi d’applicazione [corretti] non sono
interdetti a lui quegli attributi che la sua natura esige. Quindi
gli uomini periscono solo quando sono controllati da desideri individuali (aghrâd)
ed è questo che introduce in loro la sofferenza e ciò che è biasimevole (makrûh): se un uomo dirigesse il suo
desiderio verso ciò che il suo Creatore vuole per lui, sarebbe in pace. Venne
chiesto ad Abû Yazîd: "Cosa desideri?", ed egli rispose: “Desidero di
non desiderare!”. In altre parole: “Fammi desiderare ogni cosa che Tu
desideri!”, così che non ci sia altro che ciò
che il Vero, Gloria a Lui, vuole. Egli
“vuole” per i Suoi servitori solo “la facilità, e non vuole la difficoltà”
(cfr. Cor. II-185) per essi. Egli desidera il bene per loro ed il male non
torna a Lui (laysa ilay-hi), come è
stato menzionato nella novella (hadît) autentica: “ll bene, tutto
di esso, è nelle Tue mani, ed il male non torna a Te”, anche se ogni cosa viene
da Allah per ciò che concerne la radice (aṣl). Poiché
l'uomo non può cessare di desiderare [o volere], la prima cosa che ciò infìcia
sono i suoi atti di obbedienza in quanto egli li compie senza un'intenzione
prescritta, e quindi essi non sono atti di obbedienza. È per questo motivo che
Abû Yazîd cercò di liberarsi da quei desideri individuali dell'anima che non
sono conformi all'approvazione (marḍâ) del
Vero, quanto è Potente e Magnificente”. Analoge considerazioni vengono
sviluppate da lbn ‘Arabî nei Capitoli 68 [I 358.31], 73, questione CLIV [II
135.4], 121 [II 203.22], e 309 [III 36.25].
[22] Il termine nash’a ricorre nel Corano
tre volte, XXIX-20, LIII-4 7, LVI-62, mentre la quarta forma verbale della sua
radice, ansha’a, ricorre una ventina
di volte. Nel Kitâb Mufradìat alfìaz
al-qur’ân di Al-Râghib al-Iṣfahânî, morto nell’anno 501 dell’Egira, nash’a
è definito come iḥdât ash-shay’
wa-tarbiyatu-hu, cioè la produzione
temporale della cosa ed il suo sviluppo o educazione o allevamento [da parte di
Allah], e inshâ’, l'infinito
di ansha’a, come ijad ash-shay’
wa- tarbiyatu-hu, cioè l'esistenziazione della cosa ed il suo sviluppo;
questi termini implicano quindi due concetti distinti, che in arabo sono
riuniti in un'unica parola. Anche Golius, autore del primo vocabolario
arabo-latino, pubblicato a Leyda nel 1653, traduceva nash’a come res producta crescensve. Le traduzioni
proposte dagli studiosi di Ibn ‘Arabî sono molteplici: creazione, nascita,
piano, dominio, configurazione, costituzione naturale, esistenza: ognuno di
questi termini ha però in arabo uno o più equivalenti, che non sono il termine nash’a,
e nessuno di essi implica contemporaneamente i due concetti contenuti nel
termine arabo. In realtà il versetto 98 della Sûra VI recita: “[…] ansha’a-kum min nafsin wâḥidatin”, e si differenzia dai versetti IV-1, VII-189 e
XXXIX-6: “[…] khalaqa-kum min
nafsin wâḥidatin”, cioè “Egli vi ha creato da un'unica Anima”, solo per la sostituzione del
verbo ansha’a al verbo khalaqa. Per questo motivo, già
nei lessici arabi antichi, il verbo ansha’a,
riferito ad Allah, viene fatto equivalere a khalaqa,
ma tale equivalenza non doveva essere così rigorosa per Ibn ‘Arabî, poiché
altrimenti non si spiegerebbe una espressione come “nash’at al-khalq” che ricorre nel Cap. 371 [III 419. 7].
Ferma restando l'inadeguatezza della traduzione, per il verbo ansha’a ho adottato il termine
“produrre”, che implica il concetto di far nascere e di sviluppare qualcosa che
non c'era, mentre per nash’a, al termine prodotto
o produzione che in espressioni come nash’at al-insân
genererebbe equivoci, ho preferito adottare l'espressione costituzione
naturale, che non lascia equivoci sul fatto che nell'esempio riportato essa non
sia prodotta dall'uomo, e che per l'aggettivo “naturale” implica un aspetto di
divenire e di sviluppo.
[23] Nel Cap. 32 [I 207 .12] lbn ‘Arabî precisa: “Con
questo versetto [Cor. XXX-23] Allah ha attirato l'attenzione sul fatto che la
costituzione naturale sensibile (nash’a ḥissiyya) dell'aldilà assomiglia a questa costituzione del mondo
di quaggiù, ma non è la stessa, poiché è un'altra composizione (tarkîb)
ed un'altra complessione (mizâj), come hanno riferito le
Legislazioni tradizionali e le notificazioni profetiche riguardo alla
complessione di quella dimora. Anche se queste sostanze (jawâhir) sono senza
dubbio le stesse - poiché sono esse che vengono disperse nelle tombe e che
saranno risuscitate - tuttavia la composizione e la complessione saranno
diverse per degli accidenti e degli attributi che si addicono a quella dimora
ma non si addicono a questa dimora. Anche se la forma è unica, per ciò che
concerne l'occhio, l'udito, il naso, la bocca, le mani ed i piedi, nella
completezza della costituzione, tuttavia la differenza sarà evidente. Vi sono
differenze di cui ci si accorge e che si percepiscono sensibilmente e ve ne
sono di impercettibili: poiché la forma della produzione (insh’) nella dimora ultima sarà sulla
forma di questa costituzione naturale, non ci si accorgerà sensibilmente di ciò
che abbiamo indicato. Ma poiché il regime (ḥukm) sarà
diverso sappiamo che la complessione sarà diversa e questa è la differenza tra
la parte spettante alla percezione sensibile e quella spettante alla ragione!
L'Altissimo ha detto: “E fa parte dei Suoi segni il vostro sogno (manâm) di notte e di giorno” (Cor.
XXX-23), e non ha menzionato la veglia (yaqẓa) che pure fa parte dell'insieme dei segni. Ha quindi
menzionato il sogno ad esclusione della veglia nello stato di questo mondo ed
ha indicato che la veglia non ha luogo se non in occasione della morte e che
l'uomo continua a dormire finché non muore. Ed ha menzionato che egli è in uno
stato di sogno di notte e di giorno, nella sua veglia e nel suo sonno, e nella
tradizione è riportato: “Gli uomini dormono e quando muoiono si svegliano” […]
Questo mondo è un ponte (jirs): si
passa e non si resta (yu'baru wa-lâ yu‘maru). […] La
vita di questo mondo è un sogno: quando l'uomo si trasferisce nell'aldilà, con
la morte, non porta con sé nulla di ciò che possedeva e che percepiva
sensibilmente - la casa, la famiglia, la ricchezza - così come quando si veglia
dal suo sonno non vede in suo possesso nulla di ciò che aveva ottenuto nel suo
sogno nello stato del suo sonno. Per questo l'Altissimo ha detto che noi siamo
in stato di sogno di notte e di giorno e che la veglia sarà nell'aldilà, ed è
là che il sogno (ru‘ya) verrà interpretato”. Nel Cap. 351 [III 223.32]
precisa inoltre: “L'uomo nell'aldilà avrà una costituzione naturale rovesciata (maqlûb),
quindi il suo lato interiore (bâṭin) sarà
fisso secondo un'unica forma, come il suo lato esteriore (ẓâhir) qui, mentre il suo lato esteriore avrà rapide
trasmutazioni nelle forme, come il suo lato interiore qui. L'Altissimo ha
detto: “[e coloro che sono stati ingiusti sapranno] in quale rovesciamento
saranno rovesciati” (Cor. XXVI-?), e quando saremo rovesciati cambieremo e non
ci verrà aggiunto nulla [di diverso] da ciò che siamo”; e nel Cap. 559 [IV
419.35] aggiunge: “Allah ha creato l’uomo con una costituzione naturale
rovesciata: il suo aldilà è nel suo lato interiore ed il suo mondo di quaggiù è
nel suo lato esteriore. Il suo lato esteriore è vincolato dalla forma e quindi
Allah lo ha vincolato per mezzo della Legge tradizionale: come [la forma] non
cambia, anche [la Legge] non cambia. Nel suo lato interiore l'uomo è in
costante variazione e muta per i pensieri che gli si presentano (khawâṭir) in
ogni forma che si presenta a lui, così come sarà per lui nell'altra [o ultima]
costituzione naturale. Il suo lato interiore in questo mondo sarà nell'altra
costituzione naturale una forma esteriore, ed il suo lato esteriore sarà
nell'altra costituzione il suo lato interiore. Per questo ha detto: “Cosi come
Egli vi ha originato, cosi ritornerete” (Cor. VII-29). L'aldilà è il rovescio
della costituzione di questo mondo e questo mondo è il rovescio dell'altra
costituzione, ma l'uomo [qui] è identico all'uomo [là]".
[24] Questo termine ricorre
in Cor. LXXVI-2. Riguardo alla mescolanza, nel Cap. 20 (1169.1 0), Ibn ‘Arabî precisa: “Per ciò che abbiamo menzionato, questo
mondo è misto, beatitudine mista a castigo, e sempre per ciò che abbiamo
menzionato, il Paradiso sarà tutto beatitudine e l'Inferno tutto castigo, e per
coloro che vi risiederanno quella commistione cesserà. Quindi la costituzione
naturale dell'aldilà non ammette la complessione (mizâj) della
costituzione naturale di questo mondo, e questa è la distinzione tra la
costituzione naturale di questo mondo e quella dell'aldilà”.
[25] Questo termine ricorre
in Cor. LXXVI-5 e LXXXIII-27. Ciò che qui viene negato non è la complessione
in se stessa, ma l’identità della complessione di questo mondo e quella
dell'aldilà. Nel Cap. 70 [I 588.23] Ibn ‘Arabî precisa: “Lo stato (ḥal) è per l'anima logica come la complessione (mizâj)
per l'anima vivente: la complessione domina il corpo e lo stato domina l'anima"; nel Cap. 198 [II 456.9]
inoltre assimila la complessione alla natura
(ṭab‘). Ulteriori
precisazioni sulla complessione e sulle due costituzioni naturali sono fornite
nella sezione XLIII del Cap. 198 [II 4
71.31].
[26] I lawâzim si
contrappongono agli ‘awâriḍ, cioè agli accidenti,
in quanto sono caratteristiche o disposizioni inseparabili
dall'essenza a cui sono inerenti.
[27] Nel Cap. 410 [IV 14.35] Ibn ‘Arabî precisa: “Questo è ciò
che comporta la loro complessione in quella
condizione [di dannati]. Se dovessero entrare nel Paradiso con quella
complessione, il dolore li colpirebbe e ne soffrirebbero. Se
hai capito, la beatitudine (na‘îm) è costituita dalle cose
che sono confacenti (malâîm)
ed il castigo (‘adhab)
non è costituito che da ciò che non è confacente, di qualsiasi cosa si
tratti. Sii come sei: se non ti capita se non ciò che è confacente a te sei in uno stato di beatitudine, e se
non ti capita se non ciò che non è confacente alla tua complessione sei in uno stato di tormento [o castigo].
I luogi di origine (mawâṭin) sono
stati resi cari alla loro gente. Per la gente dell'Inferno, cioè coloro che
sono i suoi abitanti, esso è la loro patria: da esso sono stati creati e ad esso ritorneranno. La gente del Paradiso, cioè coloro
che sono i suoi abitanti, è stata creata da esso [Paradiso] e ad esso torneranno”. Analogamente, nel Cap. 420 [IV 29.14], aggiunge: “Ed Allah li fa permanere in esso [Inferno] secondo un attributo (ṣifa) ed una
complessione tale che se Allah li facesse uscire con quella complessione verso
il Paradiso essi soffrirebbero ed il loro ingresso farebbe loro male, cosi come
il profumo della rosa arreca danno allo scarabeo”.
[28] ll termine ta‘âqub,
letteralmente “succedersi a turno”, ricorre solo due volte nelle Futûhât, nel Cap. 73 [II 65.34 e 133.27], per cui non è facile
comprendere ciò che Ibn ‘Arabî intenda esprimere in questo punto.
[29] Cfr. Cor. LVI-61: “[…] sì che vi
sostituiremo con dei simili (amtâl) a voi e vi faremo
nascere e sviluppare in ciò che non sapete!”. Quanto
al termine forma, esso ricorre nel Corano solo nel versetto 8 della Sûra
LXXXII: “In quale forma Egli ha voluto ti ha composto”.
[30] Nel Cap. 292 [II 663.9] Ibn ‘Arabî precisa: “Non
c'è cosa che possa misurarsi con il Vero, per ciò che
concerne la Sua Essenza e la Sua Esistenza, e non è ammissibile che Egli sia
voluto e che sia ricercato per la Sua Essenza. In realtà ciò che il ricercatore cerca e che l'’spirante vuole è la Sua conoscenza o
la Sua contemplazione o la Sua visione, e tutto ciò viene da Lui, ma non è
identico a Lui!”, e nel Cap. 559 [IV 443.1] aggiunge: “'Allah non può essere
raggiunto mediante la ricerca: il conoscitore cerca la sua felicità, non cerca
Allah!”.
[31] Da quanto precede, i
rispettivi si situano, per cosi dire, in una prospettiva verticale, essendo il riflesso o la manifestazione degli Attributi divini,
mentre i simili si situano in una prospettiva orizzontale.
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