"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 7 ottobre 2017

René Guénon, Autorità spirituale e Potere temporale - I - Autorità e gerarchia

René Guénon
Autorità spirituale e Potere temporale

I - Autorità e gerarchia

Se esaminiamo epoche molto diverse della storia, se addirittura risaliamo di là da quelli che per convenzione sono chiamati i «tempi storici» (nella misura in cui ci è possibile farlo con l’aiuto delle testimonianze concordanti forniteci dalle tradizioni orali o scritte di tutti i popoli)[1], troviamo le tracce di una frequente opposizione tra i rappresentanti di due poteri, l’uno spirituale e l’altro temporale, nonostante le forme particolari che assunsero per adattarsi alla diversità delle circostanze, secondo le epoche e i paesi.
Tuttavia non si può affermare che simile opposizione e le lotte da essa generate siano «vecchie come il mondo», come dice un’espressione di cui troppo spesso si abusa; sarebbe una patente esagerazione, giacché esse cominciarono ad apparire, se si segue l’insegnamento di tutte le tradizioni, soltanto quando l’umanità fu giunta a una fase già alquanto discosta dalla pura spiritualità primordiale.

D’altronde alle origini i due poteri non esistevano allo stato di funzioni separate, rispettivamente esercitate da differenti individualità; entrambi, al contrario, dovevano essere contenuti nel principio comune da cui essi procedono e del quale costituiscono soltanto due aspetti indivisibili, indissolubilmente legati nell’unità di una sintesi a un tempo superiore e anteriore alla loro distinzione.

È questo che la dottrina indù vuole esprimere quando insegna che in principio vi era una sola casta; il termine Hamsa, attribuito all’unica casta primitiva, designa un grado spirituale elevatissimo, oggi assolutamente eccezionale, e che allora era comune a tutti gli uomini, i quali lo possedevano si può dire spontaneamente[2]: esso è al di sopra delle quattro caste costituitesi in seguito e fra cui si sono ripartite le differenti funzioni sociali.
Il principio dell’istituzione delle caste, completamente incompreso dagli Occidentali, non è che la differenza di natura esistente tra gli individui umani, la quale instaura tra di loro una gerarchia il cui disconoscimento può provocare soltanto disordine e confusione. Il disconoscimento è contenuto nella teoria «ugualitaria», tanto cara al mondo moderno, teoria che è in contrasto con i fatti più accertati ed è smentita persino dalla pura e semplice osservazione corrente, visto che l’uguaglianza in realtà non esiste da nessuna parte; ma questa non è la sede per diffonderci su un argomento che abbiamo già avuto modo di trattare[3].
Le parole che in India servono a rappresentare la casta vogliono dire soltanto «natura individuale»; con ciò si deve intendere l’insieme dei caratteri che si sovrappongono alla natura umana «specifica», per differenziare gli individui tra di loro.
Conviene aggiungere subito che l’eredità interviene soltanto in parte nella determinazione di questi caratteri, giacché, se così non fosse, tutti gli individui d’una stessa famiglia sarebbero esattamente simili: perciò la casta non è in linea di principio rigorosamente ereditaria, anche se molto spesso lo è diventata di fatto e nelle applicazioni. Inoltre, non potendo esistere due individui identici o uguali sotto ogni rapporto, vi sono ovviamente differenze tra coloro che appartengono alla stessa casta; ma, come vi sono caratteri comuni più tra gli esseri d’una stessa specie che non tra quelli di specie diverse, così ve ne sono di più tra individui di una stessa casta che tra quelli di caste differenti; si potrebbe dunque dire che la distinzione delle caste costituisce, nella specie umana, una vera e propria classificazione naturale alla quale deve corrispondere la ripartizione delle funzioni sociali.
In effetti, ciascun uomo, in virtù della sua natura propria, è adatto a esercitare certe funzioni definite a esclusione di altre; in una società regolarmente fondata su basi tradizionali queste attitudini devono essere determinate secondo regole precise affinché, grazie alla corrispondenza dei differenti generi di funzioni con le grandi divisioni della classificazione delle «nature individuali», salvo eccezioni dovute a errori di applicazione sempre possibili, ma ridotti in certo qual modo al loro minimo, ciascuno si ritrovi nel posto che deve normalmente occupare, e l’ordine sociale traduca in tal modo esattamente i rapporti gerarchici che sono conseguenza della natura propria degli esseri.
È questa, riassunta in poche parole, la ragione fondamentale dell’esistenza delle caste; ed è opportuno che se ne conoscano almeno le nozioni essenziali per capire le allusioni che saremo necessariamente condotti a fare, nel seguito del nostro studio, sia al loro modo di costituzione così come esso esiste in India, sia a istituzioni analoghe che si ritrovano altrove, giacché è evidente che gli stessi principi, pur con modalità di applicazione diverse, hanno presieduto all’organizzazione di tutte le civiltà che posseggono un carattere veramente tradizionale.
La distinzione delle caste, insieme con la differenziazione delle funzioni sociali a cui corrisponde, è in fondo la conseguenza di un frazionamento dell’unità primitiva; a causa di quel frazionamento appaiono separati, l’uno dall’altro, il potere spirituale e il potere temporale i quali, nel loro esercizio distinto, costituiscono le funzioni rispettive delle prime due caste, dei Brâhmani e degli Ksatriya.
D’altronde, tra questi due poteri, così come più generalmente fra tutte le funzioni sociali assegnate da quel momento in avanti a gruppi diversi di individui, dovette originariamente esistere una armonia perfetta, in virtù della quale l’unità primigenia era conservata nella misura in cui lo permettevano le condizioni d’esistenza dell’umanità nella sua nuova fase: l’armonia infatti non è altro che un riflesso o un’immagine della vera unità. Solamente in uno stadio ulteriore la distinzione dovette trasformarsi in opposizione e in rivalità, e l’armonia essere distrutta per lasciare posto alla lotta dei due poteri, nell’attesa che le funzioni inferiori pretendessero a loro volta la supremazia, e si giungesse infine alla confusione più completa, alla negazione e al rovesciamento di ogni specie di gerarchia.
Questo quadro generale, da noi tracciato nelle sue grandi linee, è conforme alla dottrina tradizionale delle quattro età successive in cui si divide la storia dell’umanità terrestre, dottrina che non si incontra soltanto in India, ma era conosciuta anche dall’antichità occidentale, in modo particolare dai Greci e dai Latini. Le quattro età sono le differenti fasi che l’umanità attraversa nel suo allontanarsi dal principio, cioè dall’unità e dalla spiritualità primordiali; esse sono in qualche modo le tappe di una sorta di materializzazione progressiva, inerente in modo necessario allo sviluppo di ogni ciclo di manifestazione, così come spiegammo altrove[4].
Soltanto nell’ultima di queste quattro età, età che è chiamata dalla tradizione indù Kali-Yuga o «età oscura», e corrisponde all’epoca in cui ci troviamo attualmente, si è potuta produrre la sovversione dell’ordine normale; e soltanto in questa epoca il potere temporale ha potuto avere il sopravvento sullo spirituale; tuttavia le prime manifestazioni della rivolta degli Ksatriya contro l’autorità dei Brâhmani risalgono a molto prima degli inizi di questa età[5], inizi che sono essi stessi molto anteriori a tutto ciò che la storia ordinaria o «profana» è in grado di conoscere.
L’opposizione dei due poteri e la rivalità dei loro rispettivi rappresentanti era raffigurata presso i Celti come una lotta tra il cinghiale e l’orso, secondo un simbolismo di origine iperborea che si ricollega a una delle tradizioni più antiche dell’umanità, se non addirittura alla prima di tutte, alla vera tradizione primordiale; questo simbolismo potrebbe del resto permettere più ampi sviluppi i quali, anche se non possono ovviamente trovar posto in questo studio, saranno forse esposti da noi in futuro, quando se ne presenterà l’occasione propizia[6].
Nelle pagine seguenti non è nostra intenzione risalire sempre alle origini, e tutti i nostri esempi saranno tratti da epoche molto più vicine a noi, anzi, saranno tratti da epoche comprese soltanto in quella che possiamo chiamare l’ultima parte del Kali-Yuga, la più accessibile alla storia ordinaria, che comincia esattamente con il secolo VI prima dell’era cristiana.
Ciò nonostante era necessario offrire a questo punto alcune sommarie nozioni sull’insieme della storia tradizionale, senza le quali il resto sarebbe stato compreso molto imperfettamente; infatti non è possibile capire veramente un’epoca se non la si situa nel posto che occupa nel tutto di cui essa è uno solo degli elementi; per questo motivo, come abbiamo dimostrato recentemente, i caratteri specifici dell’epoca moderna non si spiegano se non si considera quest’ultima come fase finale del Kali-Yuga.
Siamo perfettamente coscienti che questo punto di vista sintetico è all’opposto dello spirito analitico che presiede allo sviluppo della scienza «profana», l’unica che la maggior parte dei nostri contemporanei conosca; ma quanto più esso è disconosciuto, tanto maggiormente occorre affermarlo con decisione, e d’altronde esso è l’unico che possa essere adottato da tutti coloro che, come noi, intendono mantenersi rigorosamente sulla linea della vera ortodossia tradizionale senza fare nessuna concessione allo spirito moderno che, non sarà mai troppo ripetuto, si identifica con lo spirito antitradizionale.
La tendenza che oggi prevale è di considerare «leggendari», se non addirittura «mitici», i fatti della storia più antica, come quelli a cui abbiamo accennato, e altri ancora, che sono molto meno antichi, come qualcuno di quelli che prenderemo in esame più avanti: il motivo è che essi sfuggono ai mezzi di investigazione di cui dispongono gli storici «profani». Coloro che pensassero in questo modo, a causa di abitudini acquisite con un’educazione che oggi è troppo spesso diventata una deformazione mentale, potranno almeno (a patto che abbiano conservato, nonostante tutto, certe possibilità di comprensione) assumere questi fatti semplicemente nel loro valore simbolico; quanto a noi, sappiamo che tale valore non toglie nulla alla loro realtà storica, anzi è ciò che in fondo conta di più, perché conferisce loro un significato superiore, molto più profondo di quello che possono possedere di per se stessi; ma ecco un’altra affermazione che richiede qualche spiegazione.
Tutto ciò che è, qualunque sia il suo modo di essere, partecipa necessariamente dei principi universali, e nulla esiste se non per partecipazione a tali principi, i quali sono le essenze eterne e immutabili contenute nella permanente attualità dell’Intelletto divino; si può quindi affermare che tutte le cose, per quanto siano contingenti in se stesse, traducono o rappresentano i principi a loro modo e al loro livello d’esistenza: altrimenti, non sarebbero che puro e semplice nulla.

In tal modo, da un piano all’altro tutte le cose si concatenano e si intercorrispondono, concorrendo all’armonia universale e totale, giacché l’armonia, come accennavamo poco fa, è il riflesso dell’unità dei principi nella molteplicità del mondo manifestato; e questa corrispondenza è il vero fondamento del simbolismo.
Perciò le leggi di una sfera inferiore possono sempre essere assunte a simbolo delle realtà di una sfera superiore, nella quale risiede la loro ragione profonda, che è tanto il loro principio quanto il loro fine; incidentalmente possiamo segnalare qui l’errore delle moderne interpretazioni «naturalistiche» delle antiche dottrine tradizionali, interpretazioni che rovesciano in modo puro e semplice la gerarchia dei rapporti tra i differenti ordini di realtà.
Ad esempio, e per esaminare una sola delle teorie più diffuse al giorni nostri, i simboli o i miti non ebbero mai la funzione di raffigurare il movimento degli astri; è vero il contrario, cioè che se spesso si ritrovano nei simboli figure ispirate al movimento degli astri, esse avevano lo scopo di esprimere analogicamente cose molto diverse, perché le leggi di tale movimento traducono fisicamente i principi metafisici dalle quali dipendono: su questo era fondata la vera astrologia degli antichi. Ciò che è inferiore può simboleggiare ciò che è superiore, ma è impossibile l’inverso; del resto, se il simbolo fosse più discosto dalla sfera sensibile di ciò che raffigura, invece di esserne più vicino, come potrebbe svolgere la funzione a cui è destinato, cioè rendere la verità maggiormente accessibile all’uomo fornendogli un «supporto» per la sua concezione?
D’altra parte, per riprendere il medesimo esempio, è evidente che l’uso di un simbolismo astronomico non impedisce che i fenomeni astronomici esistano in quanto tali e abbiano, al loro proprio livello, tutta la realtà di cui sono capaci; lo stesso avviene per i fatti storici, giacché anch’essi, come tutti gli altri, esprimono secondo il loro modo le verità superiori, conformandosi alla legge di corrispondenza che abbiamo esposto.
Anche questi fatti esistono realmente in quanto tali, ma nello stesso tempo sono simboli; anzi, secondo il nostro modo di vedere, essi sono molto più degni d’interesse come simboli che non come fatti; e non potrebbe essere diversamente se è, come è, nostra intenzione ricollegare tutto ai principi: è questo, come già spiegammo in altro luogo[7], che distingue in modo essenziale la «scienza sacra» dalla «scienza profana».
Se abbiamo insistito un poco su queste nozioni, è per evitare che si verifichino confusioni: è indispensabile infatti situare ogni cosa al livello che le compete normalmente; la storia, a condizione che sia intesa come conviene, ha, come tutto il resto, il suo posto nella conoscenza integrale; ma può avere un valore soltanto se permette di trovare, nei fatti contingenti che sono il suo oggetto immediato, un punto d’appoggio per sollevarsi al di sopra di essi.
Quanto al punto di vista della storia «profana», il quale aderisce esclusivamente ai fatti e non li supera, esso è ai nostri occhi totalmente privo d’interesse, al pari di tutto ciò che ha carattere di semplice erudizione; perciò noi non consideriamo i fatti in veste di storici, secondo il punto di vista profano, e questo ci permette di tenere nel minimo conto certi pregiudizi «critici» particolarmente cari alla nostra epoca.
D’altronde, pare accertato che l’impiego esclusivo di certi metodi sia stato imposto agli storici moderni soltanto per impedire loro di veder chiaro in questioni che non dovevano essere approfondite, per la semplice ragione che avrebbero potuto spingerli a conclusioni contrarie alle tendenze «materialistiche» che toccava all’insegnamento «ufficiale» far prevalere; è ovvio che, per quanto ci riguarda, non ci sentiamo affatto obbligati a mantenere lo stesso riserbo.
Detto questo, pensiamo di poter affrontare direttamente l’argomento del nostro studio, senza più attardarci in queste osservazioni introduttive, le quali hanno soltanto lo scopo di definire nel modo più chiaro possibile lo spirito in cui lo scriviamo, e nel quale ugualmente conviene che sia letto se si vorrà capirne veramente il significato. 


[1] Queste tradizioni furono sempre orali agli inizi; qualche volta, come presso i Celti, esse non furono mai scritte; la loro concordanza prova sia la comunanza di origine, e perciò il ricollegamento a una tradizione primordiale, sia la fedeltà rigorosa della trasmissione orale, la cui conservazione è, in questo caso, una delle funzioni principali dell’autorità spirituale.
[2] Troviamo la medesima indicazione, formulata in modo altrettanto deciso, nella tradizione estremo-orientale, come dimostra questo passo di Lao-tzu: «Gli antichi maestri possedevano la Logica, la Chiaroveggenza e l’Intuizione; questa Forza dell’Anima permaneva incosciente, questa Incoscienza della propria Forza Interiore conferiva la maestà al loro modo di apparire... Chi potrebbe, ai nostri giorni, con la sua chiarezza maestosa, portar luce nelle tenebre interiori? Chi potrebbe, ai nostri giorni, con la sua vita maestosa, rivivificare la morte interiore? Essi portavano la Via (Tao) nella propria anima e furono Individui Autonomi; in quanto tali erano in grado di scorgere le perfezioni delle loro debolezze» (Tao te king, cap. XV, trad. di Alexandre Ular; cfr. Chuang-tzu, cap. VI, che è il commento di questo passo). L’«Incoscienza» di cui qui si tratta si riferisce alla spontaneità di un tale stato, il quale non era allora il risultato di nessuno sforzo; l’espressione «Individui Autonomi» deve essere compresa nel senso del termine sanscrito swêchchhâchârî, «colui che segue la propria volontà», o, secondo un’espressione equivalente, che si incontra nell’esoterismo islamico, «colui che è legge a se stesso».
[3] Cfr. La crisi del mondo moderno, cap. VI; sul principio dell’istituzione delle caste, cfr. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Milano, Adelphi, 1989, parte III, cap. VI.
[4] La crisi del mondo moderno, cap. I.
[5] Un’indicazione al riguardo si ritrova nella storia di Parâsurâma, il quale, si dice, sgominò gli Ksatriya in rivolta in un’epoca nella quale gli antenati degli Indù abitavano ancora una regione settentrionale.
[6] Occorre aggiungere che i due simboli dei cinghiale e dell’orso non compaiono sempre e necessariamente in lotta o in antagonismo; essi possono altresì significare talvolta i due poteri spirituale e temporale, ovvero le due caste dei Druidi e dei Cavalieri, nei loro rapporti normali e armonici: il che si può osservare nella leggenda di Merlino e Artù, i quali sono inoltre, rispettivamente, il cinghiale e l’orso, come sarà da noi chiarito se le circostanze ci daranno agio di sviluppare questo simbolismo in un altro studio.
[7] La crisi del mondo moderno, cap. IV.

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