René Guénon
Autorità spirituale e Potere temporale
IV - Natura rispettiva dei Brâhmani e degli Ksatriya
Saggezza e forza sono gli attributi rispettivi dei Brâhmani e degli Ksatriya, o, se si preferisce, dell’autorità spirituale e del potere temporale; e vale la pena di notare che presso gli antichi Egizi il simbolo della Sfinge, in uno dei suoi significati, riuniva i due attributi visti secondo i loro rapporti normali.
Si può, infatti, considerare la testa umana come raffigurazione della saggezza, e il corpo di leone, della forza; la testa è l’autorità spirituale che dirige, il corpo è il potere temporale che agisce. È da sottolineare inoltre che la Sfinge è raffigurata sempre in riposo, poiché il potere temporale è inteso qui nel suo stato «non agente», all’interno del suo principio spirituale nel quale è contenuto «eminentemente», quindi soltanto come possibilità d’azione, o, meglio, nel principio divino che unifica spirituale e temporale in quanto esso è al di là dalla loro distinzione e costituisce la fonte comune dalla quale entrambi procedono, il primo direttamente, il secondo indirettamente e per il tramite del primo.
Autorità spirituale e Potere temporale
IV - Natura rispettiva dei Brâhmani e degli Ksatriya
Saggezza e forza sono gli attributi rispettivi dei Brâhmani e degli Ksatriya, o, se si preferisce, dell’autorità spirituale e del potere temporale; e vale la pena di notare che presso gli antichi Egizi il simbolo della Sfinge, in uno dei suoi significati, riuniva i due attributi visti secondo i loro rapporti normali.
Si può, infatti, considerare la testa umana come raffigurazione della saggezza, e il corpo di leone, della forza; la testa è l’autorità spirituale che dirige, il corpo è il potere temporale che agisce. È da sottolineare inoltre che la Sfinge è raffigurata sempre in riposo, poiché il potere temporale è inteso qui nel suo stato «non agente», all’interno del suo principio spirituale nel quale è contenuto «eminentemente», quindi soltanto come possibilità d’azione, o, meglio, nel principio divino che unifica spirituale e temporale in quanto esso è al di là dalla loro distinzione e costituisce la fonte comune dalla quale entrambi procedono, il primo direttamente, il secondo indirettamente e per il tramite del primo.
In un’altra tradizione ritroviamo un simbolo verbale che,
per la sua costituzione geroglifica, è un esatto equivalente del precedente: si
tratta del nome dei Druidi, il quale è letto druvid, dove il primo radicale ha per significato la forza, il
secondo la saggezza[1]; la riunione di questi due
attributi in un solo nome, così come quella dei due elementi della Sfinge in un
unico essere, oltre a indicare che la regalità è implicitamente contenuta nel
sacerdozio, è senza dubbio un ricordo della lontana epoca in cui i due poteri
erano ancora uniti, in uno stato di primordiale indistinzione, all’interno del
loro principio comune e supremo[2].
Al principio supremo dei due poteri abbiamo già dedicato uno studio particolare; indicavamo allora come esso, da visibile che era inizialmente, sia diventato invisibile e nascosto, ritirandosi dal «mondo esteriore» a mano a mano che questo si allontanava dal suo stato primordiale, fatto che doveva condurre necessariamente alla divisione apparente dei due poteri. Mostravamo anche come tale principio si ritrovi, designato da nomi e simboli diversi, in tutte le tradizioni, e come appaia in particolare nella tradizione giudaico-cristiana nelle figure di Melchisedek e dei Re Magi. Ricorderemo solamente ancora che nel cristianesimo il riconoscimento del principio unico persiste tuttora, per lo meno in teoria, e si afferma nella considerazione delle due funzioni, sacerdotale e regale, come inscindibili l’una dall’altra nella persona stessa di Cristo.
D’altronde, secondo una certa prospettiva, le due funzioni, ricondotte così al loro principio, possono in qualche modo essere considerate come complementari; e per quanto la seconda abbia il suo immediato principio nella prima, tra di esse esiste una specie di correlazione, pur nella loro distinzione. In altre parole, dal momento che il sacerdozio non comporta in modo abituale l’esercizio effettivo della regalità, occorre che i rappresentanti rispettivi del sacerdozio e della regalità traggano il loro potere da una fonte comune, la quale è «di là dalle caste»; la differenza gerarchica che esiste tra di essi consiste nel fatto che il sacerdozio riceve il proprio potere direttamente da questa fonte, con la quale è, per sua natura, in contatto immediato, mentre la regalità, in virtù del carattere più esteriore e più propriamente terrestre della sua funzione, non può ricevere il proprio se non attraverso il tramite del sacerdozio. Quest’ultimo, in effetti, svolge realmente una parte di «mediatore» tra il Cielo e la Terra; del resto, non è senza motivo che la pienezza del sacerdozio ricevette nelle tradizioni occidentali il nome simbolico di «pontificato», perché, come dice san Bernardo, «il Pontefice, com’è indicato nell’etimologia del suo nome, è una specie di ponte tra Dio e l’uomo»[3]. Perciò, se si vuole risalire all’origine prima dei due poteri sacerdotale e regale, bisogna cercarla nel «mondo celeste»; ciò può essere inteso, d’altronde, simbolicamente e realmente[4]; ma questo problema è uno di quelli il cui sviluppo esorbiterebbe dalle proporzioni del presente studio; e se l’abbiamo toccato, tracciandone una breve prospettiva, è perché in seguito non potremo fare a meno di riferirci qualche volta alla fonte comune dei due poteri.
Ritornando al punto di partenza della nostra digressione, è evidente che gli attributi di saggezza e di forza si riferiscono rispettivamente alla conoscenza e all’azione; d’altra parte, in India, e in connessione con lo stesso punto di vista, è detto che il Brâhmano è il prototipo degli esseri stabili, e lo Ksatriya il prototipo degli esseri mutevoli[5]; in altri termini, nell’ordinamento sociale, il quale è del resto in corrispondenza perfetta con l’ordine cosmico, il primo rappresenta l’elemento immutabile, il secondo l’elemento mobile. Anche qui, l’immutabilità è quella della conoscenza, raffigurata in modo sensibile dalla postura immobile dell’uomo in meditazione; la mobilità, dal canto suo, è connaturata all’azione in virtù del carattere transitorio e momentaneo di essa.
Inoltre, la natura del Brâhmano e quella dello Ksatriya si distinguono in modo fondamentale a causa della predominanza di un guna diverso; come abbiamo spiegato in un’altra occasione[6], la dottrina indù postula tre guna, o qualità costitutive degli esseri in tutti i loro stati di manifestazione: sattwa, o conformità all’essenza pura dell’Essere universale, identificabile con la luce intelligibile ovvero con la conoscenza, e rappresentata come una tendenza ascendente; rajas, l’impulso espansivo, sotto la spinta del quale l’essere si sviluppa in un certo stato e, in qualche modo, a un determinato livello dell’esistenza; e infine tamas, l’oscurità, intesa simile all’ignoranza, rappresentata quale una tendenza discendente.
I guna sono in equilibrio perfetto nell’indifferenziazione primordiale, e ogni manifestazione rappresenta una rottura di questo equilibrio; questi tre elementi sono in ogni essere, ma in proporzioni diverse, le quali determinano le tendenze rispettive di essi. Nella natura del Brâhmano predomina sattwa, orientandolo verso gli stati sovraumani; in quello dello Ksatriya predomina rajas, e lo fa tendere alla realizzazione delle possibilità comprese nello stato umano[7]. Alla predominanza di sattwa corrisponde la predominanza dell’intellettualità; alla predominanza di rajas corrisponde la predominanza di ciò che, in difetto di un termine più adatto, possiamo chiamare la sentimentalità; ed ecco un’altra giustificazione di quanto dicevamo in precedenza, che lo Ksatriya, cioè, non è adatto per la conoscenza pura: la via che gli conviene è quella che si potrebbe chiamare «della devozione», se ci è permesso servirci di un simile termine per rendere, in modo però alquanto imperfetto, la parola sanscrita bhakti, la quale è la via che assume come punto di partenza un elemento di carattere emotivo; benché tale via si incontri anche al di fuori delle forme propriamente religiose, tuttavia il ruolo dell’elemento emotivo in nessun’altra forma è così sviluppato come in queste, in cui colora per di più l’intera dottrina di una sfumatura particolare.
L’ultima constatazione permette di capire la vera ragione d’essere delle forme religiose: esse si adattano in modo particolare alle razze le cui attitudini sono generalmente indirizzate all’azione, alle razze che, considerate collettivamente, contengono una preponderanza dell’elemento «rajasico», il quale caratterizza la natura degli Ksatriya. Tale è il caso del mondo occidentale; per questa ragione, come abbiamo segnalato in un altro studio[8], in India si dice che se l’Occidente ritornasse a uno stato normale e ripossedesse un’organizzazione sociale regolare, in essa si ritroverebbero molti Ksatriya, ma pochi Brâhmani; questo inoltre è il motivo per cui la religione, concepita nel suo senso più rigoroso, è cosa propriamente occidentale. Infine, è ancora questo che spiega come in Occidente sembri non esistere un’autorità spirituale pura, o per lo meno un’autorità spirituale pura affermantesi esteriormente come tale, con le caratteristiche da noi precisate in precedenza.
L’adattamento religioso, così come la costituzione di qualsiasi altra forma tradizionale, è a ogni modo compito di una vera autorità spirituale, nel senso più completo dell’espressione; questa autorità, che assume all’esterno apparenze religiose, può tuttavia mantenersi contemporaneamente diversa nel suo interno, finché nel suo ambito siano presenti veri Brâhmani; e con questo termine intendiamo un’élite intellettuale che conservi la coscienza di quanto è di là da tutte le forme particolari, cioè dell’essenza profonda della tradizione. Per un’élite di tal genere, la forma può avere soltanto una funzione di «supporto», e fornire inoltre un mezzo per far partecipare alla tradizione quanti non hanno accesso alla intellettualità pura; ma questi ultimi non vedono ovviamente nulla di là dalla forma, giacché le loro possibilità individuali non permettono loro di andare più lontano; perciò l’autorità spirituale non è tenuta a mostrarsi a essi se non sotto l’aspetto che corrisponde alla loro natura[9], anche se il suo insegnamento, compreso quello esteriore, sarà sempre ispirato dallo spirito della dottrina superiore[10]. Ma può accadere che, dopo aver realizzato l’adattamento, coloro che sono i depositari di questa forma tradizionale vi si trovino in seguito rinchiusi, avendo perduto la coscienza effettiva di quanto è di là da essa; ciò può essere dovuto a circostanze diverse, e soprattutto alla «confusione delle caste», per cui può avvenire che fra di essi si ritrovino uomini che in realtà sono per la maggior parte Ksatriya; è facile capire, da quanto abbiamo detto, come questa situazione sia possibile soprattutto in Occidente, tanto più che la forma religiosa può facilitare il fenomeno in modo particolare. In effetti, la combinazione di elementi intellettuali e sentimentali che caratterizza tale forma dà origine a una specie di campo misto, nel quale la conoscenza è considerata molto meno di per se stessa che non in quanto applicabile all’azione; se la distinzione tra l’«iniziazione sacerdotale» e l’«iniziazione regale» non è mantenuta in modo netto e rigorosissimo, si crea allora un territorio intermedio nel quale possono prodursi tutte le confusioni immaginabili, per non parlare di taluni conflitti che non sarebbero neppure concepibili se il potere temporale avesse di fronte un’autorità spirituale pura[11].
Non è nostro compito, in questa sede, ricercare a quale fra le due possibilità che abbiamo or ora indicato corrisponda attualmente lo stato religioso del mondo occidentale; ed è facile comprendere il motivo del nostro atteggiamento: un’autorità religiosa non può rivestire le apparenze di quella che noi chiamiamo un’autorità spirituale pura, anche se ne possiede interiormente la realtà; vi è stato un tempo in cui essa possedeva certamente questa realtà; ma la conserva ancora effettivamente?[12] È molto difficile dirlo, perché, quando la vera intellettualità è completamente perduta, come nell’epoca moderna, è naturale che la parte superiore e «interiore» della tradizione diventi sempre più nascosta e inaccessibile: coloro, infatti, che possono comprenderla sono ormai soltanto un’infima minoranza; fino a prova contraria, noi siamo disposti ad ammettere che le cose stiano in questo modo e che la coscienza della tradizione integrale, con tutto ciò che essa comporta, persista ancora in alcune persone, per quanto poco numerose possano essere. Del resto, anche se questa coscienza fosse completamente scomparsa, qualsiasi forma tradizionale costituita in modo regolare manterrebbe sempre, per mezzo della conservazione della «lettera», al riparo da ogni alterazione, la possibilità della propria restaurazione, la quale si potrà realizzare se un giorno, fra i rappresentanti della forma tradizionale in questione, si incontreranno uomini con le attitudini intellettuali richieste.
A ogni buon conto, quand’anche noi avessimo, in qualunque modo, dati più precisi al riguardo, non dovremmo esporli pubblicamente, a meno che non ne fossimo obbligati da circostanze del tutto eccezionali; ed ecco il motivo: un’autorità che sia soltanto religiosa è tuttavia ancora, anche nel caso più sfavorevole, un’autorità spirituale relativa; vogliamo dire che essa, pur non essendo un’autorità spirituale pienamente effettiva, ne possiede tuttavia la virtualità che le deriva dalla sua origine, per cui è sempre in grado di esercitarne le funzioni all’esterno[13]; è dunque legittimo che essa adempia queste funzioni nei confronti del potere temporale, e deve essere veramente considerata tale nel suoi rapporti con quest’ultimo. Coloro che avranno capito il nostro punto di vista potranno rendersi conto senza difficoltà che in caso di conflitto tra una qualsiasi autorità spirituale, anche relativa, e un potere temporale, noi dobbiamo sempre schierarci, in linea di principio, a fianco dell’autorità spirituale; diciamo in linea di principio, perché sia chiaro che non abbiamo la minima intenzione di intervenire attivamente in simili conflitti né, soprattutto, avere una qualunque parte nelle diatribe del mondo occidentale, non essendo assolutamente questa la nostra funzione.
Negli esempi che esamineremo in seguito non faremo perciò nessuna distinzione tra quelli in cui è presente un’autorità spirituale pura e quelli in cui può trattarsi soltanto di un’autorità spirituale relativa; in ognuno di questi casi considereremo come autorità spirituale quella che ne svolge socialmente la funzione; e d’altronde le rassomiglianze evidenti che tutti questi casi presentano, per quanto lontani possano essere storicamente gli uni dagli altri, giustificheranno in modo sufficiente tale assimilazione. Dovremmo distinguere soltanto se si ponesse il problema del possesso effettivo dell’intellettualità pura, problema che non ha rilevanza in questa occasione; analogamente, per quel che concerne un’autorità legata esclusivamente a una determinata forma tradizionale, non dovremmo preoccuparci di delimitare esattamente i suoi confini, se così possiamo esprimerci, se non nei casi in cui essa pretendesse di oltrepassarli, e questi casi non sono fra quelli che noi esamineremo adesso.
A tale proposito, ricorderemo quanto dicevamo precedentemente: ciò che è superiore contiene in modo «eminente» ciò che è inferiore; colui che è competente entro certi limiti, che definiscono la sua sfera propria, lo è anche a fortiori nei confronti di tutto quanto si trova di qua da questi limiti, mentre non lo è più nei confronti di quel che si trova di là da essi; se questa regola, semplicissima, almeno per coloro che posseggono una nozione corretta della gerarchia, fosse osservata e applicata come si conviene, nessuna confusione di sfere e nessun errore di «giurisdizione», per usare questo speciale linguaggio, potrebbe mai verificarsi. Qualcuno vedrà indubbiamente, nelle distinzioni e nelle riserve che abbiamo testé formulato, soltanto precauzioni di un’utilità alquanto contestabile, qualcun altro sarà tentato di attribuire loro, al massimo, un valore puramente teorico; noi pensiamo invece che ci saranno altri ancora in grado di comprendere che in realtà esse sono una cosa molto diversa, e invitiamo questi ultimi a riflettervi con un’attenzione particolare.
Al principio supremo dei due poteri abbiamo già dedicato uno studio particolare; indicavamo allora come esso, da visibile che era inizialmente, sia diventato invisibile e nascosto, ritirandosi dal «mondo esteriore» a mano a mano che questo si allontanava dal suo stato primordiale, fatto che doveva condurre necessariamente alla divisione apparente dei due poteri. Mostravamo anche come tale principio si ritrovi, designato da nomi e simboli diversi, in tutte le tradizioni, e come appaia in particolare nella tradizione giudaico-cristiana nelle figure di Melchisedek e dei Re Magi. Ricorderemo solamente ancora che nel cristianesimo il riconoscimento del principio unico persiste tuttora, per lo meno in teoria, e si afferma nella considerazione delle due funzioni, sacerdotale e regale, come inscindibili l’una dall’altra nella persona stessa di Cristo.
D’altronde, secondo una certa prospettiva, le due funzioni, ricondotte così al loro principio, possono in qualche modo essere considerate come complementari; e per quanto la seconda abbia il suo immediato principio nella prima, tra di esse esiste una specie di correlazione, pur nella loro distinzione. In altre parole, dal momento che il sacerdozio non comporta in modo abituale l’esercizio effettivo della regalità, occorre che i rappresentanti rispettivi del sacerdozio e della regalità traggano il loro potere da una fonte comune, la quale è «di là dalle caste»; la differenza gerarchica che esiste tra di essi consiste nel fatto che il sacerdozio riceve il proprio potere direttamente da questa fonte, con la quale è, per sua natura, in contatto immediato, mentre la regalità, in virtù del carattere più esteriore e più propriamente terrestre della sua funzione, non può ricevere il proprio se non attraverso il tramite del sacerdozio. Quest’ultimo, in effetti, svolge realmente una parte di «mediatore» tra il Cielo e la Terra; del resto, non è senza motivo che la pienezza del sacerdozio ricevette nelle tradizioni occidentali il nome simbolico di «pontificato», perché, come dice san Bernardo, «il Pontefice, com’è indicato nell’etimologia del suo nome, è una specie di ponte tra Dio e l’uomo»[3]. Perciò, se si vuole risalire all’origine prima dei due poteri sacerdotale e regale, bisogna cercarla nel «mondo celeste»; ciò può essere inteso, d’altronde, simbolicamente e realmente[4]; ma questo problema è uno di quelli il cui sviluppo esorbiterebbe dalle proporzioni del presente studio; e se l’abbiamo toccato, tracciandone una breve prospettiva, è perché in seguito non potremo fare a meno di riferirci qualche volta alla fonte comune dei due poteri.
Ritornando al punto di partenza della nostra digressione, è evidente che gli attributi di saggezza e di forza si riferiscono rispettivamente alla conoscenza e all’azione; d’altra parte, in India, e in connessione con lo stesso punto di vista, è detto che il Brâhmano è il prototipo degli esseri stabili, e lo Ksatriya il prototipo degli esseri mutevoli[5]; in altri termini, nell’ordinamento sociale, il quale è del resto in corrispondenza perfetta con l’ordine cosmico, il primo rappresenta l’elemento immutabile, il secondo l’elemento mobile. Anche qui, l’immutabilità è quella della conoscenza, raffigurata in modo sensibile dalla postura immobile dell’uomo in meditazione; la mobilità, dal canto suo, è connaturata all’azione in virtù del carattere transitorio e momentaneo di essa.
Inoltre, la natura del Brâhmano e quella dello Ksatriya si distinguono in modo fondamentale a causa della predominanza di un guna diverso; come abbiamo spiegato in un’altra occasione[6], la dottrina indù postula tre guna, o qualità costitutive degli esseri in tutti i loro stati di manifestazione: sattwa, o conformità all’essenza pura dell’Essere universale, identificabile con la luce intelligibile ovvero con la conoscenza, e rappresentata come una tendenza ascendente; rajas, l’impulso espansivo, sotto la spinta del quale l’essere si sviluppa in un certo stato e, in qualche modo, a un determinato livello dell’esistenza; e infine tamas, l’oscurità, intesa simile all’ignoranza, rappresentata quale una tendenza discendente.
I guna sono in equilibrio perfetto nell’indifferenziazione primordiale, e ogni manifestazione rappresenta una rottura di questo equilibrio; questi tre elementi sono in ogni essere, ma in proporzioni diverse, le quali determinano le tendenze rispettive di essi. Nella natura del Brâhmano predomina sattwa, orientandolo verso gli stati sovraumani; in quello dello Ksatriya predomina rajas, e lo fa tendere alla realizzazione delle possibilità comprese nello stato umano[7]. Alla predominanza di sattwa corrisponde la predominanza dell’intellettualità; alla predominanza di rajas corrisponde la predominanza di ciò che, in difetto di un termine più adatto, possiamo chiamare la sentimentalità; ed ecco un’altra giustificazione di quanto dicevamo in precedenza, che lo Ksatriya, cioè, non è adatto per la conoscenza pura: la via che gli conviene è quella che si potrebbe chiamare «della devozione», se ci è permesso servirci di un simile termine per rendere, in modo però alquanto imperfetto, la parola sanscrita bhakti, la quale è la via che assume come punto di partenza un elemento di carattere emotivo; benché tale via si incontri anche al di fuori delle forme propriamente religiose, tuttavia il ruolo dell’elemento emotivo in nessun’altra forma è così sviluppato come in queste, in cui colora per di più l’intera dottrina di una sfumatura particolare.
L’ultima constatazione permette di capire la vera ragione d’essere delle forme religiose: esse si adattano in modo particolare alle razze le cui attitudini sono generalmente indirizzate all’azione, alle razze che, considerate collettivamente, contengono una preponderanza dell’elemento «rajasico», il quale caratterizza la natura degli Ksatriya. Tale è il caso del mondo occidentale; per questa ragione, come abbiamo segnalato in un altro studio[8], in India si dice che se l’Occidente ritornasse a uno stato normale e ripossedesse un’organizzazione sociale regolare, in essa si ritroverebbero molti Ksatriya, ma pochi Brâhmani; questo inoltre è il motivo per cui la religione, concepita nel suo senso più rigoroso, è cosa propriamente occidentale. Infine, è ancora questo che spiega come in Occidente sembri non esistere un’autorità spirituale pura, o per lo meno un’autorità spirituale pura affermantesi esteriormente come tale, con le caratteristiche da noi precisate in precedenza.
L’adattamento religioso, così come la costituzione di qualsiasi altra forma tradizionale, è a ogni modo compito di una vera autorità spirituale, nel senso più completo dell’espressione; questa autorità, che assume all’esterno apparenze religiose, può tuttavia mantenersi contemporaneamente diversa nel suo interno, finché nel suo ambito siano presenti veri Brâhmani; e con questo termine intendiamo un’élite intellettuale che conservi la coscienza di quanto è di là da tutte le forme particolari, cioè dell’essenza profonda della tradizione. Per un’élite di tal genere, la forma può avere soltanto una funzione di «supporto», e fornire inoltre un mezzo per far partecipare alla tradizione quanti non hanno accesso alla intellettualità pura; ma questi ultimi non vedono ovviamente nulla di là dalla forma, giacché le loro possibilità individuali non permettono loro di andare più lontano; perciò l’autorità spirituale non è tenuta a mostrarsi a essi se non sotto l’aspetto che corrisponde alla loro natura[9], anche se il suo insegnamento, compreso quello esteriore, sarà sempre ispirato dallo spirito della dottrina superiore[10]. Ma può accadere che, dopo aver realizzato l’adattamento, coloro che sono i depositari di questa forma tradizionale vi si trovino in seguito rinchiusi, avendo perduto la coscienza effettiva di quanto è di là da essa; ciò può essere dovuto a circostanze diverse, e soprattutto alla «confusione delle caste», per cui può avvenire che fra di essi si ritrovino uomini che in realtà sono per la maggior parte Ksatriya; è facile capire, da quanto abbiamo detto, come questa situazione sia possibile soprattutto in Occidente, tanto più che la forma religiosa può facilitare il fenomeno in modo particolare. In effetti, la combinazione di elementi intellettuali e sentimentali che caratterizza tale forma dà origine a una specie di campo misto, nel quale la conoscenza è considerata molto meno di per se stessa che non in quanto applicabile all’azione; se la distinzione tra l’«iniziazione sacerdotale» e l’«iniziazione regale» non è mantenuta in modo netto e rigorosissimo, si crea allora un territorio intermedio nel quale possono prodursi tutte le confusioni immaginabili, per non parlare di taluni conflitti che non sarebbero neppure concepibili se il potere temporale avesse di fronte un’autorità spirituale pura[11].
Non è nostro compito, in questa sede, ricercare a quale fra le due possibilità che abbiamo or ora indicato corrisponda attualmente lo stato religioso del mondo occidentale; ed è facile comprendere il motivo del nostro atteggiamento: un’autorità religiosa non può rivestire le apparenze di quella che noi chiamiamo un’autorità spirituale pura, anche se ne possiede interiormente la realtà; vi è stato un tempo in cui essa possedeva certamente questa realtà; ma la conserva ancora effettivamente?[12] È molto difficile dirlo, perché, quando la vera intellettualità è completamente perduta, come nell’epoca moderna, è naturale che la parte superiore e «interiore» della tradizione diventi sempre più nascosta e inaccessibile: coloro, infatti, che possono comprenderla sono ormai soltanto un’infima minoranza; fino a prova contraria, noi siamo disposti ad ammettere che le cose stiano in questo modo e che la coscienza della tradizione integrale, con tutto ciò che essa comporta, persista ancora in alcune persone, per quanto poco numerose possano essere. Del resto, anche se questa coscienza fosse completamente scomparsa, qualsiasi forma tradizionale costituita in modo regolare manterrebbe sempre, per mezzo della conservazione della «lettera», al riparo da ogni alterazione, la possibilità della propria restaurazione, la quale si potrà realizzare se un giorno, fra i rappresentanti della forma tradizionale in questione, si incontreranno uomini con le attitudini intellettuali richieste.
A ogni buon conto, quand’anche noi avessimo, in qualunque modo, dati più precisi al riguardo, non dovremmo esporli pubblicamente, a meno che non ne fossimo obbligati da circostanze del tutto eccezionali; ed ecco il motivo: un’autorità che sia soltanto religiosa è tuttavia ancora, anche nel caso più sfavorevole, un’autorità spirituale relativa; vogliamo dire che essa, pur non essendo un’autorità spirituale pienamente effettiva, ne possiede tuttavia la virtualità che le deriva dalla sua origine, per cui è sempre in grado di esercitarne le funzioni all’esterno[13]; è dunque legittimo che essa adempia queste funzioni nei confronti del potere temporale, e deve essere veramente considerata tale nel suoi rapporti con quest’ultimo. Coloro che avranno capito il nostro punto di vista potranno rendersi conto senza difficoltà che in caso di conflitto tra una qualsiasi autorità spirituale, anche relativa, e un potere temporale, noi dobbiamo sempre schierarci, in linea di principio, a fianco dell’autorità spirituale; diciamo in linea di principio, perché sia chiaro che non abbiamo la minima intenzione di intervenire attivamente in simili conflitti né, soprattutto, avere una qualunque parte nelle diatribe del mondo occidentale, non essendo assolutamente questa la nostra funzione.
Negli esempi che esamineremo in seguito non faremo perciò nessuna distinzione tra quelli in cui è presente un’autorità spirituale pura e quelli in cui può trattarsi soltanto di un’autorità spirituale relativa; in ognuno di questi casi considereremo come autorità spirituale quella che ne svolge socialmente la funzione; e d’altronde le rassomiglianze evidenti che tutti questi casi presentano, per quanto lontani possano essere storicamente gli uni dagli altri, giustificheranno in modo sufficiente tale assimilazione. Dovremmo distinguere soltanto se si ponesse il problema del possesso effettivo dell’intellettualità pura, problema che non ha rilevanza in questa occasione; analogamente, per quel che concerne un’autorità legata esclusivamente a una determinata forma tradizionale, non dovremmo preoccuparci di delimitare esattamente i suoi confini, se così possiamo esprimerci, se non nei casi in cui essa pretendesse di oltrepassarli, e questi casi non sono fra quelli che noi esamineremo adesso.
A tale proposito, ricorderemo quanto dicevamo precedentemente: ciò che è superiore contiene in modo «eminente» ciò che è inferiore; colui che è competente entro certi limiti, che definiscono la sua sfera propria, lo è anche a fortiori nei confronti di tutto quanto si trova di qua da questi limiti, mentre non lo è più nei confronti di quel che si trova di là da essi; se questa regola, semplicissima, almeno per coloro che posseggono una nozione corretta della gerarchia, fosse osservata e applicata come si conviene, nessuna confusione di sfere e nessun errore di «giurisdizione», per usare questo speciale linguaggio, potrebbe mai verificarsi. Qualcuno vedrà indubbiamente, nelle distinzioni e nelle riserve che abbiamo testé formulato, soltanto precauzioni di un’utilità alquanto contestabile, qualcun altro sarà tentato di attribuire loro, al massimo, un valore puramente teorico; noi pensiamo invece che ci saranno altri ancora in grado di comprendere che in realtà esse sono una cosa molto diversa, e invitiamo questi ultimi a riflettervi con un’attenzione particolare.
[1] Il
termine ha d’altronde un duplice significato, il quale si riferisce a un altro
simbolismo ancora: dru, o deru, come in latino robur, designa tanto la forza quanto la
quercia (in greco δρυς); d’altra
parte, vid è, come in sanscrito, la
saggezza o la conoscenza, identificata alla visione, ma è anche il vischio;
così, dru-vid è il vischio della
quercia, il quale era in effetti uno dei principali simboli del druidismo, ed è
nello stesso tempo l’uomo nel quale risiede la saggezza che si appoggia alla
forza. Inoltre, il radicale dru, come è possibile osservare nelle forme
sanscrite equivalenti dhru e dhri, comporta anche l’idea di
stabilità, che è d’altronde uno dei significati del simbolo dell’albero in
generale e della quercia in particolare; tale significato di stabilità corrisponde
in questo caso esattamente all’atteggiamento della Sfinge in riposo.
[2] Il Re del Mondo.
[3] Tractatus de moribus et officio episcoporum, III, 9. A questo proposito, e in connessione con quanto abbiamo già indicato trattando della Sfinge, conviene osservare che essa rappresenta Harmakhis, o Hormakhuti, il «Signore dei due orizzonti», cioè il principio che unisce i due mondi sensibile e sovrasensibile, terrestre e celeste; questa è una delle ragioni per cui, nei primi tempi del cristianesimo, fu considerata in Egitto un simbolo del Cristo. Un’altra ragione di questo fatto è che la Sfinge, al pari del Grifone di cui parla Dante, è l’«animale dalle due nature», e a questo titolo raffigura l’unione delle due nature, divina e umana, in Cristo; una terza ragione si può ancora trovare nell’aspetto sotto il quale essa simboleggia, come abbiamo detto, l’unione dei due poteri spirituale e temporale, sacerdotale e regale, nel loro principio supremo.
[4] Si tratta della concezione tradizionale dei «tre mondi», da noi spiegata in altre occasioni a più riprese: secondo questa prospettiva la regalità corrisponde al «mondo terrestre», il sacerdozio al «mondo intermedio», e il loro principio comune al «mondo celeste»; ma è opportuno aggiungere che, da quando tale principio è diventato invisibile per gli uomini, il sacerdozio rappresenta anche esteriormente il «mondo celeste».
[5] L’insieme di tutti gli esseri, ripartiti in tal modo in stabili e mutevoli, è denominato in sanscrito dal termine composto sthâvara-jangama; cosicché essi tutti, secondo la loro natura, sono principalmente in relazione o con il Brâhmano o con lo Ksatriya.
[6] L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cap. IV.
[7] Ai tre guna corrispondono altrettanti colori simbolici: il bianco è sattwa, il rosso è rajas, il nero è tamas; in virtù del rapporto da noi qui indicato, i primi due di questi colori simboleggiano altresì rispettivamente l’autorità spirituale e il potere temporale. Non è senza interesse osservare, a tal proposito, che l’«orifiamma» dei re di Francia era rossa; la sostituzione susseguente del rosso con il bianco come colore regale indica in qualche modo l’usurpazione di uno degli attributi dell’autorità spirituale.
[8] La crisi del mondo moderno.
[9] È detto simbolicamente che quando gli dei appaiono agli uomini, rivestono sempre forme che siano in relazione con la natura di coloro ai quali essi si manifestano.
[10] Anche qui si tratta della distinzione, da noi già accennata in precedenza, tra «coloro che sanno» e «coloro che credono».
[11] Dimenticata la conoscenza «suprema», non rimane che una conoscenza «non suprema»; e la causa non è più una rivolta degli Ksatriya come nel caso da noi esaminato in precedenza, ma una sorta di degenerazione intellettuale dell’elemento che corrisponde ai Brâhmani per funzione, se non per natura; in quest’ultimo caso la tradizione non è alterata come nel caso precedente, ma soltanto diminuita nella sua parte superiore; l’ultimo stadio di questa degenerazione è quello in cui non esiste più conoscenza effettiva, in cui la sola virtualità di tale conoscenza permane, grazie alla conservazione della «lettera», e in cui non si ritrova più, in tutti indistintamente, se non semplice fede. Occorre aggiungere che i due casi che stiamo separando teoricamente possono di fatto trovarsi commisti, o per lo meno prodursi in uno stesso ambiente in modo concorrente, condizionandosi per così dire l’un l’altro. Ma questo non ci interessa molto, perché su tal punto non abbiamo intenzione di fare applicazioni a fatti determinati.
[12] La domanda corrisponde, sotto un’altra forma, a quella da noi già formulata trattando della «Chiesa docente» e della «Chiesa discente».
[13] Bisogna osservare che coloro che adempiono in questo modo alla funzione esteriore dei Brâhmani, senza pur averne realmente le qualificazioni, non sono affatto usurpatori, come sarebbero degli Ksatriya ribelli che avessero usurpato il posto dei Brâhmani per instaurare una tradizione deviata; in effetti questo caso corrisponde solamente a una situazione dovuta alle condizioni sfavorevoli di un determinato ambiente, e assicura anzi la conservazione della dottrina nella misura compatibile con tali condizioni. Sarebbe sempre possibile applicare a questa situazione, anche nell’ipotesi meno favorevole, la parola del Vangelo: «Gli scribi e i farisei sono seduti sul trono di Mosè; osservate dunque, e fate tutto quel che vi dicono» (Mt. 23, 2-3).
[2] Il Re del Mondo.
[3] Tractatus de moribus et officio episcoporum, III, 9. A questo proposito, e in connessione con quanto abbiamo già indicato trattando della Sfinge, conviene osservare che essa rappresenta Harmakhis, o Hormakhuti, il «Signore dei due orizzonti», cioè il principio che unisce i due mondi sensibile e sovrasensibile, terrestre e celeste; questa è una delle ragioni per cui, nei primi tempi del cristianesimo, fu considerata in Egitto un simbolo del Cristo. Un’altra ragione di questo fatto è che la Sfinge, al pari del Grifone di cui parla Dante, è l’«animale dalle due nature», e a questo titolo raffigura l’unione delle due nature, divina e umana, in Cristo; una terza ragione si può ancora trovare nell’aspetto sotto il quale essa simboleggia, come abbiamo detto, l’unione dei due poteri spirituale e temporale, sacerdotale e regale, nel loro principio supremo.
[4] Si tratta della concezione tradizionale dei «tre mondi», da noi spiegata in altre occasioni a più riprese: secondo questa prospettiva la regalità corrisponde al «mondo terrestre», il sacerdozio al «mondo intermedio», e il loro principio comune al «mondo celeste»; ma è opportuno aggiungere che, da quando tale principio è diventato invisibile per gli uomini, il sacerdozio rappresenta anche esteriormente il «mondo celeste».
[5] L’insieme di tutti gli esseri, ripartiti in tal modo in stabili e mutevoli, è denominato in sanscrito dal termine composto sthâvara-jangama; cosicché essi tutti, secondo la loro natura, sono principalmente in relazione o con il Brâhmano o con lo Ksatriya.
[6] L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cap. IV.
[7] Ai tre guna corrispondono altrettanti colori simbolici: il bianco è sattwa, il rosso è rajas, il nero è tamas; in virtù del rapporto da noi qui indicato, i primi due di questi colori simboleggiano altresì rispettivamente l’autorità spirituale e il potere temporale. Non è senza interesse osservare, a tal proposito, che l’«orifiamma» dei re di Francia era rossa; la sostituzione susseguente del rosso con il bianco come colore regale indica in qualche modo l’usurpazione di uno degli attributi dell’autorità spirituale.
[8] La crisi del mondo moderno.
[9] È detto simbolicamente che quando gli dei appaiono agli uomini, rivestono sempre forme che siano in relazione con la natura di coloro ai quali essi si manifestano.
[10] Anche qui si tratta della distinzione, da noi già accennata in precedenza, tra «coloro che sanno» e «coloro che credono».
[11] Dimenticata la conoscenza «suprema», non rimane che una conoscenza «non suprema»; e la causa non è più una rivolta degli Ksatriya come nel caso da noi esaminato in precedenza, ma una sorta di degenerazione intellettuale dell’elemento che corrisponde ai Brâhmani per funzione, se non per natura; in quest’ultimo caso la tradizione non è alterata come nel caso precedente, ma soltanto diminuita nella sua parte superiore; l’ultimo stadio di questa degenerazione è quello in cui non esiste più conoscenza effettiva, in cui la sola virtualità di tale conoscenza permane, grazie alla conservazione della «lettera», e in cui non si ritrova più, in tutti indistintamente, se non semplice fede. Occorre aggiungere che i due casi che stiamo separando teoricamente possono di fatto trovarsi commisti, o per lo meno prodursi in uno stesso ambiente in modo concorrente, condizionandosi per così dire l’un l’altro. Ma questo non ci interessa molto, perché su tal punto non abbiamo intenzione di fare applicazioni a fatti determinati.
[12] La domanda corrisponde, sotto un’altra forma, a quella da noi già formulata trattando della «Chiesa docente» e della «Chiesa discente».
[13] Bisogna osservare che coloro che adempiono in questo modo alla funzione esteriore dei Brâhmani, senza pur averne realmente le qualificazioni, non sono affatto usurpatori, come sarebbero degli Ksatriya ribelli che avessero usurpato il posto dei Brâhmani per instaurare una tradizione deviata; in effetti questo caso corrisponde solamente a una situazione dovuta alle condizioni sfavorevoli di un determinato ambiente, e assicura anzi la conservazione della dottrina nella misura compatibile con tali condizioni. Sarebbe sempre possibile applicare a questa situazione, anche nell’ipotesi meno favorevole, la parola del Vangelo: «Gli scribi e i farisei sono seduti sul trono di Mosè; osservate dunque, e fate tutto quel che vi dicono» (Mt. 23, 2-3).
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