Alberto Ventura
L’Intelletto d’Amore nell’Islam tra letteratura, teologia e sufismo
L’Intelletto d’Amore nell’Islam tra letteratura, teologia e sufismo
Be-ceshm-e
jân jamâl-e qidam dîdam,
be-ceshm-e
‘aql sûrat-e âdam tasarruf kardam.
“Con
l’occhio dell’anima ho guardato la bellezza eterna,
con
l’occhio dell’intelletto ho cercato di comprendere la forma dell’uomo”.
“Dio è bello ed ama la bellezza” (Allâhu
jamîl wa yuhibbu l-jamâl): questa massima del Profeta Muhammad, che
incontriamo più d’una volta nelle raccolte canoniche dei suoi insegnamenti, ha
lasciato un segno indelebile sulla successiva cultura islamica, contribuendo
alla formazione di una complessa ed articolata idea della contemplazione del
Bello.
In questa idea, bellezza divina e umana, amore trascendente e terreno,
si fondono inestricabilmente, permettendo quell’ambiguità di significati che
caratterizza in modo così marcato le produzioni del pensiero islamico nei più
svariati campi. Da ciò deriva quel senso di indeterminatezza riguardo
all’oggetto di una passione o di uno sguardo, se cioè esso debba intendersi
come un oggetto sensibile o se non sia piuttosto qualcosa che trascende i sensi
corporei e che viene percepito attraverso una “vista” che non è quella
ordinaria di questo mondo.
È proprio la nozione di vista ad essere qui
capitale. In via di principio, l’uomo non possiede nella sua condizione
ordinaria una capacità visiva che vada oltre le apparenze sensibili; e questo
perché solo Dio può essere definito a stretto rigore di termini “vedente” (basîr).
Ogniqualvolta, infatti, che il Corano attribuisce a Dio una qualità – come
appunto quella di “vedente”, ma anche quelle di “sapiente”, di “potente”, ecc.
– l’esegesi islamica considera la corrispondente qualità umana come un semplice
traslato, come una sorta di metafora (majâz), giacché sarebbe blasfemo
concepire una reale comunanza di attributi fra servo e Signore. Non c’è dunque
reciprocità di relazione fra l’uomo e Dio: «Non L’afferrano gli sguardi (absâr)
– recita infatti il libro sacro – ed Egli tutti gli sguardi afferra». Di qui
l’idea che l’uomo possa essere considerato come l’organo o piuttosto il “luogo”
della visione divina (mawdi‘ nazar al-haqq), quasi come la pupilla
attraverso la quale Dio osserva il mondo. Ma se Dio osserva ogni cosa, l’uomo
non è tuttavia condannato ad una totale cecità delle cose spirituali. È vero
che la domanda di Mosè di vedere il Signore è stata disattesa da un
apparentemente inappellabile «tu non mi vedrai» (lan tarânî), ma un
altro passaggio coranico ci dice che il Profeta è in grado di chiamare a Dio
basandosi sulla prova di una visione profonda; ora, questa visione profonda, basîra,
viene intesa dagli esegeti come una sorta di modalità intensificata del basar,
la normale facoltà visiva; e siccome il versetto coranico accomuna al Profeta
anche coloro che lo seguono, ecco che si ritiene dimostrata la possibilità,
almeno per i più perfetti e fedeli seguaci, di possedere una vista che va al di
là delle normali capacità umane.
Un altro passaggio coranico ci fa intravvedere
la possibilità della visio beatifica per i credenti in paradiso: «Volti
in quel giorno saranno splendenti, al loro Signore miranti». Non vi sono forse
versetti, in tutta la storia della teologia islamica, che abbiano più di questi
procurato difficoltà agli interpreti. La possibilità di vedere Dio è sembrata a
molti incongruente, giacché la percezione visiva presuppone una dimensione
corporea e una direzione nello spazio, entrambe impossibili a concepirsi nel
caso di Dio. Ma la teologia ortodossa ha invece difeso con particolare vigore la
possibilità di questa visione, non come allegoria di una generica e piuttosto
vaga beatitudine, ma come una percezione effettiva del Volto divino, analoga
anche se ovviamente non del tutto identica alla vista di questo mondo.
La facoltà di “vedere” Dio è però rimasta
confinata, per la maggior parte degli ortodossi, alla sfera della vita
ultraterrena. La visione (ru’ya) è cosa da giardino paradisiaco, e solo
il Profeta, affermano i credo islamici, ha goduto di tale beatitudine quando
era ancora in vita. I teologi sono stati a lungo incerti sulla natura di tale
visione, se cioè essa sia avvenuta in corpore oppure in spiritu,
ma alla fine è risultata prevalente la prima ipotesi, quella di una vista
avvenuta attraverso gli occhi del corpo (ru’ya basariyya); non solo, ma
alcune scuole dogmatiche si sono spinte addirittura a sostenere la possibilità
teorica per i credenti di godere di questa visione già in questo mondo, anche
se, di fatto, ciò non avviene e tale beatitudine è rimandata alla vita futura.
L’incertezza nel definire la reale natura della
visione di Dio è frutto dell’impossibilità, da parte della ragione umana, di
comprendere il mistero del velo (hijâb) che si stende sul Volto divino.
Interrogato su cosa avesse visto a conclusione del suo miracoloso viaggio
ultraterreno, il Profeta rispose: «Luce! Come potrei vederLo»? E un’altra
tradizione ci informa che «Dio ha settanta (o, secondo una variante,
settantamila) veli di luce e di tenebra». Il gioco fra luci ed ombre tende così
ad occultare la presenza di un Dio che è più vicino all’uomo della sua vena
giugulare, che ci è più prossimo di quanto non lo siamo noi stessi: è proprio
l’abbagliante luce divina ad operare la “ri-velazione”, nel senso etimologico
della parola, vale a dire a manifestare e nascondere al tempo stesso la realtà
ultima dalla quale tutto procede. Se da un lato i veli impediscono la
percezione, al tempo stesso sono anche l’unico mezzo della visione. Il Dio
senza forma che non può essere visto altro che da Se stesso viene infine colto
in una delle “forme” nelle quali Egli si trasmuta senza fine (tahâwul fî
suwar).
Ciò apre il delicato problema
dell’antropomorfismo, uno dei punti più cruciali di tutta la teologia islamica.
Le tendenze letteraliste e quelle allegoreggianti si sono affrontate sulla
questione della “forma” (sûra) di Dio, della quale tace il Corano, ma
che è ripetutamente evocata nell’insegnamento del Profeta. Numerose sono
infatti le tradizioni canoniche (hadîth) che alludono a questa forma, in
termini che non di rado hanno provocato notevole imbarazzo agli interpreti. Si
narra ad esempio che il Profeta abbia detto: “Dio ha creato Adamo secondo la
Propria forma”; “Stanotte il mio Signore è venuto da me sotto la forma più
bella”; “Ho visto nel sonno il mio Signore, sotto la forma d’un giovane dai
lunghi capelli (o dai capelli ricci, in alcune varianti)”. Ma il racconto
certamente più singolare è quello relativo all’incontro fra Dio e gli uomini
nel giorno del giudizio. Si dice che in quell’occasione Dio apparirà dapprima
sotto una forma diversa da quella che gli uomini conoscevano, e verrà quindi da
essi rinnegato. In seguito, chiedendo se vi è un segno dal quale Lo possano
riconoscere con certezza, verrà invitato a scoprire la gamba, e solo allora gli
esseri umani si prosterneranno riverenti di fronte a Lui. Non è qui il caso di
addentrarci nell’analisi delle interpretazioni contraddittorie che sono state
proposte di questo racconto; è interessante, però, che qualche esegeta, in
maniera un po’ imprevedibile ma non del tutto incoerente con i princìpi
dell’ermeneutica araba tradizionale, abbia interpretato la “gamba” come “una
luce immensa davanti alla quale [tutti] cadranno prosternati”; la gamba sarebbe
dunque qui simbolo di un’accecante epifania, che rivela Dio nella sua forma più
adeguata a degli esseri umani. Ma quale che sia la spiegazione ipotizzata per
questa ed altre immagini similari, è in ogni caso evidente che la cultura
islamica non poteva non rimanere influenzata da quest’idea della “forma” di Dio
e dal fatto che l’uomo è strutturato in conformità ad essa. Non è un caso che,
a proposito della creazione di Adamo, venga utilizzata dall’Islam la parola
“forma”, e non i più blandi termini di “immagine” o “somiglianza”; pur in
evidente analogia con l’espressione biblica (Genesi, 1:26), si ha qui un
senso molto più forte e diretto, che ha certamente lasciato una traccia
profonda nel pensiero islamico.
È questa la chiave per comprendere il concetto
di “epifania” o “teofania” (tajallî, tajallî ilâhî). L’idea che,
in determinate circostanze ed in stati particolari, gli oggetti sensibili o le
immagini mentali possano rivelare qualcosa che va al di là della loro apparenza
formale è diffusissima nella tradizione islamica. I poeti persiani, che più e
meglio di altri sapranno descrivere tutte queste sfumature, rendono in modo
perfetto l’idea che ogni percezione è in fondo – anche se il più delle volte
inconsapevolmente – percezione di un’icona, e cioè di una forma visibile
che rimanda ad una realtà ulteriore e più profonda. Se infatti l’uomo non può
letteralmente vedere Dio in questo mondo, può tuttavia cogliere, laddove si
acuisce la sua vista interiore, alcuni lampi delle epifanie divine. La visione
diretta è pur sempre riservata al paradiso, ma già qui ed ora la vista può
talvolta osservare le realtà divine per speculum in ænigmate, cogliendo
per così dire in trasparenza la bellezza di Dio attraverso la bellezza degli
oggetti di questo mondo. Il creato nella sua interezza è un “luogo epifanico” (majlâ),
perché tutto, nel mondo, è segno (âya) di Dio, anche un moscerino o
qualcosa di ancor più piccolo, come ricorda il Corano (2:26). Vi sono però
oggetti che adempiono in modo eminente a questa funzione, ricettacoli
privilegiati della beltà divina, fra i quali, agli occhi dei pensatori
musulmani, la figura dell’amato/amata è particolarmente adatta a fornire un
supporto ideale alla teofania.
Ecco dunque che il linguaggio erotico finisce
per coprire una vasta gamma di esperienze, dall’amore sensuale a quello
mistico, che, punto essenziale, non sono sentite in intima contraddizione tra
di loro – ovvero radicalmente divise come lo sono in ambiente cristiano
occidentale l’amor profano e l’amore sacro – bensì intimamente correlate […]
L’umana bellezza insomma non è che un “velo” di quella divina, una irradiazione
di Lui, la cui diretta contemplazione produrrebbe – come avveniva a Mosè nel
Corano (7:143) – l’incenerimento di ogni percettiva facoltà, la morte
istantanea. Così, agli occhi di tanti poeti di mistica ispirazione, l’umana
bellezza acquista una valenza metafisica e si direbbe anche soteriologica, non
lontana dalla platonica concezione dell’eros.
Non vi è quindi nulla di sorprendente se una
tradizione (dai più ritenuta apocrifa) mette in bocca al Profeta dell’Islam in
persona un’idea di sapore nettamente platonico: «Chi ami e si serbi virtuoso e
venga a morte, è un martire». Bisogna tuttavia precisare meglio in che senso
debba essere inteso questo “platonismo”. L’idea che la bellezza umana sia un
velo di quella divina non è una semplice sublimazione della passione terrena in
amore spirituale, ma è in un certo senso il suo contrario: l’innamoramento per
una forma umana non è che il riflesso di un eterno ed essenziale desiderio
dell’essere (‘ishq dhâtî), che, se opportunamente interiorizzato, si
rivela come una nostalgia degli uomini per la loro natura primordiale. Un
tratto caratteristico della mentalità islamica è proprio quello di considerare
l’oggetto terreno della visione come un simbolo e la realtà come ciò che da
quel simbolo è rappresentato, senza però vedere fra i due termini una radicale
contrapposizione: pur collocandosi su differenti piani di realtà, sia il
simbolo che il simboleggiato sono infatti entrambi necessari per l’iniziazione
d’amore. Rûzbehân Baqlî di Shîrâz (m. 1209), forse il più grande
“fedele d’amore” dell’Islam, ci narra del suo incontro alla Mecca con una
bellissima giovane, alla quale, in un dialogo sospeso fra realtà terrena e
visione celeste, pone la domanda fondamentale: «Chi sei»? E la risposta è inequivoca:
“Il segreto della divinità (lahût) è nell’umanità (nâsût), senza
che la divinità subisca il travaglio d’una incarnazione. La bellezza della
creatura umana è il riflesso diretto della bellezza divina. È con me che la
creazione è cominciata; è in Dio che essa si compie”. Anche
Majnûn, l’“Ossesso” che è l’amante per antonomasia di tutte le letterature
islamiche, deve iniziare assieme ad una Laylâ terrena il suo percorso d’amore,
e va poi pian piano distaccandosi da quella donna in carne ed ossa per concentrasi
tutto sulla realtà trascendente di lei, molto più pura e perfetta del suo
omologo terreno. In questo, Majnûn è il più perfetto interprete di un’idea
diffusa nell’Islam e che ha trovato la sua più sintetica enunciazione in un
celeberrimo detto arabo: al-majâz qantarat al-haqîqa, «la
metafora è un ponte verso la realtà». E benché tra la
metafora e la realtà vi sia un vero abisso ontologico, non è possibile fare a
meno della prima, se non si vuole condannare la seconda a rimanere
irraggiungibile nella sua astrazione (ta‘tîl). L’amore
‘udhrita – equivalente puramente arabo dell’amor platonico – veniva sì
ricordato come una “delicatezza dei cuori” (riqqat al-qulûb), ma ciò non
significa che potesse fare a meno di un supporto terreno; per quanto esprimesse
un’affinità puramente spirituale e si risolvesse in una passione completamente
casta e sublimata, l’“anima sorella” verso la quale si indirizzava quell’amore
era necessariamente un essere concreto, in mancanza del quale non vi sarebbe
potuto essere desiderio alcuno. E gli esiti di questo desiderio erano ancor più
fisicamente devastanti di quelli descritti dai cantori dell’amore profano,
perché in effetti in quella tribù “quando si amava
si moriva” e la “dolce e nobile morte” agognata dagli ‘Udhriti era una morte
tutt’altro che allegorica.
Si è detto dell’ambivalenza maschile/femminile
nella scelta della simbologia amorosa. Tuttavia, la preferenza per la donna
come locus privilegiato dell’epifania divina viene in alcuni casi
motivata dagli autori musulmani non in base a ragioni di carattere morale o
psicologico, ma con una precisa argomentazione metafisica. Si dice infatti che
l’uomo può vedere in se stesso un riflesso di Dio alternativamente come agens
o come patiens: se tiene conto del fatto che la donna deriva e dipende
da lui, coglie in sé l’aspetto del Deus agens; se invece si guarda come
creatura, dunque come essere sottomesso e dipendente, ne vedrà l’aspetto patiens.
Solo
la donna consente di intuire Dio come agens e patiens al tempo
stesso, perché è contemporaneamente statica ricettrice e dinamica datrice di
forme, permettendo così, meglio di ogni altra creatura, la percezione il più
possibile perfetta in questo mondo dell’energia divina, creatrice eppure
increata. Ciò giustifica il fatto che il femminile, per i filosofi
come per i poeti o per i sufi, diviene nell’Islam simbolo per eccellenza della
sostanza universale, espressione della plasmabilità e della ricettività, ma è
al contempo manifestazione diretta del raggio di luce che viene dall’alto, dell’intelligenza
universale, dell’intelletto agente. Così, quella metafora che è come «un ponte
verso la realtà» dell’adagio arabo prima citato viene individuata dalla
tradizione islamica soprattutto nella donna, che è in un certo senso la
metafora per eccellenza, il mezzo privilegiato grazie al quale il Volto divino,
irraggiungibile in sé, diviene percepibile in un essere creato, che ne
sintetizza la bellezza e ne esprime la luminosità.
È dunque comprensibile la frequente
assimilazione donna-luce nell’imagerie poetica musulmana. I poeti
dell’amore cortese o quelli del Sufismo, che la mentalità occidentale vede
schierati sulle opposte sponde dell’amor profano e dell’amor sacro, esprimono
in realtà uno stesso ideale di fondo. Non è solo una tendenza mistica, infatti,
quella che induce a contemplare la luce più alta sotto l’apparenza di una forma
umana: vista come un raggio divino, anche la donna per certi versi così reale e
corposa dei trovatori dell’Islam è un oggetto di culto e d’adorazione, e lo
sguardo indirizzato ad essa è un fatto contemplativo, nel quale l’osservatore
tende a trascendere se stesso. La consustanzialità fisiologica fra la vista e
la luce, proclamata dalla scienza araba come da quella antica, fa sì che lo
sguardo mirato alla luce tenda a sciogliersi nella propria fonte, che è una
manifestazione dell’Essenza nella quale tutto finisce per estinguersi. A questo
alludeva il poeta cortese per eccellenza della poesia araba, al-‘Abbâs
ibn al-Ahnaf (m. 810 circa), la cui Fawz – al pari di tante
Beatrici, Giovanne e Fiammette – è venerata con un vero e proprio culto
spirituale della Dama, in cui “la contemplazione tende ad elevarsi alle
dimensioni dell’estasi” e “lo sguardo tenta di trascendere l’oggetto della
visione”. Il simbolismo dei versi di al’Abbâs ibn al-Ahnaf è quanto mai
trasparente:
Mi sono innamorato del sole, del sole al suo
sorgere, il luogo del suo Oriente è il segreto del suo appartarsi.
Sole rappresentato nel corpo d’una donna e la
sua taglia è sottile come un rotolo di pergamena.
Appartiene agli umani solo per analogia, dei
Jinn non ha che l’apparenza.
Il suo corpo è fatto di perle, i suoi capelli di
tenebra, il suo alito è di muschio, il suo volto è di luce…
Sembra che abbia il paradiso a dimora, poi viene
sulla terra per essere un miracolo e un insegnamento.
Dio non ha mai creato al mondo cosa simile,
credo non sia della razza degli uomini.
Il suo incedere è lento, i suoi fianchi
slanciati, in bellezza la sua immagine vale tutte le immagini.
O ornamento di tutta la progenie di Eva, senza
di te il mondo sarebbe insipido e non avrebbe fascino.
Un altro poeta cortese di poco precedente, Bashshâr
ibn Burd (m. 784 circa), aveva da parte sua affermato che «la Dama è
un’opera d’arte, la Dama è un sole, una creatura di paradiso, il “principio
della luce” (ma‘din al-anwâr). Essa vale più del
sole e della luna messi insieme, aggiunge, e fornisce una luce più pura». La
luce in cui, come falena nella fiamma, si va ad estinguere la vista dell’amante
non è altro che l’apparizione folgorante dell’Essenza divina, percepita
attraverso i veli dell’esistenza. Impossibile a vedersi in sé, ché una sola
scintilla di quella luce incenerirebbe tutti i mondi, essa appare nella visione
mediata di un umano ricettacolo di bellezza. L’idea non è estranea neppure alla
teologia ortodossa, che fra le grazie paradisiache del suo credo annovera le
simboliche Hurì, femmine diafane e luminose, “così belle – aveva affermato il
Profeta – che attraverso la carne delle loro gambe si potrà scorgere il midollo
delle loro ossa” e così piene della luce divina che “se una delle femmine
del paradiso apparisse agli occhi degli esseri umani, inonderebbe di luce lo
spazio compreso fra il cielo e la terra”.
Comunque, che sia un essere umano in carne ed
ossa, un essere paradisiaco,
l’immagine trasfigurata di se stessi o un angelo, il concetto di fondo è il
medesimo: si tratta sempre in qualche modo di un alter-ego, di un anghelos
intermediario, di uno specchio polito in cui avviene l’epifania. Ma,
nonostante questa mediazione, l’intelletto umano non riesce a sopportare la sua
accecante luminosità e per questo è detto folgorarsi nell’estinzione di se
stesso (fanâ’). ‘Umar ibn al-Fârid (m. 1235), il
massimo poeta arabo del Sufismo, esprime in modo anticipatamente
“stilnovistico” questo concetto in un verso della sua Ta’iyya: “Al mio
vedere [l’Amata (= l’essenza divina)], se n’andò via la mia esistenza, ed io mi
staccai dall’esistenza del mio vedere in stato di annientamento, non in stato
di lucidità di mente”; proprio come Dante, poco tempo dopo, dirà che
alla vista di Beatrice i suoi “spiriti del viso […] rimasero fuori de li loro
istrumenti”.
L’abbagliare della luce che sradica l’essere
contingente dalle sue normali operazioni sensorie e mentali rappresenta
l’aspetto “terrifico” dell’amore, chiave essenziale per comprendere tutta una
serie di motivi caratteristici della letteratura amorosa. Gli aspetti “severi”
della divinità sono del resto già evidenziati dalla comune dottrina teologica
dell’Islam, che ai Nomi misericordiosi e amorevoli della “bellezza” (jamâl)
affianca quelli terrifici e inflessibili della “maestà” (jalâl). È del
tutto naturale, quindi, che i poeti musulmani abbiano spesso utilizzato la metafora
dell’amore che uccide e che rovina, dando vita a una serie di motivi letterari
che col tempo hanno acquisito una sempre crescente diffusione. Al-Hallâj (m.
922), il “martire mistico dell’Islam”, allude in una sua celebre lirica al sole
della piena estate che uccide, quasi in una esecuzione rituale, l’essere colto
dall’ebbrezza d’amore. Ma basta sfogliare i trattatisti e antologisti dell’amor
cortese, come il baghdadiano d’origini persiane Ibn Da’ûd (m. 909) o il
cordovese Ibn Hazm (m. 1046), per rendersi conto di quanto diffuse siano le
immagini “ignominiose” dell’amore, che mettono in risalto i malesseri, lo
sradicamento sociale e l’abiezione in cui cadono coloro che sono preda di
questa passione.
Il disagio di fronte alla vista dall’amata dà
vita ad una vera e propria malattia, per lo più incurabile; o meglio, l’unica
cura possibile per questo “mal d’amore” è il male stesso. Il concetto
dell’amore come malattia e terapia al tempo stesso, carissimo alla letteratura
araba medievale, è tema di tutto il III capitolo antologico del Libro del
Fiore di Ibn Dâ’ûd di Isfahân, ma sarà soprattutto Ibn Hazm a renderlo
popolare col suo Collare della colomba, che apre il XXVI capitolo coi
seguenti versi:
Mi dice il medico, senza conoscere il vero mio
stato: ehi tu, curati, ché sei ammalato!
Ma il mio male non lo conosce altri che me, e un
Signore potente, un Re eccelso.
Io lo nascondo, e lo rivela un singulto in me
fisso, e un lungo e tacito chinar del capo,
e un viso con su le testimonianze della
tristezza, e un corpo stremato e sottile come un fantasma.
E una faccenda è quanto mai fermamente provata,
fuor d’ogni dubbio, quando ne son veraci gli indizi.
Dissi al medico: «Spiegami un po’ la cosa,
giacché, per Allàh, tu non sai quel che dici».
Ed egli: «Veggo in te un estremo smagrimento, e
il male di cui ti duoli è una consunzione».
E io a lui: «La consunzione affligge le membra,
ed è una febbre che si sposta qua e là;
ma io in verità non mi dolgo di una febbre, e il
calore nel mio corpo è poco».
Ed egli: «Veggo in te un volgerti attento e uno
stare in guardia, e pensieri, e un silenzio incessante:
credo quindi si tratti di melanconia; bada bene
a te, che è un malanno grave».
Ed io: «codeste tue parole sono assurde. Cosa
significano allora le lacrime che mi colano dal ciglio?».
Ed egli tacque e chinò il capo, stupito a quel
che vide. Che proprio in ciò l’uomo più egregio rimase stupito.
«La mia medicina, gli dissi allora, è la stessa
mia malattia. Su una simile cosa restan smarriti gli intelletti.
La prova di quanto io dico si vede alla diretta
esperienza. I rami delle piante, invertiti, diventan radici;
e nulla v’è che dia garanzia di sanare il morso
delle vipere, fuor dell’antidoto tratto dalle vipere stesse».
Ma qual è allora la reale natura di questo male?
Secondo Ibn Hazm si tratta soprattutto di una malattia che colpisce la ragione
umana: essa, infatti,
«va innanzi tanto da sopraffare il cervello
dell’uomo, che ne perde il senno e vaneggia […] Questo è un grado di anormalità
a cui quando giunge l’innamorato si tronca ogni speranza e ogni desiderio; non
c’è più mezzo di curarlo allora, né con l’appagamento d’amore né per altra via,
giacché il guasto ha preso saldo piede nel cervello, la facoltà conoscitiva è
morta e il malanno regna incontrastato» .
Al di là di queste considerazioni quasi
fisiologiche, è la trasposizione della follia in termini simbolici che ha più
contribuito alla diffusione dell’immagine dell’amante pazzo nella cultura
islamica successiva. L’insania, giuridicamente parlando, è motivo di non
perseguibilità del reo, e questo giustifica le iperboli, le espressioni
oltraggiose, i comportamenti scandalosi degli amanti. Significativo è
l’aneddoto raccontato da Ibn ‘Arabî:
Si narra che, nel tempio di Salomone, un rondone
volteggiava attorno ad una femmina, dichiarandole il suo amore. Salomone era in
quel momento presente ed ascoltò l’uccello che sospirava alla sua compagna:
«L’amore che provo per te mi rapisce a tal punto che se tu mi chiedessi di far
crollare questo tempio su Salomone, io lo farei»! Salomone convocò allora il
volatile e gli disse: «Cosa mai ti ho sentito dire»? «Non t’affrettare a
castigarmi – replicò il rondone – perché l’amante si esprime in un linguaggio
di cui solo i dementi si servono. Ora, io amo questa uccellina e le ho
raccontato quel che tu hai udito. Gli amanti perduti non hanno legge e parlano
la lingua dell’amore, non quella della scienza o della ragione»! Salomone si
mise a ridere ed ebbe pietà dell’uccello, risparmiandogli la sanzione.
Il “non avere legge” e “parlare la lingua
dell’amore” non sono tuttavia segni di un’ordinaria demenza, ma sono piuttosto
indici di uno stato che trascende verso l’alto il normale funzionamento della
ragione. La non-razionalità dell’amante non è l’irrazionalità del demente, ma
al contrario è il frutto di una conoscenza intuitiva che sfugge alle
limitazioni del ragionamento: è per questo che essa può apparire all’occhio
profano come mera follia, quando è invece una delle vesti della sapienza.
L’amante, che sia un poeta cortese o un folle di Dio, in fondo ama
l’Intelligenza divina – Madonna Intelligenza, come direbbero gli
Stilnovisti – ed è questa diversità a renderlo alieno all’ambiente che lo
circonda.
Ciò giustifica tutta una serie di immagini
persistenti nella letteratura d’amore: lo straniamento dell’amante nella
contemplazione diviene un esilio in terre lontane; il conflitto cui sono
sottoposti il corpo e l’anima assurge al ruolo eroico e cavalleresco di una
tragica guerra santa; il consumarsi dell’essere nella passione amorosa è
equiparato in tutto e per tutto ad un martirio. Ma forse l’immagine più forte
che rimane impressa è quella dell’oggetto d’amore – che sia l’Essenza divina,
la Sapienza o una Dama – che richiede un culto esclusivo ed esigente, tale da
spingere il fedele ad abbandonare le credenze comuni per dedicarsi tutto al suo
nuovo servizio. Un atteggiamento, questo, che appare scandaloso agli occhi dei
benpensanti e di cui l’amante è invece fiero, non tentando affatto di
nascondere, ma anzi palesando questa sua “miscredenza” (kufr). L’aspetto
riprovevole dell’amore diviene così il tema più persistente nel simbolismo
erotico attraverso i secoli. Tutti i comportamenti più ripugnanti
per la mentalità musulmana sono abituali nell’amante, che è il devoto d’un
idolo, un apostata, un infedele, un ubriaco che frequenta le taverne, un folle
che non nasconde la propria ignominia.
Alessandro Bausani ha sottolineato come questo
aspetto, almeno per quanto riguarda la letteratura persiana, non è affatto un
motivo accidentale, ma è in qualche maniera una delle radici della stessa idea
del poetare.
Fin dagli inizi, la poesia e il poeta si trovan
legati a quell’idea per noi così singolare di bad-nâmî, rosvâ’î, rendî,
cioè cattivo nome, svergognatezza, baldoria, che
diventa, connettendosi poi ad influssi veri e propri della corrente malâmatîya
della mistica, uno dei motivi principali della lirica classica persiana, anche
quando ormai la sua origine è del tutto dimenticata o eventualmente trasformata
in senso mistico. Il poeta tradizionale persiano, anche se religiosissimo ed
eventualmente ortodosso musulmano, si sente quasi sempre obbligato a lodare il kofr
(miscredenza), a inneggiare al tempio idolatrico-taverna, a preferire la
religione di Zoroastro a quella di Muhammad, le imberbi grazie del giovinetto
cristiano e del coppiere-mago al predicatore e al mullâ.
Questa immagine “maledetta” dell’amore ha tratto
in inganno più d’un interprete. Presi alla lettera, i poeti d’oriente,
soprattutto quelli persiani, sono apparsi come eretici, scettici o miscredenti
ai primi traduttori europei, che hanno così dato vita ad un equivoco che ancor
oggi fa sentire i suoi pesanti effetti. Ignorando le interpretazioni orientali,
che da sempre avevano intravisto sotto il simbolo dell’ignominia un’allusione
all’itinerario spirituale, si è convenuto che nell’Islam la letteratura d’amore
fosse in gran parte un episodio di ostilità verso la religione costituita. Alle
più ingenue interpretazioni ottocentesche, che letteralmente ci presentavano
questi poeti come dediti al vino o al libero pensiero, si sono sostituite le
più sfumate esegesi occidentali moderne, che sotto il velo del simbolismo
amoroso intravedono panorami di settarismo gnostico o di dualismo manicheo. Ma
il risultato non cambia: l’idea è sempre quella che il linguaggio erotico sia
un avversario dell’Islam e della sua spiritualità.
La posizione dei “Fedeli d’Amore” dell’Islam è
in realtà molto più sfumata. Se è vero che il linguaggio erotico allude ad una
sapienza che non è dato a tutti conoscere e che per molti aspetti è in
contrasto con la visione letterale e ristretta dei dottori della legge, ciò non
ci permette di classificare questo atteggiamento come ostile alla religione
islamica. Il “Superiore dei Magi” (pîr-e moghân), che è l’istruttore
spirituale dei devoti di questa “miscredenza”, non va preso alla lettera come
un maestro infedele, ma è colui che inizia il discepolo alla fede d’amore, una
fede così intensa ed esclusiva da apparire falsamente ad occhi esterni come
rifiuto della religione costituita, come ribellione ai dogmi, come spregevole
alienazione. Ma questa fede è, per i suoi seguaci, la quintessenza stessa
dell’Islam: non l’Islam metaforico (majâzî), che è quello dei comuni
credenti, ma l’Islam vero (haqîqî), raggiungibile solo attraverso un
doloroso esilio dal mondo. Il riferimento all’esilio dei primi musulmani dalla
Mecca è evidente; tuttavia, questo esilio viene visto non come semplice
antecedente storico, ma come paradigma perenne di una condizione dello spirito,
più volte ricordata dal Profeta: «L’Islam è iniziato esule (gharîb) e
finirà così com’è iniziato»; «Sii in questo mondo come un esule o un passante». I veri
fedeli appariranno quindi alla massa come degli estranei, ma nondimeno essi
sono i soli ad essere credenti nel senso più pieno della parola. E se la verità
cui attingono provoca in loro l’ebbrezza, solo esteriormente questa condizione
può apparire come trasgressiva, in quanto l’ebbrezza (sukr) sta qui a
simboleggiare la rottura di ogni razionale certezza in favore di un’intuizione
al di là d’ogni intendimento umano. Nessuna opposizione settaria all’Islam,
dunque, ma una più alta ed ispirata sapienza che coglie la verità celata dietro
alle forme.
Il vino d’Amore, vero leit-motiv della poesia
persiana, è descritto come quel che serve al mistico amante per oscurare
l’azione distorsiva della ragione; come dicevamo, alla ragione non è dato di
conoscere il mistero d’Amore. Dunque l’iniziazione del Mago o del Coppiere è
essenzialmente invito alla follia, alla disattivazione dell’intelletto e dei
suoi procedimenti analitici, perché è solo in uno stato di “pazzia sacra”,
propiziata dall’ebbrezza, che è dato all’amante di attingere all’unione con
l’amico, ovvero il bel Testimone.
Alberto Ventura
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