"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 27 ottobre 2017

René Guénon, Autorità spirituale e Potere temporale - III - Conoscenza e azione

René Guénon
Autorità spirituale e Potere temporale


III - Conoscenza e azione

Abbiamo detto in precedenza che i rapporti tra i due poteri spirituale e temporale devono essere regolati da quelli delle loro sfere rispettive; riportata in tal modo al suo principio, la questione ci pare abbastanza semplice perché si riduce in fondo a quella dei rapporti tra conoscenza e azione.
Si potrebbe obiettare che, tenuto conto di quanto esposto in precedenza, anche i detentori del potere temporale devono possedere, di norma, una certa conoscenza; ma, a parte il fatto che non la possiedono di per se stessi e la ricevono dall’autorità spirituale, questa conoscenza verte soltanto sulle applicazioni della dottrina e non sui principi in quanto tali; per essere precisi, è soltanto una conoscenza per partecipazione.
La conoscenza per eccellenza, la sola che meriti veramente questo nome nel suo significato pieno, è la conoscenza dei principi, indipendentemente da qualsiasi applicazione contingente; e appartiene esclusivamente al detentori dell’autorità spirituale, in quanto nulla di essa dipende dalla sfera temporale, anche intesa nell’eccezione più estesa. Quando invece si passa alle applicazioni, ci si riferisce alla sfera temporale, perché la conoscenza non è più vista unicamente in se stessa e per se stessa, ma in quanto dà all’azione la sua legge; in questa misura essa è necessaria a coloro la cui funzione si esercita essenzialmente nella sfera dell’azione.
È evidente che il potere temporale, nelle sue diverse forme, militare, giudiziaria e amministrativa, è completamente impegnato nell’azione; a causa delle sue stesse attribuzioni, è quindi racchiuso nel confini dell’azione, cioè nel confini del mondo che possiamo dire propriamente «umano», comprendendo in questo termine possibilità molto più estese di quelle che gli si attribuiscono abitualmente. L’autorità spirituale invece si fonda interamente sulla conoscenza, poiché la sua funzione essenziale, come abbiamo visto, è la conservazione e l’insegnamento della dottrina, e la sua sfera è illimitata come la verità stessa[1]: quella che le è riservata dalla natura delle cose, quella che essa non può comunicare a uomini le cui funzioni sono d’altro ordine (in quanto le loro possibilità non lo comportano), è la conoscenza trascendente e «suprema»[2], che supera la sfera umana e anche, più generalmente, il mondo manifestato, e non è più «fisica», ma «metafisica» nel significato etimologico di questo termine.
Sia ben chiaro però che non si tratta, da parte della casta sacerdotale, di una volontà di conservare per sé la conoscenza di certe verità, ma di una necessità che risulta direttamente dalle differenze di natura esistenti tra gli esseri, le quali, come abbiamo già detto, sono le ragioni d’essere e il fondamento della distinzione delle caste. Gli uomini adatti per l’azione non sono fatti per la conoscenza pura, e in una società costituita su basi veramente tradizionali ciascuno deve svolgere la funzione per cui è realmente «qualificato»; quando le cose vanno diversamente, tutto è confusione e disordine, nessuna funzione è adempiuta come dovrebbe essere, e ciò è appunto quanto avviene nell’epoca attuale.
L’esperienza ci dice che proprio a causa di questa confusione le considerazioni che esponiamo possono sembrare molto strane nel mondo occidentale moderno, nel quale ciò che riceve il nome di «spiritualità» è troppo spesso molto lontano dall’avere un qualsiasi rapporto con il punto di vista strettamente dottrinale e con la conoscenza svincolata da ogni contingenza. A questo proposito si potrebbe fare un’osservazione abbastanza singolare: oggi non ci si accontenta più di distinguere lo spirituale dal temporale com’è legittimo e anche necessario, ma si ha la pretesa di separarli radicalmente; accade invece che mai come oggi i due ordini siano stati tanto frammisti e, soprattutto, che le preoccupazioni temporali abbiano avuto tanta influenza su quel che dovrebbe esserne assolutamente indipendente; d’altronde è inevitabile che questo avvenga, tenuto conto delle condizioni dell’epoca attuale, che abbiamo descritto in altri studi. Parimenti, al fine di evitare ogni falsa interpretazione, dobbiamo affermare recisamente che quanto stiamo dicendo riguarda esclusivamente quella che in precedenza abbiamo chiamato autorità spirituale allo stato puro, di cui sarebbe vano cercare esempi intorno a noi. Volendo, si potrà anche pensare che si tratti soltanto di un modello teorico e in qualche modo «ideale», sebbene, a dire il vero, questo modo di vedere non corrisponda interamente al nostro. Tuttavia ammettiamo che, di fatto, nelle applicazioni storiche occorre sempre tener conto in una certa misura delle contingenze; ma qui noi non facciamo altro che giudicare la civiltà dell’Occidente per quel che è, cioè una deviazione e un’anomalia, spiegabile del resto se si pensa che corrisponde all’ultima fase del Kali-Yuga.
Ma ritorniamo ai rapporti tra conoscenza e azione; tale questione è già stata trattata da noi abbastanza diffusamente[3], e quindi non ci pare sia il caso di riprendere qui tutto quel che abbiamo detto allora; tuttavia è indispensabile ricordarne almeno i punti essenziali. Abbiamo mostrato come l’antitesi tra Oriente e Occidente, allo stato attuale delle cose, sia riconducibile a questo: l’Oriente conserva la superiorità della conoscenza sull’azione, mentre l’Occidente afferma al contrario la superiorità dell’azione sulla conoscenza, quando non si spinga fino alla completa negazione di quest’ultima; parliamo dell’Occidente moderno soltanto, perché la situazione era diversa nell’antichità e nel medioevo.
Tutte le dottrine tradizionali, sia orientali sia occidentali, sono unanimi nell’affermare la superiorità, ovvero la trascendenza, della conoscenza nei confronti dell’azione, rispetto alla quale essa svolge in certo qual modo la funzione del «motore immobile» di Aristotele; ciò non significa, beninteso, che l’azione non abbia il suo posto legittimo e la sua importanza nella sfera che le compete, ma questa sfera è solo quella delle contingenze umane. Il mutamento sarebbe impossibile se non procedesse da un principio il quale, proprio per il fatto di essere il suo principio, non può essere soggetto al cambiamento, quindi è necessariamente «immobile» ed è il centro della «ruota delle cose»[4]; analogamente l’azione, la quale appartiene al mondo del cambiamento, non può avere il suo principio in se stessa; essa trae la realtà di cui è capace da un principio che è di là dalla sua sfera e può trovarsi soltanto nella conoscenza. Questa sola infatti permette di uscire dal mondo del mutamento o del «divenire» e delle limitazioni a esso inerenti; e quando raggiunge l’immutabile (come avviene nella conoscenza principiale o metafisica, la conoscenza per eccellenza)[5], possiede l’immutabilità, perché ogni conoscenza vera e essenzialmente identificazione con il proprio oggetto. L’autorità spirituale, implicando tale conoscenza, possiede anch’essa in sé l’immutabilità; il potere temporale soggiace invece a tutte le vicissitudini del contingente e del transitorio, a meno che un principio superiore non gli comunichi, nella misura compatibile con la sua natura e il suo carattere, la stabilità che esso non può ottenere con i propri mezzi. Il principio può essere soltanto quello rappresentato dall’autorità spirituale; il potere temporale ha dunque bisogno, per sussistere, di una consacrazione che gli derivi da essa; è infatti la consacrazione a determinare la sua legittimità, cioè la sua conformità con l’ordine stesso delle cose. Questa era la ragion d’essere dell’«iniziazione regale», definita nel capitolo secondo; ed in ciò consiste propriamente il «diritto divino» dei re, o il cosiddetto «mandato celeste» della tradizione estremo-orientale: si tratta dell’esercizio del potere temporale in virtù di una delegazione da parte dell’autorità spirituale a cui questo potere appartiene «eminentemente», come spiegavamo allora[6].
Qualsiasi azione che non proceda dalla conoscenza manca di principio e diventa vana agitazione; qualsiasi potere che non riconosca la sua subordinazione all’autorità spirituale è vano e illusorio: separato dal suo principio, potrà esercitarsi soltanto in modo disordinato e correrà fatalmente verso la propria rovina.
Poiché abbiamo parlato di «mandato celeste», non ci sembra fuori luogo riferire come, secondo lo stesso Confucio, tale mandato dovesse essere adempiuto: «Per far risplendere le virtù naturali nel cuore di tutti gli uomini, gli antichi principi si adoperavano prima di tutto a ben governare ciascuno il proprio principato. Per ben governare il loro principato essi mettevano prima di tutto il buon ordine nelle loro famiglie. Per mettere il buon ordine nelle loro famiglie, lavoravano prima di tutto a perfezionare se stessi. Per perfezionare se stessi, disciplinavano prima di tutto i battiti del loro cuore. Per disciplinare i battiti del loro cuore, rendevano perfetta innanzi tutto la loro volontà. Per rendere perfetta la loro volontà, sviluppavano il più possibile le loro conoscenze. Le conoscenze si sviluppano penetrando la natura delle cose. Penetrata la natura delle cose, le conoscenze raggiungono il loro grado più elevato. Quando le conoscenze sono arrivate al loro grado più elevato, la volontà diventa perfetta. Perfetta la volontà, i battiti del cuore diventano regolari. Regolati ì battiti del cuore, l’uomo tutto è privo di difetti. Dopo aver corretto se stessi, si stabilisce l’ordine nella famiglia. Posto ordine nella famiglia, il principato è ben governato. Ben governato il principato, presto tutto l’impero fruisce della pace»[7]. Si deve ammettere che è questo un modo di concepire la funzione del sovrano singolarmente diverso da quello che è accessibile comunemente nell’Occidente moderno, e che la rende del resto estremamente difficile da ricoprire, anche se le conferisce un’efficacia molto differente; si osserverà, in particolare, che la conoscenza è espressamente indicata come la condizione prima per il ristabilimento dell’ordine, anche nella sfera temporale.
È facile comprendere ora che in una civiltà il capovolgimento dei rapporti tra conoscenza e azione è conseguenza dell’usurpazione della supremazia da parte del potere temporale; quest’ultimo dovrà allora sostenere che non vi è nessuna sfera superiore alla propria, la quale è appunto la sfera dell’azione. Tuttavia, se il processo si arresta in questa fase, non si giungerà ancora al punto in cui attualmente ci troviamo e nel quale alla conoscenza è negato qualsiasi valore; perché questo avvenga, occorre che anche gli Ksatriya siano privati del loro potere dalle caste inferiori[8].
In effetti, come dicevamo in precedenza, gli Ksatriya, pur essendo ribelli, tendono prevalentemente ad affermare una dottrina tronca, falsata dall’ignoranza o dalla negazione di tutto ciò che supera la sfera «fisica», ma nella quale permangono tuttavia certe conoscenze reali, anche se inferiori; essi possono addirittura giungere a sostenere che tale dottrina incompleta e irregolare sia l’espressione della tradizione vera. È un atteggiamento che, per quanto sia condannabile nei confronti della verità, possiede tuttavia ancora una certa grandezza[9]; d’altra parte, termini come «nobiltà», «eroismo», «onore» non servono forse, nella loro accezione originaria, a definire qualità essenzialmente inerenti alla natura degli Ksatriya? Quando invece gli elementi corrispondenti alle funzioni sociali inferiori riescono a loro volta a prevalere, qualsiasi dottrina tradizionale, anche mutilata o alterata, scompare del tutto; non rimane neppure il più piccolo vestigio della «scienza sacra», e si ha il regno del «sapere profano», cioè dell’ignoranza che si spaccia per scienza e si compiace nel suo nulla. Tutto ciò può riassumersi in poche parole: la rivolta degli Ksatriya conduce all’eterodossia, ma con la dominazione delle caste inferiori calano le tenebre intellettuali: a questo stadio è arrivato l’Occidente, il quale, d’altronde, minaccia di propagare le proprie tenebre sul mondo intero.
Saremo forse rimproverati di parlare come se le caste esistessero dappertutto e di estendere indebitamente a tutte le organizzazioni sociali denominazioni che propriamente convengono solo all’India; tuttavia, poiché tali denominazioni definiscono in fondo funzioni che si ritrovano necessariamente in qualsiasi società, non pensiamo che l’estensione sia abusiva. È vero che la casta non è solamente una funzione, essendo anche, e soprattutto, ciò che nella natura degli uomini li rende adatti a svolgere quella funzione a preferenza di ogni altra; ma le diversità di natura e di attitudine esistono dovunque vi siano uomini.
La differenza tra una società in cui esistono caste nel vero senso della parola e una in cui non ve ne siano, consiste nel fatto che nella prima vi è una corrispondenza normale tra la natura degli individui e le funzioni da essi esercitate, con la sola riserva di errori di applicazione, che in ogni caso sono soltanto eccezioni, mentre nella seconda questa corrispondenza non esiste, o per lo meno si incontra in modo del tutto accidentale; e quest’ultimo caso si verifica quando l’organizzazione sociale è priva di un fondamento tradizionale[10]. Nel casi normali si trova sempre qualcosa di analogo all’istituzione delle caste, sia pure con le modificazioni richieste dalle condizioni caratteristiche di questo o quel popolo; ma l’organizzazione che troviamo in India rappresenta il modello più completo, come applicazione, della dottrina metafisica all’ordine umano; ragione questa che basta a giustificare il linguaggio da noi adottato a preferenza di qualsiasi altro che avremmo potuto trarre da istituzioni aventi, a causa della loro forma più particolare, un campo d’azione più ristretto, e incapaci quindi di offrire le stesse possibilità di esprimere certe verità di ordine generale[11].
Un’altra ragione che, pur essendo contingente, non è però trascurabile, è la seguente: l’organizzazione sociale del medioevo occidentale ricalcava esattamente le divisioni delle caste, corrispondendo il clero al Brâhmani, la nobiltà agli Ksatriya, il terzo stato ai Vaishya e i servi agli Sûdra; pur non trattandosi di caste nell’accezione completa del termine, una coincidenza del genere, che certo non ha nulla di fortuito, permette tuttavia di effettuare con grande facilità la trasposizione di termini necessaria per passare dall’uno all’altro dei due casi; questa osservazione troverà la sua applicazione negli esempi storici che prenderemo in esame più avanti.




[1] Secondo la dottrina indù, i tre termini «Verità», «Conoscenza», «Infinito» si identificano nel Principio supremo: è questo il significato della formula Satyam jnâna Anantam Brahmâ.
[2] In India la conoscenza (vidyâ), secondo il suo oggetto o la sua sfera, è distinta in «suprema» (parâ) e «non suprema» (aparâ).
[3] La crisi del mondo moderno, cap. III.
[4] Il centro immobile è immagine del principio immutabile, poiché il movimento serve qui a simboleggiare il cambiamento in generale, del quale esso rappresenta solo una specie particolare.
[5] Invece la conoscenza «fisica» è soltanto la conoscenza delle leggi del cambiamento, leggi che sono soltanto il riflesso dei principi trascendenti nella natura; quest’ultima, tutta intera, non è altro che la sfera del cambiamento; d’altronde, il latino natura e il greco φυσις esprimono entrambi l’idea di «divenire».
[6] Per questo motivo il termine melek, il quale significa «re» in ebraico e in arabo, ha nel contempo, e innanzi tutto, il senso di «inviato».
[7] Ta-hio, parte I.
[8] Il fatto di accordare alle considerazioni di carattere economico un’importanza preponderante, che è un carattere tipico dell’epoca nostra, può essere in particolare considerato come un segno della dominazione dei Vaishya, il cui equivalente approssimativo è rappresentato nel mondo occidentale dalla borghesia; ed è proprio questa che in effetti domina dopo la Rivoluzione.
[9] Questo atteggiamento degli Ksatriya ribelli potrebbe essere caratterizzato molto esattamente dalla definizione di «luciferismo», da non confondersi con il «satanismo», anche se tra i due termini vi è una certa connessione: il «luciferismo» non accetta di riconoscere un’autorità superiore; il «satanismo» è il rovesciamento dei rapporti normali e dell’ordine gerarchico; questo è spesso una conseguenza di quello, come Lucifero è diventato Satana dopo la caduta.
[10] È quasi superfluo far notare che le «classi» sociali, come sono intese nell’Occidente attuale, non hanno niente in comune con le vere caste, e al massimo ne sono una specie di contraffazione senza valore né portata, non fondandosi sulla differenza delle possibilità implicite nella natura degli individui.
[11] Se le cose stanno così, è perché la dottrina indù, fra tutte le dottrine tradizionali che hanno resistito fino a oggi, è quella che sembra derivata più direttamente dalla tradizione primordiale; ma su questo punto non è ora il caso di insistere.

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