L'origine e l'uso delle immagini in India
Si può dire che le immagini sono per il pio indù come i
grafici per il geometra.
RAO,
E. Hindu Iconography
Pochi
fra coloro che condannano l'idolatria, e che fanno della sua repressione uno
scopo di attività missionaria, hanno mai seriamente considerato l'uso reale
delle immagini in una prospettiva storica o psicologica, o supposto un
possibile significato nel fatto che la maggioranza degli individui di tutte le razze
e in tutte le epoche, l'odierna inclusa, a eccezione dei protestanti, degli
ebrei, e dei musulmani, si è servita di immagini in vario grado antropomorfiche
ai fini della pratica religiosa.
Per questo ci è parso utile offrire un resoconto dell'uso delle immagini in India, che si avvicini il più possibile alla mentalità di coloro che le hanno effettivamente impiegate. Mi auguro che ciò possa almeno contribuire a far cogliere la verità contenuta nelle parole di Krsna: «La via che gli uomini imboccano da qualsiasi direzione è la Mia». L'intento di spiegare l'uso delle immagini in India, terra in cui il metodo è ritenuto di natura edificante, non dovrebbe far pensare che si voglia presentare en masse indù o buddhisti come meno superstiziosi di altre genti.
Per questo ci è parso utile offrire un resoconto dell'uso delle immagini in India, che si avvicini il più possibile alla mentalità di coloro che le hanno effettivamente impiegate. Mi auguro che ciò possa almeno contribuire a far cogliere la verità contenuta nelle parole di Krsna: «La via che gli uomini imboccano da qualsiasi direzione è la Mia». L'intento di spiegare l'uso delle immagini in India, terra in cui il metodo è ritenuto di natura edificante, non dovrebbe far pensare che si voglia presentare en masse indù o buddhisti come meno superstiziosi di altre genti.
Ci
imbattiamo in ogni sorta di storie i cui protagonisti sono immagini che parlano,
si inchinano o piangono; ricevono offerte materiali e servizi, che si ritiene
«gradiscano»; sono fatte oggetto di adorazione, e a tale scopo viene evocata in
esse la presenza reale della divinità; quando l'immagine è stata approntata, i
suoi occhi vengono «aperti» durante una speciale e complicata cerimonia. È
dunque chiaro che l'immagine è da considerare animata dalla divinità. In tutto
questo, tuttavia, non c'è nulla di specificamente indiano. Miracoli simili
vengono attribuiti a immagini cristiane; come in India il tempio, anche la
chiesa cristiana è una casa abitata da Dio in un senso particolare, ma non per
questo la si considera la sua prigione, o si ritiene, in India come in Europa, che
l'onnipresenza divina resti murata al suo interno. Inoltre, superstizione o
realismo sono inseparabili dalla natura dell'uomo, e non sarebbe difficile dimostrare
che ciò vale sempre e dappertutto. Il puro esistere della scienza non basta a
difendercene; la maggioranza dell'umanità continuerà a pensare agli atomi e
agli elettroni come a delle cose concrete, che sarebbero tangibili solo che
fossero un po' meno piccole, e a ritenere che la tangibilità sia prova di esistenza;
è poi del tutto convinta che un essere, nonostante la sua nascita temporale,
possa, restando identico, sopravvivere indefinitamente nel tempo.
Chi
pensa che i fenomeni soggetti alla necessità siano per questo realtà
permanenti; o ritiene che possa esistere alcuna coscienza empirica o
individuale indipendente da un supporto materiale (sostanziale); o reputa che
tutto ciò che è venuto all'esistenza possa, così com'è, durare in eterno:
costui è un idolatra e un feticista. Anche se volessimo accettare l'interpretazione
occidentale corrente dell'induismo come un sistema politeista, non si potrebbe
sostenere che l'icona indiana sia in alcun senso un feticcio.
Come
sottolinea Guénon, «in India, in particolare, una raffigurazione simbolica che
rappresenti l'uno o l'altro degli "attributi divini", la quale riceve
il nome di pratîka, non è punto un "idolo", poiché non è mai stata
intesa in altro modo che come un supporto di meditazione e un mezzo ausiliario
di "realizzazione"». Si può trovare una valida esemplificazione di questo
concetto nel capitolo XXVI del Divyâvanadâna, in cui Upagupta costringe Mâra
che, come yaksa, ha il potere di assumere tutte le forme, a mostrarsi nelle
sembianze del Buddha. Upagupta si prosterna ma Mâra, colpito da questo gesto di
manifesta adorazione nei suoi confronti, protesta. Upagupta spiega che l'oggetto
del suo omaggio non è Mâra, ma colui che egli rappresenta, «così come coloro
che venerano immagini materiali degli angeli eterni, non onorano la creta come
tale ma gli immortali raffigurati suo tramite». Quello citato è il caso di un
essere che ha superato lo stadio dell'individualità ma che, conformemente ai
bisogni umani, è ancora rappresentato con un'immagine. Il principio applicato è
anche più chiaro nel caso delle immagini angeliche.
Di
per sé, l'icona non è Dio né alcun essere divino, ma solo un aspetto o ipostasi
(avasthâ) di Dio, il quale in ultima
analisi è senza sembianza (amûrta),
non determinato da forma (arûpa) e al
di là della forma (para-rûpa). I suoi
diversi aspetti o emanazioni sono concepiti tramite un processo di filiazione
simbolica. Concepire l'induismo come un sistema politeistico è di per sé
un'ingenuità che si può giustificare nello studioso occidentale solo con
l'eredità grecoromana del suo concetto di paganesimo; al confronto, sarebbe più
giustificata l'interpretazione musulmana del cristianesimo come di un
politeismo. In effetti, se poniamo mente alla filosofia religiosa dell'India
nella sua globalità e valutiamo il grado nel quale le sue più alte intuizioni
si sono mutate in dogmi nella pratica corrente, avremo motivo di ritenere che
la civiltà indù è tra le meno superstiziose del mondo. Mâyâ non è esattamente «illusione» ma potere creativo, śakti, il principio della
manifestazione; «illusione» (moha) è
scambiare le apparenze per cose in sé, e attaccarsi a esse in quanto apparenze,
senza tener conto del loro mutare.
Nella
Bhagavad Gîtâ, scrittura nota in
India più di quanto lo sia in Europa il Nuovo Testamento, si insegna che il
Reale «non muore e non ha nascita; colui che Lo considera un uccisore, colui
che pensa: Questi uccide, entrambi non sanno». Instancabilmente, dalle Upanisad fino ai più ardenti inni
teistici, il Divino, che è la somma realtà, è detto illimitato da forma,
impredicabile, inconoscibile. Così, nelle Upanisad, «Egli è, da questo solo
Egli va percepito»; (cfr. «Sono colui che sono»); secondo l'innologo śaiva Mânikka Vâçagar, «Egli oltrepassa
la parola che può descriverlo, incomprensibile alla mente, invisibile
all'occhio, inafferrabile dai sensi». In modo simile, nel sistema Vajrayâna (Sûnyavâda) del tardo buddhismo troviamo categoricamente asserito
che tutte le forme divine, a partire da quella del Dio personale o Sommo
Angelo, «sono manifestazioni dell'essenziale realtà del Non-essere»; la
dottrina della realtà esclusiva del Vuoto (l'«Abisso» di Böhme) è spinta al
punto di una esplicita negazione dell'esistenza di alcun Buddha o dottrina
buddhista. Inoltre, mentre abbiamo motivo di presupporre che il significato
religioso del cristianesimo dipenda dalla reale storicità di Gesù, a proposito
del Krsna Lîlâ, che la maggioranza
degli indù ritiene un evento storico, il commentatore Nîlakantha osserva che
l'importante non è il racconto del fatto, il quale non è peraltro storico, ma
si fonda su verità eterne, sulla reale relazione dell'anima con Dio,
trattandosi di eventi che non accadono nel mondo esterno ma nel cuore
dell'uomo. Ci troviamo qui di fronte a una dimensione inaccessibile anche alla
critica di più alto livello, e dove non trovano posto né la superstizione né il
cinismo. E non si è mancato di sottolineare che la solidità del cristianesimo
non potrebbe che trarre vantaggio da una emancipazione dal criterio di
storicità, come peraltro già accadde in larga misura al tempo degli scolastici.
Per
quanto riguarda l'India, è appunto in un mondo dominato da un'interpretazione
idealistica della realtà e, ciò nonostante, con l'approvazione dei suoi più
profondi pensatori, che fiorì quella che ci compiacciamo di definire idolatria.
Il già citato Mânikka Vâçagar parla continuamente degli attributi di Dio,
adduce resoconti leggendari delle sue azioni e dà per scontati l'uso e il culto
delle immagini. Nel buddhismo vajrayâna, spesso seppure non sempre a ragione
definito nichilista, lo sviluppo di un pantheon complesso, pienamente
realizzato nelle forme materiali delle immagini, raggiunge il suo apice. Lo
stesso Śankarâcârya, una delle menti più brillanti che il mondo abbia mai
conosciuto, interprete delle Upanisad e fondatore del sistema Vedanta del
monismo assoluto — seguito dalla maggioranza degli indù e analogo all'idealismo
kantiano —, fu un pio adoratore di immagini, un assiduo dei templi, un cantore
di inni devozionali. È in tutta sincerità che in una sua famosa preghiera egli
si scusa di visualizzare, durante la contemplazione, quell'Uno che non è
limitato da forma, di lodare negli inni Colui che è oltre la parola, e di rendere
omaggio nei sacri templi a Chi è onnipresente.
Esistono
in effetti nell'induismo alcuni gruppi religiosi contrari all'uso delle
immagini, com'è il caso dei Sikh; ma se perfino un maestro della statura di Śankarâcârya
non poté resistere all'impulso di amare — e l'amore esige sempre un oggetto,
espresso in forma o in parola — quanto più deve avvertirne la necessità quella
maggioranza per la quale adorare è tanto più facile che conoscere. Da qui il
filosofo deduce l'inevitabilità dell'uso delle immagini, verbali e visuali, e
ne sanziona il culto.
Un'analoga
concessione fece Dio stesso alla nostra natura mortale, «assumendo le forme
immaginate dai suoi adoratori», e rendendosi a nostra immagine per consentire a
noi di renderci come Egli è. L'Îśvara (Dio Supremo) indù, poiché tutti gli dèi
sono aspetti di Lui immaginati dai suoi adoratori, non è un Dio geloso; nelle
parole di Krsna: «Quando un pio adora con fede uno qualsiasi dei miei aspetti, sono
Io a concedergli quella fede incrollabile, e quando, tramite l'adorazione, egli
ottiene ciò che desidera, sono Io ad accogliere le sue preghiere. In qualsiasi
modo gli uomini si accostino a Me, Io li accolgo, ché la via che gli uomini
prendono da qualsiasi direzione è la Mia». Coloro il cui ideale è meno alto, raggiungono
ovviamente altezze minori; ma nessun uomo può sicuramente aspirare a ideali
superiori a quelli consentitigli dalla sua maturità spirituale. In ogni caso,
la sua crescita interiore non può certo essere favorita da una sconsacrazione
dei suoi ideali; un aiuto può solo venirgli dal massimo riconoscimento di tali
ideali, la cui validità nessuno schema, per quanto profondo, riesce a
estinguere. Tale è stato il metodo indù nella religione indiana, la quale ha
saputo adattarsi con infinita tolleranza a ogni bisogno umano. Il genio
collettivo che ha fatto dell'induismo una continuità spaziante dalla
contemplazione dell'Assoluto al culto reso materialmente a un'immagine di
argilla, non rifugge dall'incondizionata accettazione di ogni aspetto di Dio,
come è proprio dell'uomo concepire, né da alcun rituale orchestrato dal suo
spirito di devozione.
Abbiamo
già osservato in precedenza che la pluralità formale delle immagini, che
coincise con lo sviluppo dell'induismo monoteistico, deriva da varie cause, in
ultima analisi tutte riconducibili alle diverse esigenze di singoli individui e
di gruppi. In particolare, da un punto di vista storico, il fenomeno proviene
dall'inserimento di tutte le forme preesistenti e locali in una più ampia
sintesi teologica in cui esse vennero interpretate come modi o emanazioni (vyûsha) del sommo Îśvara. Con le parole
di Yâska: «Vediamo in pratica che, per via della grandezza di Dio, un solo e
unico principio di vita è celebrato in modi molteplici.
Gli
altri angeli non sono che i singoli aspetti di un unico Sé». Ciò non ha
impedito che alcuni giudicassero il culto delle immagini una pratica incolta e
vana, adatta solo a individui spiritualmente puerili; ma se perfino i più
grandi visitarono templi e adorarono immagini, è certo che questi sommi maestri
non si comportarono da ciechi o inconsapevoli. Accadde piuttosto che una tipica
necessità dell'uomo fosse riconosciuta, che fosse compresa la natura di tale necessità,
la sua psicologia sistematicamente analizzata, definite le varie fasi
dell'adorazione dell'immagine, sia mentale sia materiale, e giustificata la
diversità delle forme in base all'idea dell'emanazione e della condiscendenza
benigna. In primo luogo, le forme delle immagini non sono arbitrarie. Può darsi
che le loro caratteristiche specifiche siano di origine popolare piuttosto che
definite dal clero, ma tanto l'adozione quanto lo sviluppo successivo del
metodo avvengono entro la sfera dell'ortodossia intellettuale.
Ogni
concezione è di origine umana, benché poi l'innata tendenza al realismo conduca
l'uomo a credere nell'esistenza di cieli reali in cui la sembianza dell'angelo
è quella stessa della sua rappresentazione. Per usare le parole di Śukrâcârya,
«le caratteristiche delle immagini sono determinate dalla relazione esistente
tra l'adoratore e ciò che è adorato». Secondo un passo che Gopâlabhatta cita da
fonte ignota, l'intervento spiritualmente attivo dell'adoratore e la concreta
esistenza di un'iconografia tradizionale così si trovano riconciliate: «Sebbene
sia la devozione (bhakti) del pio a provocare il manifestarsi dell'immagine del
Beato Uno (Bhagavata), per quanto attiene all'iconografia si dovrebbe seguire
la procedura fissata dai saggi antichi». L'intero problema del simbolismo (pratîka,
«simbolo») è analizzato da Śankarâcârya. Nel sanzionare il senso della frase:
«Tutti coloro che suonano l'arpa, inneggiano a Lui», egli sottolinea che quel
«Lui» non può che riferirsi al Signore Supremo, la cui lode ricorre anche nei
canti profani.
La
ricorrenza di espressioni antropomorfiche nel testo è inoltre così motivata:
«Replichiamo che l'altissimo Signore può, se lo vuole, assumere sembianza
corporea rivestendosi della mâyâ,
allo scopo di gratificare i suoi devoti adoratori»; ma questo è un modo di
esprimersi del tutto analogico, come quando si dice che il Brahman è presente qui o lì mentre in realtà non permane in altro
che nella sua gloria. Parallelamente si può osservare che la successione degli
stili (cambiamento della forma estetica senza alterazione del modello di base)
è una testimonianza rivelatrice di mutamenti intervenuti nella natura
dell'esperienza religiosa. In Europa, ad esempio, la differenza tra una Madonna
del secolo tredicesimo e una moderna tradisce il passaggio dalla convinzione
appassionata al sentimentalismo facile. Di tale passaggio l'adoratore è
peraltro inconsapevole; dal punto di vista della edificazione, il valore di un'immagine
non dipende infatti dalle sue qualità estetiche.
Il
significato implicito nella successione degli stili, di epoca in epoca, per
quanto importante ai nostri occhi di studiosi dell'arte, si rivela nella sua chiarezza
solo a un disinteressato esame retrospettivo; al teologo che propone mezzi di
edificazione interessano solo le forme delle immagini. Mutamenti di stile
corrispondono a mutamenti di lingua: noi tutti parliamo indiscutibilmente il
linguaggio del nostro tempo. Occupiamoci ora dei processi che implica in
concreto la creazione di immagini. In un tempo molto anteriore a quello cui
risalgono le più antiche immagini di divinità sopravvissute fino a noi, ci imbattiamo
in raffigurazioni di dèi dotati di molte braccia, ornamenti, armi e altri attributi;
le loro descrizioni si possono rintracciare persino nelle lodi e nei miti
vedici. Ebbene, nell'induismo teistico, che utilizza il metodo yoga di
concentrazione onde consentire alla coscienza la sua identità con l'oggetto considerato,
indipendentemente dal fatto se l'oggetto sia o no Dio, tali descrizioni —
variamente definite dhyâna mantram o formule mantriche, sâdhanâ o mezzi — forniscono in germe il modo di visualizzare la forma
della divinità. Si consideri ad esempio la formula dhyâna indicata per la
raffigurazione di Bhuvaneśvarî (una deità femminile): «Venero la nostra eletta
signora Bhuvaneśvarî, fulgida come il sole nascente, leggiadra, vittoriosa,
annullatrice dei difetti nella preghiera, con il capo ornato da scintillante corona,
con tre occhi, dai tintinnanti orecchini di gemme, signora-del-loto, dai gesti
infondenti spirito di carità e fiducia». Alla forma così concepita è prescritta
l'offerta di fiori immaginari e altre oblazioni.
Questo
tipo interiore di adorazione mistica (mantra)
prestata a una divinità o alla forma mentale a essa corrispondente è definito
sottile (sûksma) per distinguerlo
dall'adorazione rozza (sthûla) di
un'immagine concreta, benché il termine non vada preso in sen so peggiorativo
ma puramente descrittivo. Un terzo tipo, ulteriormente in contrasto con i primi
due, è quello definito para-rûpa,
«oltre la forma», in cui l'adorazione è tributata direttamente alla divinità
com'è in sé.
Quest'ultimo
corrisponde indubbiamente all'ambizione dell'iconoclasta, ma si tratta di una
gnosi unicamente virtuale e di fatto ammissibile solo nel caso di uno yoghi
perfetto, di un autentico jîvanmukta, di chi cioè è riuscito a liberarsi dal
vincolo del nome e della forma, quale che sia l'aspetto in essi incarnato. Se
l'iconoclasta raggiungesse una simile perfezione, non sarebbe un iconoclasta. In
ogni caso, ciò che la distinzione tra i modi rozzo e sottile di adorazione
sottintende è che il raggiungimento dello scopo avviene solo tramite
l'identificazione della coscienza dell'adoratore con la forma nella quale la
divinità è concepita: nâdevo devam yajet,
«per adorare l'angelo, diventa lui». Solo quando il dhyâna trova la sua
realizzazione nel samâdhi finale (il culmine dello yoga, il cui inizio coincide con la concentrazione), la adorazione
può dirsi raggiunta. Così, ad esempio, a proposito della forma di Natarâja, che
rappresenta la danza cosmica di Śiva, si esprime Tirumûlar: Il piede danzante,
il suono dei tintinnanti campanelli, i canti intonati e i diversi passi, le
forme assunte dal nostro Maestro durante la danza, scoprili tutti dentro il tuo
cuore, così che i tuoi vincoli siano infranti.
Quando,
d'altra parte, si tratta di creare un'immagine concreta destinata
all'adorazione nel tempio o in altro luogo specifico, l'esecuzione tecnica va
affidata a un artista professionista variamente definito śilpin, «artigiano», yogin,
«yoghi», sâdhaka, «adepto» o
semplicemente rûpakâra o pratimâkâra, «raffiguratore». Costui
deve passare attraverso tutte le fasi della purificazione interiore, dell'adorazione,
della visualizzazione mentale e dell'identificazione della coscienza con la
forma evocata, e solo allora può tradurre la forma nella pietra o nel metallo.
Le formule mantriche diventano pertanto le prescrizioni che guidano il suo
lavoro e, intese in tal modo, sono comunemente incluse negli Śilpa Śâstra, che è la letteratura
tecnica professionale. Questi testi forniscono a loro volta dei dati di valore
incalcolabile per il moderno studioso di iconografia. Risulta pertanto chiaro
il legame tra la procedura tecnica e il metodo psicologico noto come yoga. L'artista,
cioè, non si affida a modelli ma utilizza una costruzione mentale, il che
spiega adeguatamente il noto carattere cerebrale dell'arte indiana. Nelle
parole dell'enciclopedico Śukrâcârya: «L'artista dovrebbe innalzare nel tempio
immagini angeliche che siano già oggetto della propria devozione, dopo aver mentalmente
visualizzato i loro attributi. La precisione dei lineamenti delle immagini deve
obbedire allo scopo del riuscito compimento di codesta visione yoga, sicché il
creatore dell'immagine deve ricorrere all'esperienza estatica, non essendovi
altro modo per raggiungere il fine richiesto, escludendo per certo il ricorso
all'osservazione diretta».
Gli
Śilpa Śâstra contengono inoltre
l'enunciazione di una serie di canoni noti come tâlamâna o pramâna, nei quali
sono descritte le proporzioni ideali delle diverse divinità, concepite come
Sovrani del mondo o altrimenti. Tali proporzioni sono espresse nei termini di
un'unità di base, che per misurare la grandezza di una figura non calcola il
numero di «teste» (come faremmo noi) contenibili, bensì la estensione della
«faccia», dai capelli sulla fronte al mento. Esiste pertanto una scala di
canoni, da quello di dieci-facce in giù fino al canone di cinque-facce, adatto
per la raffigurazione di divinità minori o di aspetto nano. Queste proporzioni
ideali corrispondono all'aspetto caratteristico dell'angelo da rappresentare e
completano la presentazione di tale aspetto altrimenti indicato attraverso l'espressione
del volto, gli attributi, il vestito e i gesti. Sukràcàrya precisa inoltre:
«Solo un'immagine eseguita secondo il canone può dirsi bella.
C'è
chi pensa che è bello ciò che si accorda alla propria immaginazione, ma per un occhio
che sa guardare ciò che non si accorda al canone non è bello». E ancora:
«L'immagine di un angelo, anche deteriorata, è da preferirsi a una umana, per
attraente che sia»; infatti le raffigurazioni angeliche sono mezzi di conquista
spirituale, scopo al quale non possono obbedire quelle che riproducono sembianze
umane. «Quando la coscienza, assorta nella contemplazione della forma (nâma, "nome", "idea"),
giunge a scorgere la sola forma e su essa si sofferma, la percezione diretta è
superflua, e ciò che resta è la referenza; per questa via si raggiunge il mondo
che oltrepassa la percezione diretta e, procedendo oltre, conquistata la
liberazione da ogni vincolo, si diventa un adepto». Ecco come, in un linguaggio
molto diverso da quello attuale, si confrontano qui nella loro antiteticità
l'idealismo e il realismo nell'arte: l'arte idealista è un mezzo per
raggiungere un grado di maggiore consapevolezza, quella che si affida al realismo
è motivata dal mero piacere. Alla luce di questa prospettiva, anche i limiti
anatomici delle figure di Giotto potrebbero essere difesi nei confronti della
mondana bellezza di quelle di Raffaello. Un altro importante motivo di
differenza fra le immagini è determinato dal grado del loro antropomorfismo.
Alcune sono meri simboli, come l'albero del Bodhi che rappresenta il Buddha al
tempo dell'Illuminazione, o i piedi del Signore effigiati a scopo di
adorazione.
Un
modello iconografico molto importante è quello dello yantra, utilizzato soprattutto dai sistemi Sâkta; si tratta di una
pura forma geometrica, spesso composta, ad esempio, di due triangoli
concatenati, rappresentanti il maschio e la femmina, gli aspetti statico e
cinetico del Due-in-Uno. Vi sono poi tre tipi di immagini a tutto tondo: le avyakta, «non manifeste», come il lingam; le vyaktâvyakta, «parzialmente manifeste», come nel caso del mukha-lingam; le vyakta, «pienamente manifeste» nei caratteri «antropomorfici» o in
parte teriomorfici. Si tratta, in ultima analisi, di forme parimenti ideali e
simboliche. Nell'uso concreto dell'immagine materiale, essa deve essere
predisposta all'adorazione attraverso una speciale cerimonia di invocazione (âvahana); e qualora l'uso dell'immagine
si intenda temporaneo, essa va successivamente sconsacrata tramite una formula
di congedo (visarjana). Fuori del
periodo di pûjâ, cioè prima della
consacrazione e dopo la sconsacrazione, l'immagine non riveste alcun carattere sacro,
come qualsiasi altro oggetto concreto. Non è il caso di pensare che la divinità
sia fatta discendere nella immagine o recedere da essa, per il semplice fatto
che l'onnipresenza non si muove; piuttosto, queste cerimonie sono autentiche
proiezioni dell'atteggiamento mentale dell'adoratore nei confronti dell'immagine.
Tramite l'invocazione egli annuncia a se stesso la propria intenzione di utilizzare
l'immagine come mezzo di comunione con la divinità; con il rito di congedo egli
annuncia che il culto è stato compiuto e che l'immagine ha cessato di fargli da
tra mite nei confronti della divinità. È solo per un cambio di punto di vista,
psicologicamente equivalente a quello della sconsacrazione formale, che
l'adoratore, avvezzo a considerare l'icona uno strumento di devozione, giunge a
valutarla come mera opera d'arte, senza altro scopo che quello della sua
percezione sensibile. Viceversa, lo studioso moderno di estetica e lo storico
dell'arte, avvezzi solo a occuparsi delle superfici estetiche e delle
sensazioni, sono incapaci di concepire l'opera come il prodotto necessario di
una determinata intenzione, ossia come qualcosa dotato di scopo e utilità. Tra
i due, l'adoratore per la cui esigenza l'opera d'arte è stata prodotta, e
l'estetologo che si sforza di isolare la bellezza dalla funzione, il più vicino
alla radice della realtà è certamente il primo.
Tratto da: http://lavianascosta.forumfree.it
Tratto da: http://lavianascosta.forumfree.it