"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 31 maggio 2014

Nino De Falco, Incontro di Dante Alighieri e il Profeta Muhammad

Nino De Falco 
Incontro di Dante Alighieri e il Profeta Muhammad*

*N.d.R.: pubblichiamo questo studio che, seppur non parta da una base di conoscenze tradizionali, ignori quanto sia implicato nel viaggio iniziatico di Dante e utilizzi una terminologia spesso non idonea, propone una lettura inedita delle terzine relative all'incontro descritto nella Divina Commedia tra Dante e il Profeta Muhammad. Lasciamo al lettore il giudizio finale di questa interpretazione.
 
Nino de Falco
Incontro di Dante Alighieri e il Profeta Muhammad
Inf. XXVIII vv. 22-63

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi, e con le man s’aperse il petto,
dicendo: “Or vedi, com’io mi dilacco!

Vedi come storpiato è Maometto!
(vv. 28-31)

Nella scenografia raccapricciante della nona bolgia, Dante costruisce una delle più drammatiche, significative e commoventi allegorie del suo poema. In quattordici terzine, il poeta nasconde, sotto il velame di versi strani, il senso vero della scena in cui è protagonista anche il Profeta dell’Islam.
Era l’epoca della resistenza fanatica al nuovo che ci arrivava d’oriente, resistenza di coloro che, in un occidente chiuso, poco informato e molto diffidente, ne temevano il confronto. Quel ch’è portato in scena, con quest’episodio, è un “incontro” nel senso letterale ed allegorico.
Il viaggio di Dante, come Virgilio spiega a Maometto, è “per dar lui esperienza piena” (v.48), ed è quello d’un inviato, prescelto per un messaggio profetico. In una medesima luce, su quel palcoscenico, si muove un personaggio che aveva impresso alla storia, dal VII secolo, una svolta epocale e la cui consacrazione ad inviato e profeta, era raccontata in un mistico e allegorico itinerario ultraterreno che divenne importante genere letterario, nel quale si cimentarono non solo autori di prosa, ma anche sommi poeti mistici in arabo e in persiano.
A questo ciclo di simbolici itinerari ultraterreni Dante guardò col rispetto dell’uomo di cultura, lontano dal fanatismo apologetico che animava i nostri teologi del suo tempo. Fu in quel ciclo che Dante scoprì il format ideale per costruire il più grande capolavoro della poesia.
Con questo, vogliamo anche dire che Dante “non ha copiato”. Col suo genio e la sua fantasia, poteva cercarsi un altro modo per raccontarci l’aldilà. Non lo ha fatto, ed è segno che la sua fu, decisamente, una scelta.
Al tempo in cui nacque la Divina Commedia, la cultura arabo-islamica aveva già da sei secoli, una presenza effettiva, nell’occidente cristiano, quello di Spagna, Portogallo e Sicilia e, per riflesso, sul resto degli stati europei, L’Italia anche, per la sua particolare posizione geografica e culturale.
Il diffondersi di nuove conoscenze tecniche, scientifiche, matematiche, e, dell’incremento degli studi filosofici, teologici e letterari, mediante la diffusione dell’idioma arabo parlato e scritto, o le traduzioni in latino e in lingue neolatine iberiche e francesi, in sette secoli circa di predominio della cultura orientale, tutto ciò rimodellava nei territori conquistati, uomini e cose.
Ciò non poteva lasciare indifferente il mondo cristiano a cui la cultura araba non offriva soltanto nuovi modi del viver civile, ma anche altri schemi di pensiero: quello greco platonico ed aristotelico da essa rielaborato, quello neoplatonico che tanto influenzava il misticismo mussulmano, ma anche quello della stessa religione mussulmana del Corano e dei Hadith.
Una convivenza di oltre sei secoli, tra comunità tanto diverse, non poteva non produrre vicendevoli aggiustamenti, nei quali, preponderante doveva essere l’influenza dei nuovi conquistatori.
Documenti cristiani di questo lungo periodo testimoniano della grande preoccupazione che dominava le alte cariche ecclesiastiche, per il fascino crescente che esercitava, sul gregge cristiano, la lingua dei conquistatori, la loro poesia, i racconti e gli scritti in arabo, scientifici, letterari e religiosi, la cui diffusione era resa più agile sin dall’ottavo secolo, con la fabbricazione della carta di stracci, tecnica trasmessa agli arabi dai cinesi. Essendo l’ambito di questa mia esposizione riservato ad un argomento più ristretto, mi limito a citare un passaggio di una lettera scritta nella metà del IX sec., da Alvaro, vescovo di Cordova, che traggo dalla “Prolusione al corso di Storia e istituzioni mussulmane”: Università di Roma, 21 febbraio 1914, al capo VIII della “Raccolta di scritti editi e inediti” di C.A.Nallino –Roma, Istituto per l’Oriente (1941):
“Molti dei miei correligionari leggono le poesie e i racconti degli Arabi, studiano gli scritti dei filosofi e teologi maomettani, non per confutarli, ma per apprendere come abbiano ad esprimersi in arabo con maggior correttezza ed eleganza. Dove trovar oggi un laico, il quale legga i commenti latini alla Sacra Scrittura? Chi studia, fra loro, i Vangeli, i Profeti, gli Apostoli? Ahi, tutti i giovani cristiani notevoli per ingegno conoscono solo la lingua e la letteratura degli Arabi, leggono e studiano con zelo i libri arabici formandosene grandi biblioteche a prezzo di enormi spese, e dovunque proclamano a gran voce, essere questa letteratura degna di ammirazione… Fra migliaia di noi appena uno si trova che sappia scrivere ad un amico una lettera latina in modo tollerabile; ma
innumerevoli sono coloro che possono esprimersi in arabo, nel modo più elegante e comporre poesie in questa lingua con arte ancor maggiore degli arabi stessi”.
È facile intuire che in questa letteratura orale e scritta, il tema religioso avesse un ruolo importante, come i racconti del viaggio del profeta nell’aldilà. Ne circolavano diverse versioni, ispirate da una base coranica e da alcuni detti del Profeta, ed alimentavano la pietà popolare dei fedeli mussulmani.
Proprio ai tempi di Dante, una di queste versioni era stata tradotta, alla corte di Alfonso X di Castiglia, (il Savio), in Latino, catalano, castigliano (riassunto), ed in provenzale.
Ma oltre ai racconti del viaggio di Maometto, in prosa ed in stile popolare, la cultura islamica produceva, ispirati al medesimo tema del viaggio oltremondano, mirabili capolavori di poesia, nei quali è protagonista il poeta stesso che racconta il suo mistico andare nell’aldilà, in un viaggio allegorico di purificazione, verso il trono di Dio, attraverso i tre mondi ultraterreni.
L’attenzione suscitata nelle sfere del magistero cristiano e dei governanti ad esso fedeli, non nasceva certo da curiosità intellettuale e amor del nuovo, come poteva invece accadere tra i colti laici, ma era dettata da preoccupazioni pastorali, come il pericolo d’inquinamento dottrinale, la disaffezione al culto, il rischio di apostasie.
A mobilitarsi, furono predicatori e scrittori ecclesiastici, impegnati in una vera controffensiva, con l’obbiettivo di dimostrare la falsità della religione islamica e, tra tante cose, la puerilità e materialità del suo mondo escatologico. Bersaglio puntuale fu il racconto del viaggio del profeta, i suoi scenari fantastici, nei quali colpisce la descrizione suggestiva della felicità dei beati, ch’è anche godimento
sensuale, conforme alla lettera di alcuni versetti coranici, ma intesa in senso allegorico, anche allora, da autorevoli esponenti della teologia mussulmana.
Le rapide riflessioni premesse saranno utili per seguire l’interpretazione nuova che diamo dell’incontro di Dante col profeta dell’islam.

Commento dell’incontro
Canto XXVIII, 22-27

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ‘l triste sacco
che merda fa di quel che si trangugia

Le due terzine della scena, sono l’amara parodia di quanto si diceva e scriveva d’ingeneroso e triviale, sulla persona del profeta. L’immagine della botte sconnessa che perde e del corpo squartato, dall’alto in basso, e che perde le viscere, rappresentano quanto Dante ben sapeva della polemica a colpi bassi ingaggiata contro i “mori”, con argomenti a logica di tempo.
All’epoca di Dante, andavano per la maggiore, come difensori della fede, tre Raimondi dell’ordine di S. Domenico. Il primo, Raimondo da Pennafort, era riuscito ad introdurre il tribunale dell’Inquisizione in Castiglia. Fu superiore generale del suo ordine, confessore di Gregorio IX il papa fondatore dell’Inquisizione e raccoglitore delle “Decretali”. Questo Raimondo morì centenario nel 1275 ed ebbe tutto il tempo utile per impiantare in quasi tutti i regni cristiani quel tribunale.
L’altro era Ramon Martì e non gli era da meno quanto a zelo e scienza.  Compose il “Pugio fidei”, contro i mori e i giudei. Il terzo, ch’era anche il più famoso, faceva Lullo di cognome. Arabista catalano, scrittore colto e predicatore, armato della sua apologetica, se ne andò in Algeria a confutare i mussulmani, in un centro culturale molto importante all’epoca, Bugia, con porto e sede di un’ università ed un osservatorio astronomico, e centro d’irradiazione delle nuove matematiche col calcolo decimale e l’uso del segno dello zero.
Quest’ultimo Raimondo era l’autore di “El libro del gentil”, reperibile al tempo di Dante, in catalano, castigliano e provenzale. Dante non poteva ignorarlo, come non ignorava quanto la pastorale cristiana del suo tempo, si accanisse nell’attribuire all’islam ortodosso, l’interpretazione sensuale della “jocunditas” del paradiso islamico, contro quanto invece ritenevano autorevoli teologi mussulmani, quali Avicenna, Averroè e Al-Ghazzali.
Dante non da mai apertamente un giudizio su questa polemica. Ne andava della sua sicurezza personale e anche della sua famiglia. Ma è da credere che ne andasse anche della sopravvivenza della Divina Commedia. In altre circostanze e situazioni delicate, Dante aveva affidato il suo pensiero ad anagrammi per comunicare con i Fedeli d’Amore, la sua setta.
L’incontro con il profeta dell’Islam, data la figura del personaggio di per sé stesso e il ruolo da lui occupato nella storia e la cultura del Medio Evo e dato l’argomento del suo poema, non può non rivestire un significato particolare.
Il verso 28: “mentre che tutto in lui veder m’attacco”, letto da sette secoli in modo grossolano a significare un Dante curioso, quasi divertito che sta lì ad ammirare una goffa apparizione infernale, vuol significare invece, il suo interesse per chi gli aveva offerto, con pochi versetti coranici ed alcuni detti della tradizione, proprio l’impianto di base della Commedia, in un genere letterario ch’è tutto un’affascinante invenzione orientale.
Dante non poteva sfuggire a quest’incontro e non poteva sorvolarlo o usarlo per una parodia ludica, così come l’han vista non pochi commentatori di Dante. Le quattordici terzine che Dante riserva all’episodio, contengono tanti versi decisamente strani che nascondono il suo vero pensiero, che come scopriremo, è al di fuori del coro dei defensores fidei suoi coevi.
Sul significato dei primi versi dell’incontro con Maometto, il pensiero del poeta è celato nell’anagramma del terzo verso:
v 24
“rotto dal mento infin dove si trulla”

L’anagramma è:
“sì volto l’intendi tu fratel Ramondo”.
(Ramondo per Raimondo come in Par. VI, 134)

“volto”: girato,travisato, storpiato.

Ma a quale dei tre Raimondi allude Dante? La risposta è alla fine del primo verso della terzina: “lulla”, parolina messa lì a mo’ di codice, trucchetto non strano per chi era iniziato al suo linguaggio segreto, nel quale anche parole storpiate o assonanze strane servivano da richiamo per cercare l’anagramma d’una parola o d’una frase. Su questo tema suggestivo e interessante, sarebbe utile una ricerca seria.
La terzina seguente, la più triste e villana, contiene anch’essa un anagramma, al verso 27:
“che merda fa di quel che si trangugia”

Anagramma:
“ch’è quel che tu fingi d’isra e maaraj”

Quest’anagramma parla arabo. “Isra” vuol dire viaggio notturno (nel nostro caso è quello dalla Mecca a Gerusalemme). “Mi’raj” e, dialettalmente, ma’raj, vuol dire ascensione (nel nostro caso è la salita da Gerusalemme al cielo. “Isra” e “mi’raj” è il titolo dato ai viaggi mistici d’oltretomba nella tradizione mussulmana, a cominciare da quello di Muhammad. Il verbo fingere (come Purg. XXXII, 69) sta per “raffigurare”. Il senso dell’anagramma è l’accusa che Dante fa a Raimondo Lullo di aver raffigurato in modo triviale i contenuti di quel racconto e di non averne colto il valore allegorico. Il pensiero celato sotto i versi di queste due terzine, mostra un Dante ben lontano dallo spirito dei tanti Raimondi della sua epoca.
I versi che seguono sono di un’importanza senza uguali per un informazione più completa, sul genere e la qualità delle conoscenze di Dante sul mondo islamico e le sue tradizioni ed assurgono in proposito a valore di testimonianza sua personale. Proviamo a decodificarla.
Dopo la cruda descrizione dell’avvicinarsi di quel dannato, il poeta si dice preso da un’intensa curiosità e un interesse che andava oltre lo spettacolo di minugia e di sacco. È dal v. 28 che la scena s’illumina d’un importante significato mai rilevato e che prosegue in crescendo sino al termine dell’episodio:
“Mentre che tutto in lui veder m’attacco
Guardommi, e con la man s’aperse il petto
Dicendo: or vedi com’io mi dilacco!
Vedi come storpiato è Maometto!”

Gli attori di questa scena impressionante, simulano con una estrema concisione di parole e gesti, quel che sanno l’un dell’altro. Il gesto che fa Maometto, con la mano, per aprirsi il petto poteva capirlo solo un esperto conoscitore dell’episodio che dette inizio al viaggio del profeta, quando l’Angelo Gabriele gli aprì il petto, per estrarne il cuore, svuotarlo per poi purificarlo con l’acqua sacra della fonte di Zemzem, proprio quella alla quale si erano dissetati Agar schiava di e concubina di Abramo e suo figlio Ismaele, progenitore della stirpe araba.
Dopo la purificazione, il cuore del Profeta venne riempito di sapienza e reso degno del suo viaggio notturno e dell’ascesa al più alto dei cieli. È importante notare che la voce “dilacco” si trova solo in Dante che ha forgiato questo verbo servendosi della radice araba “dalaqa” che significa “versare, svuotare”. Il significato di questo gesto è descritto nell’anagramma del verso 30, l’ultimo della terzina dicendo:
“or vedi com’io mi dilacco!

Anagramma dicendo:
“come Iddio il cor mi cavò”

La voce verbale forgiata da Dante non significa squarciare ma cavare, estrarre. Così Maometto contrappone quest’immagine spirituale di sé stesso, a quell’altra che sa di vuoto e carne squartata. E Dante pone poi sulle labbra del profeta, la triste constatazione:
“Vedi come storpiato è Maometto”!
Entra poi sulla scena un altro personaggio, la cui presenza rischiara meglio tutto l’episodio e dice molto della conoscenza che Dante aveva di certe tradizioni islamiche che potevano essere note solo in ambienti particolarmente interessati ad esse. È da notare ch’è lo stesso Maometto ad attirare l’attenzione di Dante sulla nuova figura, come a testimoniare un’uniformità di sentire tra lui stesso e
colui ch’è considerato causa di divisione nell’Islam. v. 32-33:
Dinanzi a me s’en va piangendo Ali
Fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
La presenza di Ali in quest’episodio, non è puramente coreografica ed è necessario pertanto capire le ragioni per cui Dante lo ha portato in scena.  Nel sentimento dei mussulmani, Ali, cugino e genero del profeta è il califfo che dette battaglia contro il suo rivale Muawiya, per difendere l’ideale d’un califfato conforme allo spirito della prima tradizione dell’islam. Nasce perciò nel 657 la setta religiosa degli Sciiti, divisi dall’islam tradizionale (Sunniti), su questioni giuridiche, ma animata fin dal suo nascere, da fermenti di profonda spiritualità che sfociarono poi nel sufismo, un vasto movimento teologico e filosofico di mistica mussulmana.
In seno al sufismo, fiorirono confraternite, centri di studi, conventi, dove vissero ed insegnarono grandi maestri di spiritualità e famosi mistici. La pietà popolare vedeva in Ali, non solo il paladino del vero Islam, ma anche il vate giullare, il trovatore del nuovo spirito religioso, per cui gli si attribuirono, anche a torto, vari componimenti poetici, nati in seno alla spiritualità sciita.
Come per tutti i movimenti religiosi che si muovono ai margini della tradizione, anche per i “sufi” suonò la campana del sospetto e spesso furono perseguitati. Ali, coraggioso combattente, è anche considerato il prototipo dello spirito cavalleresco arabo, la “futuwwa”, che consiste nella formazione al coraggio e alle virtù civiche, morali ed ascetiche. La futuwwa esercitò nel medio evo, una notevole influenza sugli ordini cavallereschi cristiani, Templari ed altri, sorti appunto al tempo delle crociate.
Eroe sconfitto nella sua guerra, egli vive nella coscienza islamica, come la figura del martire, vittima dell’ingiustizia e della mondanizzazione del potere e, come tale bandiera di radicalismo religioso. Adesso possiamo ritornare ai versi citati che parlano di Ali.
Al v. 32, il califfo “piangendo” precede il suo profeta. Nel linguaggio segreto in uso tra i Fedeli d’Amore”, la setta di cui Dante è l’anima, il verbo piangere ha il significato di poetare in gergo, in codice segreto. E’ chiara l’allusione al linguaggio esoterico usato nei poemi mistici d’ ispirazione sciita. L’andare di Ali al v. 32, dinanzi a Maometto è un richiamo all’immagine del giullare o trovatore che cammina cantando e danzando dinanzi al personaggio di cui tesse le lodi.
Al v.33, Ali è presentato “fesso nel volto dal mento al ciuffetto”. Qui Dante mostra di essere a conoscenza di quella tradizione mussulmana, secondo la quale il profeta stesso aveva predetto a Ali che di spada sarebbe stato colpito proprio in quel modo, per la sua fedeltà all’Islam. All’ultimo verso di questa terzina, come nelle tre precedenti si cela un anagramma:
“fesso nel volto dal mento al ciuffetto.”

Anagramma:
“v’è ‘n fesso tutto ‘l lamento del califfo

Per tre terzine ancora, Dante fa parlare Maometto che addita al poeta chi sono i seminatori di scandalo e di scisma: “Tutti gli altri che tu vedi qui”. La pena ad essi inflitta, nell’inferno dantesco e cioè d’esser fessi così, ci richiama a quella inflitta agli stessi peccatori, nell’inferno del mi’raj, il viaggio islamico nell’al di là,  ove essi subiscono il taglio delle labbra. Il contrappeso somiglia. E’ identica invece la condanna a guarire ogni volta dalle ferite, per esser di nuovo colpiti, ad ogni giro.
Ma tu chi sei’… Maometto mostra di non conoscer Dante: lo crede un’anima che indugia a raggiungere il suo destino di condannato. Abbiamo visto invece, dall’inizio dell’incontro, quanto si adoperi Dante, in chiaro ed in sibillino, a mostrare che aveva conoscenza della persona di cui dice: “… tutto in lui veder m’attacco …” di Maometto parlavano sette secoli di storia con verità e storpiature. Per Dante, la sua storia era appena cominciata. Anche per lui essa continuerà, con verità, reticenze e storpiature. Del profetismo del primo, risuonavano prose e poesie, che largo spazio davano al racconto del suo viaggio, itinerario allegorico d’un percorso da lui vissuto tra mondo e Dio. In quello a parlare era Gabriele. Per Dante, è Virgilio, il maestro, come appunto in quest’incontro:
v. 46
“Né morte il giunse ancor, né colpa il mena,”
Rispose il mio maestro, a tormentarlo;
Ma per dar lui esperienza piena”

Nel genere letterario nel quale Dante impiantò il suo poema. il viaggio è un’esperienza che il viaggiatore dovrà raccontare, al suo ritorno tra i viventi,  come investito d’un messaggio profetico. Ma è un’allegoria d’un percorso spirituale realmente vissuto, come Virgilio afferma a Maometto:
v. 51
“E quest’è ver così com’io ti parlo”

Per la terzina seguente, vv 52-54, è da sottolineare che a meravigliare i dannati, non è la vista di quella scena insolita, ma quel che odono affermar da Virgilio, di esperienza piena e di veridicità del viaggio di Dante.  Dopo le parole di Virgilio, al cui ascolto si erano fermati i dannati “per maraviglia obliando il martirio”, Maometto vuole ancora parlare a Dante, ma questa volta mostra di aver capito chi gli sta di fronte. La scena dell’incontro si carica allora di fatti e personaggi inaspettati, al di fuori del primo contesto, come a provare che la storia aveva posto sia l’uno che l’altro, ognuno nella sua epoca, dinanzi alla stessa minaccia di secolarizzazione dell’autorità spirituale. Dante riveste le parole di Maometto d’un tono profetico:
vv. 55-60
“or dì a Fra Dolcin dunque, che s’armi,
tu che forse vedrai lo sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,

Sì di vivanda, che stretta di neve
Non rechi vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria lieve.”

Qui Dante mette sulle labbra di Maometto una profezia (anche se fittizia, il fatto essendo già avvenuto), su di un argomento che riguarda la Chiesa, il papa, le sette religiose, in un contesto storico tutto cristiano.  E perché proprio Dolcino? Di questo personaggio si favoleggiava quand’era ancora in vita, come di tutti coloro che, in bene o in male, se la prendono con il potere. Dolcino era un laico colto, scriveva in latino e conosceva la Bibbia. Apparteneva a quell’area dei francescani “spirituali”, il cui radicalismo in religione e politica fu alla base di scissioni ideologiche e di conflitti armati. Dolcino fu creduto da migliaia di fedeli, che assieme a lui, praticavano la comunione dei beni e lo seguivano nelle sue peregrinazioni, tra il Piemonte e il Trentino.
Il movimento cominciò a preoccupare e, a torto o a ragione, egli stesso e i suoi seguaci, erano considerati una setta eretica. Quel che c’era o no di eretico nel predicare e praticare quel modo di povertà e condivisione dei beni, non poteva certo, da solo, impensierire il potere ecclesiatico. Più grave e destabilizzante era invece la loro accusa rivolta alla Chiesa di secolarizzazione, di simonia e di disprezzo della povertà evangelica, nelle lussuose corti di papi e vescovi. È chiaro allora che anche Dante era eretico alla stregua di Dolcino, o come l’incolto contadino Gherardo Segarelli, finito sul rogo, o Fra Jacopone da Todi, poeta e nemico (anche armato) di Bonifacio VIII, e tanti altri spirituali, frati e non frati che, anche se passati alla storia come esaltati ed invasati e alle cronache del tempo, come dissoluti, facinorosi e pezzenti, affrontavano i rischi della scomunica, della prigionia, delle torture e del rogo.
La vicenda o l’avventura di Fra Dolcino è, senza dubbio, un fatto emblematico e come tale portato da Dante alla ribalta, in un contesto tra i più significativi e qualificanti della Divina Commedia. Esso ricorda quanto era acceso lo scontro ai tempi di Dante, lo scontro tra chi sentiva la Chiesa troppo lontana dall’ideale evangelico di povertà e purezza e chi in essa usava il potere per fini terreni. Lo stesso accanimento persecutorio e la ferocia da bolgia infernale, con la quale fu condotta la crociata di Clemente V, l’avignonese, contro Dolcino, non oscurano altre atrocità che Dante conosceva bene, come la fine dei Templari e altre persecuzioni, come quelle di cui era vittima lui stesso e la sua setta dei Fedeli d’Amore. In Dolcino c’è tutto questo.
La profezia di Maometto prende allora rilievo, sullo sfondo di quelle rivolte e repressioni. Con l’avvertimento ch’egli invia a Fra Dolcino, egli si mette dalla parte dei perseguitati per una religione dei puri e distaccata da ambizioni mondane. È come se Dante volesse restituire a Maometto il suo carisma profetico, per rimproverare alla Chiesa il tradimento della sua missione. Il v. 29 che dice:
“Guardommi e con le man s’aperse il petto”,

allude alla purificazione del cuore, come la presenza di Ali sulla stessa scena, allude alla virtù del distacco dalle ambizioni terrene. Siamo alla fine dell’incontro. Le due terzine della profezia confermano la grande libertà di spirito, con la quale Dante sentiva il vento di novità che da sette secoli spirava dall’oriente e che, approdando nel nostro vecchio mondo, lo costringeva al confronto con una cultura che, nata altrove, ma trapiantata in seno all’occidente e vivendo con noi, si rendeva testimone del nostro modo di sentire gli obblighi civili e religiosi, scaturiti da un’unica fonte biblica. Spettatore critico dei nostri modi di vita, l’Islam, già presente in mezzo a noi da sette secoli, non mancava di emettere il suo giudizio che Dante ascolta come voce profetica, come è profetica la sua stessa voce che risuona anch’essa nell’allegoria d’un viaggio nell’aldilà, intrapreso “per dar lui esperienza piena”.
Le terzine dedicate a fra Dolcino sono due. Esse sono incorniciate dagli anagrammi del primo e dell’ultimo dei sei versi:
“Or dì a Fra Dolcin dunque, che s’armi”

Anagramma
“Dì a’ cor fidel ch’ora dunque s’armin”

Così Dante affida alle parole di Maometto e al loro anagramma, il compito di affiancare la vicenda ormai famosa di Fra Dolcino a quella ancora segreta o soltanto sospettata dei fedeli d’amore di cui Dante stesso era il capo e l’anima.
Tra poco Maometto scomparirà dalla scena, ma Dante non lo farà più apparire come in un girone infernale: egli lo ritrae nella posa di chi, normalmente, mentre sta per terminare un’ importante raccomandazione, si gira e se ne va per la sua strada, vv.61-63:
Poi che l’un piè per girsene sospese,
Maometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.

“Esta parola”, non può riferirsi che al contenuto dell’anagramma del v. 60,
“Ch’altrimenti acquistar non sarìa lieve”

Il cui anagramma è quanto mai sconvolgente:
“Sai, anch’altri santi, Clemente qui vorrìa”

L’anagramma svela le preoccupazioni di Dante per la sua sorte e quella degli “altri santi”, i cor fidel dell’anagramma precedente, e cioè i Fedeli d’Amore esposti a persecuzione, e anche al rogo sotto il pontificato dell’avignonese Clemente V, il papa che aveva indetto la crociata contro gli spirituali di fra Dolcino.

Tratto da: http://www.raphelmay.info/incontro-di-dante-alighieri-e-il-profeta-muhammad-2/

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