"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 13 luglio 2014

René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale - XIX - Ascesi ed ascetismo

René Guénon 
Iniziazione e realizzazione spirituale 

XIX - Ascesi ed ascetismo

In diverse occasioni abbiamo avuto modo di constatare un accostamento assai poco giustificato fra i termini «ascetico» e «mistico»; per dissipare ogni confusione a questo proposito, basta rendersi conto che la parola «ascesi» definisce propriamente uno sforzo metodico per raggiungere un certo scopo, che nel caso in questione è d’ordine spirituale[1], mentre il misticismo, in ragione del suo carattere passivo, implica piuttosto, come abbiamo detto spesso, l’assenza di qualsiasi metodo definito[2].
Il termine «ascetico» d’altra parte, ha assunto un significato più ristretto che non «ascesi», in quanto viene applicato quasi esclusivamente al dominio religioso, ed è forse questo il motivo che spiega fino ad un certo punto la confusione di cui parliamo, perché va da sé che tutto quanto è «mistico», nell’attuale accezione di questo termine, appartiene del pari a questo stesso dominio; ma è bene evitare di credere che, inversamente, tutto quel che è d’ordine religioso sia, per questo solo fatto, più o meno strettamente apparentato al misticismo, strano errore commesso da certi moderni e soprattutto, è bene notarlo, da coloro i quali sono più scopertamente ostili a qualsiasi religione.
Vi è poi un altro termine derivato da «ascesi», e precisamente «ascetismo», che forse si presta ancora di più alle confusioni, in quanto nel linguaggio corrente il suo significato primitivo è stato talmente travisato da esser quasi esclusivamente divenuto un sinonimo di «austerità». Ora, si sa che i mistici si dedicano in gran maggioranza ad austerità talora anche eccessive, e che per di più non sono neanche i soli in quanto, grazie all’idea assai diffusa che attribuisce alla sofferenza, specie se volontaria, uno specifico valore in se stessa, questa è una caratteristica molto diffusa nella «vita religiosa» come la si concepisce in Occidente; è comunque certo che tale idea, la quale in generale non ha niente in comune con il significato originale dell’ascesi e non le è minimamente solidale, è ancor più accentuata fra i mistici, benché, diciamolo ancora una volta, sia ben lungi dall’appartener loro in esclusiva[3]. D’altro canto, ed è ciò che permette di capire come l’ascetismo abbia potuto comunemente prendere un tale significato, è naturale che qualsiasi forma d’ascesi, e qualsiasi regola di vita avente uno scopo spirituale, rivesta agli occhi della «gente di mondo» un’apparenza di austerità, pur non implicando affatto l’idea di sofferenza, semplicemente perché, per forza di cose, lascia da parte o tiene in non cale quelle cose che invece essi considerano più importanti o addirittura essenziali alla vita umana, e la ricerca delle quali occupa tutt’intera la loro esistenza.
Quando si parla di ascetismo come si fa di solito, un’altra cosa pare implicita: e cioè che quel che normalmente doveva essere soltanto un mezzo a carattere preparatorio, troppo spesso viene preso come un vero e proprio fine; non crediamo affatto di esagerare dicendo che per molti spiriti religiosi l’ascetismo non ha minimamente per scopo la realizzazione effettiva di stati spirituali, ma ha come unico movente la speranza di una «salvezza» che si concreterà solo nell’«altra vita». Non è nostra intenzione insistere oltre misura su questo argomento, però ci pare che, in un caso simile, la deviazione si trovi non soltanto nel significato del termine, ma proprio nella cosa che esso definisce; e diciamo deviazione, non certo pensando che nel desiderio della «salvezza» ci sia qualcosa di men che legittimo, ma perché una vera e propria ascesi deve proporsi dei risultati più diretti e precisi. Risultati di questo genere, qualunque sia il grado a cui possono arrivare, e pur rimanendo nell’ordine exoterico e religioso, sono il vero scopo dell’«ascetica»; ma quanti, almeno ai giorni nostri, hanno il sospetto che essi possano esser raggiunti mediante una via attiva, cioè del tutto diversa da quella passiva dei mistici?
Comunque sia, il significato proprio del termine «ascesi», se non quello dei suoi derivati, è sufficientemente esteso per potersi applicare a tutti gli ordini e a tutti i livelli: dal momento che si tratta essenzialmente di un complesso metodico di sforzi tendenti ad uno sviluppo spirituale, si può parlare altrettanto bene, non solo di un’ascesi religiosa, ma anche di un’ascesi iniziatica. Soltanto è opportuno osservare che lo scopo di quest’ultima non è soggetto a nessuna delle restrizioni che necessariamente limitano, in certo qual modo per definizione, lo scopo dell’ascesi religiosa, in quanto il punto di vista exoterico, cui questa è legata, è in relazione esclusiva con lo stato individuale umano[4], mentre il punto di vista iniziatico comprende la realizzazione degli stati sopraindividuali fino ad includere lo stato supremo ed incondizionato[5]. È evidente inoltre, che gli errori o le deviazioni concernenti l’ascesi, che possono prodursi nel dominio religioso, non possono trovar posto in quello iniziatico, stante che, in definitiva, essi sono il prodotto dei limiti inerenti al punto di vista exoterico come tale; quel che dicevamo poco fa, in particolare dell’ascetismo, trova la sua unica spiegazione nell’orizzonte spirituale più o meno strettamente limitato proprio alla generalità degli exoteristi esclusivi, e per conseguenza degli uomini «religiosi» nel senso più comune della parola.
Il termine «ascesi» come lo intendiamo noi qui, è quello che, nelle lingue occidentali, ha maggiore affinità con il sanscrito Tapas: è vero che questo contiene un’idea che non è direttamente espressa dall’altro, ma quest’idea, a rigore, si trova ad essere racchiusa nel concetto che dell’ascesi ci si può fare. Il senso primitivo di Tapas è in effetti quello di «calore»; nel caso in questione si tratta evidentemente del fuoco interiore[6] che deve bruciare le cosiddette «scorze» dei Kabbalisti, cioè in definitiva distruggere tutto ciò che nell’essere è d’ostacolo ad una realizzazione spirituale; vi è quindi qualcosa che caratterizza, nel modo più generale, qualsiasi metodo preparatorio a tale realizzazione, metodo che si può considerare come una purificazione preventiva in vista del conseguimento di qualunque stato spirituale effettivo[7]. Se Tapas assume spesso il significato di sforzo penoso e doloroso, non è perché si attribuisca un valore od un’importanza speciale alla sofferenza in se stessa, né perché questa, nella fattispecie, venga riguardata come qualcosa di più di un fatto «accidentale»; ma gli è che, per la natura stessa delle cose, il distacco dalle contingenze è necessariamente sempre penoso per l’individuo la cui stessa esistenza appartiene appunto all’ordine contingente. Niente vi si può trovare che sia assimilabile ad una «espiazione» o ad una «penitenza», idee queste le quali svolgono viceversa una funzione di primo piano nell’ascetismo come lo si intende volgarmente, e hanno senza dubbio la loro ragione d’essere in un aspetto particolare del punto di vista religioso, ma che evidentemente sono fuori posto nel dominio iniziatico, e comunque nelle tradizioni non rivestite d’una forma religiosa[8].
Si potrebbe dire, in fondo, che ogni vera ascesi è essenzialmente un «sacrificio», sacrificio che, come abbiamo visto altrove, in tutte le tradizioni e sotto qualsiasi forma si presenti, costituisce l’atto rituale per eccellenza, quello nel quale si riassumono in qualche modo tutte le altre forme. Quel che nell’ascesi viene gradualmente[9] sacrificato in questo modo, è l’insieme delle contingenze di cui l’essere deve giungere a sbarazzarsi, trattandosi di altrettanti ostacoli che gli impediscono di innalzarsi ad uno stato superiore[10]; ma se egli può e deve sacrificare queste contingenze, è perché esse dipendono da lui, e di lui in qualche modo fanno parte ad un titolo qualsiasi[11]. Poiché d’altronde la stessa individualità non è che una contingenza, si può ben dire che l’ascesi, nel senso più completo e profondo, non è in definitiva che il sacrificio dell’«io» compiuto per realizzare la coscienza del «Sé».



[1] Non è forse inutile ricordare che il termine d’origine greca «ascesi», non ha rapporti di sorta con il latino ascendere, come ritengono coloro che a questo proposito si fanno ingannare da una similitudine puramente fonetica e del tutto accidentale tra le due parole; d’altronde, anche se l’ascesi mira ad ottenere un’«ascensione» dell’essere verso stadi più o meno elevati, è evidente che il mezzo non deve in alcun modo esser confuso con il risultato.
[2] Vedere Aperçus sur l’Initiation, pagg. 12-13.
[3] Vedere Aperçus sur l’Initiation, pagg. 177-178.
[4] È evidente che qui è in causa l’individualità intesa nella sua integralità, con tutte le estensioni di cui essa è suscettibile, ché, diversamente, lo stesso concetto religioso di «salvezza» non avrebbe in realtà nessun significato.
[5] Ricordiamo di sfuggita che in ciò risiede la differenza essenziale tra «salvezza» e «liberazione»; non soltanto queste due mete non sono dello stesso ordine, ma nemmeno di ordini i quali, benché diversi, potrebbero ancora esser messi a confronto, in quanto non può esistere nessuna comune misura fra uno stato condizionato qualsiasi e lo stato incondizionato.
[6] La relazione fra questo fuoco interiore e lo «zolfo» ermetico, anch’esso concepito come un principio di natura ignea, è talmente evidente che all’argomento ci pare sufficiente accennare di sfuggita (vedere La grande Triade, cap. XI).
[7] Ciò può essere accostato a quanto abbiamo detto a proposito della vera natura delle prove iniziatiche (Aperçus sur l’Initiation, cap. XXV).
[8] Nelle traduzioni degli orientalisti si incontrano spesso i termini «penitenza» e «penitente» che non s’adattano minimamente al contesto in cui si trovano, mentre le parole «ascesi» e «asceta» sarebbero invece nella maggior parte dei casi perfettamente adeguate.
[9] Diciamo gradualmente appunto perché si tratta di un processo metodico; è d’altronde comprensibile che, salvo forse qualche caso eccezionale, il distacco completo non può effettuarsi in un colpo solo.
[10] Si può dire che, per questo essere, tali contingenze vengono allora distrutte in quanto cose manifestate, perché esse in realtà non esistono più per lui, benché sussistano senza cambiamenti per gli altri; d’altronde quest’apparente distruzione è in realtà una «trasformazione», in quanto va da sé che, dal punto di vista principiale, niente di quel che esiste potrà mai essere distrutto.
[11] A questo proposito si potrà ancora ricordare il simbolismo della «porta stretta» che non può essere attraversata da colui il quale, come i «ricchi» di cui parla il Vangelo, non ha saputo spogliarsi delle contingenze, o da chi, «avendo voluto salvare la sua anima (cioè l’“io”) la perde», non potendo in queste condizioni unirsi effettivamente al principio permanente ed immutabile del suo essere.

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