"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 7 luglio 2014

René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale - XVI - Contemplazione diretta e contemplazione per riflesso

René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale

XVI - Contemplazione diretta e contemplazione per riflesso

Ancora una volta dobbiamo ritornare sulle differenze essenziali tra realizzazione metafisica o iniziatica, e realizzazione mistica, perché, a tale proposito, taluni hanno posto il quesito seguente: se la contemplazione, come preciseremo anche in seguito, è la forma di attività più elevata, e in effetti più attiva di tutto ciò che deriva dall’azione esteriore, e se, come in generale si ammette, anche nel misticismo vi è contemplazione, non vi è in tal caso incompatibilità con il carattere di passività inerente al misticismo stesso?
Per di più, dal momento che si può parlare di contemplazione sia nell’ordine metafisico che nell’ordine mistico, può sembrare che l’uno e l’altro sotto questo rapporto coincidano almeno in una certa misura: e se non è così, esistono dunque due specie di contemplazione?
Innanzitutto è utile rammentare, a questo proposito, che diversi sono i generi di misticismo, e che le forme inferiori di quest’ultimo non sono pertinenti al caso in questione, perché in esse non si può parlare di contemplazione nel vero senso della parola. Bisogna infatti lasciar da parte tutto quanto riveste un carattere più nettamente fenomenico, e cioè in definitiva tutti gli stati in cui si ritrovano quelle che i teorici del misticismo definiscono «visione sensibile» e «visione immaginaria» (e d’altronde l’immaginazione è anche compresa nell’ordine delle facoltà sensibili prese nel senso più vasto), stati che essi stessi ritengono inferiori e che, a ragione, considerano con una certa diffidenza, perché è evidente la stragrande facilità che può avere l’illusione nel determinarli. Non v’è propriamente contemplazione mistica se non nel caso della cosiddetta «visione intellettuale», che è qualcosa d’ordine molto più «interiore», a cui arrivano soltanto quei mistici che possono esser detti superiori, in quanto pare che in certo qual modo si tratti del culmine, o meglio del fine ultimo della loro realizzazione; ma questi mistici superano veramente in questa maniera il dominio individuale? La questione in fondo è tutta qui, perché, pur lasciando da parte in ogni caso la differenza di mezzi che caratterizza rispettivamente le due vie iniziatica e mistica, è soltanto questo che potrebbe giustificare, quanto al loro scopo, un’assimilazione del genere di quella di cui abbiamo parlato. È chiaro che non intendiamo assolutamente sminuire la portata delle differenze qualitative esistenti nell’ambito stesso del misticismo; ma non è men vero che, sia pure per quanto in esso si trova di più elevato, tale assimilazione implicherebbe una confusione che è necessario dissipare.
Diremo subito che in realtà esistono due tipi di contemplazione, i quali possono esser rispettivamente definiti contemplazione diretta e contemplazione per riflesso; in effetti, allo stesso modo che si può guardare il sole direttamente, o guardare soltanto il suo riflesso nell’acqua, parimenti si possono contemplare le realtà spirituali quali sono in se stesse, oppure attraverso il loro riflesso nel dominio individuale. È giusto parlare di contemplazione in entrambi i casi e, in un certo senso, è vero che sono le stesse realtà ad essere contemplate, com’è lo stesso sole che si vede direttamente oppure riflesso; ma è evidente che tra i due casi esiste una profonda differenza. E tale differenza è ancor più grande di quanto può far pensare a prima vista il paragone che abbiamo proposto, perché la contemplazione diretta delle realtà spirituali implica necessariamente che in certo qual modo ci si trasporti proprio nel loro stesso dominio, il che presuppone un certo grado di realizzazione che dev’essere sempre essenzialmente attiva; la contemplazione per riflesso invece, implica soltanto che «ci si apra» a quel che si presenterà spontaneamente (e che potrà anche non presentarsi, poiché si tratta di cose che non dipendono per niente dalla volontà o dall’iniziativa del contemplativo) e pertanto, in questo caso, non v’è nulla di incompatibile con la passività mistica. Naturalmente ciò non impedisce alla contemplazione di esser sempre, ad un livello determinato, una vera attività interiore, e d’altronde non si può forse neanche concepire uno stato che sia puramente passivo, in quanto anche solo la semplice sensazione ha qualcosa d’attivo, sotto un certo aspetto; la passività pura, in effetti, appartiene unicamente alla materia prima, e non trova posto nella manifestazione. Ma la passività del mistico consiste proprio nel fatto ch’egli si limita a ricevere quel che gli arriva, e che non può non risvegliare in lui una certa attività interiore, la stessa che costituirà precisamente la sua contemplazione; egli è passivo perché non fa niente per andare incontro alle realtà oggetto di tale contemplazione, ed è proprio questo ad implicare come conseguenza che egli non esca dal suo stato individuale. Occorre dunque, affinché queste realtà diventino per lui in qualche modo accessibili, che esse scendano per così dire nel dominio individuale o, se si preferisce, ch’esse vi si riflettano come dicevamo poco fa; questo modo di parlare è d’altronde il più esatto, perché fa capire meglio che tali realtà non sono per niente modificate da questa apparente «discesa», così come non lo è il sole dall’esistenza del suo riflesso.
Un altro punto particolarmente importante, e del resto strettamente connesso al precedente, è che la contemplazione mistica, per il fatto stesso d’essere unicamente indiretta, non implica identificazione alcuna, ma, al contrario, lascia sempre sussistere la dualità tra il soggetto e l’oggetto; potremmo anzi dire che è necessario che le cose stiano così, perché questa dualità fa parte integrante del punto di vista religioso e, così come più volte abbiamo avuto occasione di dire, dal dominio religioso[1] deriva propriamente tutto ciò che è misticismo. Ciò che può prestarsi a confusione, a questo riguardo, è che i mistici impiegano volentieri il termine «unione», e che la contemplazione di cui si sta parlando appartiene proprio a quella che essi definiscono «vita unitiva»; ma quest’«unione» non ha assolutamente lo stesso significato dello yoga o dei suoi equivalenti, e si tratta quindi di una similitudine del tutto esteriore. Non è che sia illegittimo impiegare lo stesso termine, poiché anche nel linguaggio corrente si parla di unione tra esseri in una quantità di casi in cui non esiste alcun grado di identificazione fra di loro; soltanto bisogna far bene attenzione a non confondere cose diverse col pretesto che una sola parola serve a designarle entrambe. Nel misticismo, per insistere ancora su questo argomento, non è mai in causa l’identificazione con il Principio o anche solo con tale o tal altro dei suoi aspetti «non supremi» (il che in ogni caso supererebbe ancora manifestamente le possibilità d’ordine individuale); inoltre, quell’unione che si considera come termine ultimo della vita mistica, è sempre riferita ad una manifestazione principiale vista unicamente nel dominio umano ed in rapporto a questo[2].
Sia ben chiaro, d’altra parte, che la contemplazione raggiungibile nella realizzazione iniziatica comporta gradi diversi, per cui non è sicuro ch’essa arrivi sempre fino ad un’identificazione; quand’é così però, si tratta ancora di uno stadio preliminare, di una tappa nel corso della realizzazione, e non del fine supremo a cui in definitiva l’iniziazione deve condurre[3]. Tutto ciò dovrebbe bastare a far vedere che in realtà le due vie non tendono affatto allo stesso fine, in quanto una di esse si arresta ad uno stadio che per l’altra rappresenta unicamente una tappa secondaria; e inoltre, anche a questo livello vi è ancora una grande differenza, nel senso che in uno dei due casi è un riflesso ad essere contemplato, in certo qual modo in se stesso e per se stesso, mentre, nell’altro, questo riflesso è visto esclusivamente come punto d’arrivo di quei raggi, la cui direzione bisogna seguire se si vuol risalire, da quel punto, alla sorgente stessa della luce.



[1] Ciò non significa che, negli antichi scritti appartenenti alla tradizione cristiana, non vi siano cose le quali non potrebbero comprendersi altrimenti che come affermazioni più o meno esplicite di un’identificazione; ma i moderni, che generalmente cercano di attenuarne la portata (trovandoli imbarazzanti perché non rientrano nelle proprie concezioni), commettono un errore riferendole al misticismo; c’erano allora, anche nel cristianesimo, una quantità di cose di tutt’altro ordine di cui essi non hanno la più lontana idea. 
[2] Lo stesso linguaggio dei mistici è molto chiaro a questo riguardo: non si tratta mai d’unione con il Cristo-principio, cioè con il Logos in se stesso, il che, anche senza andare fino all’identificazione, sarebbe già al di là del dominio umano; si tratta sempre di «unione col Cristo Gesù», espressione che si riferisce chiaramente, in modo esclusivo, al solo aspetto «individualizzato» dell’Avatâra. 
[3] La differenza fra questa contemplazione preliminare e l’identificazione, è la stessa che esiste rispettivamente fra aynul-yaqîn et haqqul-yaqîn come vengono designati nella tradizione islamica. (Vedere Aperçus sur l’Initiation, pagg. 173-175).

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