René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale
XVII - Dottrina e metodo
Sovente abbiamo insistito sul fatto che, sebbene il fine ultimo di ogni iniziazione sia essenzialmente uno, è peraltro necessario che le vie per raggiungerlo siano molteplici, al fine di adattarsi alla diversità delle condizioni individuali; in effetti, non bisogna soltanto tener conto del punto d’arrivo, che è sempre lo stesso, ma anche del punto di partenza, che varia secondo gli individui.
Va da sé, d’altronde, che queste molteplici vie tendono ad unificarsi man mano che si avvicinano alla meta, e che, anche prima di arrivarci, vi è un punto a partire dal quale le differenze individuali non possono più intervenire in alcun modo; ed è altrettanto evidente che la loro molteplicità, che non infirma minimamente l’unità del fine, a maggior ragione non può infirmare l’unità fondamentale della dottrina, la quale, in realtà, non è altro che la verità stessa.
Va da sé, d’altronde, che queste molteplici vie tendono ad unificarsi man mano che si avvicinano alla meta, e che, anche prima di arrivarci, vi è un punto a partire dal quale le differenze individuali non possono più intervenire in alcun modo; ed è altrettanto evidente che la loro molteplicità, che non infirma minimamente l’unità del fine, a maggior ragione non può infirmare l’unità fondamentale della dottrina, la quale, in realtà, non è altro che la verità stessa.
Queste cose sono ben note nelle civiltà orientali: così, nei paesi di lingua araba, è diventato un proverbio il dire che «ogni skeykh ha la sua tarîqah» per significare che vi sono numerosi modi per fare una stessa cosa e per ottenere uno stesso risultato. Alla molteplicità delle turûq nell’iniziazione islamica corrisponde esattamente, nella tradizione indù, la molteplicità delle vie dello Yoga, di cui si parla talvolta come di altrettanti yoga distinti, benché l’impiego del plurale sia del tutto improprio se il termine viene preso in senso stretto, cioè come definizione del fine vero e proprio; tale uso si giustifica soltanto come estensione della definizione di cui sopra ai metodi e ai procedimenti messi in opera per ottenere questo fine, anche se, a rigore, sarebbe più corretto dire che v’è un solo yoga, ma molteplici mârga o vie che conducono alla realizzazione di esso.
A questo proposito abbiamo riscontrato, presso certi Occidentali, un equivoco veramente singolare: dalla constatazione di questa molteplicità di vie, essi pretendono concludere non solo che manca una dottrina unica ed invariabile, ma che addirittura non esiste nessuna dottrina nello yoga; in questo modo, per inverosimile che ciò possa sembrare, essi confondono la questione della dottrina con quella del metodo, cose che invece sono totalmente diverse. D’altronde, per rimanere fedeli all’esattezza d’espressione, non si dovrebbe parlare d’«una dottrina dello yoga», ma della dottrina tradizionale indù di cui lo yoga rappresenta un aspetto; per quanto riguarda poi i metodi di realizzazione dello yoga, questi derivano soltanto dalle applicazioni «tecniche» cui la dottrina dà luogo, anch’esse tradizionali proprio perché si fondano sulla dottrina e sono ordinate in vista di questa, dato che ciò a cui tendono è in definitiva sempre e soltanto il conseguimento della pura Conoscenza. È chiaro che la dottrina, per essere veramente tutto quel che dev’essere, deve comportare, nella sua stessa unità, aspetti o punti di vista (darshana) diversi, e che ognuno di questi punti di vista dev’essere suscettibile delle più varie applicazioni; per pensare che ciò possa essere in contraddizione con la sua unità ed invariabilità essenziali, bisogna, diciamolo pure, non avere la minima idea di cosa sia in realtà una dottrina tradizionale. D’altronde, analogamente, non è forse vero che l’indefinita molteplicità delle cose contingenti è tutta compresa nell’unità del loro Principio, senza che l’immutabilità di quest’ultimo ne sia minimamente infirmata?
Constatare semplicemente un errore od un equivoco, come quelli di cui stiamo trattando, non è però sufficiente, e ci pare più istruttivo cercarne la spiegazione; dobbiamo dunque chiederci a che cosa può corrispondere, nella mentalità occidentale, la negazione dell’esistenza di qualcosa come la dottrina tradizionale indù. È perciò meglio prendere in esame questo errore nella sua forma più generalizzata ed estrema, perché soltanto in questo modo è possibile scoprirne la vera radice; così, quando esso rivesta forme più particolari od attenuate, queste troveranno a fortiori la loro spiegazione benché, per la verità, esse non facciano che dissimulare in molti casi, anche se incoscientemente, la negazione radicale da noi enunciata. In effetti, negare l’unità e l’invariabilità di una dottrina equivale a negarne le caratteristiche essenziali e fondamentali, cioè proprio quelle senza le quali essa non merita più questo nome; quindi, anche se non è facile rendersene conto, è come negare l’esistenza stessa della dottrina.
Anzitutto, la pretesa di appoggiare questa negazione sulla constatazione di una diversità di metodi, deriva evidentemente, come abbiamo detto, dall’incapacità di andar oltre le apparenze esteriori e di cogliere l’unità dietro la molteplicità di esse; sotto questo aspetto ciò equivale alla negazione dell’unità essenziale e principiale di tutte le tradizioni, a causa dell’esistenza delle diverse forme tradizionali, quando invece, in realtà, queste non sono che altrettante espressioni di cui si riveste la tradizione unica per adattarsi alle diverse condizioni di tempo e luogo, così come i differenti metodi di realizzazione, nell’ambito di ogni forma tradizionale, non sono che altrettanti mezzi ch’essa impiega per rendersi più accessibile ai diversi casi individuali. E tuttavia questo non è che il lato più superficiale della questione; per andare più a fondo delle cose, bisogna osservare che questa stessa negazione dimostra anche che, quando si parla di dottrina come facciamo noi qui, si incontra in certuni un’incomprensione completa della reale natura dell’argomento; se in effetti essi non sviassero la parola dottrina dal suo significato normale, dovrebbero convenire che essa è applicabile ad un caso come quello della tradizione indù, ed inoltre che soltanto in un caso del genere, cioè quando si tratta di una dottrina tradizionale, essa assume tutta la pienezza del suo significato. Ora, se questa incomprensione si produce, è perché la maggioranza degli Occidentali d’oggi è incapace di concepire una dottrina se non nell’una o nell’altra delle due forme speciali, tuttavia estremamente ineguali sotto l’aspetto qualitativo (l’una infatti esclusivamente profana, l’altra invece a carattere veramente tradizionale), ma entrambe specificamente occidentali e cioè, da una parte quella di un sistema filosofico, e dall’altra quella di un dogma religioso.
Che la verità tradizionale non possa assolutamente esprimersi in forma sistematica è un punto su cui già ci siamo dilungati abbastanza per non dovervi insistere di nuovo; d’altronde, l’apparente unità di un sistema, che risulta esclusivamente dalla maggior o minor ristrettezza delle sue limitazioni, non è in realtà che una parodia della vera unità dottrinale. Per di più, qualsiasi filosofia non è nient’altro che una costruzione individuale, la quale, così com’è, non si richiama ad alcun principio trascendente ed è di conseguenza sprovvista di qualsivoglia autorità: non solo non rappresenta affatto una dottrina nel vero senso della parola, ma diremmo piuttosto che è una pseudo-dottrina, intendendo con ciò che essa ha la pretesa di esserlo, ma che questa pretesa non è assolutamente giustificata. Naturalmente gli Occidentali moderni la pensano in tutt’altro modo a questo riguardo, e là ove non ritrovano i quadri pseudo-dottrinali a cui sono abituati, restano inevitabilmente disorientati; ma poiché non vogliono o non possono confessarlo, si sforzano, snaturando le cose, di far rientrare tutto in quei quadri, oppure, se non ci riescono, dichiarano semplicemente, con uno di quei capovolgimenti dell’ordine normale cui sono abituati, che ciò a cui hanno a che fare non è una dottrina. Inoltre, poiché confondono l’intellettuale con il razionale, finiscono col prendere una dottrina per una semplice «speculazione», e siccome una dottrina tradizionale è invece tutt’altra cosa, non riescono a capire di che si tratta; certamente non è la filosofia che può insegnar loro che la conoscenza teorica, essendo indiretta ed imperfetta, ha soltanto un valore «preparatorio», in quanto fornisce una direzione che impedisce d’errare nella realizzazione, ma che è solo mediante questa che si può ottenere quella conoscenza effettiva la cui esistenza, o anche solo possibilità, essi neppure sospettano; e quando dunque affermiamo, come facevamo prima, che il fine da raggiungere è la Conoscenza pura, come possono sapere cosa intendiamo con queste parole?
D’altra parte, nel corso delle nostre opere, abbiamo avuto cura di precisare che l’ortodossia della dottrina indù non doveva affatto esser concepita in modo religioso; ciò implica necessariamente che essa non può esser espressa in forma dogmatica, essendo questa inapplicabile al di fuori del punto di vista religioso propriamente detto. Soltanto che, di fatto, gli Occidentali non conoscono in generale altra forma d’espressione delle verità tradizionali che non sia quella; ed è per questo che, quando si parla di ortodossia dottrinale, essi pensano inevitabilmente a formulazioni dogmatiche; in effetti essi sanno più o meno che cos’è un dogma anche se non è affatto detto che lo capiscano; ma sanno sotto quale apparenza esteriore esso si presenta, ed a questo si limita ogni idea che ancora possono avere della tradizione. Lo spirito antitradizionale caratteristico dell’Occidente moderno, si ribella violentemente alla sola idea del dogma, perché è così che la tradizione gli appare nell’ignoranza di tutte le altre forme ch’essa può rivestire; e l’Occidente non sarebbe mai giunto all’attuale stato di decadenza e confusione, se fosse rimasto fedele al suo dogma, il quale è poi l’aspetto che, per adattarsi alle sue particolari condizioni mentali, la tradizione doveva necessariamente assumere, almeno per quanto riguarda la sua parte exoterica. Quest’ultima restrizione è indispensabile, essendo evidente che nell’ordine esoterico ed iniziatico non è mai stata, nemmeno in Occidente, questione di dogma; ma si tratta di cose di cui anche solo il ricordo è così completamente perduto per gli Occidentali moderni, che è per essi impossibile trovarvi dei termini di paragone tali da aiutarli a capire cosa possano essere le altre forme tradizionali. D’altro canto, se il dogma non esiste ovunque, è perché, anche solo nell’ordine exoterico, esso non avrebbe la stessa ragion d’essere che in Occidente; c’è della gente che, per non «divagare» nel senso etimologico della parola, ha bisogno d’esser tenuta strettamente sotto tutela, mentre altri non ne hanno affatto bisogno; il dogma è necessario per i primi e non per i secondi, come anche, per fare un altro esempio di carattere un po’ diverso, l’interdizione delle immagini è necessaria soltanto per quei popoli che, per loro naturale inclinazione, sono portati ad un certo antropomorfismo; e senza dubbio si potrebbe dimostrare molto facilmente che il dogma è tutt’uno con la forma speciale d’organizzazione tradizionale rappresentata dalla costituzione di una «Chiesa», la quale, anch’essa, è qualcosa di specificamente occidentale.
Su questi punti non ci pare il caso d’insistere oltre; ma, per concludere, possiamo comunque dire quanto segue: la dottrina tradizionale, quando è completa, ha possibilità realmente illimitate in virtù della sua stessa essenza; essa è dunque sufficientemente estesa da comprendere nella sua ortodossia tutti gli aspetti della verità, ma non può evidentemente ammettere nient’altro che questi: la parola ortodossia sta precisamente a significare che essa esclude soltanto l’errore, ma lo esclude in modo assoluto. Gli Orientali, e in generale tutti i popoli di civiltà tradizionale, hanno sempre ignorato quel che gli Occidentali moderni gratificano dell’appellativo «tolleranza», e che in realtà non è altro che indifferenza alla verità, cioè qualcosa che si può concepire solo dove l’intellettualità è completamente assente; che gli Occidentali vantino questa «tolleranza» come una virtù non è forse un indice veramente impressionante del grado di inferiorità cui li ha ridotti l’aver rinnegato la tradizione?
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