"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 1 luglio 2014

René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale - XIII - Cerimonialismo ed estetismo

René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale

XIII - Cerimonialismo ed estetismo

Abbiamo già denunciato la strana confusione che viene spesso commessa, ai nostri tempi, fra riti e cerimonie[1], cosa che dimostra una completa misconoscenza della vera natura e dei caratteri essenziali dei riti, e potremmo ben dire della tradizione in generale.
In effetti, mentre i riti, come tutto ciò che è realmente tradizionale, comportano necessariamente un elemento «non-umano», le cerimonie sono invece qualcosa di puramente umano, e non possono che produrre effetti strettamente limitati a questa sfera o, per meglio dire, agli aspetti più esteriori di essa, in quanto questi effetti sono in realtà esclusivamente «psicologici» e soprattutto emotivi.
La confusione in questione si può inoltre vedere come un caso particolare o una conseguenza dell’«umanesimo», cioè della tendenza affatto moderna a ridurre ogni cosa a livello umano, tendenza che d’altra parte si manifesta pure nella pretesa di spiegare «psicologicamente» gli effetti dei riti, cosa che in realtà tende a sopprimere la differenza essenziale fra essi e le cerimonie.
Non intendiamo contestare l’utilità relativa delle cerimonie quando queste, aggiungendosi accidentalmente ai riti in un periodo d’oscurantismo spirituale, li rendono più accessibili alla generalità degli uomini, preparando in certo qual modo quest’ultimi a riceverne quegli effetti che non possono più esser colti se non mediante tali mezzi del tutto esteriori. Ma affinché questa funzione di «sussidiari» sia legittima, ed abbia inoltre una reale efficacia, occorre che lo sviluppo delle cerimonie sia mantenuto entro certi limiti, al di là dei quali rischia invece di avere conseguenze del tutto opposte. Ciò è più che evidente nelle attuali condizioni delle forme religiose occidentali, ove i riti finiscono per essere veramente soffocati dalle cerimonie; in casi simili, non solo l’accidentale viene spesso scambiato per l’essenziale, il che dà luogo ad un formalismo eccessivo e privo di senso, ma lo stesso «spessore» del rivestimento cerimoniale, se è permesso esprimersi in questo modo, oppone all’azione delle influenze spirituali un ostacolo che è ben lungi dall’essere trascurabile; nella fattispecie si ha un vero fenomeno di «solidificazione», nel senso che altrove[2] abbiamo dato a questa parola, e che si attaglia molto bene al carattere generale dell’epoca moderna.
Quest’abuso, a cui si può dare il nome di «cerimonialismo», è, com’è facile capire, una caratteristica propria degli Occidentali; le cerimonie, in effetti, danno sempre l’impressione di qualcosa d’eccezionale, e comunicano quest’apparenza anche ai riti a cui si sovrappongono; ora, quanto meno una civiltà è tradizionale nel suo insieme, tanto più si accentua la separazione fra tradizione, nella misura in cui ancora sussiste seppure sminuita, e ciò che si considera puramente profano, cioè tutto il resto che costituisce la «vita ordinaria», come si è convenuto chiamarla, su cui gli elementi tradizionali non esercitano più alcun’influenza effettiva. È più che evidente che tale separazione non è mai stata spinta così a fondo come dagli Occidentali moderni, e con questo nome ci riferiamo naturalmente a coloro i quali hanno conservato qualcosa della loro tradizione, ma che, salvo l’esigua parte concessa alla «pratica» religiosa nella loro vita, non si distinguono in alcun modo dagli altri. In queste condizioni, ciò che riguarda la tradizione riveste per forza di cose, in rapporto al resto, un carattere d’eccezione, com’è appunto sottolineato dallo spiegamento di cerimonie che lo circonda; così, anche se si ammette come giustificazione a tutto ciò qualcosa che in parte si spiega con il temperamento occidentale, e che corrisponde ad un tipo di emotività che lo rende particolarmente sensibile alle cerimonie, non è men vero che vi sono anche ragioni d’ordine più profondo, in stretto rapporto con l’affievolirsi dello spirito tradizionale. Da notare anche, nello stesso ordine d’idee, che quando gli Occidentali parlano di cose spirituali, o di cose che essi ritengano tali a torto o a ragione[3], si credono obbligati ad assumere un tono solenne e stucchevole, quasi a sottolineare che queste cose non hanno niente in comune con il soggetto abituale delle loro conversazioni; questa «cerimoniosa» affettazione, checché essi ne pensino, non ha certamente alcun rapporto con la serietà e la dignità che conviene a tutto ciò che è tradizionale, e che non esclude la più perfetta naturalezza e la più grande semplicità d’atteggiamento, tratti che ancora oggi si possono osservare in Oriente[4].
Vi è un altro lato della questione di cui non abbiamo ancora parlato e su cui ci pare necessario insistere ancora: vogliamo riferirci alta connessione che gli Occidentali vedono fra il «cerimonialismo» e quel che si può chiamare «estetismo». Con quest’ultima parola intendiamo naturalmente la speciale mentalità che deriva dal punto di vista «estetico»; quest’ultimo si applica prima di tutto e particolarmente all’arte, ma estendendosi a poco a poco ad altre sfere, finisce con l’attribuire una «tinta» particolare al modo che hanno gli uomini di considerare tutte le cose. Si sa che la concezione «estetica», come suggerisce il suo nome, è quella che pretende di ridurre ogni cosa ad una semplice questione di «sensibilità»: si tratta della concezione moderna e profana dell’arte, la quale, com’è stato dimostrato in numerosi scritti da A. K. Coomaraswamy, si oppone alla sua concezione normale e tradizionale; applicata a qualsiasi cosa, essa ne sopprime ogni intellettualità, o per meglio dire ogni intelligibilità, per cui il bello, lungi dall’essere lo «splendore del Vero», come lo si definiva in altri tempi, si riduce ad essere unicamente il prodotto di un certo senso di piacere, cioè qualcosa di puramente «psicologico» e «soggettivo». In questo modo di vedere è di conseguenza implicito il gusto per le cerimonie, in quanto queste provocano appunto unicamente effetti di ordine estetico, né possono provocarne altri; nelle cerimonie, come d’altronde nell’arte moderna, è inutile ricercare una ragione od un senso più o meno profondo da penetrare; è più che sufficiente lasciarsi «impressionare» in modo del tutto sentimentale. Tutto ciò quindi, non raggiunge nell’essere psichico che la parte più superficiale ed illusoria, quella che non soltanto varia da un individuo all’altro, ma anche, nello stesso individuo, secondo le disposizioni del momento; questo dominio sentimentale è veramente, e sotto tutti i rapporti, il prototipo completo ed estremo di quella che potrebbe definirsi «soggettività» allo stato puro[5].
Quanto andiamo dicendo sul gusto delle cerimonie propriamente dette, è naturalmente applicabile anche all’eccessiva e sproporzionata importanza da taluni attribuita a tutto ciò che è «scenario» esteriore, tanto da arrivare, anche in cose d’ordine autenticamente tradizionale, fino a voler fare di quest’elemento contingente ed accessorio qualcosa di indispensabile ed essenziale, così come altri ritengono che i riti perderebbero ogni valore se non fossero accompagnati da cerimonie più o meno «imponenti». In questo caso si tratta proprio di «estetismo», e anche quando coloro che si aggrappano allo «scenario» assicurano di farlo per via del significato che vi annettono, non siamo affatto sicuri che essi non si facciano delle illusioni in proposito, e che invece non siano soprattutto attirati da qualcosa di molto più esteriore e «soggettivo», come può esserlo un’impressione «artistica» nel senso moderno della parola; si può concludere che la confusione fra l’accidentale e l’essenziale, che in ogni caso sussiste, è sempre segno di una comprensione come minimo molto imperfetta. Così, per esempio, abbiamo i nostri dubbi che fra gli ammiratori dell’arte medioevale, anche se sinceramente persuasi che la loro ammirazione non è semplicemente «estetica» come quella dei «romantici», bensì frutto della spiritualità che si esprime attraverso quest’arte, siano in molti a comprenderla veramente, e ad esser capaci di fare lo sforzo necessario per vederla con occhio diverso dai moderni, cioè a porsi realmente nella condizione di spirito di quelli che hanno realizzato quest’arte o di quelli cui era destinata. Fra coloro che si compiacciono di circondarsi d’uno «scenario» di quell’epoca, si trova quasi sempre, ad un livello più o meno accentuato, se non proprio la mentalità, almeno la prospettiva degli architetti che fanno del «neogotico», o dei pittori moderni che cercano di imitare le opere dei «primitivi». In queste «ricostruzioni» c’è sempre qualcosa di artificiale e di «cerimonioso», qualcosa che «suona falso», si potrebbe dire, e che ricorda l’«esposizione» o il «museo» molto più che non evochi l’uso reale e normale delle opere d’arte in una civiltà tradizionale; a voler dire tutto con una sola parola, si ha nettamente l’impressione che lo «spirito» ne sia assente[6].
Ciò che abbiamo detto a proposito del Medio Evo, tanto per dare un esempio preso all’interno del mondo occidentale stesso, può essere confermato, e a maggior ragione, nel caso che si tratti di uno «scenario» orientale; in effetti, è ben raro che questo, anche se composto d’elementi autentici, non rappresenti soprattutto, come insieme, l’idea che dell’Oriente si fanno gli Occidentali, idea che ha una parentela ben lontana con quel che l’Oriente è in realtà[7]. Questo ci porta a precisare meglio un altro punto importante: fra le molteplici manifestazioni dell’«estetismo» moderno, conviene assegnare un posto a parte al gusto dell’«esotismo», così spesso presente fra i nostri contemporanei, il quale, indipendentemente dai fattori che possono averlo determinato, e che sono troppo numerosi per essere esaminati qui dettagliatamente, è in definitiva ancora riducibile ad una questione di «sensibilità» più o meno «artistica» estranea a qualsiasi comprensione vera, od anche soltanto, per chi disgraziatamente ne è afflitto, ad una semplice «moda», non dissimile d’altronde dall’ammirazione ostentata verso questa o quella forma d’arte, che varia da un momento all’altro secondo le circostanze. Il caso dell’«esotismo» ci tocca in certo qual modo più da vicino di qualsiasi altro, perché temiamo molto che anche l’interesse che taluni manifestano per le dottrine orientali sia troppo spesso dovuto a questa tendenza; se le cose stanno così, è evidente che si tratta soltanto di un «atteggiamento» esteriore, e che non è il caso di prenderlo sul serio. A complicare le cose sta il fatto che questa stessa tendenza può talora combinarsi, in proporzioni diverse, con un interesse molto più reale e sincero; quest’ultimo caso non è certo disperato come l’altro, ma bisogna allora rendersi conto che non si potrà mai giungere alla vera comprensione di una dottrina qualsiasi, fintanto che l’eventuale impressione d’«esotismo» iniziale non sarà completamente sparita. Ciò può richiedere uno sforzo preliminare molto considerevole e per taluni anche penoso, che però è strettamente indispensabile se si vuole ottenere qualche valido risultato dagli studi intrapresi; se la cosa risulta impossibile, come naturalmente qualche volta succede, è perché si ha a che fare con degli Occidentali, i quali, per via della loro particolare costituzione psichica, non potranno mai cessare d’esser tali; essi farebbero quindi molto meglio a rimanere interamente e onestamente quel che sono, ed a rinunciare ad occuparsi di cose da cui non possono ritrarre alcun giovamento reale: qualunque cosa facciano, infatti, tali cose si troveranno per loro sempre in un «altro mondo», privo di rapporti con quello in cui vivono e da cui sono incapaci di uscire. Queste considerazioni assumono un’importanza del tutto particolare nel caso di Occidentali di nascita, i quali, per una ragione o per l’altra, ma soprattutto per questioni d’ordine esoterico e iniziatico (le sole che d’altronde possiamo considerare come veramente degne d’interesse[8]), abbiano deciso di aderire ad una tradizione orientale; qui, in effetti, si pone veramente per essi una questione di qualificazione, la quale, a rigore, dovrebbe essere oggetto di una specie di «prova» preliminare, prima cioè di arrivare ad un’adesione reale ed effettiva. In ogni caso, e anche nelle condizioni più favorevoli. essi devono convincersi che fino a quando troveranno il benché minimo carattere «esotico» nella forma tradizionale da loro adottata, ciò sarà una prova veramente incontestabile che non hanno realmente assimilato questa forma, e che, quali che siano le apparenze, essa rappresenta ancora qualcosa di esteriore al loro essere reale, tale da non modificarlo se non in superficie; è questo in qualche modo uno dei primi ostacoli che essi incontrano sulla loro via, e l’esperienza ci insegna che, per molti, non è forse il meno difficile da superare.



[1] Vedere Aperçus sur l’Initiation, cap. XIX
[2] Vedere Le Règne de la quantité et les signes des temps. 
[3] Poniamo questa restrizione a causa delle molteplici contraffazioni della spiritualità che hanno corso fra i nostri contemporanei; in ogni caso basta che essi siano persuasi che si tratta di spiritualità, o che vogliano persuaderne gli altri, perché la stessa osservazione sia valida in tutti i casi. 
[4] Ciò è particolarmente evidente nel caso dell’Islâm, che comporta naturalmente una quantità di riti, ma ove non si può trovare una sola cerimonia. Si può constatare d’altra parte, per quanto si è conservato dei sermoni del Medio Evo, che anche in Occidente, in quest’epoca veramente religiosa, i predicatori non disdegnavano l’uso di un tono familiare e talora anche umoristico. – Un fatto molto significativo è la deviazione che l’uso corrente ha fatto subire al senso del termine «pontefice» e dei suoi derivati, i quali, per l’Occidentale medio che ne ignora il valore simbolico e tradizionale, sono arrivati a rappresentare unicamente l’idea del «cerimonialismo» più spinto, quasi la funzione del pontificato fosse, non già l’adempimento di certi riti, ma quello di cerimonie particolarmente pompose. 
[5] In questa sede non è il caso di soffermarsi su certe forme dell’arte moderna capaci di produrre effetti di squilibrio, o addirittura di «disgregazione», le cui ripercussioni sono suscettibili di estendersi molto più lontano; in questo caso non si tratta più soltanto dell’insulsaggine, nel vero senso della parola, riferita a tutto quanto è veramente profano, ma proprio di una vera opera di «sovversione». 
[6] Nello stesso ordine d’idee, segnaleremo incidentalmente il caso delle feste, così dette «folkloristiche», che sono tanto di moda oggi: questi tentativi di ricostruzione d’antiche feste «popolari», anche se appoggiate sulla documentazione più esatta e sull’erudizione più scrupolosa, hanno inevitabilmente un andazzo risibile da «mascherata» e da contraffazione grossolana, che può far credere ad un’intenzione «parodistica» certamente non esistente nei loro organizzatori. 
[7] Per fare un esempio limite, e pertanto più «tangibile», le opere della maggior parte dei pittori così detti «orientalisti» mostra in modo fin troppo chiaro quel che può dare la «prospettiva» occidentale applicata alle cose d’Oriente; è indubbio ch’essi hanno preso a modello personaggi, oggetti e paesaggi orientali, ma poiché li hanno visti in modo del tutto esteriore, la maniera in cui li hanno «resi» vale pressappoco tanto quanto le realizzazioni dei «folkloristi» di cui parlavamo poc’anzi. 
[8] Vedere su questo soggetto il capitolo precedente: A proposito di «conversioni».

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