Alberto De Luca
Ogni cammino spirituale termina “fisiologicamente” nella perplessità
Ogni cammino spirituale termina “fisiologicamente” nella perplessità
(Testo per il II° Simposio
Internacional Ibn Arabi de Murcia 2013)
Il
titolo che ho voluto dare alla mia relazione è in parte mutuato dalla
traduzione italiana del Kitāb al-Yā’ wa huwa kitāb al-Huwa
di Ibn ‘Arabī, fatta da Chiara Casseler.
Più precisamente, ritengo che la parte finale di ogni camino spirituale (il che per me significa sentiero mystico) – sulūk in arabo-, del quale sia possibile dire qualcosa di sensato, conduca alla perplessità di fronte all’apparire antinomico dell’Unicità dell’essere. Su questo mi sto interrogando da tempo ed approfitto pertanto di chiedere il Vostro aiuto in questa ricerca di senso.
Più precisamente, ritengo che la parte finale di ogni camino spirituale (il che per me significa sentiero mystico) – sulūk in arabo-, del quale sia possibile dire qualcosa di sensato, conduca alla perplessità di fronte all’apparire antinomico dell’Unicità dell’essere. Su questo mi sto interrogando da tempo ed approfitto pertanto di chiedere il Vostro aiuto in questa ricerca di senso.
Sono
consapevole del peso dell’affermazione impiegata in esergo, soprattutto se a farla è qualcuno che non appartiene a nessuna tarīqa
e non è nemmeno musulmano, ma ritengo altresì che tali due mancanze non siano
in realtà un impedimento al pensiero quanto invece un utile farmaco contro
qualsiasi arroganza intellettuale che si ponga al di là della consona umiltà
necessaria per abbordare queste tematiche.
La
relazione che presento si articola intorno al concetto islamico di ḥayra,
all’interno della logosofia ibnarabiana, e alla sua traducibilità italiana nei
concetti di antinomia e perplessità in genere.
Il
concetto islamico di ḥayra, che in italiano traduco con «perplessità»[1], va subito inquadrato, e per farlo al meglio mi avvarrò di
quanto affermato da Andrey Smirnov nel suo Il vortice divino. Il monismo
come interdipendenza tra ẓāhir-bāṭin: il punto di vista
musulmano e la filosofia mistica di Ibn ‘Arabī[2].
Lo
studioso russo, infatti, sottolinea che per Ibn
‘Arabī la perplessità possiede una connotazione positiva e giammai
negativa: l’idea che la perplessità denoti invece qualcosa di confusionale o
caotico deriva da una concezione di tipo pragmatico-razionalista che tende a
non riconoscere l’esistenza di un proprio limite gnoseologico.
Ibn ‘Arabī inizia a parlare di ḥayra nel
terzo capitolo dei Fuṣūṣ, ed in merito alla sua causa
afferma che essa deriva dalla
moltiplicazione dell’Uno in vari aspetti (wujūh) e
correlazioni (nisab)[3].
Non
si tratterebbe pertanto di una sottrazione di certezza in re, quanto
piuttosto di uno stupore di fronte all’infinita possibilità che l’Uno si dia a
noi attraverso forme epifaniche diverse e che si faccia conoscere da noi
tramite infinite relazionalità. È la scoperta di un comune denominatore che noi
rinveniamo nella relazione che con-tiene tutte le cose di cui possiamo o potremo fare esperienza.
La
precisione di Smirnov su questo punto è ragguardevole. Allargando il contesto della precedente citazione dei Fuṣūṣ,
egli ricorre ai commenti ibnarabiani fatti alla sura Nūḥ, in special
modo al versetto «ed Essi ne hanno già traviati molti» (Cor., 71:24).
È
noto agli studiosi ibnarabiani che questa sura, alla luce dello stesso terzo
capitolo dei Fuṣūṣ, costituisca il fondamento della waḥdat
al-wujūd, ovvero di quella Realtà unica che
attraverso i propri aspetti e qualificazioni esclude la possibilità di
«associazionismo»[4], proprio perché la molteplicità attuale è inerente al
manifestarsi della stessa Realtà.
In
merito alle parole di Nūḥ, dunque, Ibn ‘Arabī
precisa che loro (la molteplicità delle divinità adorate) li hanno resi
perplessi solo
nella moltiplicazione dell’Uno in virtù dei suoi aspetti e
delle sue correlazioni (ḥayyarū-hum fī
ta‘dād al-wāḥid bi-l-wujūh wa-l-nisab).
L’impiego
della preposizione «in» (fī) al posto di «per» (bi-),
come ci si sarebbe potuto attendere in un primo momento, è intenzionale
proprio perché il discorso non è esclusivamente epistemologico bensì
anche ontologico. In ognuno di questi aspetti non ci sono pezzi dell’Uno bensì
l’Uno-in-quanto-quel-aspetto: con linguaggio sistemistico, potrei dire che gli
aspetti non costituiscono dei sotto-sistemi piuttosto tutti gli insiemi che
possono fregiarsi del nome appunto di insiemi.
Una
grande attenzione nei confronti di questo versetto è stata dimostrata anche da
C.A. Gilis, che nella sua versione francese dei Fuṣūṣ[5] parla di esso come di «senso iniziatico» identificabile con
la ḥayra:
la molteplicità delle divinità adorate, assimilate a
quelle delle teofanie, diviene fonte di perplessità e del pari di scienza[6].
Un
tipo di scienza che viene infusa nel cuore dell’uomo
direttamente dall’incessante movimento di successione delle nuove epifanie.
Ovvero, è la moltiplicazione epifanica ad educare il
cuore dell’uomo al mistero della Realtà divina tramite il semplice
apprendimento della stessa molteplicità[7].
Derivo
quindi che lo scopo soteriologico dell’indagine akbariana non è identificare il
cosmo nella sua integralità con Dio, quanto invece
affermare che non vi è altra realtà che la Realtà divina. In questo senso il wujūd
– l’atto di essere – non appartiene in alcun modo alle cose
esistenti bensì esclusivamente al Principio supremo (dhāt al-Haqq):
se solo Lui è in quanto Realtà, allora l’idea
di esistenza coincide con quella di ente, e la «coseità» (shay’iyya)
partecipa unicamente dell’essere del Principio che le dona l’«essere relativo»
(al-wujūd al-idāfī)
Ḥayra dunque indica non solo
la “perplessità nella conoscenza dell’Uno”, ma anche “la perplessità nell’essere
dell’Uno”[8].
Ed
ecco come Ibn ‘Arabī illustra questo punto:
l’Ordine (Universale) è perplessità, e la perplessità è
agitazione e movimento ed il movimento è vita[9] (al-‘amr ḥīra
wa-l-ḥīra qalaq wa ḥaraka wa-l-ḥaraka ḥayāt).
Smirnov
legge, in questo contesto, la parola araba حيرة
come ḥīra e non come ḥayra seguendo
l’intento ibnarabiano di identificare la perplessità con il «vortice» حيرة[10].
La
perplessità, quindi, potendo essere letta come ḥīra e non
come ḥayra, in ciò confortati dai dizionari arabi, ci ricorda
come il «vortice» (ḥīra) sia una delle immagini simboliche
preferite da Ibn ‘Arabī per alludere alla vita e
all’ordine universale[11].
L’essere umano “perplesso”, ḥā’ir pertanto, si trova in
costante movimento. Egli non può raggiungere una posizione stabile, non è
ancorato in nessun dove.
Questo
avviene perché, dice lo stesso Ibn ‘Arabī,
l’essere umano è «perplesso nella moltiplicazione dell’Uno»: l’essere
umano perplesso si muove nel vortice della vita e dell’Ordine cosmico,
realizzando contemporaneamente che egli stesso è tale
movimento.
È
possibile che un simile movimento sia derivabile da qualsiasi concetto
filosofico?
Smirnov,
che una simile domanda se l’era già posta, non ha dubbi al proposito e risponde
affermativamente: ḥayra è il movimento
tra due opposti che si presuppongono l’un l’altro e che hanno senso solo nella
loro congiunzione; questo è il motivo per cui è senza fine il movimento
dall’uno all’altro, dato che questi due opposti possono sussistere solo
insieme, e perché l’Ordine Universale viene costituito attraverso questa
costante transizione dall’uno all’altro[12].
Questi
due opposti sono, ovviamente nel più generale dei
casi, Dio ed il mondo, al-Ḥaqq e al-Khalq oppure ẓāhir
e bāṭin.
Derivo
quindi, confortato in ciò dalla riflessione smirnoviana, che «essere in ḥayra»
o «essere perplesso» significhi capacità di transizione tra gli aspetti ẓāhir
e bāṭin dell’Ordine universale e dunque l’abilità di
collocare ogni essere sempre in questo movimento di transizione ẓāhir-bāṭin[13], come a dire il possesso di una precisa coscienza della
relativa assolutezza delle forme di questo Ordine universale.
Il
concetto di «perplessità» in sé, non possedendo una connotazione negativa,
discende dallo smarrirsi consapevole nell’Oceano
divino[14],
configurandosi quale stato cognitivo caratterizzato dall’abbandono della
funzione logica attraverso il raggiungimento di un’impasse logica. Mi
spingo ad affermare la sussistenza di una simile volontà, basandomi sul lavoro
di Qaysarī intitolato Risāla fî ‘ilm al-tasawwuf, tradotto
in italiano da Giorgio Giurini[15]. In esso, la compresenza di
strutture deduttive ed induttive, talvolta palesi tautologie, mi fa intendere
che il quid della scienza iniziatica sia quello di far giungere la
mente dell’uomo alla sua impasse, laddove quest’ultima coincide con
«il ristabilirsi (ifāqa) del servo dopo il suo “venir meno” (ṣa‘iqa)»[16].
La
Realtà è quindi costituita da ciò-che-si-vede – che logicamente si
elabora per poi riconoscere – e da ciò-che-non-si-vede, proprio come nel
caso del ricamo il filo colorato scompare sotto la trama per poi riemergere e delineare i contorni del disegno da eseguire. Il fenomenico
e l’essenziale non trovano qui posto: quanto non si vede – l’interiore
– e quanto si vede – l’esteriore –
stanno sullo stesso piano e si presuppongono vicendevolmente.
Nell’impossibilità
di stabilire una precedenza logica tra esteriore ed
interiore (ẓāhir e bāṭin) dell’Ordine
universale, perché come si è visto rappresentano la traduzione l’uno
dell’altro, la logica dell’essere umano collassa strutturalmente e sopraggiunge
lo «stupore»[17]. Questo
gli permette di transitare tra l’esteriore e l’interiore dell’Ordine universale
e di collocare ogni essere in questo movimento di transizione, come sopra già delineato.
Perplesso
e quindi stupito, all’uomo sembra di essere all’interno di un mulinello d’acqua
che gli impedisce di sostare in un punto definito. L’uomo, allora, è portato in
maniera aporistica ad affermare che il mondo è in Dio e Dio è nel mondo. E,
separare questa affermazione in due parti dis-unite,
pregiudicherebbe un’autentica conoscenza della Realtà.
Secondo
la mia riflessione ed in base a quanto citato in
precedenza, la perplessità è per Ibn ‘Arabī il preludio dell’incontro con
la Realtà divina, la Verità[18],
la quale si dà all’uomo nella sua antinomicità, testimoniata come è anche dal
«paradosso del monoteismo» che lo stesso Ibn ‘Arabī indicò a suo tempo e
che nitidamente Corbin ha riportato nel suo omonimo testo[19].
Ritengo
quindi che la perplessità sia lo stupore innanzi
all’antinomicità dell’attestazione dell’unicità dell’Essere divino (tawḥīd)
e che si prefiguri al contempo quale stato mistico (ḥāl) e
stazione iniziatica (maqām), laddove la chiave d’accesso alla ḥayra
è fornita dal tawḥīd che è l’affermazione
dell’«atto-essere» (wujūd) e la contemporanea negazione
dell’ente: l’ente non è l’essere e viceversa, e dunque il tawḥīd
non professa l’unità di un ente bensì quella dell’«atto-essere»[20].
Se
come viene detto nel Kitāb al-Yā’ wa
huwa kitāb al-Huwa, «il Viaggio termina nella Perplessità. Qui è
l’estremo limite, oltre ci sono solo insondabilità ed
impenetrabilità»[21], è possibile affermare che la certezza epistemologica
dell’uomo, che è anche chiarezza di visione, riposa nel suo smarrimento
ontologico?
Lo
sconcerto dello gnostico di fronte alla Signoria divina è la forma più sublime
di ḥayra, poiché questi si trova sottratto alle definizioni e
alle limitazioni[22]
O Dio mio, aumenta il mio sconcerto in Te![23]
(Ringrazio tutti Voi per l’attenzione accordatami e Pablo
Beneito per l’invito e l’eccessiva fiducia nei miei confronti. Ringrazio infine
i signori Paolo Urizzi, Andrey Smirnov, Paolo
Vicentini, Giorgio Giurini e Rinaldo Massi per la loro frequentazione).
[1] Per altre proposte di traduzione in italiano, cfr . Kalābādhī, Il Sufismo nelle parole degli antichi, tr. it. di Paolo Urizzi, Palermo, 2002: soprattutto pp. 255-256.
[2] A. Smirnov, Il
vortice divino. Il monismo come interdipendenza tra ẓāhir-bāṭin:
il punto di vista musulmano e la filosofia mistica di Ibn ‘Arabī,
www.dialegesthai.com.
[3] Ibn ‘Arabī, Fuṣūṣ al‑Ḥikam,
2nd ed. Bayrūt: Dār al-kitāb al-‘arabī, 1980, p. 72; A.
Smirnov, Op. cit.
[4] Cfr. Ibn ‘Arabī, Fuṣūṣ al‑Ḥikam,
Ibn ‘Arabī, Fuṣūṣ
al‑Ḥikam, tr. fr. di C.A. Gilis, Beyrouth, 1997, p.
137.
[5] Ibn ‘Arabī,
Fuṣūṣ al‑Ḥikam, tr. fr. di C.A. Gilis,
Beyrouth, 1997, p. 141 e ss.
[6] Idem, p. 141.
[7] Trovo estremamente
interessanti ed utili al caso i diagrammi di Āmolī. Cfr. S.H. Āmolī, Le Texte des Textes (Naṣṣ
al-Nuṣūṣ). Commentaire des «Fuṣūṣ al-Ḥikam»
d’Ibn ‘Arabī. Les Prolégomènes, Teheran-Parigi, 1975, p. 350; P.A. Beneito,
L’Arca della creazione: il motivo del markab nel sufismo, Roma, 2005.
[8] Cfr. S. Hakim, Unity of Being in Ibn
´Arabī, www.ibnarabisociety.org.
[9] Fuṣūṣ p. 199-200; vedere anche
p.73.
[10] A. Smirnov, Il vortice divino,
op. cit.
[11] La versione originale in inglese riporta
il termine whirlpool, che in italiano è “vortice” oppure anche
“mulinello”. Per quanto riguarda la traduzione in inglese del termine arabo حيرة,
l’autore deve certamente averne consultato la radice sul Lane: quest’ultima حير,
richiama il concetto di “mulinello” e quindi di “vortice” (ndt).
[12] Cfr. A. Smirnov, Il vortice divino,
op. cit.
[13] Idem.
[14] L’idea invece che la perplessità sia in
certo qual modo sinonimo di caos la troviamo soprattutto nella filosofia e
teologia di stampo razionalistico quale per esempio nel testo di T. S. Centi, Reminiscenze tomiste ne “Gli Scritti” di
Sant’Antonio M. Zaccaria, in “Rivista di Ascetica e Mistica”, anno 2007,
n. 4, pp. 870 e 873.
[15] Al-Qaysarī, La scienza
iniziatica, tr. it. di Giorgio Giurini, Torino,
2003.
[16] Idem, p. 63.
[17] Cfr. C. Michelstaedter,
La persuasione e la rettorica, Milano, 1999, p. 140.
[18] Cfr. A. Smirnov, La filosofia mistica
e la ricerca della Verità, Roma, 2005; I. Almond, The honesty of the
Perplexed: Derrida and Ibn ‘Arabī on
«Bewilderment», in «Journal of the American Academy of Religion», 2002,
vol. 70, n. 3, pp. 515-537.
[19] Cfr. H. Corbin, Il
paradosso del monoteismo, Genova, 1986, p. 5.
[20] Cfr. S.H.
Āmolī, Le Texte des Textes (Naṣṣ al-Nuṣūṣ),
cit., p. 350; P. A. Beneito, Op. cit.
[21] Ibn ‘Arabi, Kitāb
al-Yā’ wa huwa kitāb al-Huwa, tr. it. di Chiara Casseler [Il
libro del Sé divino], Torino, 2004, p. 59. Il concetto di limite nel
pensiero akbariano viene affrontato invece da S.H.
Bashier, Ibn ‘Arabī’s Barzakh: the Concept of the Limit and the
Relationship between God and the World, Albany-New York, 2004.
[22] Ibn ‘Arabī
in Kalābādhī, Il Sufismo nelle parole degli antichi,
cit., p. 256.
[23] Ghazālī, Madkhal al-sulûk
ilā manāzil al-mulūk (scaricabile qui: http://www.al-mostafa.info/data/arabic/depot3/gap.php?file=m002278.pdf).
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