René Guénon
Forme tradizionali e cicli cosmici
Recensioni I
Forme tradizionali e cicli cosmici
Recensioni I
Mircea Eliade: Le Mythe de l’éternel retour. Archétypes et
répétitions, Gallimard, Parigi 1949.[1]
Il titolo di questo volumetto, che peraltro non corrisponde
esattamente al suo contenuto, non ci sembra molto felice, perché fa pensare
inevitabilmente alle concezioni moderne cui si applica d’abitudine la
denominazione di «eterno ritorno» e che, oltre a
confondere l’eternità con la durata indefinita, implicano l’esistenza di una
ripetizione impossibile e chiaramente contraria alla vera nozione tradizionale
dei cicli, secondo la quale vi è solamente corrispondenza e non identità. In
definitiva, nell’ordine macrocosmico, vi è una differenza paragonabile a quella
che esiste, nell’ordine microcosmico, fra l’idea della reincarnazione e quella
del passaggio dell’essere attraverso i molteplici stati della manifestazione.
Di fatto, nel libro di Eliade, non si parla di ciò e quel che egli intende per
«ripetizione» non è altro che la riproduzione o piuttosto l’imitazione rituale
di «ciò che fu fatto al principio». In una civiltà
integralmente tradizionale, tutto procede da «archetipi celesti»: così le
città, i templi, le case sono sempre costruiti secondo
un modello cosmico.
Un’altra questione connessa e che pure, in fondo, differisce
da quest’ultima molto meno di quanto l’autore non sembri
pensare, è quella della identificazione simbolica con il «Centro». Di questo argomento abbiamo avuto occasione di parlare molto
spesso; Eliade ha raggruppato numerosi esempi che si riferiscono alle
tradizioni più disparate, fatto che illustra bene l’universalità e ‑
potremmo dire ‑ la «normalità» di tali concezioni. Successivamente,
passa allo studio dei riti propriamente detti, sempre dalla medesima
angolazione; ma vi è un punto riguardo al quale dobbiamo avanzare delle serie
riserve: egli parla di «archetipi delle attività profane», mentre, fin tanto
che una civiltà conserva un carattere integralmente tradizionale, non esistono
attività profane: crediamo di capire che le attività che egli definisce in tal
modo sono quelle divenute profane in seguito ad una certa degenerazione, il che
è ben diverso, perché allora, per ciò stesso, non può più trattarsi di
«archetipi», il profano essendo tale soltanto per il fatto di non essere più
ricollegato ad alcun principio trascendente; del resto, non vi è certamente
nulla di profano negli esempi che egli menziona (danze rituali, consacrazione
di un re, medicina tradizionale).
Nel prosieguo, Eliade si sofferma
più particolarmente sul ciclo annuale e sui riti che ad esso si riferiscono;
naturalmente, in virtù della corrispondenza esistente fra tutti i cicli, l’anno
stesso può essere inteso come un’immagine ridotta dei grandi cicli della
manifestazione universale, ed è questa considerazione, in particolare, che
spiega perché al suo inizio sia attribuito un carattere «cosmogonico». L’idea
di una «rigenerazione del tempo», che l’autore fa
intervenire qui, non è molto chiara, ma sembra che debba intendersi con essa l’opera
divina di conservazione del mondo manifestato, per la quale l’azione rituale è
una vera collaborazione, in virtù delle correlazioni esistenti fra l’ordine
cosmico e quello umano. È però deplorevole che, per tutto ciò, l’autore ritenga
di dover parlare di «credenze», mentre si tratta
dell’applicazione di conoscenze reali, e di scienze tradizionali, che hanno un
ben diverso valore rispetto alle scienze profane. E perché poi, in omaggio ad
altri pregiudizi moderni, scusarsi per aver «evitato ogni interpretazione
sociologica o etnografica», quando, al contrario, noi non sapremmo elogiarlo
abbastanza per essersene astenuto, specie se si
ricorda fino a che punto altri studi sono viziati da interpretazioni del
genere?
Gli ultimi capitoli sono meno interessanti, dal nostro punto
di vista e, in ogni caso, sono i più criticabili, perché il loro contenuto non
è più un’esposizione di dati tradizionali, bensì delle riflessioni personali di
Eliade, da cui egli stesso cerca di ricavare una sorta di «filosofia
della storia». In proposito, non vediamo come le concezioni cicliche si
opporrebbero in qualche modo alla storia (viene
persino usata l’espressione «rifiuto della storia»): a dire il vero, invece,
questa può avere realmente un senso, in quanto esprima lo svolgersi degli
avvenimenti, nel corso del ciclo umano, sebbene gli storici profani non siano
assolutamente capaci di rendersene conto. Se l’idea di «sventura» può in un
certo senso ricollegarsi all’«esistenza storica», è proprio perché il cammino
del ciclo si effettua secondo un moto discendente; ed
è ancora il caso di aggiungere che le considerazioni finali, sul «terrore della
storia», ci sembrano davvero un po’ troppo ispirate da preoccupazioni
d’«attualità»?
Gaston Georgel: Les Rythmes dans
l’Histoire, presso l’autore, Belfort.[2]
Questo libro costituisce un tentativo di applicare i cicli
cosmici alla storia dei popoli, alle fasi di sviluppo e di decadenza delle
civiltà. È davvero un peccato che l’autore, nel por mano al suo lavoro, non
abbia avuto a disposizione dati tradizionali più completi, e anche che taluno
di essi gli sia pervenuto per il tramite di intermediari
poco attendibili, che vi hanno aggiunto e mescolato le loro fantasie personali.
Tuttavia, egli ha compreso che il fattore essenziale da considerare riguarda il
periodo della precessione degli equinozi e le sue ripartizioni, benché vi
aggiunga poi delle complicazioni in fondo superflue; ma la terminologia
adottata per designare certi periodi secondari tradisce non poche
incomprensioni e confusioni. Ad esempio, la dodicesima parte della precessione
non può certo essere denominata «anno cosmico»: tale appellativo si addice,
infatti, più all’intero periodo, ed anche alla sua metà, che è precisamente il «grande anno» degli Antichi. D’altra parte, la durata di
25.765 anni si deve probabilmente a qualche calcolo ipotetico di astronomi
moderni, la durata reale indicata tradizionalmente essendo di 25.920 anni. Per
una conseguenza, singolare, di fatto l’autore è talvolta indotto a prendere i
numeri esatti per certe divisioni, ad esempio 2.160 e 540, ma allora li
considera soltanto «approssimativi». Aggiungiamo, a
questo proposito, un’altra osservazione: egli crede di trovare una conferma
all’ipotesi del ciclo di 539 anni, in alcuni testi biblici che suggeriscono il
numero 77´7=539; ma, per l’appunto, avrebbe dovuto considerare qui
77´7+1=540, non foss’altro che per analogia con l’anno del
giubileo, che non era il 49º bensì il 50º, ossia 7´7+1=50.
Quanto alle applicazioni, se è possibile trovare qui delle
corrispondenze e degli accostamenti non solo curiosi ma davvero degni di nota,
dobbiamo pur dire che ve ne sono altri molto meno sorprendenti ed altri ancora che sembrano un po’ forzati, al punto da ricordare
spiacevolmente la puerilità di certi occultisti. Così pure vi sarebbero da esprimere non poche riserve su altri punti, per
esempio riguardo alle cifre fantasiose indicate per la cronologia delle civiltà
antiche. D’altra parte, sarebbe stato interessante vedere se l’autore sarebbe
riuscito ad ottenere risultati analoghi ampliando ancor più il campo delle sue
indagini,. poiché vi sono stati e vi sono tuttora
molti altri popoli, oltre quelli che egli considera. Comunque, non pensiamo che
si possa stabilire un «sincronismo» generale, poiché, per popoli differenti,
ugualmente differente deve essere il punto di partenza; di più, le diverse
civiltà non sono soltanto successive, esse coesistono anche, come si può constatare ancor oggi.
Concludendo, l’autore ha creduto
opportuno lasciarsi andare ad alcuni tentativi di «previsione del futuro»,
peraltro in limiti abbastanza ristretti; e questo è proprio uno dei pericoli di
un tal genere di ricerche, specialmente nella nostra epoca, in cui le
cosiddette «profezie» vanno tanto di moda. In realtà, nessuna tradizione ha mai
incoraggiato simili cose, ed è proprio per ostacolarle nei limiti del
possibile, più che per altre ragioni, che certi aspetti della dottrina dei
cicli sono stati sempre avvolti nell’oscurità.
Gaston Georgel: Les Rythmes dans l’Histoire, II ed., Éditions «Servir», Besançon.[3]
Abbiamo recensito questo libro quando fu pubblicato per la
prima volta: a quell’epoca, l’Autore, come del resto afferma egli stesso nella
prefazione della nuova edizione, non sapeva quasi nulla dei dati tradizionali
relativi ai cicli, dovendosi ad un caso fortunato il
fatto che egli fosse riuscito a reperirne alcuni, partendo da un punto di vista
«empirico» e, in particolare, a supporre l’importanza della precessione degli
equinozi. Le osservazioni che facemmo allora lo indussero ad approfondire
quegli studi, della qual cosa non possiamo che
rallegrarci, ed ora dobbiamo ringraziarlo per quanto, in proposito, ha ritenuto
di dover dire, riguardo alla nostra persona. Egli ha dunque modificato e
completato la sua opera in parecchi punti, aggiungendo capitoli o paragrafi
nuovi, di cui uno sulla storia della questione dei cicli, correggendo diverse
inesattezze ed eliminando le considerazioni dubbie che aveva
accolto in un primo tempo, in base alla fiducia accordata a scrittori
occultisti, in mancanza di dati più genuini con cui poterle confrontare. Ci
rammarichiamo soltanto che abbia dimenticato di sostituire con i numeri esatti
540 e 1.080 quelli di 539 e 1.078 anni, come invece sembrava preannunciare
nella prefazione, tanto più che non ha poi mancato di correggere in 2.160
quello di 2.156 anni, il che introduce un certo apparente disaccordo fra i
capitoli che si riferiscono rispettivamente a questi diversi cicli, l’uno
multiplo dell’altro. Dispiace poi che abbia mantenuto le espressioni «anno
cosmico» e «stagione cosmica» per designare periodi di durata troppo ridotta
perché esse possano riferirvisi realmente (per la precisione di 2.160 e 540
anni) e che piuttosto potrebbero considerarsi dei «mesi» e delle «settimane»,
tanto più che la denominazione di «mese», in definitiva, sarebbe conveniente
per il percorso di un segno zodiacale nel moto di precessione degli equinozi e
che, d’altra parte, il numero 540=77´7+1,
così come quello della settupla «settimana di anni»
del giubileo (50=7´7+1) di cui è in certo qual modo una «estensione», ha una
particolare relazione con il settenario.
Peraltro, queste sono pressoché le sole critiche di
dettaglio che abbiamo da formulare stavolta e il libro, nel complesso, è ben
degno di interesse e si distingue da certe altre opere
in cui si avanzano, a proposito delle teorie cicliche, pretese ben più
ambiziose e certo ben poco giustificate; esso, naturalmente, si limita a
considerare quelli che si possono definire i «piccoli cicli» storici, nel
quadro delle sole civiltà occidentali e mediterranee, ma sappiamo che Georgel
sta ora preparando, nello stesso ordine di idee, altri lavori di carattere più
generale, e ci auguriamo che presto possa condurli ugualmente a buon fine.
Nessun commento:
Posta un commento