"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 28 gennaio 2015

René Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici - cap. Alcune considerazioni sulla dottrina dei cicli cosmici *

René Guénon
Forme tradizionali e cicli cosmici


Alcune considerazioni sulla dottrina dei cicli cosmici *


Ci è stato chiesto talvolta, a proposito degli accenni che siamo stati indotti a fare in diverse occasioni alla dottrina indù dei cicli cosmici ed a quelle equivalenti che si ritrovano in altre tradizioni, di darne, se non una esposizione completa, almeno un quadro d’insieme, a grandi linee.
Per la verità, ci sembra questo un compito pressoché impossibile, non solo per la intrinseca complessità dell’argomento, ma anche e soprattutto per le grandi difficoltà che si incontrano ad esprimere questi concetti in una lingua europea, in maniera tale, da renderli comprensibili alla mentalità occidentale attuale, completamente disabituata ad un tal genere di considerazioni. Tutto ciò che si può fare, a nostro avviso, è cercare di chiarire certi punti, con delle osservazioni come quelle che seguono, alle quali non si può chiedere altro che di fornire delle semplici indicazioni circa il senso della dottrina in questione, piuttosto che darne una spiegazione esauriente.
Considereremo un ciclo, nella accezione più ampia del termine, come la rappresentazione del processo di sviluppo di uno stato qualsiasi della manifestazione, oppure, se si tratta di cicli minori, di qualcuna delle modalità più o meno limitate e particolari di tale stato. D’altronde, in virtù della legge di corrispondenza che collega tutte le cose nell’Esistenza universale, vi è sempre e necessariamente una certa analogia sia fra i diversi cicli di uno stesso ordine, sia tra i cicli principali e le loro suddivisioni secondarie. È quindi lecito, parlandone, impiegare un unico modo d’espressione, anche se questo spesso dovrà essere inteso solo simbolicamente, l’essenza stessa di ogni simbolismo fondandosi appunto sulle corrispondenze e sulle analogie che realmente esistono nella natura delle cose. Alludiamo qui soprattutto alla forma «cronologica» assunta dalla dottrina dei cicli: poiché il Kalpa rappresenta lo sviluppo totale di un mondo, vale a dire di uno stato o grado dell’Esistenza universale, è evidente che si potrà parlare letteralmente della durata di un Kalpa, valutata in base ad una qualsiasi unità di misura del tempo, soltanto se si tratterà del Kalpa che si riferisce ad uno stato in cui il tempo è una delle condizioni determinanti, quale è propriamente il nostro mondo. In ogni altro caso, tutte le considerazioni di durata e di successione non potranno avere che un valore meramente simbolico e dovranno essere trasposte analogicamente, la successione temporale diventando allora solo un’immagine della concatenazione, insieme logica e ontologica, di una serie «extra-temporale» di cause ed effetti. Tuttavia, poiché il linguaggio umano non può esprimere direttamente condizioni diverse da quelle proprie del nostro stato, un simbolismo del genere è per ciò stesso sufficientemente giustificato e dev’essere considerato perfettamente naturale e normale.
Non abbiamo, in questa sede, l’intenzione di occuparci dei cicli più ampi, come i Kalpa; ci limiteremo a quelli che si svolgono entro il nostro Kalpa, cioè ai Manvantara e alle loro suddivisioni. A questo livello, i cicli presentano un carattere sia cosmico che storico, poiché riguardano particolarmente l’umanità terrestre, pur essendo nello stesso tempo collegati a tutti gli avvenimenti che si producono nel nostro mondo al di fuori di essa. In ciò non vi è nulla di sorprendente, perché il ritenere la storia dell’uomo come isolata in qualche modo da tutto il resto è un’idea esclusivamente moderna, in netta opposizione con l’insegnamento di tutte le tradizioni, che, al contrario, sono unanimi nell’affermare l’esistenza di una correlazione necessaria e costante tra l’ordine cosmico e quello umano.
I Manvantara, o ere dei successivi Manu, sono quattordici e formano due serie settenarie, di cui la prima comprende i Manvantara trascorsi e quello presente, la seconda i Manvantara futuri. Queste due serie, di cui, come abbiamo visto, una si riferisce al passato, con il presente che ne è la risultante immediata, e l’altra al futuro, possono essere messe in corrispondenza con quelle dei sette Swarga e dei sette Pâtâla, i quali rappresentano rispettivamente l’insieme degli stati superiori ed inferiori allo stato umano, se ci si pone dal punto di vista della gerarchia dei gradi dell’Esistenza ovvero della manifestazione universale, o l’insieme di quelli anteriori e posteriori, a questo stesso stato, nel caso invece che ci si ponga dal punto di vista del concatenamento causale dei cicli, descritto simbolicamente, come sempre, mediante l’analogia di una successione temporale. Quest’ultima angolazione è evidentemente quella che qui più interessa: essa infatti, ci consente di vedere, all’interno del nostro Kalpa, in virtù della relazione analogica sopra menzionata, un’immagine ridotta di tutto l’insieme dei cicli della manifestazione universale e, in questo senso, si potrebbe dire che la successione dei Manvantara rappresenta in certo qual modo un riflesso degli altri mondi nel nostro. D’altronde, si può ancora notare, a conferma di ciò, che le parole Manu e Loka sono entrambe designazioni simboliche del numero 14; parlare a questo proposito di una semplice «coincidenza» equivarrebbe a dar prova di una completa ignoranza delle ragioni profonde, inerenti ad ogni simbolismo tradizionale.
Si può ravvisare ancora un’altra correlazione con i Manvantara, quella relativa ai sette Dwîpa o «regioni», in cui si divide il nostro mondo. Infatti, sebbene questi siano rappresentati, conformemente al senso proprio della parola che li designa, come altrettante isole o continenti distribuiti in un certo modo nello spazio, bisogna guardarsi da un’interpretazione strettamente letterale, che li identifichi senz’altro alle diverse zone della terra, attualmente conosciuta; essi, in effetti, non «emergono» simultaneamente, bensì successivamente, il che vuol dire che uno solo di essi si manifesta nel dominio sensibile nel corso di un certo periodo. Se questo periodo è un Manvantara, si deve concludere che ogni Dwîpa dovrà apparire due volte nel Kalpa, ossia una volta in ciascuna delle due serie settenarie di cui dicemmo poc’anzi; e dal rapporto fra queste due serie, che si corrispondono inversamente, come avviene in tutti i casi simili, e in particolare per quelle degli Swarga e dei Pâtâla, si può dedurre che l’ordine di apparizione dei Dwîpa dovrà ugualmente, nella seconda serie, essere l’inverso di quello che è stato nella prima. Si tratta, in definitiva, di differenti stati del mondo terrestre, piuttosto che di «regioni» vere e proprie. Il Jambu-Dwîpa rappresenta in realtà l’intera superficie terrestre nel suo stato attuale; e se di esso si dice che si estende a sud del Mêru, cioè della montagna «assiale» intorno alla quale si compiono le rivoluzioni del nostro mondo, è proprio perché, essendo il Mêru simbolicamente identico al Polo Nord, effettivamente, rispetto a questo, tutte le terre sono situate a sud. Per dare maggiori spiegazioni sull’argomento, bisognerebbe poter sviluppare il simbolismo delle direzioni dello spazio, secondo cui sono ripartiti i Dwîpa, come pure i rapporti di corrispondenza esistenti fra questo simbolismo spaziale e il simbolismo temporale sul quale poggia tutta la dottrina dei cicli; ma, poiché non ci è possibile inoltrarci qui in considerazioni che da sole richiederebbero un intero volume, dobbiamo accontentarci di queste sommarie indicazioni, che, del resto, potranno facilmente completare per proprio conto coloro che hanno già qualche conoscenza in materia.
Queste nostre osservazioni concernenti i sette Dwîpa trovano poi conferma nei dati concordanti di altre tradizioni, nelle quali si parla ugualmente di «sette terre», segnatamente nell’esoterismo islamico e nella Kabbala ebraica: in quest’ultima, le «sette terre», pur essendo raffigurate esteriormente come altrettante ripartizioni della terra di Canaan, sono poste in relazione con i regni dei «sette re di Edom», i quali corrispondono manifestamente ai sette Manu della prima serie. Queste terre, inoltre, sono tutte comprese nella «Terra dei Viventi», che rappresenta lo sviluppo completo del nostro mondo, realizzato in modo permanente nel suo stato principale. Si può rilevare qui la coesistenza di due punti di vista: quello della successione, che si riferisce alla manifestazione in se stessa, e quello della simultaneità, che si riferisce al suo principio, o a ciò che si potrebbe chiamare il suo «archetipo». In fondo, la corrispondenza di questi due punti di vista equivale, in certo qual modo, a quella tra simbolismo temporale e simbolismo spaziale, cui abbiamo già accennato parlando dei Dwîpa della tradizione indù.
Nell’esoterismo islamico, le «sette terre» rappresentano, forse più esplicitamente, altrettante tabaqât o «categorie» dell’esistenza terrestre, che coesistono e si compenetrano a vicenda, di cui una soltanto può essere attualmente colta dai sensi, mentre le altre sono allo stato latente e soltanto eccezionalmente possono essere percepite, per di più in speciali condizioni. Anche in questo caso, esse si manifestano esteriormente, una per volta, nei diversi periodi che si succedono nel corso della intera durata di questo mondo. D’altra parte, ognuna delle «sette terre» è retta da un Qutb o «Polo», che corrisponde chiaramente al Manu del periodo durante il quale la rispettiva terra si manifesta. Questi sette Aqtâb sono subordinati al «Polo» supremo, così come i diversi Manu lo sono all’Adi-Manu o Manu primordiale; ma, in ragione della coesistenza delle «sette terre», esercitano anche, sotto un certo aspetto, le loro funzioni in modo permanente e simultaneo. Si noti, per inciso, che la designazione «Polo» è strettamente legata al simbolismo «polare» del Mêru menzionato poco sopra, il quale, nella tradizione islamica, ha per esatto equivalente il monte Qâf. Aggiungiamo che i sette «Poli» terrestri vengono considerati come il riflesso dei sette «Poli» celesti, che presiedono rispettivamente ai sette, cieli planetari; e questo fa naturalmente pensare ad una corrispondenza con gli Swarga della dottrina indù, dimostrando ulteriormente la perfetta concordanza che esiste, al riguardo, fra le due tradizioni.
Considereremo ora le suddivisioni di un Manvantara, cioè i quattro Yuga. Faremo anzitutto notare, senza insistervi troppo, che tale divisione quaternaria di un ciclo è suscettibile di molteplici applicazioni, e che in effetti la si ritrova in molti cicli particolari: come esempio, possiamo citare le stagioni dell’anno, le settimane del mese lunare, le quattro età della vita umana; ed anche qui vi è corrispondenza con il simbolismo spaziale, riferito, in tal caso, principalmente ai quattro punti cardinali. D’altro canto, si è spesso rilevata la manifesta equivalenza dei quattro Yuga con le quattro età dell’oro, dell’argento, del rame e del ferro, quali furono conosciute dall’antichità greco-latina: in entrambe le rappresentazioni, ogni periodo è ugualmente caratterizzato. da un processo di degenerazione, rispetto, al precedente. Questo processo che si oppone nettamente all’idea di «progresso» quale la concepiscono i moderni, si spiega semplicemente con il fatto che ogni svolgimento ciclico, vale a dire ogni processo di manifestazione, in cui è implicito necessariamente un allontanamento graduale dal principio, rappresenta realmente una «discesa»: è questo, del resto, il significato reale della «caduta» nella tradizione giudaico-cristiana.
La progressiva degenerazione da uno Yuga all’altro si accompagna ad una diminuzione della rispettiva durata, la quale è considerata incidere sulla lunghezza della vita umana; ma quel che più importa, da questo punto di vista, è il rapporto tra le rispettive durate dei diversi periodi. Se la durata complessiva del Manvantara è rappresentata dal numero 10, quella del Krita-Yuga o Satya-Yuga lo sarà dal 4, quella del Trêta-Yuga dal 3, quella del Dwâpara-Yuga dal 2 e quella del Kali-Yuga dall’1. Questi valori corrispondono altresì al numero delle zampe del toro simbolico di Dharma che si raffigurano poggiate sulla terra durante gli stessi periodi. La ripartizione del Manvantara si effettua quindi secondo la formula 10=4+3+2+1, che è l’inverso della Tetraktys pitagorica: 1+2+3+4=10. Quest’ultima formula rappresenta ciò che nel linguaggio dell’ermetismo occidentale viene denominato la «circolatura del quadrato», e l’altra il problema inverso della «quadratura del cerchio», che esprime appunto la relazione tra la fine e l’inizio del ciclo, cioè l’integrazione del suo sviluppo totale. È questo un simbolismo aritmetico e geometrico ad un tempo, che qui possiamo soltanto indicare di sfuggita, per non allontanarci troppo dall’argomento principale.
Quanto alle cifre indicate in diversi testi, in relazione alla durata del Manvantara e, conseguentemente, a quella degli Yuga, bisogna evitare di considerarle «cronologicamente» nel significato ordinario della parola, vale a dire come se esprimessero numeri di anni, da prendersi alla lettera. È questo d’altronde il motivo per cui le apparenti variazioni tra i dati non implicano in fondo una reale contraddizione. Per le ragioni che esporremmo in seguito, la sola di queste cifre da prendere in considerazione è il numero 4.320, dovendosi escludere i vari zeri che si fanno seguire a questo numero, e che verosimilmente sono destinati soprattutto a trarre in inganno coloro che volessero dedicarsi a certi calcoli. Tale precauzione, a prima vista, può sembrare strana, ma poi si può facilmente comprendere: se la effettiva durata del Manvantara fosse nota e se, inoltre, fosse possibile determinare con esattezza il suo punto di partenza, chiunque potrebbe senza difficoltà arrivare a dedurre la previsione di particolari avvenimenti futuri; ora, nessuna tradizione ortodossa ha mai incoraggiato studi che permettessero all’uomo di arrivare a conoscere l’avvenire, in misura più o meno ampia, tale conoscenza presentando praticamente molti più inconvenienti che vantaggi reali. È questo, dunque, il motivo per cui il punto di partenza e la durata del Manvantara sono stati sempre più o meno accuratamente dissimulati, sia aggiungendo o sottraendo un determinato numero di anni ai dati reali, sia moltiplicando o dividendo la durata dei periodi ciclici in modo da mantenere soltanto le loro esatte proporzioni; per di più, diremo che certe corrispondenze, per motivi analoghi, talvolta sono state perfino invertite.
Se la durata del Manvantara è data dal numero 4.320, quelle dei quattro Yuga saranno date rispettivamente da 1.728, 1.296, 864 e 432; ma per quale numero si dovranno moltiplicare queste cifre per ottenere una durata in anni? Si può facilmente notare come tutti questi numeri ciclici siano in rapporto diretto con la divisione geometrica del cerchio: così 4.320=360´12; del resto, non vi è nulla di arbitrario o di meramente convenzionale in questa divisione, poiché, a causa della corrispondenza tra l’aritmetica e la geometria, è normale che tale divisione si effettui secondo multipli di 3, 9, 12, mentre la divisione decimale è quella che propriamente si addice alla linea retta. Questa osservazione, sebbene fondamentale, non permetterebbe tuttavia di andare molto lontano nella determinazione dei periodi ciclici, se non si sapesse che la base principale di questi, nell’ordine cosmico, è il periodo astronomico della precessione degli equinozi, la cui durata è di 25.920 anni, per cui lo spostamento dei punti equinoziali è di un grado ogni 72 anni. Questo numero 72 è precisamente un sottomultiplo di 4.320=72´60, e 4.320 è a sua volta un sottomultiplo di 25.920=4.320´6; e il fatto che per la precessione degli equinozi si trovino i numeri connessi alla divisione del cerchio costituisce una prova ulteriore del carattere veramente naturale di questa divisione. Ma il problema che ora si pone è il seguente: quale multiplo o sottomultiplo del suddetto periodo astronomico corrisponde effettivamente alla durata del Manvantara?
Il periodo che nelle diverse tradizioni appare con maggior frequenza non è tanto quello della precessione degli equinozi quanto la sua metà: è questo in effetti il periodo che corrisponde al «grande anno» dei Persiani e dei Greci, spesso calcolato approssimativamente in 12.000 o 13.000 anni, e la cui esatta durata è di 12.960 anni. Data l’importanza del tutto particolare attribuita a tale periodo, si deve presumere che il Manvantara debba comprendere un numero intero di «grandi anni»: quanti precisamente? A questo proposito, al di fuori della tradizione indù, troviamo perlomeno un’indicazione precisa, abbastanza plausibile da poter essere accettata, questa volta alla lettera: presso i Caldei, la durata del regno di Xisuthros, che è manifestamente identico a Vaivaswata, il Manu dell’era attuale, era fissata in 64.800 anni, cioè esattamente cinque «grandi anni». Per inciso, facciamo notare che il numero 5, essendo quello dei bhûtas o elementi del mondo sensibile, deve necessariamente avere una speciale importanza dal punto di vista cosmologico, il che tende a confermare la fondatezza di una tale valutazione; si potrebbe anzi ravvisare una certa correlazione fra i cinque bhûtas e i cinque «grandi anni» successivi di cui si tratta, tanto più che nelle antiche tradizioni dell’America centrale si trova una evidente connessione fra gli elementi e particolari periodi ciclici; è questo però un problema che richiederebbe una disamina più approfondita. Comunque sia, se è questa effettivamente la durata del Manvantara, e se si continua a prendere come base il numero 4.320, che è esattamente un terzo del «grande anno», è dunque per 15 che questo numero dovrà essere moltiplicato, per avere la durata del Manvantara. I cinque «grandi anni» saranno naturalmente ripartiti nei quattro Yuga in modo diseguale, ma secondo rapporti semplici: il Krita-Yuga ne conterrà 2, il Trêta-Yuga 1½; il Dwâpara-Yuga 1 e il Kali-Yuga ½; questi numeri sono precisamente la metà di quelli che avevamo trovato, quando consideravamo la durata del Manvantara rappresentata dal numero 10. Calcolati in anni ordinari, i quattro Yuga avranno una durata rispettivamente di 25.920, 19.440, 12.960, e 6.480 (anni), per un totale di 64.800 anni. Come si vede, queste cifre si mantengono in limiti perfettamente verosimili, potendo ben corrispondere alla età reale della presente umanità terrestre.
Non andremo oltre con queste considerazioni, poiché, per quanto concerne il punto di partenza del nostro Manvantara, e, conseguentemente, l’esatto punto del suo corso, nel quale ci troviamo attualmente, non è nostra intenzione arrischiarci a determinarli. Sappiamo già, per i riferimenti che ci danno tutte le tradizioni, di essere ormai da tempo nel Kali-Yuga; possiamo aggiungere, senza tema di errori, che siamo anzi in una fase avanzata di esso, fase che viene descritta nei Purâna con particolari che rispondono in maniera davvero sorprendente ai caratteri della epoca attuale; ma non sarebbe forse imprudente voler aggiungere altre precisazioni, ed inoltre ciò non corrisponderebbe inevitabilmente ad una di quelle predizioni tanto avversate, non senza motivo, dalla dottrina tradizionale?

 * Articolo pubblicato in inglese sul Journal of the Indian Society of Oriental Art, numero di giugno-dicembre 1937, dedicato a A.K. Coomaraswamy, in occasione del suo sessantesimo compleanno. Ripubblicato in Études Traditionnelles, ottobre 1938.

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