"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 31 gennaio 2015

Paul Martin-Dubost, La dottrina della non-dualità (1a parte)

Paul Martin-Dubost
La dottrina della non-dualità
(1a parte)

Definire è limitare, e Sankara lo sa perfettamente. L'infinito e l’illimitato non possono essere resi in termini di categorie. La natura dell'Assoluto è indefinibile.
Se i Saggi-veggenti delle Upanishad utilizzavano espressioni quali: essere, conoscenza e infinito per definire l'essenza stessa del Brahman, era infatti per far comprendere che il Brahman non era che quello e niente altro. D’altra parte, il mezzo da loro più frequentemente usato per esprimere la pienezza del Brahman assoluto era quello di utilizzare la forma negativa: «Non è questo, non è questo». Alcune Upanishad (specialmente la Chandogya) affermano verità (in apparenza) contraddittorie: il Brahman, leggiamo, è assoluto e senza alcun attributo; e, altrove, il Brahman è la causa del mondo empirico. Sankara, che ha fatto suoi gli insegnamenti di Gaudapada sulla causalità, spiega che non ci sono due Brahman, ma due modi di conoscere il Reale. Sul piano dell'assoluto non esiste altro che Lui.
Dal punto di vista del relativo, che è il nostro, Egli appare come il creatore del mondo. Il Brahman assoluto trascende le limitazioni di tempo e di spazio. Esso è senza attributi, senza distinzioni. Non si può altresì pretendere che esso sia uno, perché i numeri e le categorie non si adattano all'Assoluto. Questo stesso Brahman tuttavia è causa del mondo empirico e come tale ha degli attributi. A seconda che lo si consideri a diversi livelli di esperienza, Esso apparirà diverso. Ma non si deve incorrere nell'errore: questo mondo manifestato, nel quale viviamo, non è che una realtà empirica, una rappresentazione pura e semplice (maya). È il velo di maya che ci impedisce di percepire l'unica e ultima Verità. Per colui il quale perviene a creare l'identità tra il Sé immanente (atman) e il Brahman trascendente, ogni specie di manifestazione si dilegua. Egli può allora esclamare come il poeta della Taittiriya Upanishad: «Io ho trasceso tutto l’universo», e con quello della Brhadaranyaka: «Io sono Brahman». Lo scopo di tutta la dialettica shamkariana è di stabilire l’unità del Sé. L'argomentazione può così sintetizzarsi: Brahman è la sola Realtà; il mondo nel quale viviamo è apparenza. Di conseguenza, il Sé immanente (atman) è identico al Brahman. Per risolvere il problema dell'apparente dualità del Brahman nella sua manifestazione, Shankara spiega che il mondo non è che un riflesso del tutto evanescente del Brahman, come il serpente appare sovrapposto alla corda. Il Principio responsabile dell'apparenza di questo mondo è la maya. Esso non ha valore che sul piano empirico. Il velo di maya ci impedisce di intravedere la pienezza del Principio assoluto. Questa maya d’altronde è del tutto relativa: essa esiste e non esiste allo stesso tempo ed è propriamente indefinibile. Nel mondo della molteplicità e della rappresentazione essa ha una sua realtà, ma la perfetta visione e il distacco ci aiutano a raggiungere la conoscenza suprema del Brahman assoluto. A questo punto la maya sparisce. Il velo si è squarciato. L'atman ha dissolto tutte le limitazioni e si è fuso con la grande sorgente luminosa, il Brahman. Non potendo il Sé essere "percepito" che per mezzo di Sé Stesso, non c’è dunque che il Sé: «Questo atman è il Brahman». La maya non è qualcosa che possa essere afferrato con la mente o percepito dall'uno o dall’altro dei sensi, perché possiede un duplice potere: quello di velare il Reale e quello di proiettare la molteplicità. Essa non può essere trascesa che con l'intuizione personale. L'Anima incarnata è nella sua essenza del tutto uguale al Brahman; essa non ne è che un riflesso, ma il torpore che si estende sui tre piani dell'essere e la non conoscenza, controparte individuale della maya universale, le impediscono di realizzare la propria identità. L'Anima è soggetta alle indefinite trasmigrazioni (samsara) finché non si sarà svegliata del tutto e non si sarà fusa con l'Uno senza secondo: il Brahman.


Lo svelamento del Brahman può realizzarsi per gradi successivi: culto reso a una divinità prescelta, studio dei testi sacri con un Maestro qualificato, meditazione, costante fede nel contenuto della Rivelazione, trasformazione di sé per mezzo della ripetizione costante di una delle grandi formule upanishadiche: «Il Brahman è Pura Coscienza; Tu sei Quello; Io sono Brahman». La Liberazione ultima (moksha) è una grazia dell’Essere che è in noi e che è stato risvegliato. È un salto vertiginoso fuori di noi stessi, che trascende di colpo le esperienze fino allora rincorse e l’adorazione del Dio personale. Questa realizzazione può aver luogo al momento dell’abbandono della guaina corporea alla morte fisica, ma può anche prodursi in questa stessa vita. Il Beato è allora un Liberato vivente, un jivan mukta. Nell'uno e nell'altro caso per il Liberato non c'è altro che Quello: la Perfetta Beatitudine della Pura Coscienza che è Una (saccidananda).
La Liberazione dell'essere, per Shankara, è uno stato trascendente permanente ove merito e demerito cessano di produrre i loro effetti. Essa esiste dall'eternità. La realizzazione del Brahman non è effetto di azioni empiriche, perché l'unità del Brahman e del Sé non è basata sulla equivalenza empirico-metafrsico. Ne consegue che la conoscenza del Brahman non dipende da iniziative di ordine empirico. La Liberazione non è frutto di un atto mentale, orale o fisico. Avendo la stessa natura del Sé, il Brahman non si consegue con un atto, perché non è uno stato da conseguire. Essendo onnipresente, è eternamente conosciuto da ciascuno, per la sua stessa natura, simile all’etere onnipervadente. La Liberazione è, infatti, una presa di coscienza. Essa non dipende in alcun modo da un atto rituale; per Shankara è un semplice risveglio allo stato di Brahman. La Chandogya Upanishad, cavallo di battaglia di tutti i Maestri non-dualisti (Shankara, oltre ad averla commentata, la cita 800 volte nella sua chiosa al Brahmasutra), dichiara espressamente: «Tu sei Quello» e non «Tu diventerai Quello». Tutte le anime, senza eccezione, sono libere da sempre, perché tutti gli esseri originano dal Brahman e si reintegrano in Lui. Non c'è posto quindi per l'angoscia o il rammarico. Si tratta, lo abbiamo visto, solo di una presa di coscienza. In conclusione, un autentico conoscitore del Sé è privo del senso dell’io; egli non ha più alcun timore o incertezza. Lo studio dei testi sacri l'ha condotto alla discriminazione tra l'Essere e il non-essere, il Reale e il non-reale e tutte le coppie degli opposti. Egli ha valutato la vanità di tutte le azioni e si rifiuta di essere un semplice agente; non cerca di sottrarsi al suo dovere karmico, né invidia o desidera assumere i compiti e i doveri quotidiani di un altro individuo. Le rarissime azioni che compie, le compie in totale distacco. Non conosce la dualità: liberazione e schiavitù; non ha più alcun desiderio né interessi particolari, perché ha ritrovato la Pace suprema e la Beatitudine infinita del Brahman. Egli vive dunque nel mondo da Saggio, innocente come un fanciullo. Ha raggiunto lo stato di perfetto Isolamento. È indifferente a tutto, non ha parenti né amici; guarda in modo equanime gli esseri e le cose. Non ha più parole sentimentali o critiche verso chicchessia. Ha abbandonato le pratiche religiose ma non si oppone ad esse. Egli non si cura più della propria salvezza personale o di accedere a un qualunque paradiso. È riuscito a far sorgere in sé la Luce ineffabile. Certo egli può ancora, per Compassione, operare per il bene del mondo, indicando la via della Conoscenza ad eventuali discepoli che lo avvicineranno, ma niente ve lo costringe. Egli ha finalmente realizzato l'identità con l'essenza della Realtà: il Brahman supremo eternamente libero. Egli è in pace con l'Essere non-duale ed è in Lui.

Tratto da: Shankara e il Vedanta, trad. it., Asram Vidya, 1989

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