René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
40. La fine di un mondo
Gli argomenti che abbiamo trattato nel corso di questo studio descrivono in generale quelli che, secondo l’espressione evangelica, si possono chiamare i «segni dei tempi», cioè in definitiva i segni precursori della «fine di un mondo» o di un ciclo; questa appare come la «fine del mondo», senza restrizioni né specificazioni di sorta, solo per coloro che non vedono niente oltre i limiti di questo ciclo stesso, errore di prospettiva certo pienamente scusabile, ma che nondimeno conduce a conseguenze spiacevoli per gli eccessivi ed ingiustificabili terrori che ingenera in chi non sia sufficientemente distaccato dall’esistenza terrestre; ed è sottinteso che sono proprio costoro, a causa della ristrettezza delle loro vedute, che troppo facilmente si lasciano convincere da questa concezione erronea.
Per la verità, data l’esistenza di cicli di durata assai diversa contenuti in certo qual modo gli uni negli altri, è un fatto che possano esserci diverse «fini del mondo», e che la stessa nozione può sempre essere analogicamente applicata a tutti i gradi ed a tutti i livelli, ma è evidente che la loro importanza è molto ineguale, come i cicli stessi cui esse si riferiscono; e a questo proposito è doveroso riconoscere che quella da noi presa in esame qui è incontestabilmente di maggior portata di molte altre, poiché rappresenta la fine di un intero Manvantara, cioè dell’esistenza temporale di quella che si può propriamente chiamare un’umanità: ciò non significa che si tratti della fine dello stesso mondo terrestre, poiché, in virtù del «raddrizzamento» che interviene all’ultimo istante, questa fine diverrà immediatamente l’inizio di un altro Manvantara.
Per la verità, data l’esistenza di cicli di durata assai diversa contenuti in certo qual modo gli uni negli altri, è un fatto che possano esserci diverse «fini del mondo», e che la stessa nozione può sempre essere analogicamente applicata a tutti i gradi ed a tutti i livelli, ma è evidente che la loro importanza è molto ineguale, come i cicli stessi cui esse si riferiscono; e a questo proposito è doveroso riconoscere che quella da noi presa in esame qui è incontestabilmente di maggior portata di molte altre, poiché rappresenta la fine di un intero Manvantara, cioè dell’esistenza temporale di quella che si può propriamente chiamare un’umanità: ciò non significa che si tratti della fine dello stesso mondo terrestre, poiché, in virtù del «raddrizzamento» che interviene all’ultimo istante, questa fine diverrà immediatamente l’inizio di un altro Manvantara.
Vi è un altro punto, a questo proposito, su cui è per noi doveroso fornire spiegazioni più precise: i fautori del «progresso» hanno l’abitudine di dire che l’«età dell’oro» non è nel passato, ma nell’avvenire; la verità invece, per quel che riguarda il nostro Manvantara, è che essa si trova in realtà proprio nel passato, poiché non è nient’altro che lo «stato primordiale» stesso. In un certo senso, tuttavia, essa è contemporaneamente nel passato e nell’avvenire, ma a condizione di non limitarsi al presente Manvantara, bensì di considerare la successione dei cicli terrestri; sarà l’«età dell’oro» di un altro Manvantara quella che si troverà allora nell’avvenire; essa è dunque separata dall’epoca nostra da una «barriera» veramente invalicabile per i profani che parlano a questo modo e che non sanno quel che si dicono quando annunciano la prossima venuta di una «nuova era» riferendola all’umanità attuale. Il loro errore, condotto all’estremo limite, sarà lo stesso dell’Anticristo quando pretenderà d’instaurare l’«età dell’oro» mediante il regno della «contro-tradizione» e ne fornirà addirittura l’apparenza, nel modo più ingannevole ed effimero, con la contraffazione dell’idea tradizionale del Sanctum Regnum. Da quanto precede non è difficile capire come in tutte le «pseudo-tradizioni», le quali sono soltanto «prefigurazioni» piuttosto parziali e incerte della «contro-tradizione» anche se inconsciamente tendono a prepararla più direttamente di qualsiasi altra cosa, le concezioni «evoluzionistiche» svolgano costantemente quella funzione preponderante già da noi segnalata. È fuori di dubbio che la «barriera» di cui parlavamo poco fa, e a causa della quale tutti coloro per cui esiste sono in qualche modo costretti a racchiudere tutto all’interno del ciclo attuale, è un ostacolo ancor più assoluto per i rappresentanti della «contro-iniziazione» che non per i semplici profani; sono infatti proprio essi, nel loro orientamento univoco verso la dissoluzione, quelli per cui niente può esistere al di là di questo ciclo, ed è quindi soprattutto per loro che la sua fine dev’essere realmente la «fine del mondo» nel significato più integrale che questa espressione può avere.
Quanto sopra è connesso ad un’altra questione di cui diremo qualche parola, anche se, per la verità, in talune delle precedenti considerazioni è già implicita la risposta: in quale misura coloro che rappresentano più completamente la «contro-iniziazione» sono effettivamente coscienti della funzione svolta, e in quale misura, al contrario, essi non sono che strumenti di una volontà che li supera, e che di conseguenza ignorano, pur essendo ad essa inevitabilmente subordinati? Secondo le nostre precedenti considerazioni, il limite fra i due punti di vista secondo cui può essere considerata la loro azione è per forza di cose determinato dal limite stesso del mondo spirituale nel quale essi non possono penetrare in alcun modo; le loro conoscenze, riferite alle possibilità del «mondo intermedio», potranno essere estese fin che si vuole, ma saranno tuttavia sempre falsate dall’assenza dello spirito, il quale solo potrebbe dare ad esse il loro vero significato. Individui del genere non possono evidentemente essere meccanicisti o materialisti, e nemmeno «progressisti» o «evoluzionisti» nel significato volgare di questi termini, e, quando diffondono nel mondo idee di questo tipo, lo ingannano scientemente; ma ciò non riguarda in definitiva che l’«antitradizione» negativa, la quale è per loro soltanto un mezzo e non un fine, cosicché essi, come tanti altri, potrebbero giustificare un tale inganno dicendo che «il fine giustifica i mezzi». Il loro è un errore molto più profondo di quello degli uomini da essi influenzati e «suggestionati» con simili idee, perché è una conseguenza della loro ignoranza totale ed invincibile della vera natura della spiritualità nel suo insieme; per questa ragione è molto più difficile dire esattamente fino a che punto possano esser coscienti della falsità della «contro-tradizione» che cercano di instaurare, poiché essi possono ritenere realmente di opporsi in questo modo allo spirito, quale si manifesta in ogni tradizione normale e regolare, credendosi allo stesso livello di coloro che lo rappresentano nel mondo; da questo punto di vista l’Anticristo sarà certamente il più «illuso» di tutti gli esseri. Tale illusione ha la sua radice nell’errore «dualistico» di cui abbiamo parlato; ed il dualismo, nelle sue varie forme, è caratteristico di tutti coloro il cui orizzonte si arresta a certi limiti, fossero pure quelli dell’intero mondo manifestato, e che di conseguenza, non potendo risolvere quella dualità, che constatano in tutte le cose all’interno di questi limiti, col riportarla ad un principio superiore, la ritengono veramente irriducibile e sono perciò condotti alla negazione dell’Unità suprema che per essi è come se non esistesse. Per questa ragione abbiamo potuto affermare che i rappresentanti della «contro-iniziazione» sono in definitiva tratti in inganno dalla loro stessa funzione, e che la loro illusione è proprio la peggiore di tutte essendo la sola per cui un essere possa, non tanto smarrirsi più o meno gravemente, bensì realmente perdersi senza ritorno; ma evidentemente, se non avessero tale illusione, essi non potrebbero svolgere una funzione la quale, affinché si compia il piano divino in questo mondo, deve necessariamente svolgersi come qualsiasi altra.
Siamo così ricondotti a considerare il duplice aspetto «benefico» e «malefico» sotto cui si presenta il cammino stesso del mondo in quanto manifestazione ciclica, e che è veramente la «chiave» di ogni spiegazione tradizionale delle condizioni in cui questa manifestazione si sviluppa, specie se la si considera, come abbiamo fatto qui, nel periodo che porta direttamente alla sua fine. Da un lato, se questa manifestazione viene presa semplicemente in se stessa senza riportarla ad un insieme più vasto, tutto il suo cammino, dall’inizio alla fine, è evidentemente una «discesa» o una «degradazione» progressiva, ed ecco quello che può essere chiamato il suo aspetto «malefico»; ma da un altro lato, questa stessa manifestazione, vista nell’insieme di cui fa parte, produce risultati che hanno un valore realmente «positivo» nell’esistenza universale, ed occorre che il suo sviluppo prosegua fino alla fine, ivi compreso lo sviluppo delle possibilità inferiori dell’«età oscura», affinché l’«integrazione» di questi risultati sia possibile e diventi il principio immediato di un altro ciclo di manifestazione: ed è questo che costituisce il suo significato «benefico». Ciò è vero anche per la fine stessa del ciclo: dal punto di vista particolare di quel che dovrà essere distrutto, essendo la sua manifestazione compiuta e come esaurita, tale fine è naturalmente «catastrofica» nel significato etimologico in cui questo termine evoca l’idea di una «caduta» improvvisa ed irrimediabile; ma d’altra parte, dal punto di vista secondo cui la manifestazione, nello sparire come tale, si trova ricondotta al suo principio per tutto ciò che essa ha di esistenza positiva, questa stessa fine appare, al contrario, come il «raddrizzamento» in virtù del quale, come abbiamo detto, non meno istantaneamente tutte le cose vengono ristabilite nel loro «stato primordiale». Tutto ciò trova del resto un’applicazione analogica a tutti i livelli, si tratti di un essere o di un mondo: in definitiva è sempre il punto di vista parziale che è «malefico», mentre il punto di vista complessivo, o relativamente tale in rapporto al primo, è «benefico» poiché tutti i possibili disordini non sono tali se non in quanto li si consideri in se stessi e «separativamente», e questi disordini parziali si cancellano interamente nell’ordine totale in cui finalmente rientrano, e di cui, spogliati del loro aspetto «negativo», essi sono elementi costitutivi allo stesso titolo di qualsiasi altra cosa: in definitiva non c’è di «malefico» se non la limitazione che necessariamente condiziona ogni esistenza contingente, limitazione che, in realtà, non ha in se stessa che un’esistenza puramente negativa. In un primo momento abbiamo parlato come se i due punti di vista «benefico» e «malefico» fossero in qualche modo simmetrici; ma è evidente che ciò non sussiste e che il secondo esprime esclusivamente qualcosa di instabile e di transitorio, mentre ciò che rappresenta il primo ha solo un carattere permanente e definitivo, di modo che l’aspetto «benefico» non può non prevalere alla fine, mentre l’aspetto «malefico» sparisce completamente non essendo altro che un’illusione inerente alla «separatività». Soltanto che a questo punto, non si può più parlare propriamente di «benefico» e di «malefico» come di due termini essenzialmente correlativi che caratterizzano un’opposizione che non esiste più: come tutte le opposizioni essa appartiene esclusivamente ad un certo campo relativo e limitato, una volta superato il quale resta soltanto ciò che è e che non può non essere né essere diverso da ciò che è; se si vuole andare fino alla realtà dell’ordine più profondo, si può affermare in tutto rigore che la «fine di un mondo» non è mai e non potrà mai essere altro che la fine di un’illusione.
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