Ibn ‘Arabî
Il libro dell’estinzione nella contemplazione
Il libro dell’estinzione nella contemplazione
Nel nome di Dio, il Clemente, il
Misericordioso!
Lode a Dio, che pronuncia globalmente un
decreto immutabile e che assegna partitamente un destino a ogni cosa,[1] che decide e mette in atto le Proprie decisioni, che riceve
e accorda soddisfazione[2]
che è troppo Santo nella Sua Magnificenza e nella Sua Maestà per essere
controparte di ciò che Egli stesso trascende, come è troppo trascendente per
essere «sostanza» o «accidente»!
Egli ha purificato i cuori dei prediletti
frai Suoi servi, e non ha instillato in essi il veleno del dubbio e
dell'illusione, né ha reso costoro bersagli per le
frecce della contraddizione e dell'ostilità, ma ha fatto brillare per loro,
mediante l'Essenza illuminativa, la spada sguainata della Retta Via[3]
affinché potessero penetrare in ogni territorio!
Tra loro ve ne sono alcuni che, avendo
ricevuto vesti, se ne sono spogliati. Quelli che invece le hanno serbate
considerano ciò che è stato loro accordato come un prestito, e gli altri vedono
trasformarsi le proprie opere supererogatorie in obbligatorie.[4]
Ciò costituisce per loro un titolo di gloria innanzi al Pleroma Supremo,[5] stabilisce la loro autorità sia sul Mondo superiore che
sull'inferiore e dà loro in eredità il Cielo e la Terra:[6]
sì che essi percorrono, con l'intrepido passo della Precellenza,[7] la Sublimità e l'Ampiezza,[8]
e dai loro seggi governano, legando e sciogliendo![9]
E che la Preghiera dispensatrice di
Grazia sia su Muhammad, al quale fu detto: «L'altra vita ti sarà più bella
della prima, e te la darà Dio e ne sarai pago»,[10] affinché fosse distinto da Mosè che disse: «Io son corso a
Te, o Signore, affinché Ti compiacessi di me».[11]
Che tale Preghiera permanga stabilmente sulle labbra dell'eternità e non
conosca dunque mai fine, e che del pari si estenda sui membri della sua
Famiglia,[12]
i Puri, i Compagni, i favoriti della Soddisfazione divina,[13]
come sugli altri Profeti, suoi Fratelli, i quali dalla
loro stazione elevata e gradita[14]
l'hanno riconosciuto veridico!
La Realtà Divina Essenziale è troppo
elevata per poter essere contemplata dall’occhio
contemplante, fin quando in esso permanga una traccia della condizione
creaturale.[15] Ma
quando «viene meno ciò che non è stato» - e che [per natura] è caduco - «e
resta ciò che non ha mai cessato d'essere» - e che [per natura] è durevole[16]
- allora si leva il Sole della prova decisiva per la Visione autentica;[17] allora si produce la sublimazione assoluta, nell'assoluta
Bellezza,[18] che è
l'«Occhio della Sintesi e della Realizzazione per eccellenza»[19], e la «Stazione della Quiete e dell'Autosufficienza
Immutabile ».[20] Tale
Occhio vede allora i Numeri come un Unico, il numero Uno,[21] che compie un viaggio attraverso i gradi della
molteplicità, in cui rende manifeste le entità dei Numeri. È in questa stazione
contemplativa che avviene il travisamento di chi professa la dottrina
dell'unificazione.[22]
Costui, vedendo che l'Unico peregrina attraverso i gradi della molteplicità, la
cui esistenza è puramente speculativa, nei quali Esso riceve dei nomi che variano
di volta in volta a seconda dei gradi, non vede i
Numeri come diversi dall'Uno: e allora afferma che ha avuto luogo
un'unificazione.[23] Or
dunque, l'Unico, ossia l'Uno, non compare contemporaneamente con il proprio
nome e la sua essenza in gradi diversi se non in quello dell'Unità prima:[24] ogni volta che si mostra negli altri gradi lo fa con la sua
essenza, ma non con il suo nome, poiché in tali casi gli viene attribuito un
nome conforme alla realtà del grado della molteplicità in cui si è manifestato.
Così il suo nome specifico si estingue, mentre la sua essenza permane: quando
si dice «uno» viene meno ciò che è altro da uno, in virtù di tale nome, e
quando si dice «due», la sua entità appare per la
presenza dell'essenza dell'Uno che si trova a questo grado numerale, ma non
evidentemente in virtù del nome dell'Uno, poiché è il nome e non l'essenza
dell'unità a contraddire l'esistenza del grado numerale due, che è in
opposizione all'entità del due, mentre non lo è la sua essenza.[25]
Questa specie di svelamento e di
conoscenza deve restar nascosta alla maggior parte delle creature, a causa del
suo contenuto troppo elevato; al di sotto di essa si
spalanca un abisso profondo, cadere nel quale è cosa assai temibile. In
effetti, se chi sia sprovvisto della conoscenza delle realtà proprie alle cose,
chi sia ignaro dell'infìnitesima continuità dei legami universali, osando
accostarsi a questo grado di dottrina contemplativa, si imbattesse
in qualche espressione di chi invece ne possiede la relativa conoscenza, potrebbe
sentirsi autorizzato a dire, pur non avendone mai avuta diretta esperienza: «Io
sono Colui che amo, Colui che amo è me».[26]
E per questa ragione che veliamo e teniamo nascosta la conoscenza di tali
verità.
Hasan al-Basrî[27]
- che Dio gli
usi misericordia! - quando, durante le sue lezioni pubbliche, voleva
parlare di misteri che non devono trovarsi sul cammino di coloro che non ne son
degni, chiamava da parte i soli Farqad as-Sabahi[28]
e Mâlik Ibn Dinâr[29]
fra tutti i presenti dotati di «sapore» iniziatico[30]
e serrando la porta a ogni altro, trattava di tali
misteri in sessione riservata. Se non fosse stato necessario serbare il segreto
non si sarebbe di certo comportato in quel modo. Anche Abu Hurayra[31]
- che Dio si compiaccia di lui! - secondo quanto riporta al-Bukhârî[32] nella sua Raccolta di hadîth
disse: «Dal Profeta - la benedizione e la salute di Dio siano sopra di lui! -
ho ricevuto due sacchi: il contenuto dell'uno l'ho elargito a voi tutti, ma, se
facessi la stessa cosa con l'altro, mi verrebbe
tagliata la gola». Da parte sua Ibn 'Abbas[33]
- che Dio si compiaccia di lui! - riferendosi al versetto coranico che recita:
«Dio è Colui che ha creato sette cieli e altrettante
terre, e su tutti scende possente il Suo Comàndo»[34]
affermava: «Se io ve ne rivelassi l'interpretazione
esoterica voi mi lapidereste tacciandomi d'infedeltà».[35]
E ‘Alî Ibn Abî Tâlib[36]
- su di lui sia la pace! - battendosi il petto diceva: «Ah!
In verità, qui dentro è custodita molta conoscenza! Se soltanto trovassi degli
esseri degni a cui trasmetterla!». Infine, l'Inviato -
che Dio preghi su di lui e gli dia salute! - diceva: «Abu Bakr[37] vi è superiore non per la quantità delle sue preghiere e
dei suoi digiuni, ma per qualcosa che custodisce nel petto», senza peraltro
spiegare di cosa si trattasse, e tacendo a tal riguardo.[38]
Le conoscenze non devono essere divulgate da coloro che le detengono; il
Profeta – che Dio preghi su di lui e gli dia salute! - diceva: «Parlate agli uomini secondo il grado della loro
intelligenza»[39].
Pertanto, quando si trova un libro che
tratta di una scienza che si ignora e di cui non si è
percorso il cammino, è opportuno non aprirlo, riconsegnandolo nelle mani di
coloro che sanno, senza sentirsi tenuti a credere o non credere al suo
contenuto, o persino a parlarne.
Un hadîth
afferma: «I possessori delle scienze religiose non
sono necessariamente dei veri sapienti». E il Corano recita: «Ma essi tacciano
di menzogna ciò che non possono abbracciare con la loro scienza»;[40] ed anche: «Perché disputate di ciò intorno a cui non avete
alcuna cognizione?».[41]
Siamo così avvertiti del fatto che gli uomini sono sottoposti a biasimo quando
trattano un tema senza aver percorso la strada che conduce alla sua conoscenza.
Noi siamo stati indotti a premettere
tutto questo poiché i libri di coloro che percorrono la
nostra Via sono pieni di misteri e perché gli speculativi se ne appropriano,
piegandoli al proprio punto di vista specifico, mentre gli esoteristi prima li
interpretano secondo l'accezione più letterale e poi li condannano. Ora, se si
domanda a costoro il significato preciso dei termini che, per comune accordo,
gli Iniziati utilizzano nelle loro formulazioni, si può constatare
che lo ignorano![42] Come
allora possono sentirsi autorizzati a pronunciarsi su questioni di cui non
padroneggiano i fondamenti? E se poi vedono coloro che
percorrono la nostra Via tener segrete ai loro compagni molte delle loro
esperienze, arrivano a dire: «Una religione nascosta è una religione maligna»,
mostrando così di ignorare i molteplici aspetti della Religione. Gli Iniziati
celano non già la Religione, ma certe sue conseguenze, e quello che il Vero -
che sia esaltato! - ha concesso loro di comprendere in vita subordinandolo
all'accettazione della regola d'obbedienza, e solo nel momento in cui hanno dato prova di rispettarlo. Del pari, è possibile che gli
Iniziati considerino «valido» un hadîth riguardante le regole religiose che per
gli esoteristi sia invece «debole» o «di trasmissione
difettosa». Infatti gli Iniziati possono averne
riconosciuto la validità attraverso una comprensione intuitiva, direttamente da
colui che lo ha pronunciato. Appare dunque chiaro che nelle loro pratiche
spirituali gli Iniziati si comportano diversamente dai letteralisti, che li
collocano per questo fra quanti si sono posti al di fuori della religione, in
ciò errando, poiché la verità può essere attinta sotto molteplici aspetti, uno
dei quali è appunto quello degli Iniziati. All'inverso, è possibile che un hadîth
venga concordamente considerato dai
letteralisti «valido», mentre non lo è affatto alla luce del discernimento
intuitivo, per cui gli Iniziati non ne terranno conto nelle loro pratiche.[43]
Pertanto, quanto è degno di lode colui che, in tali frangenti, si astiene dall'intervenire e,
cercando la Via salvifìca, si concentra su se stesso, lasciando che ognuno
occupi il posto che gli è proprio! Un uomo siffatto vive felice, e si assicura
il favore dell'ordine totale della realtà.
Coloro che celano i misteri sotto
espressioni tecniche, le utilizzano in modo convenzionale, per cautela nei riguardi
dei profani, e quelli che professano l'efficacia delle «aspirazioni/energie spirituali»[44]
permangono sul loro cammino chiaro e retto, finché
esso viene loro rischiarato da indicatori luminosi recati da Spiriti Superiori,
residenti nel Grado della Prossimità alla Stazione della Parola Bocca-a-Bocca,[45]
e su di essi sono ben tracciate sante Scritture, quasi
fossero testimonianza della realizzazione da essi raggiunta,[46]
che permettono loro il passaggio dall'una all'altra modalità, per via di
sublimazione. Allora il velo è sollevato, allora ciò che era stato nascosto è
rivelato! Allora il nodo è sciolto, il chiavistello è fatto scorrere, la
serratura è aperta! Allora le «aspirazioni/energie» proprie ad
un'altra modalità si unificano per scrutare la Realtà Unica, e l'essere non
concepisce che una sola «aspirazione».[47]
Da tale «aspirazione» unica procedono degli effetti che
influenzano la Realtà Pura. In ogni caso, sia che
queste influenze provengano per astrazione dall'«aspirazione unica»,[48]
sia che derivino dalle aspirazioni particolari nel momento stesso in cui si
producono, è sempre Lui che sotto ogni punto di vista si vede, anche se non Lo
si conosce,[49] è sempre Lui la meta di ogni aspirazione, anche se non Lo si
raggiunge, è sempre Lui che viene professato in tutte le lingue, anche se resta
ineffabile! E che formidabile stupore si prova, che grande sospiro di sollievo
si trae quando «il velo è sollevato, e lo sguardo si fa penetrante»[50]
quando «il Sole si unisce alla Luna»[51]
e quando l'Influente appare congiunto al suo Influsso[52]
per essere scorto dall'Occhio dell'uomo![53]
Allora si mostra ai contemplanti sotto diverse Forme, allora avviene il gioco nei
confronti di quelli che hanno giocato, allora chi ha fede vince e chi ne è privo perde![54]
L'Eloquenza divina ha introdotto nella
lingua più santa la nozione di «Purezza adorante»; colui che
sa purificare la propria adorazione dal potere dell'idea di retribuzione,
ponendosi lungo un giusto orientamento[55]
e una retta via,[56]
si libera dal dovere di conformarsi al Comandamento e, oltrepassando il «Mondo
della Remunerazione», accede al «Mondo della Luce».
Il Corano dice: «Dio
è la Luce dei Cieli e della Terra»;[57]
«Essi avranno insieme la loro remunerazione e la loro
Luce»;[58]
«La loro Luce correrà innanzi ad essi»;[59]
e un hadîth
termina con queste parole: «La Luce dice loro: “Io sono il vostro Signore!” ed
essi La seguono».
I Veri Conoscenti hanno abbandonato la
remunerazione presso Dio; non è loro possibile reclamarla, poiché gliene manca
il tempo, tanta cura essi hanno di Lui - che sia esaltato! Colui
che si lascia sfuggire il proprio premio consistente in Dio stesso: ecco
il vero perdente. Le opere, che sono i mezzi attraverso i quali ci si libera
dalle obbligazioni e da quel che la tradizione profetica enuncia, attirano la
ricompensa per il semplice fatto d'esser compiute: non occorre dunque
occuparsene. I moti dei corpi daranno necessariamente frutti sensibili: non ci
si domandi dunque che cosa comportino in sé, poiché si sprecherebbe inutilmente
il proprio tempo. Dio - che sia glorificato! -riguardo a Se Stesso ha detto: «Ogni
giorno Egli è occupato in un'opera»;[60] orbene, «giorno» è l'unità di tempo, e l'«opera del giorno»
esiste in tua funzione, non in quella di Dio, poiché Dio non ha bisogno di
nulla, e non può ottener nulla dalle Sue creature che già non abbia in Se
Stesso. Ciò che ha creato, è creato per te; mantieni dunque un intimo rapporto
con Dio, e serviLo secondo le tue facoltà. Opera anche tu, ogni giorno, per il
tuo Signore, proprio come il tuo Signore opera per te. Egli, in verità, «ti ha creato
solo perché tu Lo adorassi»[61]
e perché ti realizzassi attraverso di Lui, certo non perché
ti curassi di ciò che è altro da Lui.
Quello che è altro da te e altro da Lui è dunque un dono che ti deve
essere offerto. A proposito di Sé,
Dio ha affermato: «Non voglio da essi alcun
sostentamento, né che essi mi nutrano; Dio, in verità, è il solo che provvede
al nutrimento per tutti».[62]
Se Lui ti dice: «Prendi!», devi rispondere: «Sei Tu che devi
prendere»; se ti dice: «Ritorna!», rispondi: «Ritornerò da Te verso Te».
Se poi ti chiede: «Perché mai, quando ti dico:
"Prendi!" tu mi rispondi: "Sei Tu che devi prendere!", non
avendo nulla da prendere per me? », allora rispondiGli: «In verità io
non posso "prendere", poiché prendere è un'azione,
e in me non c'è azione. Sei Tu Colui che prende,
poiché sei Tu l'Agente. Prendi Tu Stesso per me ciò che mi doni, e non mi dire:
"Prendi, tu che non puoi prendere!", perché,
parlandomi in questo modo, grazie all'idea di prendere da Te, getteresti un
velo su di me. Io non posso prendere nulla, a differenza di Te, e se tentassi
di prendere stringerei il nulla, e questo sarebbe il peggiore dei mali ... Io chiedo piuttosto d'esser liberato e perdonato da questa
pericolosa impresa, o Tu che scegli e non sei scelto, Tu che possiedi e non sei
posseduto!».
Può accadere che in uno di quei «luoghi»[63]
ti si mostri la Retta Religione, istituita d'autorità
da un organo profetico, Via d'elezione e di purezza, e la Religione Non-Retta,
sapienziale, ibrida, speculativa e intellettuale.[64]
Tu farai distinzione fra le due vie considerando il fine ultimo di ciascuna di
esse, che è il Vero - che sia esaltato! -, secondo quel che rappresenta il tuo
bene, non il tuo male. Scegli allora la Via della Religione dell'elezione e della
purezza, data per via profetica, poiché è la più elevata e la più feconda.
Sebbene l'altra possegga un altissimo splendore, e sia, sotto un certo
riguardo, altrettanto «vera», tuttavia la sua traccia viene
cancellata dall'esistenza della via profetica. Persino il fondatore di una Via
sapienziale, se fosse ancora tra i vivi, si assoggetterebbe forse alla
Religione d'elezione profetica. Abbiamo già veduto che la stessa «Religione
d'elezione» (formulata dai Profeti precedenti) può essere ricondotta per più
versi alla «Religione d'elezione e purezza» per
effetto delle abrogazioni che la sua Legge, vale a dire quella muhammadiana, ha
apportato alle regole religiose che l'hanno preceduta.
Non è vero che le legislazioni su cui si
fondano le comunità religiose antiche, come quelle di Mosè e di Gesù - su di
loro scenda la salute! - siano state sotto un certo aspetto abrogate dalla
Legge di Muhammad – che Dio preghi per lui e gli dia salute! Ma il
Profeta ha detto: «Se Mosè fosse vivo non potrebbe far
altro che seguirmi». A maggior ragione questo vale per la legislazione
sapienziale,
che procede dall'«iniziativa personale»,[65]
per via speculativa, essendo passibile di «superamento», benché, come si è
detto, per qualche aspetto sia anch'essa «vera».
Sappi infine che la più miserabile delle creature
è quella che, pur essendole stato inviato un Libro contenente la vera fede, se ne
svia seguendo le proprie passioni. Qui c'è però un punto che desidero chiarire,
perché è stato poco dibattuto, ed è possibile che alcuni si siano ingannati[66] esaminando tale questione dal punto di vista della
«possibilità di esistenza o inesistenza di ciò che si trova allo stato di
potenzialità». Se l'effettività dell'esistenza si stabilisce su una delle due
soluzioni dell'alternativa che condiziona l'essere
possibile, l'essere, una volta portato all'esistenza, non può più tornare allo
stato di semplice potenzialità. Avviene lo stesso quando il V ero - che sia esaltato! – si rivela, poiché allora non
è più celato; e parimenti quando « iscrive» la fede in
un cuore, essa non si cancella mai più. Se qualcuno ha potuto
affermare: «Mi si è nascosto dopo essersi rivelato», è perché Dio non gli si è realmente
rivelato, ma gli ha solo mostrato qualche barlume di Sé, e costui si è
solamente illuso di poter dire: «Eccolo, è Lui!». Inoltre, poiché la
creatura non è stabile, quando il suo stato varia, si dice che viene frapposto un velo. Nello stesso modo, l'«iscrizione»
della Fede e l'attribuzione dei «Segni» e delle «Evidenze» non hanno mai fine
quando sono doni elargiti «nei cuori», e quando in
essi si levano i Testimoni della realizzazione.[67]
Se accade che a qualcuno venga sottratto qualcosa di
somigliante a tali realtà, sappia che esse non erano «iscritte» sulla Tavola
del suo cuore,[68] e che l'essere non le avviluppava, ma ne era avviluppato
come da un mantello, avendo costui ricevuto soltanto le formule operative e il
diritto di pronunciarle, non le « realtà» medesime, che possono andar perdute
perché quei doni possono venir ripresi da Chi li ha elargiti. E per questo che
Dio ha detto: «Recita loro la storia di colui al quale
abbiamo comunicato i Nostri Segni e che però se ne distolse».[69]
Le parole «se ne distolse» esprimono un fatto analogo
allo spogliarsi degli abiti da parte dell'uomo o all'abbandono della vecchia
pelle da parte del serpente. I Segni in questione erano come un abito su colui
al quale il Corano fa cenno, nel senso che abbiamo precisato altrove;[70] costui aveva soltanto il potere di pronunciare certe
formule operative, e nel pronunciarle
era l'aspetto nascosto del Nome presente in
tali formulazioni a mostrarsi, e similmente si mostrava il suo effetto,
prodotto da una facoltà particolare.[71]
In presenza di mezzi straordinari, la virtù operativa
non richiede alcuna condizione di purità rituale, né di santità personale, né
di concentrazione, più di quanto non sia questione di fede o di mancanza di
fede; si tratta semplicemente di pronunciare determinate lettere, e l'effetto
si produce persino quando, nel farlo, non ci si concentra su quel che si sta
dicendo. Un fatto simile accadde a un nostro compagno, il quale, recitando il
Corano, si accorse che un versetto produceva in lui un effetto particolare, ed egli
se ne stupì, non riuscendo a spiegarsi la circostanza.
Allora riprese la recitazione partendo dai versetti precedenti, ma giunto al
versetto in questione constatò nuovamente il verificarsi di quel particolare
effetto, e continuò a constatarlo ogni qual volta lo
ripeteva. Così si rese conto che quel versetto, che gli si era casualmente
«palesato » durante la recitazione, è uno dei punti coranici in cui si
manifesta una virtù particolare,[72]
e lo assunse come nome da invocare operativamente,
riuscendo a ottenere l'effetto desiderato ogni volta che lo pronunciava.
Comunque, un accadimento simile non suscita compiacimento in un Vero
Conoscente, perché costui non gode che di ciò che ,effettivamente
riesce a realizzare in sé. E per questo che quando fu chiesto a Abû Yazîd al-Bistâmî[73]
quale fosse il
Nome Supremo di Dio, costui rispose: «E la Sincerità! Sii sincero, e chiamaLo
con il nome che vuoi, non importa quale!». Con una simile risposta egli
incitava alla realizzazione effettiva, non alla semplice recitazione di
formule.
Dio ha detto di Sé: «Nei cuori di costoro
Egli ha iscritto la Fede»[74].
Ma il cuore ha due facce[75]: una esteriore, l’altra interiore. Quella interiore non può
subir «cancellazione», essendo pura e saldamente «stabilita».
La faccia esteriore, al contrario, può esser cancellata, essendo, propriamente,
la Tavoletta della Cancellazione e dell'Iscrizione. Prima Dio vi scrive una
certa cosa, poi «cancella ciò che vuole e lo conferma; presso di Lui è la Madre
del Libro»[76].
Se l'uomo che ha ricevuto il Libro avesse
fede nella totalità di esso non se ne allontanerebbe
mai, ma nel caso in cui creda soltanto ad una sua parte e ne respinga l'altra è
miscredente riguardo al vero, poiché Dio ha detto: «Quelli che affermano:
"Noi crediamo in una parte e un'altra la rifiutiamo" e desiderano
prendere una via intermedia sono i veri miscredenti»,[77]
ed anche: «Quelli fra le genti del Libro che in questo non credono, e gli
infedeli, saranno nel fuoco della geenna in eterno, perché sono la feccia del
creato».[78] Dal
punto di vista che qui ci interessa, questi miscredenti fra le genti del Libro
sono i «letteralisti» e la maggior parte degli «speculatori
razionali» fra i filosofi e i teologi, che professano soltanto una parte di ciò
che i Santi di Dio sostengono come conseguenza esperienziale di quello che loro
stessi hanno realizzato raggiungendo determinati stati spirituali e
contemplando certi segreti. Quanto si accorda con le loro opinioni e conoscenze
i letteralisti e gli speculativi lo accettano come vero, ma quanto se ne
discosta lo respingono e lo contestano, dichiarando: «Ciò
è falso in ragione del suo disaccordo con le prove di cui disponiamo!». Ma è
ben possibile che le prove di quei meschini non abbiano basi appropriate,
per quanto le considerino perfettamente fondate. In tali condizioni non sarebbe
preferibile astenersi da ogni considerazione al riguardo e lasciarne la
responsabilità all'autore, senza che peraltro questo implichi di accettarne la
veridicità? Se quelli si comportassero così, raccoglierebbero certamente i
frutti di aver mantenuto una posizione neutrale.
Io nutro, nel nome di Dio, un grande
timore per coloro che contraddicono le genti del
nostro Ordine! Uno di essi ha detto: «A chi siede con
i sûfî conoscenti le realtà
essenziali e li contraddice in una verità di cui essi hanno saldo possesso; Dio
leva dal cuore il lume della fede»; Uno, che apparteneva al novero degli
speculatori razionali e tentava di attingere la saggezza, venne a porre una
questione a un Conoscente. Ero presente anch'io, seduto fra i suoi discepoli.
Il Conoscente cominciò a svolgere la questione a lui posta, quando il
dialettico lo interruppe: «Ciò che dici per me non ha
valore. Spiegamelo meglio, può darsi che io sia in errore». Il Conoscente intuì
che ogni sua parola sarebbe stata vana, e di fronte alla contraddizione e
all'ostilità dell'altro tacque, poiché gli esseri che conoscono le realtà
essenziali non accettano situazioni simili, a causa
dell'impurità e della privazione di Grazia che ne derivano.[79]
(È per questo che il Profeta - che Dio preghi per lui
e gli accordi salute! - ai Compagni che si trovavano presso di lui, e fra i
quali era sorto un diverbio, disse: «In mia presenza
le dispute non sono ammesse!». In un'altra occasione aveva affermato: «Mi era stata concessa la visione della Notte del Destino,
ma proprio allora due uomini accanto a me presero a disputare, e la visione svanì».
La Via dello svelamento e della contemplazione non ammette che si contraddica e
si avversi colui che parla in suo nome. Un tale
sacrilegio si ritorce contro il contestatore, mentre l'uomo che ha raggiunto un
certo traguardo è felice di quello che gli è stato dato conoscere.) A quel punto uno dei discepoli del Conoscente si alzò e
rispose all'importuno: «Ciò di cui il nostro maestro ha parlato con tanta
chiarezza è certo, sebbene neppure io riesca a comprenderlo». L'altro, da
giurista, replicò: «Le persone intelligenti sono in grado
di comprendere immediatamente un buon discorso espresso in una buona forma. Ma se, una volta esaminato con la pietra di paragone della
logica e messo a confronto con le prove a disposizione, esso si dimostra inconsistente,
è palesemente falso, come l'argomento appena esposto dal maestro». Allora il
Conoscente rinunciò ad aggiungere altro poiché il razionalista non aveva
compreso il concetto che la sua mente aveva formulato e la sua lingua aveva
espresso. Al Conoscente fu in tal modo chiaro ciò che il razionalista aveva in
animo, e si rese conto di quanto fosse opportuno astenersi dal parlare
con lui di simili argomenti.
Sappi inoltre che la Fede fondata sulle
opere di virtù si pone nelle Mani della Presenza Santissima, e mentre si
applica al suo intento vede scaturire fra le dita di
tali Mani i fiumi delle scienze e delle conoscenze, delle norme di saggezza e
dei segreti; e vede ciò che tali Mani hanno in serbo per i compagni
delle stazioni iniziatiche
muhammadiane. E da quelle che proviene il nutrimento spirituale di colui che risiede allivello di quella Presenza, la quale è
unadelle quattro fondamentali; coloro che risiedono nelle differenti Presenze
sono tutti uniti; sia pur secondo gradi diversi, a tale Stazione Santissima.
La prima è la summenzionata Presenza
dell'Applicazione all'Intento; la seconda è la Presenza della Luce; la terza è
la Presenza dell'Intelletto; la quarta è la Presenza dell'Uomo, e quest'ultima
è la più completa dal punto di vista esistenziale.[80]
Quando il servo di Dio accede alla prima
Presenza, egli beve al fiume della Permanenza,[81]
e il dimorare in quel luogo gli permette di attingere
la Stazione del «timore del Signore», ossia del timore sotto l'aspetto
particolare del nome divino «il Signore»,[82]
dal momento che la Stazione del «timore» (vale a dire del timore sotto
l'aspetto del nome supremo di Dio) viene concessa qualora si dimori in una
Presenza diversa da quella qui trattata, e di cui si dirà parlando delle Dimore
Iniziatiche nella nostra opera Le Rivelazioni
Meccane. In essa tratteremo parimenti del «timore di Lui», ossia del timore sotto l'aspetto del pronome divino «Lui », non
essendo possibile parlarne in questa sede.[83]
La Dimora iniziatica[84] di cui abbiamo detto nel presente scritto include le «Dimore
dell'Estinzione e del Levar dei Soli»:[85]
ad essa corrisponde il grado della quarta Presenza, ossia quella dell'Uomo, che
rappresenta l'Adempimento perfetto dell' adorazione.
Si tratta della Presenza dell'Uomo
secondo la quale« Lui ti vede», non di quella secondo
cui «tu Lo vedi». L'Angelo Gabriele - su di lui sia la salute! - chiese al Profeta
- che Dio preghi per lui e gli accordi salute! -: «In che cosa consiste
l'Uomo?», e quegli rispose: «Nell'adorare Dio come se tu Lo vedessi; perché, se
anche tu non Lo vedi, Lui ti vede». Quest'ultima frase
(fa'in lam takun tarâHu, fa'innaHu yarâka) ha un senso particolare per quanti sono
in grado di distinguere i significati sottili, poiché, punteggiata come segue: fa'in lam takun: tarâHu, vuoi dire: «se
tu non sei: Lo vedi»,[86]
il che equivale a dire: «la visione di Lui non ha realmente luogo se non
attraverso il venir meno di te stesso».[87]
L'alif[88] dell'espressione tarâHu è stata mantenuta (mentre, punteggiando come si è visto, si
sarebbe dovuto scrivere taraHu) perché, con l'espunzione dell'alif, la visione non sarebbe più stata
possibile: la lettera ha (la H di taraHu) è simbolo di ciò che è assente,[89]
e ciò che è assente non lo si può vedere; espungendo
l'alif si sarebbe dunque adombrato un
«vedere senza visione», il che è un concetto contraddittorio. Per questo motivo
l'alif è stata mantenuta.[90]
Quanto poi alla presenza della ha nella forma tarâHu (dal momento che si sarebbe anche
potuto dire: fa'in lam takun: tara,
ossia: «se tu non sei, vedi»), essa sta a significare che non è possibile
intendere: «vedi, e tutto avvolgi con lo sguardo», poiché Dio è troppo maestoso
e glorioso per essere «avvolto»; allora la H
(cioè: Lui), che è il pronome simboleggiante ciò che della Realtà del Vero ti
sfugge, rimanendo per te come assente, durante la Visione, è lì posta proprio per
dimostrare e rammentare l'illusorietà di quel presunto avvolgimento.
È Dio la Guida. Non c'è altro Dio che Lui.
Qui ha termine quanto ci è stato comandato di riferire a proposito di questa Dimora
iniziatica.
Il Libro si chiude con la lode del Re
Elargitore di Doni.
Traduzione
dall'arabo di Michel Vâlsan, traduzione dal francese di Younis Tawfiq e Roberto Rossi Testa.
[1] Si tratta di due modalità dell'atto divino predestinatore, il qadâ’ e il qadar (nel testo invertiti per necessità di rima). Così nelle Ta'rifât al-Jurjani definisce i due termini: «Il
qadar è il passaggio dei
"possibili" (al-mumkinât)
dall'inesistenza (al-'adam)
all'esistenza (al-wujûd), in
conformità al qadâ'. Il qadâ’ è da
tutta l'eternità (fi-l-azal),
il qadar è in perpetuo (lâ yazâl). La differenza tra le due modalità consiste nel fatto che il qadâ' è la totalità delle cose come si presentano nella Tavola
Custodita (al-Lawhu-1-Mahfûz), mentre
il qadar è la loro estrinsecazione
distintiva nelle realtà create, quando siano soddisfatte le necessarie
condizioni».
[2] È una nozione che si
esprime nel versetto: «Dio è soddisfatto di loro, e loro sono soddisfatti di
Lui», ricorrente in numerosi luoghi coranici (5, 119; 9, 101; 58, 22 e 98, 8).
[3] È il gesto di un
comandante di cavalleria che, brandendo la spada, indica la direzione verso cui
attaccare.
[4] È ipotizzabile che i
«vestiti» in questione simboleggino i «mezzi operativi» utilizzati nell'ordine
delle funzioni tradizionali designate dalla nozione di tasarruf, il «poteredi reggere o d'agire».
In effetti tale simbolismo viene enunciato in questo
trattato. Il senso del passo può dunque essere il seguente: coloro
che hanno conservato i «vestiti» non considerano i poteri trasmessi come
una proprietà personale di cui usare e abusare, ma come un prestito da
restituire integro e senza averlo utilizzato in modo indegno, e.coloro che
hanno smesso i «vestiti», rinunciando così a far uso dei poteri trasmessi,
adempiono alla loro funzione in virtù dell'energia spirituale derivante dalla
loro semplice realizzazione personale. L'utilizzo della loro energia risulta «supererogatorio» in quanto essi avrebbero potuto
servirsi dei «mezzi operativi» loro accordati; ma, avendovi rinunciato, hanno
reso l'azione attraverso l'energia personale «obbligatoria» ai fini dell'adempimento dei loro compiti e
dei loro doveri.
[5] Al-Malâ'u-1-A'lâ, la Sublime Assemblea
delle entità che reggono il mondo. L'idea che Dio «si glorii» dei suoi eletti
di fronte agli angeli deriva da alcuni Detti, uno dei quali, ad esempio,
riguarda coloro che praticano sessioni di dhikr (preghiera del cuore, menzione del
nome di Dio). Il Profeta, trovando una tale assemblea formata da suoi Compagni,
disse loro che l'Angelo Gabriele era venuto a
informarlo che Dio «si gloriava di loro di fronte ai Suoi angeli».
[6] Si tratta di investiture esoteriche d'ordine elevatissimo accordate ai
santi per adempiere alle funzioni spirituali e cosmiche richieste dall'economia
universale della tradizione.
[7] Leggendo qadamu-l-qadam
l'espressione si può tradurre «passo dell'intrepidezza», o «della precellenza»;
leggendo invece qadam-l-qidam si
dovrebbe tradurre «passo dell'eternità».
[8] L'espressione
letteralmente significa «lunghezza e larghezza», ma la loro trasposizione
tecnica secondo un piano vetticale è stabilita fin da al-Hallag ed è attestata
nelle opere di Ibn 'Arabi
[9] Attributi del tasarruf della gerarchia iniziatica.
[10] Corano, 93, 5.
[11] Corano, 20, 86.
[12] La Famiglia (al-Al)
è, secondo l'accezione più generale, la discendenza del Profeta. Dal
punto di vista iniziatico questa nozione designa prima di tutto i suoi
discendenti spirituali, gli eredi delle sue scienze esoteriche.
[13] È pratica regolare,
menzionando il nome di un Compagno del Profeta, pronunciare la formula: radiya-Llâhu 'an-hu, «che
Dio sia soddisfatto di lui!». Compagni del Profeta sono considerati coloro che
l'hanno conosciuto e hanno creduto in lui. Dal punto di vista iniziatico si
dice che sono egualmente suoi Compagni quelli che, non importa
in quale epoca, hanno avuto una sua visione in stato di veglia.
[14] È un'esplicita
allusione al fatto che, la Notte dell'Ascensione, i profeti precedenti l'hanno
accolto e accettato come imâm. Ciò si
fonda su un patto menzionato nel Corano, 3, 75: «Quando Dio strinse un
patto con i Profeti disse loro: "Ecco il Libro e la Sapienza che vi ho
dato. Un Inviato verrà un giorno a voi a confermare la
rivelazione che già avete: credete in lui e aiutatelo"». Secondo
l'interpretazione corrente di questo versetto ciascuno dei profeti precedenti
ha preso l'impegno per sé e per i propri successori nella comunità di
riconoscere e sostenere l'Inviato di Dio quando si manifesterà.
[15] Tale occhio contemplante
non è l'occhio corporeo ma l'Occhio della Conoscenza
essenziale, ossia l'Occhio del Cuore, che è il centro profondo dell'essere,
vale a dire la sua essenza medesima. Nella nostra Postfazione ci soffermeremo
sul termine 'ayn, che
significa sia «occhio» che «essere essenziale».
[16] Formula che si ritrova
testualmente in Le Perle dei Conviti
(Mahâsinu-l-Magâlis) di Ibn al-'Arif
e La Lettera Santa (Risalatu-l-Quds) dello stesso Ibn 'Arabî.
[17] Si può instaurare un
parallelo fra questo passaggio e il seguente brano de La Comprensione del Sé (Atmâ-Bodha) di Shankaracharya: «L'Occhio della Conoscenza (Jnanachakshus) contempla l'autentico Brahma, pieno di Beatitudine,
onnipervadente; ma l'occhio dell'ignoranza non Lo scopre né Lo scorge, così
come un cieco non può vedere la luce sensibile. Quando il Sole della Conoscenza
spirituale si leva nel cielo del Cuore, ne scaccia le tenebre, penetra ovunque,
tutto abbraccia e tutto illumina».
[18] Secondo le Istilâhât dello stesso Ibn 'Arabî la Bellezza
(al-Jamal) designa «gli
aspetti di misericordia e di benevolenza che procedono dalla Presenza (o dalla
Dignità) divina». Nelle Futûhât, cap. 242, il nostro autore precisa che «nella contemplazione la bellezza divina produce
l'estinzione».
[19] Jam' (sintesi o concentrazione) è «la definizione
del Vero senza creatura» (Haqq
bi-lâ khalq), mentre wujûd (realizzazione) è
«la consumazione del Vero nell'atto estatico» (wijdânu-l-Haqqi fî-l-wajd).
[20] Al-jumûd (autosufficienza immutabile; letteralmente: fissazione) è termine tecnico
che, ad esempio, al-Jurjânî nelle Ta'rifât
definisce: «attitudine conseguita
dall'anima bastante a se stessa».
[21] Il termine wâhid (unico) designa anche il numero
uno. Occorrerà tener conto di questa duplice accezione, metafisica e
aritmetica, per comprendere il seguito del passo. Si troverà anche ahad (uno) come sinonimo di wâhid. A questo proposito si può fare un
ulteriore raffronto con un altro brano dell'Atmâ-Bodha: «Lo Yogi che ha
compiutamente conseguito la separazione [fra realtà e illusione] contempla ogni
cosa come se dimorasse in lui medesimo, e grazie all'Occhio della Conoscenza
comprende che tutte le cose sono Atmâ».
[22] L'ittihâd (unificazione) è la
parziale concezione secondo cui la suprema realizzazione è un atto di
unificazione fra due essenze distinte, quella del servo e quella del Signore, che finiscono
per ridursi ad una delle precedenti due. Ecco come Ibn 'Arabî
stesso la definisce nelle Futûhât (cap. 73, quest. 153): «L'ittihâd è il divenire una sola essenza da parte di due, quella del servo e quella
del Signore; ora, non può darsi ittihâd
che nell'ambito della quantità e della
materia, ed essa non è che uno stato». Teoreticamente tale posizione si oppone
al Tawhîd, la dottrina ortodossa, che sostiene che non
vi è che una sola Essenza, e che la realizzazione non è un'operazione che ha
per oggetto l'essenza delle cose, ma è una presa di coscienza
di ciò che è l'Unica Essenza.
[23] L'ittihâd nell'esempio considerato non risiede in una determinata
visione dell'Uno che pervada ogni cosa ed ogni numero,
in qualche modo esaurendoli, ma nell'interpretazione che ne viene data: essa si
fonda sulla concezione che ogni cosa o numero abbia un'essenza propria distinta
dall'Essenza Suprema dell'Uno, e che di conseguenza la visione unitaria che se
ne può avere sia spiegabile solo mediante la fusione delle essenze delle cose
con l'Essenza dell'Uno.
[24] Questo grado è
nell'ordine aritmetico quello dell'unità, che è la sola a portare il «nome»
dell'Uno: solo qui «essenza» e «nome» dell'Uno coincidono.
[25] Si è già visto che
nell'ordine quantitativo (numeri o oggetti) si ammette l'ittihâd, poiché l'operazione in tal caso non ha effetto
sull'essenza delle cose. Del resto Ibn 'Arabî osserva
che anche in questo ambito si deve propriamente parlare di Tawhîd, e non di ittihâd,
qualora si adotti un punto di vista metafisica.
[26] Celebre verso di
al-Husain Ibn Mansûr' al-Hallaj. Ibn 'Arabî ha di mira
l'errore, non certo di al-Hallaj, ma che potrebbe commettere l'individuo meno
sottile, di scambiare il sé individuale con l'Io divino, il quale è
un'affermazione immediata del Sé (Huwa). Al-Hallaj fu poeta e sûfî assai controverso. Nato in Persia
morì giustiziato (a giudizio di molti martirizzato) a Bagdad nel 922. [N.d.TT.]
[27] Hasan al-Basrî
(643-728), figlio di un prigioniero di guerra persiano, visse a Bassora. Malgrado la sua dottrina ascetica si fondi sul distacco dal
mondo, il suo impegno come uomo politico, teologo, giurista, interprete del
Corano e grande predicatore fu
intenso e appassionato. [N.d.TT.]
[28] Farqad as-Sabahî,
discepolo del precedente. [N.d.TT.]
[29] Mâlik Ibn Dinâr (m.
745), sûfî che visse
in estrema povertà facendo l'artigiano e il copista del Corano. [N.d.TT.]
[30] Dawq, traducibile con «sapore», «degustazione», è nella
terminologia tecnica del Tasawwuf «la primizia di uno svelamento iniziatico». Questo termine è
anche utilizzato in un'accezione più ampia per designare genericamente la
conoscenza iniziatica, soprattutto in opposizione a quella teorica. La «Gente del Sapore» (Ahlu-d-Dawq)
sono gli adepti regolarmente iniziati a un ordine di conoscenza esoterica.
[31] Abû Hurayra (m. 68o),
Compagno del Profeta. [N.d.TT.]
[32] Abû
'Abdu-l-lâ Muhamrnad al-Buhârî (m. 87o), autore di una delle maggiori raccolte
di hadîth (Detti del Profeta).
[N.d.TT.]
[33] Ibn 'Abbâs
(m. 687 ), cugino del Profeta, capostipite degli Abbasidi. [N.d.TT.]
[34] Corano, 65, I2.
[35] La citazione ha un peso
particolare, poiché Ibn 'Abbâs era famoso come
tramandatore di hadîth e veniva
ritenuto il commentatore del Corano per eccellenza.
[36] ‘Alî Ibn Abî Tâlib (m. 66I), cugino e
genero del Profeta, quarto califfo e primo imâm
degli sciiti. [N.d.TT.]
[37] Abû Bakr (573-634),
successore del Profeta e suo suocero, fu il primo califfo. [N.d.TT.]
[38] Nel Libro sulla stazione della Prossimità (Kitâbu maqâmi-1-Qurba) Ibn ‘Arabî stabilisce un rapporto fra tale
segreto e il grado iniziatico della «Prossimità», che situa fra quello della
Profezia (an-Nubuwwa) e quello della
Fede veridica (as-Siddîqiyya). Quest'ultimo termine deriva da siddîq,
«colui la cui fede è spontanea e non ha bisogno di
prove da parte di chi formula la verità». Confronta i capp.
73 e 161 delle Futûhât.
[39] Le prove qui utilizzate
per dimostrare l'esistenza regolare fin dalle origini di una via esoterica
nell'Islam sono riprese e amplificate nella Muqaddima
che Ibn ‘Arabî aggiunse «a mo' di coperchio» al
testo delle Futûhât.
[40] Corano, 10, 40.
[41] Corano, 3, 59.
[42] La questione dei
termini tecnici dell'esoterismo è stata trattata dall'autore in un apposito opuscolo, Il
Libro dei Termini Tecnici dei Sûfî (Kitâbu
Istilâti-s-Sufiyya), scritto nel 1218 a Mitilene.
[43] Ibn ‘Arabî
rivela altresì di avere ricevuto degli hadîth,
o interpretazioni di hadîth e di
versetti coranici, da parte del
Profeta (Futûhât, capp. 318 e
560).
[44] Esistono tre tipi di
tali «aspirazioni» (himam):
I himmatu-1-tanabbuh, «l'aspirazione
caratteristica della presa di coscienza», che è il risveglio del cuore a ciò
che prospetta l'intima realtà dell'essere; tale aspirazione produce il
«denudamento» (tajrîd) del cuore;
II himmatu-l-irâda, «l'aspirazione caratteristica della
volontà (o del desiderio)», che è la sincerità iniziale del
di scepolo; si tratta di un'aspirazione «concentrativa» delle forze
interiori dell'essere, che però si può applicare a un fine qualsiasi, non
unicamente spirituale;
III himmatu-1-Haqîqa, «l'aspirazione
alla Realtà Essenziale», che è la concentrazione di tutte le aspirazioni
mediante la purezza dell'aspirazione; vedi più oltre il presente trattato e Futûhât, cap. 229.
[45] Al-fahwâniyya. Il termine, che non si trova negli scritti
precedenti a quelli di Ibn ‘Arabî, pare
derivi da fâhayafûhu, parlare, o da fah, bocca, ma le questioni di
etimologia che pone sono assai complesse.
In ogni caso ecco la definizione datane nelle Istilâhât: «è il
proposito di Dio espresso sul piano della Similitudine (fî ‘âlami-l-Mithâl)».
Tale definizione si ritrova nelle Futûhât
(cap. 73, quest. 153) pressoché negli stessi termini,
ma con l'indicazione che la base tradizionale di tale concetto risiede
nell'insegnamento profetico: «Ciò è espresso dal
Profeta - su di lui la benedizione e il saluto di Dio! nella
sua risposta alla domanda postagli dall'Angelo Gabriele intorno all'Ihsân (l'Adempimento perfetto delle
opere e della Fede): "Che tu adori Dio come se Lo vedessi"». Le
parole «come se Lo vedessi» indicano un piano di
similitudine, e la citazione illustra l'idea di «parola divina rivolta al
servo» su di un piano in cui la parola può essere simultanea alla visione, la
qual cosa si verifica soltanto nell'ambito delle similitudini, poiché sul piano
della realtà la parola è un velo gettato sulla visione.
[46] Shâhid (pl. shawâhid), «testimonianza intuitiva», è la traccia
lasciata nel cuore del contemplante (al-mushâhid) dalla contemplazione (al-mushâhada).
[47] Si tratta propriamente della himmatu-l-Haqîqa
di cui si è già parlato (nota 44). Al riguardo, Ibn 'Arabi
in altra sede (Futûhât, loc. cit.)
precisa: «E l'aspirazione dei più grandi Maestri fra le Genti di Dio, che
concentrano le loro aspirazioni sul Vero e le rendono "una", in
ragione dell'Unità di Colui al quale si rapportano, fuggendo il molteplice e
cercando l'unità di ciò che è dotato di parti (tawhîdu-l-kathra) o l'Identità pura (at-Tawhîd); i Conoscenti evitano il molteplice in quanto tale ma
non la sua sintesi, sia sotto il profilo degli Attributi intrinseci (Sifât), sia sotto quello degli Attributi
estrinseci, di relazione (Nisab), sia
sotto quello dei Nomi (Asma)». Quello che Ibn ‘Arabî dice a proposito delle energie
aspiratrici si ispira a un Detto del Profeta: «Colui che concentra le proprie
aspirazioni in una sola, quella del ritorno a Dio, sarà oggetto delle cure di
Dio, che non si curerà invece di sapere in che via si perderà colui che è pieno
di affanni mondani».
[48] Il testo ha tahwîran, «per distrazione», «per reazione».
[49] L'espressione è in
rapporto con la dottrina di Ibn 'Arabî sulla
differenza fra Dhât, l'Essenza in se
medesima, e Ulûhiyya (o Ulâha), lo Statuto Divino dell'Essenza,
in rapporto alla conoscenza: la prima è intuibile o contemplabile, ma non intelligibile né comprensibile,
mentre il secondo non è intuibile né contemplabile, ma è intelligibile o
comprensibile.
[50] Cfr. Corano, 50, 21: «Ora abbiamo tolto il tuo velo, sì che la tua vista
oggi è penetrante».
[51] Cfr. Corano, 75, 9: «E verranno uniti insieme il Sole e la Luna».
L'applicazione microcosmica di tale simbolismo può essere fatta sotto due aspetti:
I Il Sole è lo Spirito (ar-Rûh),
fonte della luce dell'anima (an-nafs), che ne è il riflesso
individuale; la loro unione indica il riassorbimento di questa in quello, e la
rivelazione di quello in questa.
II Il Sole può inoltre
simboleggiare la stessa Luce divina, poiché «Dio è la Luce dei Cieli e della
Terra» (Corano, 24, 35), mentre la Luna è l'Anima
creata, nel suo senso più indeterminato e universale, che riceve dal Sole la
luce «in virtù della quale essa vede» (cfr. il Detto: «Il credente vede in
virtù della Luce di Dio»). E a questo secondo aspetto che il contesto
consiglia di attenersi; del resto, verso la fine del trattato, si parlerà del
Levarsi del Sole Essenziale, il che è un'applicazione del simbolismo del Sole
all'Essenza Suprema.
[52] Per valutare le
corrispondenze microcosmiche tra questi due termini dobbiamo riferirei al
secondo aspetto del simbolismo del Sole e della Luna a cui
s'è fatto cenno nella nota precedente, poiché il carattere di Influente non è
riconosciuto che a Dio.
[53] Bi-'ayni-l-bashar,
testo stabilito mediante comparazione di due differenti lezioni: bi-'uyûni-l-bashar, «con gli occhi
dell'uomo», e bi-‘ayni-l-bashar, «con gli occhi della vista
sensibile».
[54] Allusione a un Detto secondo
cui, al momento della Resurrezione (con la quale, nel suo senso iniziatico,
questo passaggio ha un rapporto evidente), Dio si presenterà alle creature
sotto «Forme» diverse; alcuni non saranno in grado di riconoscerLo, essendo
radicati a un particolare concetto di Lui; si dice anche che in seguito Dio si
manifesterà nella «Forma» corrispondente alle loro
attese, e che allora essi Lo riconosceranno.
[55] Il termine coranico hanîf, «inclinato (verso la Verità)», «distolto (dall'errore)», è interpretato come attributo
qualifìcativo del monoteista per eccellenza.
[56] Quarîbu-1-madhhab, letteralmente
«la via più vicina» (cioè più breve).
[57] Corano, 24, 3 5.
[58] Cfr. Corano, 66, 8. Come si vedrà subito dopo nel testo, la
remunerazione, anche se non ricercata, verrà data
insieme alla Luce.
[59] Corano, 57, 12.
[60] Corano, 55, 29.
[61] Cfr. Corano, 55, 56: «Non ho creato i jinn e gli uomini se non perché mi
servissero».
[62] Corano, 51, 57-58.
[63] Si tratta di
circostanze tradizionali diversissime tra loro (alcune possono essere di
carattere puramente «intutivo») in cui un aspirante
alla conoscenza può venirsi a trovare.
[64] Opposizione fra
«religione rivelata» e «religione dei sapienti». Ibn ‘Arabî sembra riferirsi nel secondo
caso soprattutto alle Vie di saggezza con cui la Saggezza propria all'Islam si
trovava nel mondo mediorientale e mediterraneo
storicamente in concorrenza, come i
Fratelli della Pu rezza (Ikhwânu-l-Safâ’) e gli
illuminativi (al-Ishrâqiyyûn), o le correnti più autonome dell'Ermetismo e
del Neoplatonismo.
[65] Il termine qui usato, ibtidâ’î, richiama
il Corano (57, 27), dove è usato in riferimento alla Rahbâniyya dei seguaci di Gesù. Secondo l'interpretazione più
superficiale e diffusa, la Rahbâniyya
in questione sarebbe la via monacale dei Cristiani, ma secondo un'interpretazione
più approfondita, basata su una conoscenza esoterica delle diverse modalità secondo cui sono istituite le leggi tradizionali,
essa può designare una determinata fonte di regole e di istituzioni
tradizionali, che concorrono alla nozione complessiva di legislazione
sapienziale; ma allora la sua sfera deve essere considerata come potenzialmente
estendibile, in condizioni eccezionali, fino alla costituzione di forme
tradizionali fondate principalmente su una rivelazione profetica propriamente detta
(ciò si trova più volte enunciato nelle Futûhât,
ad esempio nel cap. 369). Si tratta di un punto di notevole interesse per lo
studio della costituzione e della posizione del
Cristianesimo
all'interno del mondo tradizionale, la cui importanza del resto va ben oltre questo accenno. Comunque nel nostro testo il termine , ibtidâ’î
concerne le vie sapienziali propriamente dette.
[66] L'allusione riguarda
alcune diatribe teologiche sul grado di saldezza della Fede; se ne troveranno
altre più avanti.
[67] Abbiamo già visto (nota
46) che shâhid (testimone) designa la
forma del Contemplato impressa nel cuore del contemplante. Ogni shâhid procede da un Nome divino
rivelato nel cuore del contemplante, che poi è in grado di vedere, in sé e
fuori di sé, gli effetti che ne derivano. Bayyana
(evidenza) è un messaggero di Dio che giunge da profondità insondabili e
infonde nel cuore del devoto un insegnamento divino e una conoscenza certa, in
virtù della quale «vede le cose quali in realtà sono»
(cfr. Futûhât, cap. 286). ‘Âya (segno) significa anche
«versetto», «miracolo», «potere miracoloso». Nel
Corano si trova di frequente usato in concomitanza a bayyna.
[68] Si tratta del Cuore
quale corrispondente microcosmico della Tavola Custodita, su cui sono scritte
in maniera indelebile dal Calamo Supremo le cose del Mondo fino al Giorno della
Resurrezione; più precisamente, come si vedrà più avanti, si tratta della
Faccia Interiore del Cuore.
[69] Corano, 7, 174. L'anonimo «colui» del testo
è stato identificato dai commentatori con personaggi diversi, fra i quali
Balaam, figlio di Beor, di cui si parla in Numeri, 22-24. Costui conosceva il
Grande Nome segreto di Dio, in virtù del quale ogni richiesta può esser
soddisfatta; cedendo alle insistenti richieste del re Balac e del suo popolo,
finì per invocare Dio contro Mosè e gli Ebrei, abusando in tal modo della sua
funzione teurgica e suscitando la collera di Dio, che lo
privò dei suoi poteri e della possibilità di servirsi del Grande Nome. I
commentatori ebrei, cristiani e musulmani non concordano sulle modalità di tale abuso: Origene, ad esempio, nelle sue Omelie sui Nomi afferma che «Balaam non
portava la Parola di Dio nel cuore, ma solo sulla bocca», pur aggiungendo che
«le sue parole erano Parola di Dio».
[70] Nelle Futûhât (cap.
73, quest. 135) Ibn 'Arabî precisa che «l'uomo di Mosè
[Balaam] portava i suoi poteri come un abito, proprio come la
"lettera" riveste il "senso"; avendoli però utilizzati
contro la volontà di Dio, Dio gli inviò la sventura. […]
Nelle comunità tradizionali del passato erano depositari del Senso del Grande
Nome soltanto gli Inviati e i Profeti, che al contempo ne possedevano le
Lettere. Questo accadde anche nella generazione di Muhammad, in cui però vi
furono alcuni che conoscevano il Senso e ignoravano le Lettere. Non si è invece
mai verificato nella nostra comunità il caso di qualcuno cui fossero state comunicate solo le Lettere e non il Senso del Grande
Nome».
[71] Si potrebbe awicinare
questa espressione alla formula «ex opere operato»
della dottrina sacramentale cristiana, ma è appena il caso di notare che ivi
l'ordine di applicazione è assai diverso.
[72] È qui opportuno
precisare che, nel caso di versetti coranici di cui particolari formule sono
entrate nell'uso generale, sono necessarie determinate
condizioni preliminari o soggiacenti, poiché diversamente ogni persona che
recitasse il Corano potrebbe fare constatazioni analoghe; e non si spiegherebbe
per qual motivo il compagno di Ibn 'Arabî non sia stato in grado di farlo
durante le sue recite precedenti.
Nell'esempio che qui viene sviluppato, ci si riferisce soprattutto all'assenza
d'intenzione da parte del recitante e al, carattere automatico dell'effetto
della sua preghiera. D’altra parte,
nel caso di Balaam, occorre sottolineare che
strattavadi un’operazione derivante da certi mezzi segretissimi e d’uso
riservato, basati sull'impiego del Grande Nome, «ineffabile» in condizioni
ordinarie (tratto, questo, caratteristico soprattutto delle forme tradizionali
dell'epoca, cosi come spiegava Ibn ‘Arabî nel passo delle Futûhât riportato nella nota 70). Sotto questo
aspetto si potrebbe instaurare un'analogia con la situazione particolare del
Nome Supremo (al-Ism al-‘Azam)
nell'esoterismo islamico. Ecco in proposito un riferimento fra gli altri
possibili: «Il Profeta - che Dio preghi su di lui! -
che peraltro aveva indicato la presenza del Nome Supremo in questo o in quel
versetto e nella tale o talaltra formula contenente Nomi
divini ordinari, disse alla sua sposa 'A'isha: «Sai che Dio mi ha
svelato il Suo Nome Supremo in virtù del quale, quando Gli si chiede, Egli
accorda, e quando Lo si invoca, Egli risponde?». E volendo la donna che le
rivelasse quel Nome, il Profeta disse: «Il conoscerlo non ti è permesso, perche
tu lo useresti per cose relative a questo mondo». Tale
Nome operativo è rimasto così in una tradizione totalmente occulta e circondata
da difese eccezionali. A tale proposito citiamo ancora Ibn ‘Arabî,
il quale, rispondendo al Questionario di at-Tirmidhî, nelle Futûhât (cap. 73, quest. 131), riguardo
al «Supremo dei Nomi divini» che opera «per virtù speciale» e «che fu nascosto a tutte le creature tranne che ai Suoi
favoriti», afferma che tale Nome non può essere divulgato.
[73] Abû Yazîd al-Bistâmî,
detto Bâyazîd (m. 877). Si attribuisce a lui l’avere per primo parlato pubblicamente
di «estinzione in Dio» e di «sussistenza mediante
Dio». Le sue espressioni teopatiche indussero alcuni a condannarlo come
eterodosso. [N.d.TT]
[74] Corano, 58, 22: «Non troverai gente che creda in Dio e che ami,
nell'Ultimo Giorno, quanti si oppongono a Dio e al Suo Inviato, anche se questi
fossero i loro padri o i loro fratelli o i loro parenti».
[75] Secondo altri testi le
«facce» del cuore possono essere pm numerose (ad
esempio sono sei nelle Futûhât del
medesimo Ibn ‘Arabî, e sono cinque per Sadru-d-Dîn al-Qûnâwî); ma secondo il
punto di vista più elevato, nel più perfetto stato di realizzazione, «il cuore
ha un'Unica Faccia».
[76] Corano, 13, 39 (Madre del Libro - archetipo celeste del Corano). Ora
si comprenderà meglio la situazione delle diverse scuole teologiche sulla
questione del grado di stabilità della Fede. L'imam Abû
Hanifa aveva affermato che la Fede è uguale in tutti i credenti, e che non è
soggetta ad aumentare o a diminuire. E evidente che
esprimendosi in questo modo costui parlava della Fede «inscritta» sulla Faccia
Interiore del Cuore, e sotto tale profilo la sua dottrina è inconfutabile. E
nello stesso modo bisogna poi intenderlo quando precisa che le opere sono
distinte dalla Fede. Ma, quando ci si fonda su questo per affermare che il grado
di osservanza o inosservanza delle opere non influisce sulla maggiore o minore
intensità della fede nell'anima della creatura, si dimentica che le opere
possono agire sulla situazione
della fede inscritta sulla
Faccia Esteriore del Cuore. Ecco perché la dottrina di al-Ash’ari ristabilisce
l'equilibrio, affermando che la fede aumenta e diminuisce in funzione delle
opere.
[77] Corano, 4, 149-150.
[78] Corano, 98, 5.
[79] Baraka (qui tradotto con Grazia)
è, generalmente parlando, un «influsso sottile di prosperità» che può giungere dal
cielo o dalla terra (cfr. Corano, 7, 96). In un senso più
specifico è un'influenza benefica che può esser richiamata e poi diffusa per
affinità da esseri spirituali, oppure da luoghi, da oggetti sacri o da riti. Ma
l'intromissione di qualche elemento eterogeneo od
ostile può contrastare i suoi benefici effetti, ed è questo evidentemente il
caso contemplato dal nostro testo.
[80] Si tratta in effetti della Dignità dell'Uomo Universale (al-Insân al-Kâmil) in cui sono
realizzati tutti i gradi esistenziali, e che rappresenta la Forma intelligibile
della Realtà universale. A seconda del punto di vista
che si assume, esistono diverse gerarchie delle Presenze (Hadarât),
e lo stesso Ibn 'Arabî,
altrove, ne presenta altre.
La prima Presenza corrisponde
più propriamente alla nozione di Islâm,
la sottomissione a Dio secondo le prescrizioni della Legge, ciò che in
ordine ascendente è il primo grado del Dîn
(Religione); al-Imân, la Fede, pur
essendo necessaria, qui non è esplicitamente contemplata.
La seconda Presenza ha
un rapporto più diretto con le virtù della Fede, secondo grado del Dîn, la cui sostanza è definita come «un
lume di grazia»; è in questo senso che si parla di «lume
della Fede» (nûru-l-Imân). Inoltre
qui si tratta della fede attiva sviluppata per mezzo delle opere.
La terza e quarta
Presenza corrisponderanno allora al terzo grado del Dîn, che è al-Ihsân, la
Virtù Perfetta nell'adempimento delle Opere e della Fede. Va sottolineato
che si distinguono due gradi di Ihsân,
di cui sarà trattato più
avanti, e che possono entrambi
essere posti in relazione rispettivamente con la terza e la quarta Presenza: il
primo è uno sforzo di concezione (adorare Dio «come se» Lo si vedesse), e in
quanto tale può essere associato all'Intelletto che caratterizza la terza
Presenza; il secondo implica l'«estinzione» dell'essere contingente e la
«permanenza» dell'Essere Assoluto, e in questo consiste lo stato essenziale dell'Uomo
Universale.
[81] Queste nozioni si
possono spiegare come segue. La prima Presenza è la iqâma, l'adesione al compito prescritto e
l'adempimento delle opere. Lungo il cammino della perfezione la
iqâma si completa con la idâma, cioè la «perpetuazione» dell'orientamento
fondamentale al di fuori delle forme sancite per le opere specifiche. Nella
Preghiera legale (as-salât) coesistono
sia la iqâma che la idama, ma quest'ultima dura ancora, dopo
il «saluto» finale con cui l'autentico adoratore, a differenza del fedele
comune, non esce dallo stato interiore di preghiera per fare ritorno nel mondo,
ma si mantiene nel centro della preghiera; costui saluta a destra e a sinistra
i mondi superiore e inferiore che lo chiamano alle loro gioie e delizie, ma
senza fermarsi in essi. Daymûmiyya
(Permanenza) ha la stessa radice di idâma, e sembra quindi che possa
riferirsi al medesimo concetto. Quanto poi alla nozione del fiume della
Permanenza, sembra aver rapporto con i fiumi dell'Eden di cui parla il passo coranico
citato alla nota seguente.
[82] Tutti questi concetti,
con le loro relazioni d'insieme, si trovano contenuti nel seguente passo della Sura della Prova Evidente (Corano, 98,
6-8): «Quelli che credono e operano il bene sono i migliori fra gli esseri
creati e avranno come ricompensa, presso il loro Signore, i giardini dell'Eden,
sotto cui scorrono i fiumi, e nei quali rimarranno eternamente.
Dio è soddisfatto di loro, e loro son soddisfatti di
Dio: questo per chi ama il suo Signore». Del resto il presente trattato si ispira in ogni sua parte a questa breve Sura.
[83] La parte delle Futûhât che tratta delle Dimore
Iniziatiche si estende per centoquattordici capitoli (dal 270 al 383). I punti
riguardo ai quali vien fatto il rimando non vi sono
trattati come argomenti distinti, ma sono disseminati nell'intera opera e
presentano sviluppi assai differenziati.
[84] Secondo la definizione
di Ibn 'Arabî (Futûhât, cap. 271) il termine «dimora (manzil) designa la
stazione (maqâm) nella quale Dio (il Vero, al-Haqq) discende verso di te, o nella quale
tu Lo avvicini».
[85] La causa dell'uso di
questa terminologià può essere individuata nella seconda frase del trattato
propriamente detto (cioè dopo il prologo), dove l'autore parla del levarsi del
Sole della prova decisiva in conseguenza del venir meno di
ciò che non è stato, e del permanere di ciò che non ha mai cessato di essere.
[86] Cfr. ultima parte della
nota 8o. Qui il secondo grado dell'Ihsân,
riferendosi a una visione reale e completa, mostra con chiarezza la sua
radicale differenza dal primo grado, che era semplice similitudine («come se» Lo vedessi).
[87] Il ragionamento potrebbe
essere inteso come segue: «Se tu non sei, Lo vedi;
allora, in verità, è Lui che vede te». Da ciò si evince che nel secondo grado
dell'Ihsân le due «visioni»
sono simultanee e coincidenti, convertendosi l'una nell'altra.
[88] L'alif, a lunga o
consonantica, traslitterando si rende con un tratto orizzontale sovrascritto o
con un accento circonflesso sulla a. [N.d.TT.]
[89] Questa hâ è in effetti
il pronome enclitico di terza persona, che è grammaticalmente quella di cui si
parla, e perciò assente.
[90] Si potrebbe ancora
notare che l'alif appare come «strumento»
e «luogo» della visione reciproca; ma poiché essa si
situa a un grado in cui l'essere distintivo non esiste più, e in uno stato dove
la conoscenza non comporta più la distinzione tra soggetto e oggetto, si tratta
in realtà di una Visione unica e immediata che si confonde con la Luce
dell'Essere Puro, immutabilmente identico a Se Stesso in eterno.
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