Note sulla circolarità dell'essere in Ibn
al-'Arabī (1165-1240)*
...Sappi che, poiché l'Universo è di
forma sferica, l'uomo, trovandosi alla Fine, ha nostalgia del Principio. La
nostra uscita dal mondo del Nulla a quello dell'esistenza avviene in virtù Sua
(sia esaltato!) e a Lui ritorniamo.
Come disse Iddio (esaltato e potente) «A Lui si riconduce ogni cosa» (XI, 123) e «E temete un giorno nel quale sarete tutti riportati a Dio» (II, 281) e «A Lui tutto ritorna» (XLII, 15 e passim) e «E a Dio tutto finisce» (XXXI, 22). Non vedi dunque che quando cominci a tracciare un cerchio non cessi mai di girarlo finché ritorni al principio e solo allora è un cerchio? Se non fosse così avverrebbe che, usciti da Lui in linea retta, non torneremmo a Lui e non sarebbe vero il suo dire (ma Egli è veritiero) «A Lui sarete fatti tornare» (X, 56 e passim). Ogni cosa e ogni essere è un cerchio che ritorna a quel che era da prima e Iddio altissimo ha stabilito per ogni essere un grado nella Sua scienza[1]. Fra gli esistenti ce ne sono di quelli che son stati creati nei loro gradi e ivi stanno senza cessa e non hanno né principio né fine ma solo si dice a proposito loro che son stati creati. Il principio non si può capire nella sua realtà se non mediante la manifestazione di ciò che vien dopo, e al quale si vien trasportati. Ma in questo caso non v'è trasporto e il suo stesso principio è la sua esistenza e non altro[2]. Fra gli esistenti ce ne sono poi di quelli la cui esistenza è prima nei loro gradi e poi si scende nel mondo della loro natura: e questi sono i corpi prodottisi dagli elementi, ma non tutti, bensì i corpi di uomini e ğinn (ath-thaqalain, Corano LV, 31). Iddio ha stabilito per loro, in quei gradi a loro determinati, dai quali son stati fatti discendere senza che essi ne fossero coscienti, una voce che chiama e invita ogni individuo a essi. E ogni individuo continuamente ascende, con le opere buone, finché vi giunge, oppure li desidera con opere di cui Iddio non è soddisfatto. E la voce del Dio/Realtà (al-ḥaqq) quando sorge nel cuore del servo lo chiama dal luogo che è la sua mèta quando parte per il cammino. E poiché ognuno che giunge è lieto e felice, è dunque nuovo, e straniero; sottile, e per questo egli ha sempre nostalgia di quei [gradi]. Da questo deriva l'amore del luogo natio. Come dice Ibn ar-Rūmī (m. 896): Quel che fa amare la patria agli uomini sono i desideri che laggiù loro preparò la gioventù. Sì che quando ricordano la patria, gliela fa viva nel ricordo la fresca età che in essa vissero, e sentono per quella nostalgia[3].
Come disse Iddio (esaltato e potente) «A Lui si riconduce ogni cosa» (XI, 123) e «E temete un giorno nel quale sarete tutti riportati a Dio» (II, 281) e «A Lui tutto ritorna» (XLII, 15 e passim) e «E a Dio tutto finisce» (XXXI, 22). Non vedi dunque che quando cominci a tracciare un cerchio non cessi mai di girarlo finché ritorni al principio e solo allora è un cerchio? Se non fosse così avverrebbe che, usciti da Lui in linea retta, non torneremmo a Lui e non sarebbe vero il suo dire (ma Egli è veritiero) «A Lui sarete fatti tornare» (X, 56 e passim). Ogni cosa e ogni essere è un cerchio che ritorna a quel che era da prima e Iddio altissimo ha stabilito per ogni essere un grado nella Sua scienza[1]. Fra gli esistenti ce ne sono di quelli che son stati creati nei loro gradi e ivi stanno senza cessa e non hanno né principio né fine ma solo si dice a proposito loro che son stati creati. Il principio non si può capire nella sua realtà se non mediante la manifestazione di ciò che vien dopo, e al quale si vien trasportati. Ma in questo caso non v'è trasporto e il suo stesso principio è la sua esistenza e non altro[2]. Fra gli esistenti ce ne sono poi di quelli la cui esistenza è prima nei loro gradi e poi si scende nel mondo della loro natura: e questi sono i corpi prodottisi dagli elementi, ma non tutti, bensì i corpi di uomini e ğinn (ath-thaqalain, Corano LV, 31). Iddio ha stabilito per loro, in quei gradi a loro determinati, dai quali son stati fatti discendere senza che essi ne fossero coscienti, una voce che chiama e invita ogni individuo a essi. E ogni individuo continuamente ascende, con le opere buone, finché vi giunge, oppure li desidera con opere di cui Iddio non è soddisfatto. E la voce del Dio/Realtà (al-ḥaqq) quando sorge nel cuore del servo lo chiama dal luogo che è la sua mèta quando parte per il cammino. E poiché ognuno che giunge è lieto e felice, è dunque nuovo, e straniero; sottile, e per questo egli ha sempre nostalgia di quei [gradi]. Da questo deriva l'amore del luogo natio. Come dice Ibn ar-Rūmī (m. 896): Quel che fa amare la patria agli uomini sono i desideri che laggiù loro preparò la gioventù. Sì che quando ricordano la patria, gliela fa viva nel ricordo la fresca età che in essa vissero, e sentono per quella nostalgia[3].
E non viene il pentimento a chi si pente
altro che quando si ridesta dall'assopimento della trascuratezza e sa che è
immerso in azioni che porteranno alla sua perdita e alla sua rovina; e allora
ha paura e vede di esser prigioniero nei lacci della passione ed è ucciso dalla
spada delle sue malvage operazioni. E il ciambellano della porta del Sovrano
gli dice: «Il Re ha deciso che se smetti da queste azioni ribelli e torni a Lui
e ti attieni ai Suoi ordini e ai Suoi decreti, ti darà il perdono dal tuo
castigo e sarà benevolo verso di te: e una delle sue benevolenze sarà che ogni
bruttura che avrai commesso assumerà forma di bellezza». Poi il ciambellano gli
darà il Decreto Divino, dove è scritto: «Nel nome di Dio, clemente
misericordioso! Coloro che non invocano assieme a Dio un altro dio, e non
uccidono chi Iddio ha proibito di uccidere altro che per una giusta causa, che non commettono adulterio. Ora colui
che tali cose commette troverà punizione; sarà raddoppiato a lui il castigo il
dì della Resurrezione e vi resterà umiliato in eterno. Eccetto chi si pente e
crede, e compie opere buone; a questi Iddio tramuterà le loro opere male in
buone[4]
(Corano XXV, 68-70).
E quando il barbaro (waḥshī)[5]
leggerà questo decreto dirà: «E chi mi aiuterà a compiere quelle opere buone per
cui Dio si è impegnato nella trasformazione?» E gli giungerà allora in risposta
un altro Decreto in cui è scritto: «In verità Dio non sopporta che altri
vengano associati a Lui: tutto il resto Egli perdona a chi vuole» (IV, 48,
116). E dirà ancora il barbaro: «E come farà a sapere se sono io quello cui
vuol perdonare, o no?» E gli giungerà in risposta un terzo Decreto, in cui è
scritto: «O servi Miei che avete prevaricato contro l'anime vostre, non
disperate della Misericordia di Dio, poiché Iddio tutti i peccati perdona: Egli
è l'Indulgente, Clemente!» (XXXIX, 53).
E quando il barbaro avrà letto anche
questo Decreto dirà: «È ora» e diverrà musulmano (aslama)[6].
Mistero
Divino
Dissero gli Angeli: «E non v'è nessuno di
noi che non abbia luogo prescritto» (XXXVII, 164). E così è per tutti gli
esseri salvo gli uomini e i ğinn
(ath-thaqalain). Anche se i ğinn e gli uomini sono anch'essi
stati creati nei loro luoghi determinati (maqām)
e anche essi hanno, nella scienza divina, luoghi specificati da Lui, questi son
spariti [ai loro occhi] ma a esso [luogo] ogni individuo di fra loro termina
per la terminazione dei suoi aliti (anfās).
L'ultimo alito è il luogo definito in cui quell'individuo muore. Pertanto essi
sono stati chiamati a viaggiare e hanno viaggiato (salakū) verso l'alto in risposta all'invito della Legge o
verso il basso in risposta all'invito della voglia (al-amr al-irādī) senza averne coscienza se non dopo
l'avvento alla mèta.
Ogni individuo dei due generi (ath-thaqalain, gli uomini e i ğinn) termina il suo viaggio nel
luogo determinato creato per lui: «fra loro ci sono i dannati e i beati».
Mentre ogni altro essere, eccetto loro, è stato creato nel suo luogo fisso e non
se ne sposta e non viene invitato a viaggiare verso di esso perché vi sta già:
così avviene per angeli, animali, piante e minerali[7].
Questi son sempre beati presso Dio e non li colpisce dannazione[8].
Tuttavia anche uomini e ğinn rientrano nel detto degli
angeli («e non v'è nessuno di noi che non abbia un luogo prescritto») presso
Dio. Le cose create del mondo non possono conoscere il loro luogo altro che se
Dio
glielo definisce, non perché vi stanno.
Infatti tutto ciò che non è Dio è possibile (contingente) e una delle qualità
del contingente è che non assume luogo determinato per sua essenza (lidhātihi), e questo dipende dalla preferenza
preesistente nella sua conoscenza. Il conosciuto è ciò che la conoscenza dà ed
egli non conosce ciò che è contrario: qui è il «segreto del Destino (qadar) che domina il creato». Poiché la
conoscenza del decidente non è capace di cambiamento per l'impossibilità della
non-eternità preesistente, e la scienza di Dio delle definizioni dei vari stadi
è eterna (preesistente), e pertanto non si annienta[9].
È questo uno dei più oscuri problemi
intellettuali ('aqliyya). E ciò ti
dimostri che la scienza di Dio, con cui conosce le cose, non è aggiunta, in
più, sulla sua essenza (dhāt),
ma la sua essenza dipende, in quanto scienza, dalle cose conosciute perché sono
conosciute in virtù sua, contrariamente a quanto pensano alcuni studiosi (nuẓẓar)[10].
Infatti il contrario porterebbe a una deficienza dell'essenza dalla Perfezione,
e al fatto che un qualcosa di esterno condizionerebbe l'essenza e questo qualcosa
in più la governerebbe, e ne verrebbe così vanificato il fatto che (la sua
essenza) fa ciò che vuole e ha arbitrario potere; non c'è altro Dio che Lui il
Potente il Saggio»!
Così è realizzata questa questione:
dèdicatici, perché è fra le più oscure delle questioni imbarazzanti alla cui
soluzione non porta nessun intelletto, in realtà, in quanto pensiero, ma una
sua soluzione è possibile solo mediante rivelazione divina profetica (ilāhī nabawī)[11].
Torniamo dunque a quanto dicevamo e
affermiamo che tutti i nostri compagni hanno errato in questa questione per
mancanza di [divina] rivelazione (kashf)
e hanno sostenuto, con pensiero discorsivo errato, che il perfetto fra gli
uomini è migliore degli angeli, presso Dio, in assoluto. Non è legato a una
specie o a uno stadio cui si addica una superiorità su altri. Poi hanno
argomentato sostenendo: Gli uomini progrediscono e si
evolvono per i loro aliti (liberamente?)
mentre ciò non fanno gli angeli perché son stati creati al loro posto fisso. Ma
questi nostri compagni che sostengono questo non hanno conosciuto la verità di
cui prima ti ho reso edotto. L'evoluzione (taraqqī)
vera cioè la abbiamo noi, gli angeli e altri, anzi essa è necessaria per tutti,
al Mondo, all'Intermundio (barzakh) e
all'Altro Mondo (al-ākhira), a
tutti quelli che la scienza riconosce mortali. Non vedi infatti che gli angeli,
malgrado abbiano luoghi fissi e determinati che essi non oltrepassano, non sono
però privati di un aumento di scienza; infatti Dio ci informa che Egli «insegnò
loro i nomi» per mezzo di Adamo (su cui sia la pace!) e quindi aumentò loro una
scienza che prima non avevano dei nomi divini: e lo lodarono e santificarono
con quei nomi. Quindi gli angeli sono uguali a noi nell'evoluzione e nel
progresso (taraqqī), nella
scienza, se non nell'azione ('amal),
così come noi non progrediamo nell'azione dell'Aldilà per mancanza di
responsabilità cosciente (taklīf):
noi e loro nell'Aldilà in questo siamo uguali[12].
E il nostro progredire nel mondo verso il
luogo che afferriamo - che è il luogo in cui gli altri furono creati fin dal
principio - non dipende da una nostra particolare nobiltà (sharaf) sugli altri, ma questo è «per provarci», non per altro.
Quelli che sostengono il contrario non hanno capito quel che intendeva dire Dio
in vari testi coranici come per esempio (LXVII, 2) «per provarvi e sperimentar
chi fra voi meglio opera». Non vi si dice che il loro esser creati in una data
forma porta a questa «prova». I ğinn
ci sono compagni in questo stadio eppure non hanno la fortuna di avere una
«forma». Sappilo, e Iddio ti aiuti!...[13].
E sappi che le anime di uomini e ğinn e le anime degli animali hanno
due potenze, una potenza conoscitiva e una potenza operativa, secondo «quelli
della rivelazione». Questo è evidente in tutti gli animali, come le api, i
ragni, gli uccelli che si scelgono i nidi e altri animali; mentre le anime di ğinn e uomini, a diversità degli altri
animali, hanno anche una terza potenza, che non posseggono gli animali né
l'anima universale e cioè la potenza cogitativa (mufakkira); e il genere umano ottiene alcune conoscenze mediante
questa potenza di pensiero, mentre è compagno di altri esseri viventi
nell'apprendere [certe] scienze per effusione di grazia divina, e alcune altre
conoscenze, come gli animali, per natura (bi'l-fiṭra)
come l'attaccarsi del bambino al seno materno per succhiare il latte[14].
Solo l'uomo ottiene le conoscenze per via
di cogitazione (min ṭarīq fikr);
il pensiero, nell'uomo, ha la stessa funzione della Realtà Divina di cui il
Corano dice: «Egli governa la Causa, egli precisa i suoi segni» (XIII, 2), o
come dice Iddio in un autentico ḥadīth
qudsī: «Non dubito mai di una cosa mentre la opero». Questa realtà non
c'è invece nell'Intelletto Primo né nell'Anima Universale, ma è una cosa di cui
è stato dotato in ispecie l'uomo per quella «forma» nella quale nessun altro fu
creato[15].
Noi sappiamo infatti che l'uomo è esistenziato nella forma (maujūd 'ala 'ṣ-ṣura) e
noi decidiamo che nessun altro essere Iddio esistenziò in una forma. Né
discorsi di profeta né libri rivelati ci assicurano di questa cosa né del suo
contrario. Molti hanno errato in questo perché non si sono basati su una
informazione divina (ta'rif
ilāhī) ma hanno argomentato con prove tradizionali (khabar); ma nella tradizione non v'è
nessuna indicazione che qualcuno che non sia l'Uomo Perfetto sia stato creato
secondo la Forma; è possibile come non è possibile[16].
Segreto
Divino
La Natura sta fra l'Anima e il Pulviscolo
(Atomi: habā)[17].
È questa l'opinione dell'imām Abū Ḥāmid
[al-Ghazzālī]. E del resto la sua (della Natura) posizione non può
essere che là. Ogni corpo infatti da prima del Pulviscolo alla fine dei corpi è
naturale. Tutto ciò che nasce dai corpi naturali - cose (umūr), forze, spiriti parziali, angeli e luci - c'è un
principio (ḥukm) divino per la
natura in essi, un posto predestinato da Iddio altissimo. L'ordine/principio
della Natura è dal Pulviscolo in là. L'ordine/principio dell'Anima Universale
èdalla Natura in là. Quanto a ciò che è sopra l'Anima, né la Natura né l'Anima
hanno ordine/principio in esso[18].
In ciò che abbiamo menzionato ci sono
molte discussioni fra i filosofi speculativi (ahl an-naẓar) e opinioni diverse da quel che diciamo noi ḥakīm (Saggi). Fra i dotti,
il teologo dialettico (ğinn) non
ha parte alcuna in questa scienza, proprio perché è dialettico (mutakallim); al contrario del Saggio (ḥakīm), che significa chi
unisce la scienza divina, naturale, matematica (riyāḍī) e logica (manṭiqī). E non ci sono che questi quattro gradi di
scienza[19].
I modi per ottenere queste scienze si
diversificano, fra il Pensiero e il Dono, cioè l'effusione della grazia divina.
E questa ultima è la via dei nostri compagni, che non hanno entratura nel
pensiero (discorsivo) per la corruzione che vi si infiltra[20].
In essa (nella scienza del pensiero discorsivo) la verità (ṣiḥḥa) è dubbia e non c'è da fidarsi di ciò che
dà. E per «nostri compagni» intendo i compagni dei cuori e delle contemplazioni
e delle rivelazioni, non gli adoratori o gli asceti e non i sufi in assoluto.
Ma piuttosto quelli fra loro che sono «realizzatori» (ahl al-ḥaqa'iq wa 't-taḥqīq)[21].
Per questo si dice, a proposito delle scienze della profezia e della santità (an-nubuwwa wa'l-wilāya) che esse
sono oltre l'intelletto, e l'intelletto non vi ha accesso col pensiero, ma deve
solo accettare, in specie presso i sani di intelletto, che non si fanno vincere
da dubbi di immaginazione e di pensiero, dai quali viene la corruzione della
loro contemplazione. Molte sono le scienze dei misteri ('ulūm al-asrār): Dio dice la Verità e guida sulla Via
(XXXIII, 4).
Dal bāb
48 del 24° juz. Ediz. UY, pp. 185 sgg.[22].
Diciamo: «Le Leggi Religiose (sharā'i')[23]
cambiano secondo il cambiamento delle relazioni divine», perché se la relazione
divina per render lecito un qualsiasi fatto nella Legge fosse come la relazione
divina per la proibizione del medesimo, il mutamento dell'Ordine divino non
sarebbe vero, mentre è stato dimostrato che lo è. E dato che è vero il detto
divino «A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via» (Corano V, 48), ed è vero che per ogni comunità
religiosa (umma) c'è una via e una
regola, portata dal suo Profeta e dal suo Apostolo, allora è anche vero che c'è
una abrogazione e una conferma. E sappiamo decisamente che la Sua relazione
(sia esaltato!) in ciò che ha prescritto a Muhammad (che Dio lo benedica e lo
salvi!) è diversa dalla Sua relazione verso un altro profeta. Altrimenti, se la
relazione fosse una da tutti i punti di vista, relazione che è responsabile
della legislazione per ogni cosa specifica, la Legge sarebbe unica da tutti i
punti di vista.
E se si chiede: «Perché cambiano le
relazioni divine?» rispondiamo: «per il cambiamento delle situazioni» (al-aḥwāl). Chi è in una
situazione di malattia invoca: «O Guaritore! O Risanatore!» Chi è in una
situazione di fame dice: «O Provveditore (del cibo)!» E chi sta annegando dice:
«O Aiutatore!» Le relazioni [divine]
cambiano cioè secondo la variazione delle situazioni. Iddio dice: «Ogni
giorno Egli è in un'opera nuova» (LV, 29)[24]
e «Attenderemo a voi, o nostri servi (ath-thaqalāni)
(LV, 31); e disse il Profeta (che Dio lo benedica e lo salvi!) descrivendo il
suo Signore (sia esaltato!) «Ha in mano la Bilancia, abbassa e alza» e si dice
per il pesare: «L'alzante, l'abbassante». Solo così sono evidenti queste
«relazioni» (nisab), e lo stesso avviene
per la variazione delle situazioni delle creature.
Diciamo poi: «Le situazioni variano per
il variare dei tempi». Infatti le variazioni delle situazioni delle creature
sono causate dalla variazione dei tempi in cui si verificano. La loro
situazione in primavera è diversa da quella dell'estate, quella dell'estate è
diversa da quella dell'autunno, quella dell'autunno è diversa da quella dell'inverno,
e quella dell'inverno è diversa da quella della primavera. Alcuni dotti, a
proposito di quel che opera il variar del tempo nei corpi naturali, hanno
detto: «Esponetevi all'aria del tempo di primavera, perché essa fa per i vostri
corpi quel che fa per i vostri alberi. E guardatevi dall'aria dell'autunno
perché essa fa per i vostri corpi quel che fa per i vostri alberi». E Dio ha
detto esplicitamente (naṣṣa)
che noi siamo parte delle piante (nabāt)
della terra. Dice infatti: «E Dio v'ha fatti germinar dalla terra come piante»
(LXXI, 17), cioè siete cresciuti come piante. Come anche ha detto, nella
relazione di esistenziazione (takwīn)
verso un'anima, che ordina: «E il Nostro parlare a una cosa quando Noi la
vogliamo è dirle: Sii! ed essa è» (XVI, 40), ponendo così per lei
l'esistenziazione (takwīn). Così
sono anche le relazioni di manifestazione delle piante verso le piante e sappi
che è per questo che abbiam detto: «Le situazioni variano per il variare dei
tempi»[25].
Quanto al nostro dire: «I tempi variano secondo il variare dei moti», per moti
intendo dire il dirigersi di Dio (al-ḥaqq)
verso di essi nel crearli (bi'l-ījād),
come dice Iddio e si definiscono gli anni e i mesi e le stagioni. Questo si
intende per «tempi»[26].
E quando dico: «I moti variano secondo il
variare delle direzioni (tawajjuhāt)»
intendo dire il dirigersi di Dio (al-ḥaqq)
verso di essi nel crearli (bi'l-ījād),
come dice Iddio altissimo: «Il nostro parlare a una cosa, quando Noi la
vogliamo...». Se la direzione fosse unica verso di esse, non si avrebbero
cambiamenti di moto, mentre ci sono. E questo prova che la direzione secondo la
quale [Iddio] mosse la Luna nel suo cielo (falak)
non è la direzione con cui mosse il Sole o altri astri e cieli[27].
Se così non fosse, la velocità e il rallentamento di tutti sarebbe uguale. Dice
Iddio: «Ciascuno nuota nella sua sfera» (XXXVI, 40). Ogni moto dunque ha una
direzione divina, o dipendenza speciale, dato che egli «vuole».
Diciamo poi: «Le direzioni variano
secondo il variare degli scopi (maqāṣid)».
E se lo scopo (qaṣd) del moto
della Luna, mediante quella direzione, fosse lo stesso di quello del Sole per
quella direzione, non si distinguerebbe più un influsso (athar) dall'altro, ma gli influssi sono senza dubbio diversi,
quindi le direzioni sono diverse per la diversità degli scopi. La sua
«direzione» quando è soddisfatto di Zaid è diversa dalla sua direzione quando è
adirato con 'Amr, ed è lo scopo del punire 'Amr e del dar gioia a Zaid. Gli
scopi (qaṣd, maqāṣid) sono diversi[28].
Diciamo poi: «Le variazioni degli scopi
sono secondo le variazioni delle manifestazioni (tajallīyāt)». Se le manifestazioni fossero della stessa
unica forma (ṣūra), da
tutti i punti di vista, non avrebbero che uno scopo solo. Ma è invece provata
la varietà degli scopi; è quindi necessario che ogni scopo speciale abbia una manifestazione
(tajallī) speciale diversa da
un'altra. E infatti l'«ampiezza divina» fa sì che nessuna cosa si ripeta
nell'esistenza[29]. E su
questo appunto contano gli uomini: «Eppure costoro dubitano della Creazione nuova!»
(L, 15). Dice lo shaikh Abū Tālib al-Makkī, autore del Qūt al-qulūb e altri santi (rijāl Allāh): «Invero Iddio altissimo non si manifesta mai in una
forma unica a due persone, né in una forma unica due volte».
Per questo gli effetti (influssi, āthār) nel mondo sono diversi
e sono conosciuti come «soddisfazione» (riḍā)
o «ira» (ghaḍab) [divine]. Diciamo
infine «Le manifestazioni cambiano col cambiare delle Leggi divine. Ogni Legge
divina (sharī'a) è infatti una
via che porta a Lui (sia lodato!) ed esse sono diverse[30].
È indubbio che le manifestazioni cambiano così come cambiano i doni. Non vedi
come Iddio incolperà questa nazione (umma) nel dì della resurrezione, nazione
nella quale ci sono i suoi ipocriti (munāfiqūn)?
Diverse sono le loro opinioni (naẓar)
sulla Legge. Ogni maestro di diritto (mujtahid)
segue una legge diversa che è una via verso Dio. Per questo si differenziano le
sètte e le comunità (madhāhib)
mentre ogni legge fa parte di una Legge (sharī'a).
Iddio ha confermato questo per bocca del suo Profeta. Senza dubbio le
manifestazioni sono diverse. Ogni comunità crede di Dio un qualcosa, e, se si
manifesta a lei il contrario, lo nega; ma quando si produce una trasformazione nel
segno che quella comunità ha stabilito in se stessa esser con Dio lo accetta e
conferma. Così quando si manifesta ad al-Ash'arī nella forma della
credenza di chi non crede alle sue idee su Dio, e si manifesta all'avversario
[di al-Ash'arī] nella forma della credenza di al-Ash'arī, per
esempio, ciascuna delle due comunità nega le opinioni dell'altra e così accade
in tutte le sètte e comunità (ṭā'ifa)[31].
E se Iddio si manifesta a ogni comunità
nella forma della credenza di quella comunità in Lui, che è il segno che Muslim
nel suo Ṣaḥīḥ
menziona attribuendolo al Profeta, confessano che Lui è il loro signore, e che Lui
è Lui e non altri. Le manifestazioni dunque sono diverse secondo le diverse
Leggi».
Abbiamo poi detto già: «Le Leggi
religiose cambiano secondo il cambiamento delle relazioni divine». Così il
cerchio continua a girare[32].
E ogni problema di questi è nel contempo primo, ultimo e medio. E così avviene
di ogni cosa circolare: ogni punto accoglie - per esempio - il Principio, la
Fine o il Mezzo.
Abbiamo menzionato un esempio di questa
forma circolare nelle At-tadbīrāt
al-ilāhiyya riferendo il detto «Il mondo è un giardino, la cui siepe è
lo stato (daula). Lo stato è
l'autorità (sultān) protetta
dalla Tradizione (sunna). La tradizione è guida (siyāsa) retta dal Re. Il Re è un
pastore, aiutato dall'esercito. L'esercito sono aiutanti, sostenuti dal denaro.
Il denaro è una previdenza [divina], che i sudditi radunano. I sudditi (ra'iyya) son servi tenuti assieme dalla
giustizia. La giustizia è l'uso, in cui è la salute del mondo; il mondo è un
giardino...» e il cerchio continua a girare[33].
* Il breve saggio qui riprodotto venne
pubblicato originariamente in «Rivista degli Studi Orientali», LVI, 1982, pp. 57-74, e successivamente
in BAUSANI A., Il "Pazzo sacro"
nell'Islam. Saggi di storia estetica, letteraria e religiosa , a cura di Maurizio
Pistoso, Luni Editrice, Milano-Trento, 2000, pp. 353-377.
PRESENTAZIONE
In un precedente
articolo in RSO (Bausani 1979) sottolineavo, a proposito di alcuni aspetti
scientifici delle Futūḥāt
Makkiyyah di Ibn al-'Arabī (Murcia 1165 - Damasco 1240), che il
Nallino (Nallino 1933, s.v.) definiva «celebre corifeo dell'indirizzo più
spinto, quasi panteistico, della mistica arabo-musulmana», la sua quasi
maniacale insistenza sul centro e sul cerchio. In quell'articolo sostenevo come
quelle considerazioni di tipo geometrico-matematico gli permettessero di
svincolarsi da un «panteismo» troppo materialistico e lo ponessero in una
posizione contraria all'emanazionismo mistico-neoplatonico che gli viene
comunemente attribuito, e nel contempo gli fornissero intuizioni notevoli su
una possibile infinità di centri, in
un universo infinito.
Ora vorrei soprattutto
sottolineare gli aspetti religioso-filosofici di questo suo vivissimo senso
della circolarità dell'essere (già del resto sottolineata, ma a mio parere non
sempre con precisione, da Asín Palacios e da altri: cfr. Asín Palacios 1931,
pp. 194 sgg.), ponendo ancora in evidenza la sua posizione - non facilmente
definibile - di mistico e nel contempo di non-panteista religioso, malgrado
quel che se ne dice comunemente.
Nell'ormai lontano 1946
in un mio pensiero (inedito) scrivevo: «Uno dei proverbi più giusti... mi
sembra quello che dice "gli estremi si toccano". L'ignoto che lo
disse per la prima volta fu in fondo un gran precursore delle più moderne
teorie filosofiche e scientifiche. Questo proverbio presuppone, come ambiente che materia tutto il
nostro pensare, uno Spazio mentale curvo.
Gli esempi che danno ragione al proverbio suddetto sono infiniti... Ma come può
esser nata in noi questa curiosa e pur fondamentale qualità del pensare, cioè
la sua «curvatura»? Psicologicamente io sono convinto che essa è nata dal fatto
che noi abbiamo - pensando -la sensazione fisica di una stanchezza nella testa,
cioè nell'oggetto più rotondo a nostra disposizione nel nostro corpo... Tale
correlazione, che può sembrare ridicola ma non lo è, si può ampliare ancora se
consideriamo che il nostro stesso corpo, di cui abbiamo una immediata
percezione, consta di un tutto chiuso,
noi siamo una figura solida chiusa
e chi si passa una mano
sui capelli e poi continua a lisciarsi la schiena ecc. arriva poi, in fondo, a
trovarsi ancora, oltrepassati i piedi e la pancia, con una mano sui capelli.
Inconsciamente, quindi, siamo portati a sentire lo spazio in cui operiamo pensandolo
come racchiuso in limiti che si avvicinano alla sfera, che anzi in alcune parti (la testa, che sentiamo fisicamente come sede del, o collegata in
qualche modo al, pensare) sono quasi
del tutto sferici. Pertanto Minkowski, dopo tanti calcoli, è venuto semplicemente
a scoprire che aveva la testa tonda».
Queste curiose
espressioni, alquanto paradossali, scritte quando non conoscevo affatto i passi
di Ibn al-'Arabī che seguiranno, mi convincono, ora che li ho riesumati,
della giustezza della mia interpretazione ibnarabiana.
Traduco, in quel che
segue, alcune parti del 47° e del 48° bāb delle Futuḥāt Makkiyyah del grande mistico di Murcia,
basandomi sul testo critico arabo frutto della monumentale opera dello studioso
egiziano 'Umar Yaḥyà (abbreviato in UY): Ibn al-'Arabī 1972; per
l'altra edizione corrente e non critica v. Ibn al-'Arabī 1973. I passi sul
centro e la circonferenza, insieme a queste nel cap. 47, sono state già
tradotte in Bausani 1979, pp. 196-208.
UY, IV, pp. 126 sgg.;
Ibn al-'Arabī 1973, I, pp. 255 sgg.
CONCLUSIONI
Due mi sembrano i punti
che emergono da quanto detto fin qui. Uno è che il sufismo, almeno quello
ibnarabiano, è dottrina mediatrice da una parte fra filosofia e teologia
[ortodossa ash'arita], dall'altra fra quella filosofia avicenniana che diverrà
quasi la filosofia ufficiale di un certo islam dopo il secolo XII circa, e
quella più fine e ortodossamente aristotelica di Averroè (su di lui si veda Cruz
Hernández 1957, II, pp. 5-247 con relativa bibliografia). L'altro è che tale
difficile mediazione meglio di tutti si esprime in un linguaggio matematico,
basato sui concetti di circonferenza e di punto, ampiamente usato soprattutto da Ibn al-'Arabī,
e che può sinteticamente fare a meno di troppe equivoche e verbose spiegazioni
a parole.
Che Ibn al-'Arabī,
col suo rifiuto dell'emanatismo (solo in parte riconosciuto dagli studiosi), il
suo non-panteismo (ché non è tale - almeno nel senso moderno - la sua famosa waḥdat
alwujūd, «unità dell'essere», cfr. Bausani 1978, p. 206, e Ventura 1977,
passim), la sua (a suo modo) precisione matematica, sia, a mio parere, più
vicino ad Averroè, almeno nel senso religioso come lo interpretano il Cruz
Hernández e il Rosenthal (v. Cruz Hernández 1971, pp. 19-20), è anche mostrato
dalla famosa narrazione, fatta da lui stesso nelle Futūḥāt
Makkiyyah (UY, II, pp. 372-3) del suo giovanile incontro con l'allora maturo
filosofo suo conterraneo: « Un giorno a Cordova andai a trovare il cadì della
città, Abū'l-Walīd Ibn Rushd (Averroè). Fu lui che aveva espresso il
desiderio di incontrarmi dopo che ebbe sentito, e gli fu raccontato, delle
ispirazioni che Iddio mi aveva concesso nei miei intimi colloqui con Lui, e
aveva espresso stupore all'udire tali cose. Mio padre mi mandò a lui con una
scusa di qualcosa di cui aveva bisogno, a bella posta perché potesse
incontrarmi: era infatti un suo amico. Io poi, a quel tempo, ero un ragazzo
ancora imberbe. Quando entrai nella sua stanza si alzò a ricevermi con affetto
e rispetto. Mi abbracciò e mi disse: "Sì!" Io gli risposi:
"Sì!" Fu molto contento perché io avevo capito quel che voleva dire.
Ma io sentii che cosa lo rallegrava, e dissi: "No!" Allora si turbò, cambiò
colore ed ebbe dei dubbi. Poi mi chiese: "Che cosa ne pensi del problema della
rivelazione e dell'effusione divina di grazia? È la stessa cosa che quella che
io raggiungo con la ragione speculativa (naẓar)?" Gli risposi:
"Sì, No! e fra il Sì e il No volan via gli spiriti dalle loro materie e le
teste dalle loro nuche". Impallidì allora e rabbrividì, e si sedette
recitando la giaculatoria: "non c'è aiuto né forza che in Dio!"
perché aveva capito ciò cui alludevo... In seguito chiese a mio padre un altro
incontro con me per esporre ciò che lui pensava di me e chiedermi se ero
d'accordo o no. Era Averroè uno dei maestri del pensiero e della ragione
speculativa. E ringraziò Iddio che l'aveva fatto vivere in un'epoca in cui
aveva visto uno che era entrato ignorante nel ritiro spirituale e ne era uscito
come ne era uscito, senza studi, discussioni e letture. E diceva: "È una situazione
di cui io stesso affermavo l'esistenza, ma non avevo visto persone che la
avessero sperimentata.
Ringrazio Dio di vivere
nello stesso tempo di uno di coloro che hanno questa esperienza, uno di quelli che aprono le serrature
delle sue porte. Sia lode a Dio che me lo ha fatto incontrare!"». Volli poi avere un altro incontro con
lui. E, in una estasi (wāqi'a), la misericordia divina me lo mostrò, in
una forma nella quale fra me e lui c'era interposto un velo sottile. Io lo
scorgevo attraverso il velo, ma lui non mi vedeva e non sapeva dove fossi: era
troppo assorbito in se stesso per accorgersi di me. Allora io dissi: "La
sua mèta non è quella in cui io sono".
Poi non lo incontrai più
fino alla sua morte che avvenne nel 595 dell'egira (= 1198-99) nella città di
Marrākesh, e il suo corpo fu trasportato a Cordova, dove è la sua tomba.
Quando misero la bara col suo cadavere su una bestia da soma, per far da
contrappeso, dall'altro lato, misero i suoi libri. Io ero presente, e con me
c'era anche il giureconsulto e letterato Abū'l-Ḥasan Muḥammad
Ibn Jubair, segretario del
[principe almohade] as-Sayyid Abū Sa'īd, e il mio compagno Abū
'l-Ḥakam 'Amr ibn as-Sarrāj, il copista. Abū 'l-Ḥakam si
rivolse a noi e ci disse: "Non vedete che cosa fa da contrappeso all'imām
Ibn Rushd sulla sua cavalcatura? Da una parte lui, dall'altra le sue azioni,
cioè i suoi libri".
Ibn Jubair gli disse:
"Figlio mio! Bene hai osservato, sia benedetta la tua bocca!" E la
registrai, quella frase, entro di
me, come tema di meditazione e mònito. Dio abbia misericordia di tutti loro! Di quella compagnia non sono rimasto vivo
che io. E ben potrei dire di lui questo verso: "Questo è l'imām e
queste le sue opere: oh potessi sapere se ha raggiunto [ora] quel che
sperava!"». Nella narrazione
di questo episodio, in quel sì seguito dal no non possiamo comunque non
scorgere un velato interesse e approvazione del Nostro per la filosofia di
Averroè, così misconosciuta da mistici moderni (v. Corbin 1964, pp. 334 sgg.)
da una parte; dall'altra, anche, una notevole mancanza di modestia nel sufi, ma
anche una esitazione finale («Oh se potessi sapere...») sulla sorte finale del
filosofo. Egli a me sembra più congeniale, tutto sommato, a Ibn al-'Arabī
(ambedue sono ortodossi letteralisti...) che al più popolare Avicenna, col suo
emanatismo e la sua effettiva irreligiosità (è ormai dimostrato che ben più religioso
nel senso ortodosso del termine fu Averroè, di fronte allo gnostico,
neoplatonizzante e forse ismailiteggiante Avicenna; cfr. Anawati 1963).
Ibn al-'Arabī,
tanto spesso accusato di fumosità in sostanza non fa qui (come nei passi da noi
tradotti e commentati anni fa, Bausani 1979) che esprimere con un semplice
linguaggio matematizzante, tagliando,
con questo modo di esprimersi, la testa al toro, i più difficili concetti del
sufismo (e che siano difficili lo dice lui stesso), che ne vengono per così
dire al contempo semplificati e acutamente commentati. «Il cerchio gira» (dāra 'd-daur), può dirsi così
l'essenza di tutta la filosofia mistica del Nostro.
A conclusione di queste
brevi note si potrebbe citare, applicandolo a un contesto medievale, il noto
passo di Kant (Kant Carabellese 1953, pp. 259-60) del 1763, nella prefazione
allo scritto «pre critico» Versuch, den
Begriff der negativen Grössen in die Weltweisheit einzuführen («Tentativo
per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative»): «L'uso
che in filosofia si può fare della matematica consiste o nell'imitarne il
metodo, oppure nell'applicarne effettivamente le proposizioni agli oggetti
della filosofia. Non sembra che finora l'imitazione sia stata di una qualche
utilità...
In compenso il secondo
uso (che mi sembra quello che in parte ne fece Ibn al-'Arabī, nota mia) è stato
assai vantaggioso a quelle parti della filosofia cui è stato applicato... si
tratta però soltanto delle conoscenze pertinenti alla dottrina della natura...
Per quanto riguarda la metafisica (è questo il nostro caso, nota mia), questa
scienza, invece di utilizzare taluni concetti o dottrine della matematica, si è al contrario spesso eretta in armi
contro di essa, e là dove forse avrebbe potuto trovare delle basi solide su cui
fondare le proprie considerazioni, la si vede invece sforzarsi di trattare i
concetti del matematico come null'altro che sottili finzioni, le quali, tolte
dal suo campo avrebbero ben poco di vero. Si può facilmente arguire da quale
parte sia il vantaggio nella disputa tra due scienze, di cui l'una supera tutte
le altre per certezza e chiarezza, mentre l'altra non fa che sforzarsi di
pervenire a una tale certezza... Ai metafisici sembra assai più comodo fermarsi
alle proprie astrazioni oscure e difficilmente controllabili, piuttosto che far
lega con scienza che si occupa soltanto di conoscenze comprensibili ed
evidenti».
È quest'ultimo tentativo
che ci sembra invece fatto, sia pure in parte, da al-'Arabī.
BIBLIOGRAFIA DEI TESTI CITATI
Anawati
1963, G. Anawati, Gnose et philosophie. À propos du Récit de Hayy ibn Yaqzān
de A. M. Goichon in «Cahiers de Civilisation médiévale», VI, 2,
Poitiers, 1963.
Asín
Palacios 1931, M. Asín Palacios, El Islam cristianizado... Madrid,
1931.
Bahā'u'lláh
1955, Bahā'u'lláh, Il libro della Certezza... Roma,
1955.
Bausani
1965, A. Bausani, Il poema Celeste di M. Iqbāl, Bari, 1965.
Bausani
1967, A. Bausani, Le Sette Principesse di Nezāmī di Ganjè, Bari,
1967.
Bausani
1978, A. Bausani, L'Enciclopedia dei Fratelli della Purità... Napoli, 1978.
Bausani
1979, A. Bausani, Note su alcuni aspetti «scientifici»
delle Futūḥāt Makkiyyah di Ibn al-'Arabī in RSO, LII
(1978), pp. 199-215, Roma, 1979.
Bausani
1979, A. Bausani, Interesse culturale dell'astrologia orientale e occidentale,
in «I Problemi di Ulisse», Scienza e Mistero, Firenze, 1979, pp. 94-103.
Bausani
1980, Rumi, Poesie Mistiche, introd., trad., antol.
critica e note di A. Bausani, Milano, BUR, 1980.
Corbin 1964,
H. Corbin, Histoire de la philosophie islamique, I,
Paris, 1964.
Cruz
Hernández 1957, M. Cruz Hernández, Filosofia Hispano-Musulmana, 2 voll., Madrid, 1957.
Cruz
Hernández 1971, M. Cruz Hernández, El Averroismo en el occidente medieval, in
«Convegno Internazionale: Oriente e Occidente nel Medioevo: Filosofia e
Scienze», Roma, 1971, pp. 17-62.
Ibn
al-'Arabī, al-Futūḥāt al-Makkiyyah, ed.
'Uthmān Yaḥyà, Cairo, dal 1972.
Ibn
al-'Arabī 1973, Ibn al-'Arabī, al-Futūḥāt
al-Makkiyyah, Beirut Dār Sādir (s.d. ma 1973), rist.
fotot. dell'ediz.
del Cairo del 1329 H, 4 voll.
Kant-Carabellese
1953, I. Kant, Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, nuova ed. riv. e accresc. da R. Assunto e R. Hohenemser, Bari, 1953.
Kern 1981, H. Kern, Labirinti... Milano 1981.
Koiré 1951,
A. Koyré, L'apport scientifique de la Renaissance, Paris, 1951, ripubblicato in
Études d'Histoire de la pensée scientifique, Paris,
1973, pp. 50-60.
Moreno-Ventura
1981, N.'A. Ğāmī, La Perla Magnifica
(ad-Durrat al Fāhirah), trad., introd. e note di M.M. Moreno, a cura di A.
Ventura, Napoli, 1981.
Nallino
1933, C.A. Nallino, Ibn al-'Arabī, voce della Enciclopedia
Italiana, 1933.
Nallino-
Battani 1903, Al-Battānī sive Albatenii Opus Astronomicum, ediz.,
trad. e note di C.A. Nallino, 3 voll., Milano, 1899 (testo
arabo), 1903 (trad. e note), 1907 (trad. e note delle tavv.).
Ritter 1927,
H. Ritter, Über die Bildersprache Nizāmīs,
Berlin-Leipzig, 1927.
Ventura
1977, A. Ventura, Considerazioni sulla waḥdat alwujūd nella dottrina
di Ibn 'Arabī e della sua scuola, in «Rendic. Lincei», Cl. Sc. Mor., XXXII (5-6), 1977, pp. 375-8.
[1] L'idea è simile, mutatis mutandis, a quella del mio
paradossale pensiero del 1946. Ogni essere è un cerchio, e questa curvatura o
circolarità dell'essere fa sì che ogni entità ricerchi il suo principio. La
linea retta porta invece alla dispersione nel nulla. A questo proposito può
essere interessante notare la inesistenza o quasi nel mondo culturale islamico
dell'idea di Labirinto (su cui si veda ora il bel saggio di Kern 1981). In
effetti in quel saggio, che esamina tutti i tipi possibili di labirinto, ne
vengono menzionati solo due di origine islamica, in al-Bīrūnī
(secolo X-XI) e in al-Qazwīnī (secolo XIII), ma ambedue si
riferiscono a fenomeni indiani, extra-islamici. Il labirinto classico ha
infatti un principio e una fine, è, in sostanza, malgrado l'apparente
circolarità, lineare; è, attraverso le lunghe ambages (sei o dodici), un segmento. Sembra che qui vada distinta
la retta infinita (ateismo), il segmento (paganesimo) e il cerchio ibnarabiano
(che io vedrei meglio come elica) che simboleggia l'islam. Un islam che non è
quello dei teologi ash'ariti comunque. Il sufismo sembra mediare fra le
concezioni ateo-filosofiche e quelle teologico-rozze (ash'arite): è questo il
tema essenziale del trattatello arabo del persiano Jāmī (secolo XV),
con numerosi spunti ibnarabiani, ad-Durrat
al-Fākhira (vedi ora Moreno-Ventura 1981, passim).
[2] Sembra qui distinguersi
fra un punto («esseri che sono stati creati nei loro gradi e vi stanno senza
cessa, senza né principio né fine») e un segmento curvo che si chiude a cerchio
(uomini e ğinn, che «tornano»,
muovendosi da e verso Dio). Angeli, Uomini e Ğinn (ath-thaqalāni):
si noti che, come dicevo nel mio precedente articolo, Ibn al-'Arabī
propone un metodo che usa la simbologia matematica a esprimere certe realtà
altrimenti inesprimibili o che si prestano a equivoci. Ciò ad esempio non fa
Jāmī nel trattatello sopra menzionato, il che rende difficili e
talora equivoche certe sue affermazioni. Qui invece il geniale uso del cerchio,
del punto ecc. rende perspicui senza troppe elucubrazioni concetti difficili ed
equivoci. Si veda ad esempio quanto là dicemmo dell'idea di emanazione (Bausani 1979, pp. 206 sgg.) negata da
Ibn al-'Arabī (vedi anche Moreno-Ventura 1981, pp. 54-9) e si comparino i
due passi, chiaro l'uno proprio a causa della simbologia matematica, confuso ed
equivoco il secondo.
[3] La platonica «nostalgia della patria» ricorre spesso nei
mistici musulmani. Si cfr. il famoso verso di Abū Tammām (800-845
ca.) utilizzato da Jurjānī (m. 1079) e poi modernamente dal Ritter
(Ritter 1927, pp. 5-6) che lo usa come frontespizio della sua magnifica opera
estetica sulla Bildersprache nizamiana:
naqqil fu'ādaka ḥaiṯu shi'ta
min al-hawā
mā 'l-ṯubbu illā li'l-ḥabībi
'l-awwali
kam manzilin fī'l-arḍi ya'lafuhu
'l-fatā
wa ḥanīnuhu abadan li-awwali manzili
«Trasporta ove vuoi il
tuo cuore nelle passioni: non c'è amore altro che per il Primo Amato; a quante
dimore sulla terra l'uomo si affeziona! Ma la sua nostalgia andrà sempre alla
Prima Dimora...»!.
[4] Ecco come un'espressione più o meno «emotiva» coranica, «a
questi Iddio trasformerà le loro opere di male in buone», viene messa in
evidenza, dal simbolismo matematico del cerchio, in termini precisi. Il
pentimento è una curvatura dell'essere che lo «circolarizza» e lo fa tornare al
principio. Da una parte c'è la curvatura di Dio verso l'uomo (che è chiamata
anche «pentimento», tauba nelle
lingue semitiche; Dio è at-tawwāb,
«colui che infinitamente si pente si rivolge a Dio»); dall'altra, nel
pentimento nel senso più comune del termine c'è la curvatura dell'uomo verso
Dio. Le due curve si chiudono formando un cerchio, appunto.
[5] Il barbaro, waḥshī,
è il non-musulmano (che, qui, potrebbe essere anche un musulmano imperfetto,
che non ha capito ancora queste verità...).
[6] O, se già formaliter
musulmano, si darà completamente a Dio (senso del verbo aslama).
[7] Gli Angeli possono venir rappresentati da un punto fisso,
«in luogo prescritto dal quale non si muove». L'uomo (ath-qalāni, uomini e
ğinn) si è mosso dal punto fisso e compie un cerchio, c'è in lui una
curvatura si potrebbe dire...
[8] Tale curvatura è propria solo di uomini e ğinn anche
se, essi pure, avevano e hanno un luogo prescritto, che è il punto della
circonferenza che si identifica con il loro punto primo e ultimo (v. Bausani 1979, p. 206).
[9] Sulla scienza di Dio e le infinite discussioni di cui fu
causa in islam (si veda Moreno-Ventura 1981, pp. 37 sgg.), dove si usano
proprio anche commentari alle opere di Ibn al-'Arabī e si sostiene che il
Sufi sembra mediare fra le concezioni dei filosofi e quelle dei teologi
ash'ariti, e, fra i filosofi, abbia
idee intermedie fra quelle di Avicenna e di Averroè. Che Ibn al-'Arabī sia
in rapporto criticodialettica con Averroè, suo conterraneo e quasi
contemporaneo, è mostrato dal passo, che è tradotto qui avanti, sul suo
giovanile incontro col filosofo ambivalente Si-No. Il punto di
partenza-ritorno, anche nel caso dell'uomo (e dei ğinn) è predestinato,
anche se ciò non annienta la sua libertà, sembra volersi qui dire.
[10] Si tratta in effetti di una questione piuttosto difficile e
oscura. Vedi i «chiarimenti» di Jāmī in Moreno-Ventura 1981, p. 40.
[11] Solo la rivelazione Divina può risolvere dunque questa
difficile questione, e, aggiungiamo, nel modo solito, cioè mediante concetti di
tipo matematizzante.
[12] In questo lungo brano Ibn al-'Arabī nega il concetto,
frequente presso i teologi, per cui l'Uomo [perfetto] è migliore degli Angeli.
Mentre a questo potrebbe far pensare quanto lui stesso dice prima, qui,
paradossalmente, si vuol sostenere che il punto della circonferenza e il
cerchio sono in realtà la stessa cosa e si distinguono solo per il fatto che in
un caso (l'uomo) si ha un moto, nell'altro no. Ma solo nell'azione, e non nella
scienza (si ha aumento di scienza anche negli angeli, infatti).
[13] Il moto circolare dell'uomo, la sua curvatura, non è,
dunque, dovuta a uno speciale suo sharaf (nobiltà) ma è «per provarci», e non
implica una particolare nobiltà sull'Angelo. È interessante che proprio a
questo punto segua il passo già da noi tradotto (Bausani 1979, pp. 206 sgg.)
sul cerchio, che definisce un «panteismo» non materialistico solo in virtù del
peculiare linguaggio matematico usato. Tutti sono uguali (angeli, uomini, ğinn ecc.), come è detto qui, ma
tutto con modalità «matematiche» diverse. In quel passo si ribadisce che il
detto che ex uno non fit nisi unum, base dell'emanazionismo, è falso, se per
Uno si intenda non «L'Uno Reale» ma il «Primo Principio», come spiega meglio
Jāmī (Moreno-Ventura 1981, 54-59): «I Sufi sono quindi d'accordo con
i filosofi nel dichiarare che la moltitudine non può promanare dall'Uno reale;
se ne scostano invece nell'ammettere la possibilità della promanazione di una
moltitudine esistenziale dal Primo Principio. Son d'accordo con i teologi nel
dichiarare possibile l'emanazione della moltitudine esistenziale dal Primo Principio;
sono in disaccordo con essi sul punto di vista che la moltitudine promani
dall'Uno reale». Ancora la posizione intermedia (e rivelabile solo per kashf o
in linguaggio matematico) del sufismo di contro a filosofia e teologia.
Infatti, poco oltre il passo che abbiamo citato, Jāmī ricorre
anch'egli a esempi aritmetici per meglio stabilire quel che vuol dire.
[14] Questo brano segue immediatamente la figura tradotta in
Bausani 1979, p. 208 (testo in UY, IV, p. 158). Gli uomini e i ğinn si
distinguono da tutti gli altri esseri (direi, inclusi gli Angeli) per avere
anche una vis cogitativa (mufakkira)
che è proprio quella espressa dalla loro «curvatura», anche se alcune loro
conoscenze le hanno, come gli animali, per natura.
[15] L'Uomo, appunto, ha questa curvatura che non hanno nemmeno
l'Intelletto Primo e l'Anima Universale perché fu esistenziato da Dio «in una
forma» o «secondo una idea» (per il senso di ṣūra, vedi
anche Moreno-Ventura 1981, p. 38) che è appunto, interpreto io, la sua
«curvatura».
[16] Tuttavia di tutto questo non ci dànno prove sicure né la
filosofia né i libri profetici: solo unaconoscenza personalmente rivelata, un
ta'rīf ilāhī (espressa, interpreto io, con una simbologia
matematica) può farcelo sapere.
[17] Haba', letteralmente
«Pulviscolo», è una delle quattro entità basilari che, secondo Ibn
al-'Arabī, sembrano prodursi dall'Uno in certo modo contemporaneamente
senza speciali dignità «emanatiste ». Le altre tre sono Intelletto, Anima e
Natura. Il Pulviscolo indica gli Atomi (v. Bausani 1979, p. 209, con relativa
bibliografia). Qui sembra che si definisca una posizione della Natura fra
l'Anima e il Pulviscolo, un po' diversamente da quel che indica la figura di
Bausani 1979, p. 208, dove le quattro potenze sono così ordinate ANIMA
INTELLETTO (Dio) HABA' NATURA Del resto ciò che si intende per Natura (Ṭabī'a)
dai mistici è ben diverso da quel che intendono con la stessa parola gli
scienziati moderni. Si veda la «Natura come Angelo» in Kitāb Ikhwān aṣ-Ṣafā'
(Bausani 1978, p. 129) e il concetto che Moreno (Moreno-Ventura 1981, pp. 30
sgg.) traduce con «universale fisico».
[18] [Non esiste la nota 18. Si tratta di una svista
dell'edizione a stampa, nella quale la numerazione salta dalla nota n. 16 alla
nota n. 18 – N.d.C.].
[19] Si veda ancora Moreno-Ventura 1981 (loc. cit.) per le
discussioni tra filosofi, teologi e mistici sul concetto di Natura. I quattro
gradi di scienza (si tratta solo di diversi aspetti o gradi di un'unica
«scienza» ...) sono dunque la scienza divina, la scienza naturale, la scienza
matematica e la scienza logica. Un commentatore di un commentatore di Ibn
al-'Arabī, Shams ad-Dīn al-Fanārī (v. Moreno-Ventura 1981, p. 31), criticando
il teologo sciita aṭ-Ṭūsī diceva: «Se tu mi chiedi come
ciò che è uno in essenza possa avere attributi opposti, come l'essere a oriente
e l'essere a occidente, la scienza e l'ignoranza ecc. ti rispondo che
un'obiezione di questo genere deriva dal giudicare l'universale alla stregua
del particolare e l'assente (invisibile, ġāi'ib)
alla stregua del presente (visibile, shāhid):
niente prova che ciò sia impossibile nell'universale». Sono concetti, qui
espressi a parole, ma che Ibn
al-'Arabī elegantemente potrebbe proporre in un linguaggio (è la stessa
scienza, solo in altro «grado») matematico.
[20] La «via dei nostri compagni» ovvero la via mistica è al
contempo la via della effusione di grazia divina (rivelativa) e anche -
aggiungo io - esprimibile in terminologia matematizzante. Non dimentichiamo
che, per Ibn al-'Arabī, le considerazioni su cerchi ecc., di cui in Bausani
1979, pp. 206-7, sono «un segreto divino» rivelato per effusione personale
all'Autore...
[21] Anche Ibn al-'Arabī, come quasi tutti i sufi, fa qui la
solita distinzione fra veri e falsi sufi
(vedi, per un altro degli infiniti esempi, Niẓāmī o
Jalāl ad-Dīn Rūmī (Bausani 1967, p. 228, Bausani 1980, p.
121).
[22] Anche questo bāb
contiene un disegno circolare (UY, pp. 185 sgg.).
[23] Non è chiarissimo se per sharā'i'
qui si intendano le varie «leggi religiose rivelate», religioni o (vedi avanti)
le varie opinioni islamiche insharī'a, scuole giuridiche. Io propenderei
per la prima più vasta e universale interpretazione, secondo la quale le
religioni tutte hanno il loro ciclo (sono anch'esse circolari!), la loro divina
primavera, estate autunno e inverno, seguito dal rinnovamento (per esempio dal cristianesimo
all'islam, o dall'ebraismo al cristianesimo, e, si potrebbe arditamente
dedurre, dall'islam verso una futura religione). Ci sono cioè ingiunzioni e
proibizioni di legge che cambiano nel tempo.
[24] Qui sembra chiaro si tratti di veri e propri cambiamenti di
«religione» divina. La frase coranica kullu
yaumin huwa fī sha'n è similmente interpretata, nel senso di una
continua novità dell'opera divina, da Muḥammad Iqbāl, il noto
modernista indo-musulmano (m. 1938, v. Bausani 1965, p. 22 e passim) e da molti
mistici e modernisti.
[25] È vero che a loro volta anche i tempi stessi variano per
volontà divina: si tratta di una continua circolarità dell'essere.
[26] A loro volta i tempi variano pel variare dei moti degli
astri. In questa concezione l'astrologia,
nel senso più profondo del termine, mantiene tutto il suo valore. Si
vedano le considerazioni che fa il grande astronomo del IX secolo
al-Battānī (Nallino-Battanī 1903, I, p. 6) sulla primavera come
prodotta dalla posizione del sole in un punto nevralgico dello spazio, spazio
non ancora - come nel mondo moderno - «geometrizzato» (Koyré 1951, p. 57) cioè
all'intersezione di eclittica ed equatore celeste (v. anche Bausani 1979).
[27] In questa circolarità continua la variazione di direzione dà
quella curvatura dello spazio che è il presupposto di tutte queste
considerazioni, anche se qui a «direzione» (tawajjuh) vien dato un senso non
tanto astronomicamente e matematicamente usuale nella scienza moderna.
[28] Gli «scopi» sottintendono qui tutto il valore positivo
dell'astrologia. La quale ha senso, nel mondo tradizionale, solo in una visione
nettamente finalistica dell'essere, e non in quella casualistico-darwinistica
del mondo moderno.
[29] Varietà e nel contempo unità mostrate dall'idea del cerchio,
che presenta sempre una curvatura positiva. Nulla si ripete nell'esistenza,
anche se poi tutto torna al principio. Niente è più graficamente adatto di
questa idea a mostrare come il simbolismo della circonferenza e del punto si
addica a esprimere, senza troppe circonlocuzioni verbali che sono spesso
svianti e fumose, questo concetto della infinita «ampiezza del divino».
[30] In questa infinita «ampiezza del divino» sono incluse anche
le leggi religiose, che variano pur restando identico il Divino stesso. È
concetto sviluppato in tempi più recenti in modo particolarmente perspicuo da
Bahā'u'llāh (Bahā'u'llāh 1955, pp. 118-9 sgg. e passim),
fondatore, alla fine dell'800, della nuova religione bahā'ī, ormai
staccatasi dall'islam, secondo questo principio...
[31] Forse perché era cosa «pericolosa» per lui e per la sua
scuola, qui Ibn al-'Arabī si limita a parlare non delle leggi divine come
vere e proprie «religioni», ma solo come varie opinioni giuridiche nell'ambito
della legge islamica (sharī'ah... v. nota 23). Del resto tale idea era
ammessa anche dall'ortodossia, secondo il noto ḥadīth, ikhtilāf
al-umma barakah, cioè «la varietà [delle opinioni] della comunità è una
benedizione». È chiaro però dal contesto, e soprattutto dal passo ove si dice:
«per ogni comunità religiosa (ummah) c'è una via e una regola portata dal suo
profeta e dal suo apostolo... » (UY, IV, p. 186), che ben altra e più vasta era
l'idea di Ibn al-'Arabī.
[32] Si sarebbe tentati di tradurre: «così il cerchio si chiude»,
ma il testo (UY, IV, p. 192) ha: wadāra
'd-daur, «e il cerchio circola». La
circolarità dura cioè in eterno, e si sarebbe tentati allora di immaginare più
una spirale a elica: ogni cerchio cioè continua su un piano più alto, in una
evoluzione verso l'inaccessibile «centro-punto» di Dio; ma questa, forse, è una
nostra indebita interpretazione.
[33] Qui siamo un po' a un anticlimax. L'esempio è infatti molto
più banale che il bel «cerchio» precedente; ma l'Autore vuole insistere sulla
continua circolarità dell'essere in tutti i casi, anche in questo, piuttosto
semplice e banalmente realistico.
Nessun commento:
Posta un commento