Titus Burckhardt
Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam
Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam
II - Fondamenti dottrinali
L'Unione secondo Muhyi-d-din ibn 'Arabi
Nella Saggezza dei Profeti, Muhyi-d-dîn ibn 'Arabî descrive l'Unione suprema come una vicendevole penetrazione della Divinità e dell'uomo: Dio assume, per cosi dire, la natura umana; la natura divina (al-Lâhût) diventa il contenuto della natura umana (an-Nâsût), concepita come il recipiente della prima; d'altra parte l'uomo è cosi assorbito e come incluso nella realtà divina.
Nella Saggezza dei Profeti, Muhyi-d-dîn ibn 'Arabî descrive l'Unione suprema come una vicendevole penetrazione della Divinità e dell'uomo: Dio assume, per cosi dire, la natura umana; la natura divina (al-Lâhût) diventa il contenuto della natura umana (an-Nâsût), concepita come il recipiente della prima; d'altra parte l'uomo è cosi assorbito e come incluso nella realtà divina.
Dio è misteriosamente presente nell'uomo; l'uomo si estingue in Dio. Tutto questo deve intendersi soltanto da un punto di vista spirituale, secondo cioè una prospettiva
connessa con la realizzazione spirituale, e non puramente dottrinale. Confrontando questi due modi reciproci di penetrazione
di Dio e dell'uomo, lbn
'Arabî aggiunge che «si tratta di due aspetti di un solo e medesimo stato che non si confondono né si
cumulano» (capitolo su Abramo).
Secondo il primo modo, Dio si rivela come
il vero Sé che conosce attraverso le facoltà sensitive dell'uomo, e che agisce
per mezzo delle sue facoltà d'azione. Secondo il modo inverso, l'uomo si muove,
per cosi dire, nelle dimensione dell'Esistenza divina, che si polarizza
rispetto a lui, in modo tale che ad ogni facoltà o qualità umana corrisponde un
aspetto divino, come dice il messaggio sacro: «...il Mio adoratore non smette
di avvicinarsi a Me finché lo amo; e quando lo amo, Io sono l'udito con cui
ode, la vista con cui vede, la mano con cui afferra e il piede con cui
cammina...» (hadîth qudsî).
In quanto congiunto con lo Spirito
divino, lo spirito umano conosce in modo principiale ogni cosa, dato che nulla
si pone oramai al di fuori della sua essenza; tuttavia, questa conoscenza
essenziale e totale, si differenzia soltanto nella misura in cui la luce
dell'intelletto ricade su cose individuali. D'altra parte, il soggetto
individuale dell'Uomo divino sussiste necessariamente in un certo modo: non
sussiste più, nel senso che soltanto nella sua identificazione con l'Intelletto
divino questo essere, che porta ancora il nome di uomo, si riconosce come «sé
stesso»; tuttavia, se il suo soggetto individuale non sussistesse in un certo
modo, le sue esperienze umane non sarebbero unite fra loro da alcuna continuità
«soggettiva». Ogni soggetto individuale è sottomesso alle limitazioni inerenti
al suo ambito esistenziale; questo afferma Ibn 'Arabî parlando del Sigillo
della Santità[1] (khâtim
al-Wilâyah), che è il
prototipo e il polo (Qutb) di tutti gli uomini spirituali,
che è al tempo stesso «sapiente ed ignorante» e al quale si possono attribuire
qualità in apparenza contrastanti: «...nella sua Realtà essenziale (Haqîqah)
- [in quanto il suo spirito si identifica con lo Spirito increato] e
nella sua funzione spirituale [che proviene spontaneamente da tale
identificazione], egli conosce [in
modo totale e indifferenziato] tutto ciò
che ignora a causa della sua costituzione corporea [soggetta alle condizioni
dello spazio e del tempo] ... conosce e, contemporaneamente, non conosce,
percepisce e non percepisce [essendo la sua conoscenza principiale al di là
della percezione distinta], contempla [le Realtà divine nel suo spirito] e tuttavia
non [le] contempla [individualmente]...»
(ibid., capitolo su Seth).
Nell'uomo spiritualmente perfetto la relazione
tra la Realtà divina (Haqîqah) e l'individualità ancora
sussistente è la cosa più difficile da cogliere[2];
per l'uomo che abbia raggiunto tale perfezione, infatti, la Realtà divina non è
ormai «velata» da nulla, mentre la coscienza individuale è, per definizione, un
«velo» (hijâb) ed esiste solo in quanto «infrange» la luce accecante
dell'Intelletto divino. Ibn 'Arabî paragona l'individualità dell'uomo che abbia
«realizzato Dio» ad uno schermo che colora la luce pura filtrandola e che in
lui è piu trasparente che negli altri uomini: «È come la luce che si proietta
attraverso l'ombra, poiché lo schermo è della stessa natura dell'ombra, che è
luminosa per trasparenza. Cosi è anche l'uomo che abbia realizzato Dio: in lui,
la «forma di Dio (cioè l'insieme delle qualità divine)[3]
si manifesta piu direttamente che in altri...» (ibid., capitolo su Giuseppe).
L'Unione con Dio è anche concepita come
l'«assimilazione delle qualità divine» (al-itticâf biç-Çifât il-ilâhiyah) assimilazione
che deve essere intesa in senso puramente intellettivo come conoscenza delle
Qualità o Presenze (Hadarât)[4]
divine. L'«assimilazione delle qualità divine», d 'altra parte, ha il suo
riflesso simbolico nell'anima e cioè le virru spirituali, e il suo modello
altro non è che l'Uomo universale.
Torniamo ora a ciò che dicevamo
all'inizio del capitolo a proposito della penetrazione vicendevole fra la
Divinità e l'uomo perfetto. Ibn 'Arabî la paragona all'assimilazione nutritiva,
simbolo dell'assimilazione mediante la conoscenza: Dio «si nutre» dell'uomo, e l'uomo,
da parte sua, «si nutre» di Dio, «mangia» Dio. Il primo modo ha la sua espressione
riruale nell'ospitalità sacra, il cui modello tradizionale è l'ospitalità di
Abramo nei confronti degli Angeli del Signore e dei poveri: colui che dà da
mangiare all’«ospite divino», dà sé stesso in nutrimento a Dio, e ciò richiama
alla mente il proverbio indu: «L'Uomo diventa il nutrimento della Divinità che adora».
Il secondo modo corrisponde all'invocazione di Dio, poiché l'uomo si appropria della
Presenza divina menzionando il Nome di Dio[5].
Lo stesso aspetto dell'Unione è evidentemente simboleggiato dall'Eucaristia.
[1] La santità, nel senso dell'espressione araba wilâyah, è uno stato di conoscenza permanente
di Dio, stato che, del resto, comporta dei gradi.
[2] Proprio per queto, del resto, il dogma cristiano delle due
nature di Cristo - come quello della Trinità - è un «mistero» cioè è
insondabile da parte della ragione discorsiva.
[3] L'insieme delle qualità divine
costituisce ciò che il
Sufismo chiama la «Forma divina” (aç-Çûrat ul-ilâhiyah), alludendo al
detto del Profeta: «Dio creò
Adamo nella Sua forma»; la parola
«forma » (çûrah) ha dunque qui il senso di «sintesi qualitativa» e non quello di limitazione: essa è annloga
alla nozione peripatetica di forma (ειδος),
che si contrappone a quella di materia (υλη).
[4] «Con «presenze» divine, si
intendono i
gradi della Realtà divina, in quanto
stali contemplativi; si parla di cinque Presenze principiali, che sono rispettivamente:
an-Nâsût (riferita alla forma corporea dell'uomo), al-Malakût (riferita al mondo delle Luci sottili), al-Jabarût (analoga
all'esistenza sovraformale), al-Lâhût
(la Presenza della Natura divina che si
rivela nelle qualità perfette) e al-Hâhût,
l'Essenza pura. Ci sono anche altre
distinzioni delle «Presenze».
[5] «Non di solo pane si nutre l'uomo, ma di ogni parola che procede
dalla Bocca di Dio» (Vangelo secondo S. Matteo, IV, 4; Deuteronomio, VIII. 3).
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