"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 18 luglio 2015

Titus Burckhardt, Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, II - Fondamenti dottrinali - L'Unione secondo Muhyi-d-din ibn 'Arabi

Titus Burckhardt
Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam
 

II - Fondamenti dottrinali
L'Unione secondo Muhyi-d-din ibn 'Arabi 
Nella Saggezza dei Profeti, Muhyi-d-dîn ibn 'Arabî descrive l'Unione suprema come una vicendevole penetrazione della Divinità e dell'uomo: Dio assume, per cosi dire, la natura umana; la natura divina (al-Lâhût) diventa il contenuto della natura umana (an-Nâsût), concepita come il recipiente della prima; d'altra parte l'uomo è cosi assorbito e come incluso nella realtà divina.
Dio è misteriosamente presente nell'uomo; l'uomo si estingue in Dio. Tutto questo deve intendersi soltanto da un punto di vista spirituale, secondo cioè una prospettiva connessa con la realizzazione spirituale, e non puramente dottrinale. Confrontando questi due modi reciproci di penetrazione di Dio e dell'uomo, lbn 'Arabî aggiunge che «si tratta di due aspetti di un solo e medesimo stato che non si confondono né si cumulano» (capitolo su Abramo).
Secondo il primo modo, Dio si rivela come il vero Sé che conosce attraverso le facoltà sensitive dell'uomo, e che agisce per mezzo delle sue facoltà d'azione. Secondo il modo inverso, l'uomo si muove, per cosi dire, nelle dimensione dell'Esistenza divina, che si polarizza rispetto a lui, in modo tale che ad ogni facoltà o qualità umana corrisponde un aspetto divino, come dice il messaggio sacro: «...il Mio adoratore non smette di avvicinarsi a Me finché lo amo; e quando lo amo, Io sono l'udito con cui ode, la vista con cui vede, la mano con cui afferra e il piede con cui cammina...» (hadîth qudsî).
In quanto congiunto con lo Spirito divino, lo spirito umano conosce in modo principiale ogni cosa, dato che nulla si pone oramai al di fuori della sua essenza; tuttavia, questa conoscenza essenziale e totale, si differenzia soltanto nella misura in cui la luce dell'intelletto ricade su cose individuali. D'altra parte, il soggetto individuale dell'Uomo divino sussiste necessariamente in un certo modo: non sussiste più, nel senso che soltanto nella sua identificazione con l'Intelletto divino questo essere, che porta ancora il nome di uomo, si riconosce come «sé stesso»; tuttavia, se il suo soggetto individuale non sussistesse in un certo modo, le sue esperienze umane non sarebbero unite fra loro da alcuna continuità «soggettiva». Ogni soggetto individuale è sottomesso alle limitazioni inerenti al suo ambito esistenziale; questo afferma Ibn 'Arabî parlando del Sigillo della Santità[1] (khâtim al-Wilâyah), che è il prototipo e il polo (Qutb) di tutti gli uomini spirituali, che è al tempo stesso «sapiente ed ignorante» e al quale si possono attribuire qualità in apparenza contrastanti: «...nella sua Realtà essenziale (Haqîqah) - [in quanto il suo spirito si identifica con lo Spirito increato] e nella sua funzione spirituale [che proviene spontaneamente da tale identificazione], egli conosce [in
modo totale e indifferenziato] tutto ciò che ignora a causa della sua costituzione corporea [soggetta alle condizioni dello spazio e del tempo] ... conosce e, contemporaneamente, non conosce, percepisce e non percepisce [essendo la sua conoscenza principiale al di là della percezione distinta], contempla [le Realtà divine nel suo spirito] e tuttavia non [le] contempla [individualmente]...» (ibid., capitolo su Seth).
Nell'uomo spiritualmente perfetto la relazione tra la Realtà divina (Haqîqah) e l'individualità ancora sussistente è la cosa più difficile da cogliere[2]; per l'uomo che abbia raggiunto tale perfezione, infatti, la Realtà divina non è ormai «velata» da nulla, mentre la coscienza individuale è, per definizione, un «velo» (hijâb) ed esiste solo in quanto «infrange» la luce accecante dell'Intelletto divino. Ibn 'Arabî paragona l'individualità dell'uomo che abbia «realizzato Dio» ad uno schermo che colora la luce pura filtrandola e che in lui è piu trasparente che negli altri uomini: «È come la luce che si proietta attraverso l'ombra, poiché lo schermo è della stessa natura dell'ombra, che è luminosa per trasparenza. Cosi è anche l'uomo che abbia realizzato Dio: in lui, la «forma di Dio (cioè l'insieme delle qualità divine)[3] si manifesta piu direttamente che in altri...» (ibid., capitolo su Giuseppe).
L'Unione con Dio è anche concepita come l'«assimilazione delle qualità divine» (al-itticâf biç-Çifât il-ilâhiyah) assimilazione che deve essere intesa in senso puramente intellettivo come conoscenza delle Qualità o Presenze (Hadarât)[4] divine. L'«assimilazione delle qualità divine», d 'altra parte, ha il suo riflesso simbolico nell'anima e cioè le virru spirituali, e il suo modello altro non è che l'Uomo universale.
Torniamo ora a ciò che dicevamo all'inizio del capitolo a proposito della penetrazione vicendevole fra la Divinità e l'uomo perfetto. Ibn 'Arabî la paragona all'assimilazione nutritiva, simbolo dell'assimilazione mediante la conoscenza: Dio «si nutre» dell'uomo, e l'uomo, da parte sua, «si nutre» di Dio, «mangia» Dio. Il primo modo ha la sua espressione riruale nell'ospitalità sacra, il cui modello tradizionale è l'ospitalità di Abramo nei confronti degli Angeli del Signore e dei poveri: colui che dà da mangiare all’«ospite divino», dà sé stesso in nutrimento a Dio, e ciò richiama alla mente il proverbio indu: «L'Uomo diventa il nutrimento della Divinità che adora». Il secondo modo corrisponde all'invocazione di Dio, poiché l'uomo si appropria della Presenza divina menzionando il Nome di Dio[5]. Lo stesso aspetto dell'Unione è evidentemente simboleggiato dall'Eucaristia.


[1] La santità, nel senso dell'espressione araba wilâyah, è uno stato di conoscenza permanente di Dio, stato che, del resto, comporta dei gradi.

[2] Proprio per queto, del resto, il dogma cristiano delle due nature di Cristo - come quello della Trinità - è un «mistero» cioè è insondabile da parte della ragione discorsiva.

[3] L'insieme delle qualità divine costituisce ciò che il Sufismo chiama la «Forma divina” (aç-Çûrat ul-ilâhiyah), alludendo al detto del Profeta: «Dio creò Adamo nella Sua forma»; la parola «forma » (çûrah) ha dunque qui il senso di «sintesi qualitativa» e non quello di limitazione: essa è annloga alla nozione peripatetica di forma (ειδος), che si contrappone a quella di materia (υλη).

[4] «Con «presenze» divine, si intendono i gradi della Realtà divina, in quanto stali contemplativi; si parla di cinque Presenze principiali, che sono rispettivamente: an-Nâsût (riferita alla forma corporea dell'uomo), al-Malakût (riferita al mondo delle Luci sottili), al-Jabarût (analoga all'esistenza sovraformale), al-Lâhût (la Presenza della Natura divina che si rivela nelle qualità perfette) e al-Hâhût, l'Essenza pura. Ci sono anche altre distinzioni delle «Presenze».


[5] «Non di solo pane si nutre l'uomo, ma di ogni parola che procede dalla Bocca di Dio» (Vangelo secondo S. Matteo, IV, 4; Deuteronomio, VIII. 3).

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