Titus Burckhardt
Introduzione
alle dottrine esoteriche dell’Islam
II - Fondamenti dottrinali
Gli Archetipi
Gli Archetipi
Le «Possibilità principiali» o
«essenze immutabili» (al-a'yân ath-thâbitah), pur essendo contenute nella non-distinzione dell'Essenza divina,
sono anche, in quanto si riflettono nell'Intelletto universale, le «idee»
o archetipi che Platone, nella parabola
della caverna, paragona agli oggetti reali di cui i prigiomeri scorgono soltanto
l'ombra proiettata sulle pareti dello speco.
In questo senso, cioè in quanto fanno
propria la teoria degli archetipi, tutti i sufì sono necessariamente platonici.
Peraltro la dottrina degli archetipi concorda con quella dell'Onniscienza
divina, come è dimostrato dal sufi persiano Nûr ad-din 'Abd ar-Rahmân Jâmî nel libro
Lawâih[1]
«...la vera essenza di ogni cosa, seppure non manifestata, si trova sempre nell'abisso
interiore dell'Essere reale, mentre le sue qualità sensibili sono visibili
all'esterno.
È infatti impossibile che le Idee divine racchiuse
nel mondo intelligibile siano evanescenti; (pretendere che i contenuti della Scienza
divina siano evanescenti) implicherebbe l'ateismo...» (capitolo XXII).
Gli argomenti di taluni filosofi contro l'esistenza
delle «idee» di Platone cadono nel nulla quando si comprende che queste «idee» o
archetipi non hanno «esistenza», come scrive Ibn 'Arabî, cioè non hanno la natura
di sostanze discinte, e che costituiscono soltanto delle possibilità inerenti
all'«Intelletto», e inerenti in senso principiale all'Essenza divina. Del resto,
tutta la disputa filosofica sugli «universali» deriva da una confusione tra gli archetipi e i loro riflessi puramente
mentali. Le idee generali, in quanto forme mentali, sono evidentemente soltanto
pure astrazioni; ma tale costatazione non scalfisce minimamente gli archetipi o
«idee» di Platone, dato che queste sono semplicemente possibilità o disposizioni
intellettuali, possibilità che le «astrazioni» presuppongono e senza le quali
non avrebbero alcuna verità intrinseca. Negare le «essenze immutabili», fonte di
ogni conoscenza relativa, equivarrebbe a negare lo spazio col pretesto che non
vi è forma spaziale. Difatti gli archetipi non si manifestano mai come tali, né
nell'ordine sensibile né nell'ordine mentale; eppure ad essi si riconduce
principialmente tutto ciò che è racchiuso in questi due ordini. Quando si cerca
di afferrarli, indietreggiano davanti alla visione distintiva; si possono
conoscere solo intuitivamente, sia muovendo dai loro simboli, sia per
identificazione con l'Essenza divina.
Specifichiamo che l'espressione coranica dhikr significa «reminiscenza» nel senso
platonico di conoscenza riflessa degli archetipi, tenendo presente che la parola
dhikr vuoi dire letteralmente «menzione»;
cosi, per esempio, il passo coranico: idhkurûnî
adhkurkum (II, 152), si può tradurre: «Ricordatevi di Me, lo Mi ricorderò di
voi», o: «MenzionateMi, Io vi menzionerò». È d'altronde con una «menzione» interiore
che si evoca un ricordo; d'altra parte la trasposizione dal passato all’ordine
principiale è conforme al simbolismo generale delle lingue semitiche: il passato
remoto, in arabo, si. usa per espritnere l'azione atemporale di Dio. L'ambivalenza
della parola dhikr ha una funzione
importante nel linguaggio dei sufì, poiché riconduce l'«evocazione» delle Realtà
essenziali al sitnbolismo sonoro delle formule d'«incantamento» o d'«invocazione»
(dhikr)[2]. Dhikr indica del resto ogni forma di concentrazione
sulla Presenza divina; il «ricordo» - o la «menzione» - supremo non è che l'identificazione
con il Verbo divino, l'Archetipo degli archetipi.
È ovvio che la «reminiscenza» sufica,
come la «reminiscenza» (μνημη) platonica non è di natura psicologica, bensì eminentemente
intellettuale. Proprio per questo d'altronde i suoi ausili possono essere di
natura elementare e soprattutto corporei; non vi è nulla di piu falso che
considerare i metodi incantatori come una forma di adorazione piu «limitata» e dunque
meno «cosciente», per esempio, della preghiera libera. Vi è un legame di
analogia a rovescio tra l'ordine cosmico piu elementare e l'ordine spirituale piu
elevato, e proprio per questo i mezzi che aiutano a trasformare la coscienza
nello Spirito non-formale sono in rapporto con i grandi ritmi della natura, i moti
degli astri, le onde del mare o l'ansima dell'amore e dell'agonia.
[1] Oriental Translation Fund N.S., vol. XVI, traduzione in inglese dal persiano di E.H. Whinfield
e Mirza Muhammad Kazvîni. Questo libro, che è soprattutto un commento de La Sagesse des Prophètes di Ibn 'Arabî, può essere considerato
come un riassunto della metafisica sufica. Nella traduzione la parola 'ayn (plurale a'yân) è talora tradotta «sostanza», il
che si presta a molteplici confusioni; perciò
preferiamo tradurla «essenza» o «possibilità principiale». Il termine
arabo ha anche il significato di «occhio», «fonte», «essenza individuale».
[2] Analoghe al Mantra-Yoga (japa) degli Indù.
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