Chiara
Casseler
Saggio introduttivo a Ibn ‘Arabî, Il libro del Sé divino
(Kitâb al-yâ’ wa Huwa kitâb al-Huwa)
(Kitâb al-yâ’ wa Huwa kitâb al-Huwa)
Parte 1/4
Qul iy wa-rabbî inna-hu la-haqq.
“Dì «iy», sì, per il mio Signore, invero
Egli è Verità”.
(Cor.
10:53; sura di Giona)
Il Libro della lettera yâ’[1]:
è questo il primo titolo del corto trattato che qui traduciamo. Ibn ‘Arabî (m.
1240), tuttavia, precisa subito dopo che il “Libro
del Sé divino” ne è un equivalente, poiché la yâ’ è un simbolo di Huwa,
il Sé supremo e incondizionato.
La menzione del valore simbolico e della natura
metafisica della lettera yâ’ rimanda
immediatamente al dominio tradizionale della Scienza delle Lettere (‘ilm al-hurûf): le brevi pagine
dell’opera sono, in realtà, un rapido, ininterrotto, concatenato susseguirsi di
nessi capitali e nodi cruciali della dottrina akbarian[2],
presentati alla luce dell’amplissimo orizzonte di quella che è la Scienza
alchemica, la Scienza dei Nomi e la Scienza dei numeri.
La Scienza delle Lettere è
un’espressione particolare della scienza del Verbo – eterno e vivo al Cuore del
Mondo – che non può essere disgiunta dalla Scienza della Teofania, ossia
l’automanifestazione della Parola divina che avviene, lo vedremo in seguito,
secondo diverse modalità[3], a
partire dalla funzione chiamata, nel testo, Fahwâniyya:
il Discorso divino diretto.
Quasi paradossalmente, di contro alla
rilevanza e all’eccellenza delle nozioni e dei temi trattati, l’esposizione
risulta poco meno che laconica: la forma, succinta, si rivela allusiva,
talvolta addirittura ellittica ed ermetica. Si tratta di una scrittura
potentemente simbolica e fortemente sottintesa, suggestiva di evocazioni solo
accennate, parchissima di esplicitazioni. Ciò accade in primo luogo a motivo
dell’argomento stesso dell’epistola, del resto indirizzata all’élite spirituale
delle “Genti delle allusioni sottili e delle verità essenziali”: del Sé
dell’Essenza suprema non si può che dire apofaticamente, poiché è solo
l’Assoluto che può comprendere Se stesso. Chi parla del Sé supremo, in realtà
non ne parla.
La dottrina esposta e sottesa nella
breve epistola è per vastità, profondità e complessità, a stento riassumibile e
quasi mai suscettibile di una sistemizzazione univoca. La modalità
argomentativa di quest’opera, poi, afferisce direttamente al cuore di una fra
le più complesse delle scienze tradizionali. Consapevoli dell’inesaustività che
caratterizza la trattazione di ogni tematica in questa Introduzione, non
rinunciamo, nondimeno, all’intento di fornire qualche delucidazione di
carattere molto generale, affinché sia possibile accostarsi al testo con
qualche strumento concettuale propedeutico alla comprensione e
all’interpretazione dei lineamenti propri alla Scienza delle Lettere, di cui
manca un autentico corrispondente nell’ambito delle lingue europee[4].
L’apparente mancanza di tecnicismi ammanta in realtà una rigorosa esposizione
grammaticale che costituisce un vero e proprio linguaggio cifrato, per così
dire, che ha bisogno di un’attenta opera di decodificazione dottrinale.
Quello che presentiamo di seguito è,
allora, un semplice orientamento, a tratti incompleto o troppo veloce, che
compendia rapidamente soltanto una parte delle nozioni e dei concetti contenuti
nel Kitâb al-yâ’, e in particolare
quelli su cui è parso opportuno soffermarsi, a causa della loro palese
rilevanza o, invece, enigmaticità. Ad ogni modo s’è data la preferenza ai temi
e agli argomenti meno o per nulla esaminati, finora, nella bibliografia
italiana e, più genericamente, occidentale. Per tutte le altre, numerose
tematiche necessariamente omesse e mancanti, rimandiamo all’ormai copiosa
letteratura scientifica prodotta a partire dagli studi akbariani[5].
Il Kitâb al-yâ’ e le altre opere akbariane.
Il Kitâb al-yâ’[6]
fu redatto, a Gerusalemme, nel 601/1204, ossia nello stesso anno in cui lo
Shaykh al-Akbar, “il più grande dei Maestri” scrisse due altre brevi, ma
fondamentali opere: il Kitâb al-jalâla,
il Libro della Maestà (vale a dire il Libro del Nome “Allâh”) ed il Kitâb al-alif, il Libro della lettera alif. Questi due libri, a ben guardare, vanno a
costituire, assieme al Kitâb al-yâ’,
un complesso unico, se vogliamo un’ideale parure di gemme differenti, ma
intimamente correlate le une alle altre. Vi è, inoltre, un’affinità e, per
certi versi, un’identità tematica fra il Kitâb
al-yâ’ e l’epistola intitolata Kitâb
al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn[7],
dedicata al simbolismo di tre ulteriori lettere dell’alfabeto arabo.
Come deliziose gemme, nel doppio
significato di pietre preziose e virgulti inviluppati, le nozioni presenti nel
Libro del Sé divino vi vengono manifestate in nuce, ma non sono, per questo,
meno coerenti, pregnanti o meno dotate di autonomia concettuale. Il Kitâb al-yâ’, infatti, prefigura
sinteticamente alcuni dati e nessi simbolici che verranno illustrati più
ampiamente – anche se in modo non meno densamente allusivo – circa venticinque
anni più tardi, in uno dei capolavori della scienza akbariana, i celeberrimi Fusûs al-hikam, ossia il Libro dei
Castoni delle Saggezze. Allo stesso tempo, il Kitâb al-yâ’ compendia emblematicamente alcune delle argomentazioni
e delle prospettive che troveranno più largo spazio e più dettagliato sviluppo
all’interno di diversi capitoli delle Futûhât
al-makkiyya[8],
l’opera capitale cui, al tempo della redazione del Libro del Sé divino, Ibn
‘Arabî stava lavorando da non più di tre anni.
Già da queste semplici note si può
intuire come tutti gli scritti di Ibn ‘Arabî si compenetrino, l’uno evocando
gli altri, in un raffinato gioco di richiami: ogni punto si ricollega a tutti
gli altri punti secondo una fitta rete di rimandi interni. Il fine intreccio
che ne deriva rappresenta il carattere eminentemente “sferico” dell’opera
akbariana: “Ogni parte del nostro discorso è connessa con le altre, poiché è
un’unica entità, e questa è la sua esposizione dettagliata”[9].
Quanto al rapporto riscontrabile fra
il Kitâb al-yâ’ e le Futûhât al-makkiyya, nella prospettiva
della Scienza delle Lettere, va detto innanzitutto che il secondo capitolo del
capolavoro d’Ibn ‘Arabî, interamente riservato a questa particolare conoscenza
tradizionale, provvede ad un’introduzione dettagliata e tecnica dei diversi
ambiti del ‘ilm al-hurûf, con
particolare attenzione all’insieme delle prospettive cosmologiche. Quelle
pagine lasciano intravedere, in altre parole, i nessi alchemici che rappresentano
l’altra faccia, per così dire, della Scienza delle Lettere. Tuttavia nel Kitâb al-yâ’, come nel Kitâb al-jalâla e nel Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn,
l’Autore ha in vista la prospettiva più squisitamente metafisica di tale
Scienza, con particolare riguardo all’aspetto della realizzazione iniziatica.
Ciò accade, ugualmente, nel capitolo 198 delle Futûhât, dedicato alla dottrina metafisica del Soffio-Respiro
dell’Onnimisericordioso (nafas al-Rahmân)
– il Principio che informa e permette l’attualizzazione di tutte le lettere (hurûf), vale a dire la manifestazione
degli archetipi immutabili (a‘yân thâbita).
Nel capitolo in questione vengono riprese ed illustrate con maggiori dettagli,
più di una volta, le tematiche dottrinali del Libro del Sé divino, soprattutto
nella sezione in cui vengono elencate e commentate le trentasei attestazioni
coraniche dell’Unicità divina (tawhîd)[10].
La Scienza delle Lettere: lineamenti e princìpi.
Dai princìpi universali – cioè
metafisici – della Scienza delle Lettere procede tutto il vasto complesso
dell’elaborazione della Scienza akbariana, che è ermeneutica: la metafisica del
Verbo informa la “colorazione” molteplice delle diverse Saggezze profetiche, le
cui figure paradigmatiche trovano espressione nel testo dei Fusûs al-hikam, e costituisce
l’archetipo della Rivelazione coranica, di cui tutta la scrittura ibnarabiana
non è altro che un immenso commentario iniziatico.
Il fondamento della Scienza delle
Lettere risiede, in ultima analisi, nella natura sacra della lingua araba, vale
a dire della struttura simbolica dell’arabo – strumento e supporto dell’ultima
Rivelazione – che rappresenta la trasposizione riflessa, nell’ambito
linguistico, delle leggi spirituali che governano l’universo[11]. La
grammatica tradizionale, alla stregua del nirukta indù, è un complesso di leggi
che regolano l’universo linguistico e fonatorio, ad immagine dei princìpi del
dominio metafisico. Vi è “uno stretto rapporto tra la metafisica del linguaggio
e quella della manifestazione che è sempre considerata un prodotto del Verbo
creatore”[12].
L’applicazione che ne deriva in modo diretto, ma essenzialmente speculare, è
quella concernente la Via spirituale: per la legge dell’analogia e della
corrispondenza fra le varie parti dell’universo, l’arabo, nel suo aspetto di
sintesi superiore e spirituale, costituisce lo strumento iniziatico che
permette all’Uomo, compendio del mondo (mukhtasar al-‘âlam), di ripercorrere “a
ritroso” le tappe della manifestazione fino alla sua Origine.
La Scienza delle Lettere è una metalinguistica
che fa da specchio e da luogo di manifestazione dei princìpi metafisici, ciò
che realizza mettendo in luce il carattere sacro ed iniziatico della lingua
araba. Se la modalità di esposizione è imperniata sull’elemento linguistico, il
tipo di conoscenza è tipicamente islamico, poiché la fonte e il ritorno è alla
Lettera coranica.
Se vogliamo, uno degli elementi che
connotano la straordinarietà di questa Scienza tradizionale può identificarsi
nel suo stesso fondamento simbolico: essa trova la sua sostanza in un ambito
indispensabile e naturale del consorzio umano cui tutti gli esseri accedono,
coscientemente o no, qual è l’espressione linguistica. Tale caratteristica, di
più, viene ritenuta come coessenziale alla natura umana, tanto che l’uomo viene
correntemente definito hayawân nâtiq,
ossia animale parlante-razionale, vale a dire che usa lo strumento verbale. La
percezione immediata e spontanea, la componente connaturata di irrinunciabilità
del linguaggio rimandano senza difficoltà alla nozione del soffio (nafas) che, polarizzandosi nella doppia
qualità del respiro, inspirazione ed espirazione, rende possibile qualsiasi
articolazione vocale, ed è immagine del Soffio dell’Onnimisericordioso (nafas al-Rahmân) che dona l’esistenziazione
alle essenze immutabili[13].
Nel Kitâb al-yâ’ vengono considerati e presentati alcuni aspetti del
simbolismo di alcune lettere secondo una prospettiva principiale, ontologica e
metafisica. Le lettere si sentono, pronunciate, e si vedono, scritte[14]. Esse
costituiscono, in altre parole, un supporto meditativo e uno strumento
iniziatico della via realizzativa: quanto al primo aspetto, la lettera (harf) viene presa in considerazione in
quanto fonema, ossia in quanto suono emesso da uno specifico modo e luogo di
articolazione (makhraj o maqta‘). Il secondo aspetto simbolico
fondamentale è, poi, quello della forma vergata della lettera, ossia il
grafema. Accanto a ciò, ad ogni lettera – grafema e fonema insieme – è proprio
un valore numerico che la caratterizza: alle ventotto lettere dell’alfabeto
arabo, perciò, corrispondono le serie complete dei gradi essenziali del numero
– unità, decine, centinaia, fino al migliaio. Questi gradi numerici –
conformemente a quanto accade nella scienza pitagorica[15] – non
vengono considerati semplicemente dal punto di vista quantitativo, bensì
ciascuno di essi rappresenta, qualitativamente uno dei gradi (marâtib) della manifestazione[16].
A partire dalla corrispondenza
biunivoca fra ogni lettera ed il suo rispettivo valore numerico, si può
facilmente dedurre come ogni parola, formata da più lettere, abbia un suo
preciso valore numerico, formato dalla somma dei valori delle sue singole
lettere. L’identità del valore numerico fra due o più parole[17] è uno
degli emblemi che sostanziano un’identità simbolica, almeno per un qualche
verso o modo, fra i termini considerati, e li fa afferire alla medesima
prospettiva spirituale. Tale principio ermeneutico, sebbene di norma
sottinteso, è basilare e fondante nelle argomentazioni del testo.
Huwa e huwiyya: il Sé e l’Ipseità.
Attraverso la modalità argomentativa
della Scienza delle Lettere, il trattato akbariano da noi tradotto evoca il
tema metafisico per eccellenza: l’unicità, l’esclusività, l’assolutezza e
l’onnipervasione del Sé divino. Il termine arabo che designa il Sé è Huwa: pronome di terza persona maschile
singolare, usato soltanto nel caso nominativo (in cui, cioè, sia il soggetto
della frase), corrisponde all’italiano “Egli”[18]. Va
ricordato che la terza persona, in arabo, viene designata dal termine ghâ’ib, “l’assente”, dalla cui radice GHYB deriva, molto significativamente, ghayb, “il Mistero, l’Arcano”, ma anche
“l’Invisibile, l’Immanifesto”. Nella prospettiva squisitamente metafisica Huwa è il Sé in quanto ghayb, ossia non-manifestato: si tratta,
in ultima analisi, dell’Essenza suprema (al-Dhât),
incondizionata e assoluta (mutlaqa).
L’uso del termine Huwa in quanto pronome divino è di
ascendenza coranica: Ibn ‘Arabî nel capitolo 272 delle Futûhât, commentando esotericamente la terzultima sura coranica[19], fa
notare che il primo versetto di questa inizia col pronome (damîr) Huwa: Huwa Allâhu ahad, “Egli, Dio è Uno”[20], senza
che, nel testo coranico, vi sia una precedente menzione del referente di tale
pronome, come invece il consueto uso linguistico richiederebbe. Di più, non
c’è, in tutta la sura coranica, alcuna menzione di alcunché che possa essere
rimandato alla manifestazione. Questa particolarità trova la sua spiegazione
profonda nel fatto che all’Ipseità dell’Assoluto (huwiyyat al-mutlaq) “non appartiene alcuna relazione (ta‘alluq) con il cosmo”[21]. I
versetti di questa brevissima sura affermano la samadâniyya, vale a dire l’eterna impenetrabilità dell’Essenza
divina[22], che lo
Shaykh al-Akbar identifica con la pura Trascendenza (tanzîh) e la Purezza (tabri’a)[23]
supreme.
Ad ogni modo, non sono rari i
versetti coranici che contengono il termine Huwa,
spesso seguito da uno oppure da una coppia di Nomi divini che qualificano e
determinano degli aspetti particolari del Sé assoluto: “Egli è il Primo e
l’Ultimo” (Cor. 57:3), “Egli è il Re, il Santissimo” (Cor. 59:23), “Egli è il
Creatore, il Produttore” (Cor. 59:24). Ora, “i Nomi menzionati dopo «Egli», in
questi versetti, hanno la funzione di manifestare, rispetto a Huwa, uno degli aspetti della
contingenza (ihdâth), considerato
specificamente nell’intero universo. Tutti quanti i Nomi sono interpreti del
Sé, mentre il Sé rimane avvolto, attraverso il velo dell’inaccessibilità
(‘izza), suprema guardiana, nella Sua Unità e nella sua Ipseità (huwiyya)”[24]. È dal
termine Huwa, di uso e matrice
coranica, che viene derivato, direttamente, il sostantivo Huwiyya: essa identifica la natura e la funzione di Huwa in quanto tale, ossia la Sua
Ipseità, il Suo “essere se stesso”. Ma “che cos’è Huwa?”. Quando Ibn ‘Arabî pone questa domanda, nel corso del
capitolo 73 delle Futûhât, provvede
anche a fornirne risposta: “È il mistero dell’Essenza (al-ghayb al-dhâtî) cui non è propria alcuna contemplazione (shuhûd). Huwa non è manifesto né è un luogo di manifestazione, ma è
l’Oggetto della ricerca (al-matlûb)
indicato chiaramente da ogni lingua”[25]. Huwa è l’Essenza divina nella sua
qualità di Mistero – inattingibile, insondabile, inesprimibile – e di
non-manifestazione: Huwa, Egli, è al-ghâ’ib, l’assente, ma non perché
possa essere in qualche modo mancante, bensì perché Egli, in se stesso, non può
mai venir contemplato: “Huwa rimane,
sotto ogni aspetto, né conosciuto, né raggiunto, né contemplato, né alluso”[26]. Huwa è la non-manifestazione assoluta (al-ghayb al-mutlaq) e l’Ipseità del
Principio denota il grado conoscitivo supremo per cui Egli è la Sua propria
Essenza, ossia Se stesso (‘aynu-hu).
Se, infatti, in Se stesso il
Principio è assolutamente incondizionato, privo di ogni determinazione, al di
là di ogni qualificazione, esente da qualsiasi relazione[27], non si
può negare che, almeno secondo una certa prospettiva, vi sia – e, se vogliamo,
vi debba essere – un aspetto logico per cui l’Essenza si relaziona con se
stessa, sia pure semplicemente in se stessa e rispetto a se stessa. In virtù di
questa relazione primigenia “l’Essenza si autodetermina come l’Entità unica (al-‘ayn al-wâhida)”[28] e tale
atto conoscitivo rappresenta la prima, universale determinazione (ta‘ayyun) in virtù della quale, per
“riflessione” dell’Essenza su se stessa, prende forma lo specchio metafisico
che renderà possibili tutte le ulteriori determinazioni e distinzioni, le quali
non sono altro che, in ultima analisi, funzioni e modalità conoscitive per via
di automanifestazioni teofaniche (tajalliyât).
Huwa, in Sé, non si manifesterà mai:
“I segreti (asrâr) sono
non-manifestazione (ghayb), perciò Huwa «appartiene» loro, poiché Huwa non si manifesta mai. Il Principio[29], in
quanto Huwa, non può essere
contemplato, e la Sua Ipseità è la Sua verità essenziale (haqîqa)[30]. In
quanto alla Sua automanifestazione nelle forme, invece, il Principio viene
contemplato e visto, e ciò non accade se non nel grado di colui che vede,
conformemente a ciò che gli viene dato dalla sua predisposizione essenziale (isti‘dâd)”[31]. Come
il mantello che, pur essendo in se stesso un’entità unica, ha una faccia
esteriore e una interiore, così l’Essenza è, ab intra, Essenza Suprema
inattingibile e irraggiungibile nella sua totale Unità (ahadiyya), e ab extra, invece, è l’Essenza delle forme, implicante
ancora, in sé, una determinazione che prende in considerazione la molteplicità
(kathra). Così, nel Kitâb al-yâ’, leggiamo: “L’Unità
essenziale è l’Essenza incondizionata (al-dhât
al-mutlaqa) che non può venir percepita né dai volti con i loro sguardi, né
dagli intelletti con i loro pensieri, poiché ciò cui possono giungere (mudrak) le facoltà di discernimento è
l’Essenza del mutamento e delle forme”[32]. È in
considerazione della medesima ottica dottrinale che possiamo distinguere le
valenze dei Nomi Huwa ed Allâh: “La
parola Huwa è più inclusiva che la
parola «Allâh» poiché designa Allâh, ogni cosa non-manifesta (ghâ’ib) e ogni cosa che possiede una
natura propria (huwiyya). E non c’è
nulla che non possegga una natura propria che sia conosciuta o menzionata,
esistente o meno”[33].
Entrambi sono Nomi dell’Essenza: Huwa
rivela l’Essenza Suprema che sfugge a qualsiasi concezione e a qualsiasi
qualificazione, mentre Allâh è il Nome che riunisce e sintetizza (al-ism al-jâmi‘) in Sé tutte le qualificazioni
e concezioni possibili[34].
L’Ipseità e l’Identità Suprema.
Se, nell’universalità della
prospettiva metafisica, Huwa è
incompatibile con la contemplazione e con la manifestazione, nel dominio
iniziatico ciò si riflette specularmente, ossia si può affermare esattamente il
contrario: “In colui che adora e nell’Oggetto dell’adorazione non si manifesta
se non la Sua Ipseità”[35]. È,
questa, inequivocabile espressione della realizzazione dell’Identità Suprema (tawhîd), che coinvolge due aspetti della
Huwiyya: da un lato la sua Unità
essenziale, per cui l’Ipseità è una e sempre identica a se stessa[36],
dall’altro la sua onnicomprensività (ihâta)
che non esclude nulla dal suo dominio onniavvolgente. L’Ipseità onnicomprensiva
(al-huwiyya al-muhîta) è
l’espressione akbariana della Perfezione assoluta, totale e infinita[37].
Dal punto di vista iniziatico, la
nozione di Ipseità, attributo unico ed universale, rappresenta il supremo
fondamento metafisico dell’Identità Suprema: “L’Identità Suprema, che è la
sintesi dei contrari, sfugge ad ogni percezione o comprensione (idrâk): Ciò che comprende non può essere
«compreso» e Ciò che percepisce non può essere «percepito»; […] qui l’impotenza
(al-‘ajz) è il limite della
percezione”[38].
La Conoscenza che qualcuno ha del Principio implica necessariamente l’ignoranza
di ciò che il Principio è nella Sua Essenza[39]; il
Viaggio termina nella Perplessità (hayra).
Qui è l’estremo limite, oltre ci sono solo insondabilità ed impenetrabilità. A
questo grado sublime attiene l’immagine spirituale delle Tenebre: “La notte (layl) è mistero non-manifestato (ghayb), e l’Essenza è mistero
non-manifestato, e l’emblema (dalîl)
dell’Essenza è Huwa”[40]. Nella
tradizione islamica vi è una rappresentazione equivalente delle Tenebre
superiori: al-‘amâ’, la Nube oscura
del celebre detto in cui il Profeta, interrogato sullo stato in cui Dio si
trovava prima di creare il mondo, rispose che Egli era in una Nube al di sopra
della quale e al di sotto della quale non c’era aria[41]. E
questa Nube, in ultima analisi, non è altro che cecità, ‘amâ[42].
Nel medesimo contesto simbolico va
inserita l’immagine che, nel linguaggio poetico akbariano, descrive sottilmente
l’apparire nel cuore dell’evento spirituale supremo: la nostalgia anelante
dell’occidente, in arabo al-gharb.
L’occidente, il luogo dove scompare la luce, è allora metafora della Teofania
dell’Ipseità (tajallî al-huwiyya),
evento spirituale che sublima il cuore, incommensurabilmente, al Mondo della
Trascendenza e del Mistero (ghayb)[43].
Il venir meno dell’elemento
“luminoso”, o meglio il suo totale trascendimento, simboleggia, inoltre, l’atto
di automanifestazione dell’Essenza a se stessa: è la “Teofania invisibile” (tajallî ghayb) che Dio rivolge a Se
stesso nel mondo non-manifestato. “È la Teofania essenziale (tajallî dhâtî), la cui realtà propria (haqîqa) è la non-manifestazione (ghayb), cioè l’Ipseità che Gli spetta
necessariamente, poiché Dio dice di Se stesso (‘an nafsi-Hi) «Huwa» –
nel Corano. Questo Huwa non verrà mai
meno. Gli appartiene da sempre e per sempre”[44].
L’identificazione della Teofania invisibile con la Teofania essenziale attua
l’estinzione e realizza l’Identità Suprema, la quale, in definitiva, è sempre
di Se stesso con Se stesso, poiché (solamente) Huwa è Huwa. Nello stesso
passo, tratto dal capitolo dei Fusûs
dedicato alla Saggezza del cuore, appartenente al Profeta Shu‘ayb, si legge che
con la “Teofania invisibile” Dio “conferisce al cuore la sua predisposizione
essenziale”. La dimensione realizzativa suprema viene discretamente allusa
dalla presenza del riflessivo divino, poiché il se stesso (nafsa-Hu) dell’Essenza non è altro che l’aspetto supremo dell’Uomo
Universale, che realizza pienamente la Forma divina (sûra ilâhiyya)[45].
È l’Ipseità divina, unica e senza
parti, al di là di tutte le attribuzioni specifiche, che consente l’identità
finale, il termine iniziatico, poiché in Essa viene a cessare lo statuto
particolare che implica la distinzione contingente “nata dalle qualificazioni
del ricettacolo della manifestazione teofanica e di Colui che vi si manifesta”[46]: il
Principio (al-Haqq) “quanto alla Sua
Ipseità, non possiede alcuna qualificazione né alcun attributo”[47].
La condizione spirituale
corrispondente, nella Scienza iniziatica, alla non-determinazione principiale (al-lâ ta‘ayyun) costituisce il grado
realizzativo più elevato, cui viene dato il nome di non-Stazione, al-lâ maqâm. Il termine ultimo della Via
percorsa rappresenta il superamento di qualsiasi modalità interiore
identificabile con una Stazione iniziatica (maqâm),
per giungere alla sintesi illimitata della non-Stazione suprema, cui nel Kitâb al-yâ’ lo Shaykh al-Akbar si
riferisce con l’espressione della “Sfera muhammadiana yathribita”. L’aggettivo
yathribita deriva da Yathrib, il nome originario di Medina, la città profetica
per elezione, e viene considerato in rapporto di analogia con il lâ maqâm sulla base del versetto
coranico (33:13): “O gente di Yathrib, voi non avete luogo dove stare (lâ muqâm la-kum)!”.
La perfezione spirituale, tipizzata
dalla figura muhammadiana, coincide con lo stato più universale che non può più
essere soggetto ad alcuna affermazione, essendo questa una limitazione logica.
L’unico modo per alludervi è apofaticamente: “Quello di Yathrib è colui che
nessuna qualità afferra e nessuna Stazione e nessuno stato determina. / Colui
il quale ha sciolto completamente le redini, la sua costituzione (nash’a) è assiale (qâmat). Non c’è nessuno di noi che possa descriverlo”[48].
L’assialità è l’espressione del riassorbimento della molteplicità (relativa)
nell’Unità (autentica). L’entrata nella via assiale – che nella prima sura
coranica prende il nome di sirât mustaqîm, dalla stessa radice QWM di qâmat – è la conoscenza del Sé, di cui la negazione lâ, composta da
lâm e alif, è il simbolo nella Scienza delle Lettere. La lettera alif, poi, nel suo grafismo di tratto verticale,
unico ed eretto, e nel suo valore numerico corrispondente a uno, è il simbolo
per eccellenza del tawhîd – la
riduzione all’Unità, la realizzazione dell’Identità Suprema[49].
[1]
Traslitterata come Y, in arabo ha la
forma seguente: ي.
[2]
Akbariano è un aggettivo derivato dall’epiteto di Ibn ‘Arabî al-Shaykh
al-Akbar, “il più grande dei Maestri”.
[3] E
attraverso il prisma dell’eredità profetica (wirâtha).
[4] Sebbene,
ad esempio, le opere di Dante e i Fedeli d’Amore vadano senza dubbio inserite
in un contesto tradizionale simile, per l’uso simbolico e allusivo del
linguaggio in esse adoperato.
[5] Cfr., ad
esempio: C. Addas, Ibn ‘Arabî et le
voyage sans retour, Paris, 1996; C. Addas, Ibn ‘Arabî ou la Quête du Soufre Rouge, Paris, 1989; T. Burckhardt,
La chiave spirituale dell’astrologia
musulmana secondo Mohyiddîn Ibn ‘Arabî, Milano, 1987; W. Chittick, The Self-Disclosure of God. Principles of
Ibn al-‘Arabî’s Cosmology, Albany, 1998; W. Chittick, The Sufi Path of Knowledge. Ibn al-‘Arabi’s Metaphysics of Imagination,
Albany, 1989; M. Chodkiewicz, Le Sceau
des saints. Prophétie et sainteté dans la doctrine d’Ibn ‘Arabî, Paris,
1986; M. Chodkiewicz, The Futûhât
Makkiyya and its Commentators: Some Unresolved Enigmas, in The Heritage of
Sufism. Vol II. The Legacy of Medieval Persian Sufism (1150-1500), ed.
Leonard Lewisohn, Oxford, 1999, pp. 219-32; M. Chodkiewicz, Un océan sans rivage. Ibn ‘Arabî, le Livre
et la Loi, Paris, 1992; H. Corbin, L’imagination
créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî, Paris, 1958; G. T. Elmore, Islamic Sainthood in the fullness of time.
Ibn Al-‘Arabî’s Book of the Fabulous Gryphon, Leiden, 1999; L. Khalifa, Ibn
Arabî. L’initiation à la futuwwa,
Beyrouth, 2001. Per un’antologia delle Futûhât al-makkiyya, Ibn ‘Arabî, Les Illuminations de La Mecque. Textes
choisis, a c. di M. Chodkiewicz Paris, 1988.
[6] Mancando
un’edizione critica dell’opera, abbiamo condotto la traduzione a partire
dall’edizione delle Rasâ’il Ibn ‘Arabî
di Hayderabad, 1948 e dalla ristampa di Beyrût, 1997; abbiamo inoltre
consultato il ms. Parigi-naz. 6640/ 72-81 e l’edizione del Cairo, 1954, pp.
15-25. Tuttavia tali testi contengono molti errori ed imprecisioni che, per
brevità, non abbiamo segnalato.
[7] Non vi
sono notizie certe sulla data di composizione dello scritto, sebbene si possa
stabilire, come termine ante quo,
l’anno 617/1220, in cui risulta compiuta una lettura dell’opera ad alcuni
discepoli. La straordinaria vicinanza tematica ed espressiva dei due testi, che
arriva fino alla reciprocità, potrebbe condurre ad ipotizzare, analogamente,
una coevità di redazione.
[8]
Segnatamente, i capitoli 2 e 198, in entrambi i quali vengono affrontati e
sviluppati molteplici aspetti vertenti sulla Scienza delle Lettere. Sono due
fra i capitoli più lunghi e complessi del capolavoro akbariano. Singoli punti,
poi, riceveranno una trattazione particolareggiata in molti altri capitoli
delle Illuminazione meccane che si
trovano, perciò, implicati nella lettura.
[9] Fut., II, p. 548. 14. Già nel primo
capitolo delle Futûhât leggiamo un
riferimento esplicito alla figura circolare, che suggerisce un’applicazione ad
un procedimento di lettura e riletture successive dell’opera: “Prendi il
compasso all’apertura del cerchio (al-dâ’ira)
nel congiungimento dell’estremità della sua esistenza al punto d’inizio (nuqtat al-bidâya). L’ultima cosa è
perciò connessa (irtabata) alla
prima!”, Fut., I, p. 48. 33. È il
segreto del cerchio e, mutatis mutandis, di tutto l’insegnamento del più grande
dei Maestri.
[10] Fut., II, pp. 405-21. Tutta la sezione è
stata tradotta in francese e commentata da C.A. Gilis, in Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, Paris, 1994.
[11] Nel
contesto tradizionale la sacralità dell’arabo viene doppiamente realizzata: da
un lato, nella struttura intima della lingua, poiché la sua origine è superiore
e divina, dall’altro, nel testo coranico, poiché l’arabo è il veicolo dello
stesso Messaggio rivelatorio.
[12] G. De
Luca, «Non sono Io il vostro Signore?»,
in I Quaderni di Avallon, 31/1993 (pp. 63-100), p. 71.
[13] Un certo
aspetto materno della Rahma,
Misericordia “uterina” (da rahim,
“utero”) si riflette nella naturalità originaria, nell’elemento materno della
lingua condivisa.
[14]
Nell’uso operativo – iniziatico – le lettere scritte simboleggiano i Piccoli
Misteri, mentre quelle pronunciate i Grandi Misteri; vedi Ibn ‘Arabî, Le livre du Mîm, du Wâw et du Nûn, a c.
di C.-A. Gilis, Beyrouth, 2002, p. 96 nota 46.
[15] Non è
senza importanza, a questo proposito, ricordare che nel Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn, Ibn ‘Arabî menzioni
esplicitamente i Pitagorici (al-fîthâghûriyyîn).
[16] Fut., II, p. 391; Kitâb al-alif, in Rasâ’il
Ibn ‘Arabî e Fusûs al-hikam.
[17] Si
pensi, ad esempio, all’equivalenza fra il Polo (qutb) e l’alif così
espressa: Q + T + B = 100 + 9 + 2 = 111; Â + L + F = 1 + 30 + 80 = 111.
[18] Sia in
queste pagine che nella traduzione dell’opera s’è preferito mantenere il
termine Huwa, semplicemente
traslitterandolo, senza tradurlo, poiché la scienza del Sé è interrelata,
sostanziata e inestricabilmente congiunta alla grammatica sacra di Huwa come pronome e, lo vedremo meglio
in seguito, alla morfologia stessa delle lettere che costituiscono questo nome.
[19] Cor.
112: “Dì: Egli, Dio è Uno. Dio è l’Assoluto. Non genera e non viene generato. E
non possiede alcun eguale”. La sura è intitolata all’ikhlâs, il culto sincero e la purezza adorativa. Analogamente, il
capitolo 272 (Fut., II, pp. 578-82) è
dedicato alla “Dimora della Trascendenza dell’Unità divina (tanzîh al-tawhîd)”.
[20] La
determinazione principiale dell’Essenza è la Sua Unità essenziale (ahadiyya). Nel Libro del Sé divino viene
evidenziato il rapporto esclusivo di Ahad
e Huwa.
[21] Fut., II, p. 580. 6.
[22] Samadâniyya deriva dal Nome divino al-Samad, presente nel secondo versetto
della sura in questione, che designa l’Assoluto e la Perfezione divina
nell’aspetto del Sostegno universale. Al-Samad
è Colui che non ha bisogno di nulla, ma del quale ogni cosa creata ha bisogno
(nel contesto umano identifica chi non ha né fame né sete, ossia non ha
necessità di alcunché al di fuori di se stesso).
[23] Fut., II, p. 580. 1. Tabri’a significa
letteralmente “esenzione; liberazione”; deriva dalla radice BR’, “essere innocente” ed “essere
libero, immune”.
[24] Vedi
infra, p. 137.
[25] Fut., II, p. 128. 35.
[26] Vedi
infra, p. 136.
[27]
L’espressione che allude alla non-manifestazione dell’Ipseità (ghayb al-huwiyya) è, precisamente, la
non-determinazione (al-lâ ta‘ayyun),
che è la più immanifesta delle realtà immanifeste (abtan al-bawâtin); Jurjânî, Kitâb
al-ta‘rîfât, Beyrût, 1992, p. 320.
[28] G. De
Luca, «Non sono Io il vostro Signore?»,
art. cit., p. 63.
[29] In
arabo al-Haqq, “il Vero, la Verità,
la Realtà”.
[30] Si veda
anche Fut., II, p. 130. 10:
“L’Ipseità è la Realtà del non-manifestato (al-haqîqa
al-ghaybiyya)”.
[31] Fut., IV, p. 443. 33; sulla nozione di isti‘dâd in rapporto al tajallî si veda
inoltre il secondo capitolo dei Fusûs
al-hikam, dedicato alla Saggezza di Seth (parzialmente tradotto in italiano
in Ibn ‘Arabî, La Sapienza dei Profeti,
a c. di T. Burckhardt, Roma, 1987, pp. 27-39; e in francese, Le Livre des Chatons des Sagesses, a c.
di C.-A. Gilis, II voll., Beyrut, 1998, pp. 71-111). La vista, attributo unico,
rappresenta l’Ipseità; sul complesso simbolismo della Visione nella dottrina
akbariana, rimandiamo all’indispensabile trattazione fornitane da Paolo Urizzi
nell’articolo La Visione teofanica
secondo Ibn ‘Arabî, in Perennia Verba
1/1997, pp. 37-72 e 2/1998, pp. 3-35.
[32] Vedi
infra, p. 132.
[33] Fut., III, p. 514. 22. Queste righe
commentano l’occorrenza del termine Huwa
nel versetto 59:22 (per cui vedi infra, p. 137), che inaugura e sigilla: “Egli
(Huwa) è Dio, Colui il quale non vi è
Dio se non Lui (Huwa)”.
[34] Si veda
Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attestations
coraniques de l’Unité, op. cit., p. 199.
[35] Fut., IV, p. 102. 4. “È proprio la Huwiyya la Realtà divina a noi più
vicina e nello stesso tempo la più «invisibile»”, P. Urizzi, La Visione teofanica, parte seconda,
art. cit., p. 17.
[36] L’Unità
essenziale (ahadiyya) è la
caratteristica della Sua Ipseità, in cui non vi è molteplicità alcuna; Fut., IV, p. 38. Si veda anche Ibn
‘Arabî, Les Illuminations de La Mecque.
Textes choisis, a c. di M. Chodkiewicz, Paris, 1988, p. 329.
[37] Dalla
stessa radice di ihâta deriva il Nome
Muhît, Nome divino che vuole
esprimere l’onnicomprensività del Principio: “Colui che abbraccia e contiene
tutto, Colui che circonda, l’Avvolgente”. L’aspetto divino che vuole
significare è, da un certo punto di vista, la polarizzazione speculare rispetto
a Samad. Il termine muhît, inoltre,
designa la circonferenza. La figura circolare, infatti, assieme a quella
sferica, va ritenuta, nell’ambito geometrico, una rappresentazione della
Perfezione che, per il fatto stesso di essere ciò che è, non può lasciare
alcunché al di fuori di se stessa; il simbolismo di entrambe queste figure
occupa un ruolo di primaria importanza nella trattazione akbariana. Sulla
nozione di Ipseità onniavvolgente si veda Fut.,
II, p. 420, ossia il trentaquattresimo Tawhîd: “Egli (Huwa) Iddio il quale non vi è dio se non Lui (Huwa)” (Cor. 59:22). Ibn ‘Arabî mette in evidenza la doppia
presenza di Huwa, che apre e chiude
il versetto, per così dire “abbracciandolo”, come un’allusione all’Ipseità
onnicomprensiva; cfr. Ibn ‘Arabî, Les
trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 198-200.
[38] P.
Urizzi, La Visione teofanica, parte
seconda, art. cit., p. 6.
[39]
Ciascuno ha del Principio la conoscenza che gli consta in rapporto a se stesso,
ma non può conoscere il Principio nell’aspetto in cui il Principio conosce Se
stesso.
[40] Ibn
‘Arabî, Tarjumân al-ashwâq, p. 66
nota 1 (tradotto da M. Gloton in L’interprète
des desirs, Paris, 1996, p. 171).
[41]
Quest’ultima precisazione, ci ricorda Ibn ‘Arabî, è opportuna affinché si
sappia che questa Nube “non assomiglia sotto alcun aspetto” (Fut., II, p. 310. 5) alle nubi così
designate nel linguaggio ordinario: si tratta, evidentemente, di un linguaggio
simbolico, così come la menzione di un’anteriorità temporale e di una
localizzazione spaziale sono incompatibili col dominio metafisico, perciò
entrambe vanno intese come espressioni imperfette di una relazione (nisba) che dev’essere interpretata (Fut., I, p. 148. 18).
[42] Amâ’, nube, e ‘amâ, cecità, sono due vocaboli derivanti dalla radice ‘MY; quasi omofoni, si distinguono,
nella scrittura, per la sola lettera finale. Si veda Kitâb al-jalâla wa-huwa kalimat Allâh, in Rasâ’il, p. 8, e la traduzione di M. Vâlsan, Le Livre du Nom de Majesté “Allâh”, in Études Traditionnelles, nn° 268, 269, 272. Secondo la dottrina di
Ibn ‘Arabî il termine ‘amâ’ designa
tanto la prima determinazione (ta‘ayyun)
dell’Essenza assolutamente incondizionata, vale a dire il suo automanifestarsi
a se stessa, ossia la prima esteriorizzazione del Soffio del Misericordioso (nafas al-Rahmân), quanto un secondo
grado (martaba) di determinazione,
ossia l’Essenza considerata come unica in rapporto ad ogni possibile stato o
forma di manifestazione, ciò che corrisponde precisamente alla Funzione di
divinità (ulûhiyya). Vedi G. De Luca,
«Non sono Io il vostro Signore?»,
art. cit., pp. 64, 82 nota 13.
[43] Ibn
‘Arabî, Tarjumân al-ashwâq, p. 54
nota 1; vedi anche L’interprète des
desirs, op. cit., p. 146-47. Non manca neppure il simbolismo che esprime
l’aspetto supremo della tenebra (zulma),
poiché questa “può applicarsi alla scienza dell’Essenza, giacché non rivela,
assieme a se stessa, alcuna altra cosa all’infuori di lei”, Ibn ‘Arabî, Kitâb istilâh alsûfiyya, p. 14, in Rasâ’il.
[44] Fus., I, p. 120.
[45] Vedi P.
Urizzi, La Visione teofanica, parte
seconda, art. cit., p. 22; Ibn ‘Arabî, Le
Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., pp. 315-16; sulla Teofania
essenziale e l’insân al-kâmil vedi
anche Qûnâwî, L’Epître sur l’Orientation
Parfaite, trad. di M. Vâlsan, in Etudes
Traditionnelles, n° 398, 1966 (pp. 241-68), p. 261.
[46] P.
Urizzi, La Visione teofanica, parte
seconda, art. cit., p. 30.
[47] Fut., IV, p. 39.
[48] Fut., IV, p. 74; si tratta dei versi
iniziali del capitolo 462, intitolato ai Poli muhammadiani e alla loro
Stazione.
[49] Vedi
Ibn ‘Arabî, Les Illuminations de La
Mecque, op. cit., p. 427.
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