Chiara
Casseler
Saggio introduttivo a Ibn ‘Arabî, Il libro del Sé divino (Kitâb al-yâ’ wa Huwa kitâb al-Huwa)
Parte 3/4
Il sillogismo.
Vi è, come abbiamo visto, ancora una terza classe di unione nuziale, elencata nel capitolo 21; a essa fa diretta allusione il Kitâb al-yâ’: “La Hâ’ è una cosa che unisce Huwa e Hiya, come il termine medio che lega le due premesse le quali sono condotte alla conclusione, poiché esse sono composte di tre [elementi]. Perciò è indispensabile il termine medio”[1] e, qualche paragrafo più tardi: “Per questo la Hâ’ è il termine medio fra Huwa e Hiya in vista della conclusione, [termine medio] che è unico e dispari”[2].
Traduciamo fard con l’espressione “unico e dispari”, poiché il termine medio è
uno solo, ma siccome è il terzo elemento, dopo le due premesse, ed il tre è il
primo numero dispari, ecco che il termine medio è anche dispari!
Il termine medio (al-sabab al-râbit), letteralmente “la
causa o il mezzo legante”, le due premesse (al-muqaddimatâni)
e la conclusione (intâj)[3]
costituiscono le parti del sillogismo. È questo, in realtà, il nikâh intelligibile: il corrispondente
dell’unione fisica dei due sposi è, dal punto di vista logico, il sillogismo,
in cui dall’unione delle due premesse scaturisce la conclusione, grazie alla
presenza in entrambi di un termine medio e comune. Quest’argomentazione è presente
in molte delle pagine akbariane che trattano delle nozze e della triplicità,
poiché come il corpo si fonda sulla triplicità delle dimensioni, allo stesso
modo la costituzione delle prove logiche (adilla)
ha come principio la triplicità[4]. Se più
di una volta, a partire dallo stesso Libro del Sé divino, Ibn ‘Arabî si limita
ad alludere al procedimento logico citandone solo gli elementi che lo
compongono, quando invece lo nomina, gli attribuisce, di norma, il termine di dalîl (da cui il plurale adilla) che identifica il segno
probante. Il principio di produzione, infatti, al livello logico, si manifesta
con un valore gnoseologico certo: se viene applicata correttamente la
disposizione strutturale delle parti e delle modalità che formano il
sillogismo, questo non potrà che dare un esito, una conclusione autenticamente
valida.
In ragione della Scienza di Dio, che
conosce il risultato di ogni nikâh,
poiché Egli ha la scienza di ciò che è contenuto nelle matrici (arhâm)[5], come ci
annuncia la Sua Parola, il sillogismo – coito di due idee in vista del parto di
una terza idea – va ascritto direttamente (nasaba)
alla Sua Conoscenza (‘alà ma‘rifati-Hi)[6]. Le due
premesse, grazie all’elemento comune che le unisce, partoriscono la
conclusione, come i due sposi, grazie al loro amplesso, danno l’esistenza al
figlio.
Questa forma logica contiene in sé un
ternario autentico, vale a dire le due premesse e la conclusione, e un
quaternario strutturale, ossia le due parti in cui ciascuna premessa si divide.
Tuttavia questo computo è solo apparente, poiché la particolarità del
sillogismo consiste nell’esistenza di un termine medio presente in entrambe le
premesse: ogni sillogismo, pertanto, contiene tre elementi eterogenei più una
ripetizione. È quest’ultima che collega le due premesse e permette il
successivo risultato logico. L’ordinamento formalmente quaternario si risolve
in un ternario effettivo. È sempre nel corso del capitolo 198 che viene
illustrata la struttura (tarkîb)
delle prove logiche: “Il sillogismo è sempre triplice per costituzione. Vi sono
necessariamente due termini separati (mufradâni)
e un legame che li unisce (jâmi‘), e
questo terzo aspetto (wajh) è
necessariamente presente in ciascuna delle due premesse in vista della
produzione conclusiva (intâj). Si
avrà sempre un [rapporto] A – B e un [rapporto] B – C, con B che si ripete (takarrara)”[7]. La
ripetizione del termine medio, che permette il contatto e l’unione
intelligibile fra A e C, rappresenta l’aspetto speciale (al-wajh alkhâss) del sillogismo, allo stesso modo in cui l’incontro
genitale (iltiqâ’ al-farjayn) e la
discesa dell’acqua prodotta dalla passione (shahwa)
è l’aspetto peculiare delle nozze fisiche. A quest’atto, per essere fecondo,
dev’essere propria anche una condizione speciale (shart khâss): essa consiste nel fatto che il luogo (mahall)
preposto al parto accetti, senza corromperlo, il seme, e che il seme accetti
l’aprirsi della forma (fath al-sûra)[8]. E lo
stesso accade nel sillogismo: la sua condizione speciale è che la qualità
enunciata (hukm) nella premessa
maggiore abbia un’applicazione più generale, includente la causa (‘illa) delle premesse, ossia il termine
medio. Solo in questo caso l’esito, chiamato anche matlûb, ossia “l’oggetto ricercato”, è veridico[9].
La ripetuta, a tratti insistita, menzione
del procedimento sillogistico si spiega proprio in ragione della sua funzione
all’interno della logica umana, quale simbolo che riproduce il processo
creativo, il cui segreto e mistero è rappresentato dall’unione delle due
premesse, e mutatis mutandis, da
quella dei due poli della manifestazione universale[10]. Il
principio produttore non è la dualità, non risiede nella semplice
polarizzazione dell’Essenza in vista dell’esistenziazione. Accanto ai due
elementi ce ne vuole un terzo, che è un movimento particolare secondo un
aspetto particolare (al-haraka
al-makhsûsa ‘alà al-wajh al-makhsûs)[11]:
l’esistenza del principio maschile, in sé, e, accanto a quella, l’esistenza del
principio femminile, in sé, non danno esito ad alcun prodotto. I due devono
muoversi ed unirsi (co-ire),
attraverso il movimento dell’unione sessuale (harakat al-jimâ‘), perché venga partorito un risultato[12].
Il rapporto Huwa – yâ’.
Qual è il risultato della ierogamia
universale? Che cosa produce l’auto-orientazione (tawajjuh) dell’Essenza, a partire dalla Sua Ipseità, tramite la Sua
Parola? Senza dubbio si dovrà rispondere che tale atto conoscitivo primordiale
origina il Mondo (al-‘âlam). Oppure,
dal punto di vista esattamente speculare, si dirà che l’esito non è altri che
l’Uomo: l’Uomo Universale (al-insân
al-kâmil), il quale è lo Spirito del Mondo (rûh al-‘âlam)[13] e il
suo compendio (mukhtasar)
sintetizzante e universale[14]. Ibn
‘Arabî, inoltre, mette in luce la qualità di essere totalizzante (kawn jâmi‘) esclusiva all’Uomo proprio
nella prospettiva della sua filiazione: “L’Uomo è il figlio generato (mutawallid) dal Cielo e dalla Terra, i
quali sono per lui come suo padre e sua madre”[15].
L’emblema simbolico di quest’unione nuziale e del suo prodotto è, precisamente,
l’unione del 5 (numero terrestre) e del 6 (numero celeste), ossia della hâ’ iniziale e della wâw finale. La somma di tale
congiungimento è 11[16], che
corrisponde da un lato al valore numerico di Huwa, dall’altro a quello del nome della lettera yâ’. L’esito del movimento gnoseologico che
l’Essenza compie da Se stessa su Se stessa non produce altro che Huwa, Egli, il Sé. Si tratta, in ultima
analisi, di un processo di polarizzazione, se vogliamo di specularizzazione,
nell’ambito di una Riflessione suprema, ciò che viene limpidamente palesato
nella forma dei termini come tajallî, “auto-manifestazione” e tawajjuh,
“auto-orientazione” i quali hanno precisamente valore riflessivo. Poiché, in
realtà, non esiste che il Sé, e l’Identità suprema, in definitiva, è sempre
quella dell’Essenza con Se stessa, del Sé con Se stesso: Huwa Huwa[17].
Affermare l’identità dell’Essenza con Se stessa non significa, d’altro canto,
esaurirne la conoscenza; anzi, tale identità non comunica nulla, se non
l’ignoranza sulla sua essenza, o, meglio, l’impossibilità d’attingervi. Si
tratta dell’aspetto proprio, esclusivo del Tawhîd
divino, ab intra. Ab extra, invece, l’esito logico di Huwa Huwa
è l’Ipseità onnipervadente (huwiyya sâriyya): il Sé rappresenta il principio
e la ragion d’essere di ogni realtà, in cui è perciò attualmente presente, pur
non limitandosi a coincidere identicamente con ogni essere, ciò che varrebbe
come contraddizione panteistica, come pura impossibilità metafisica.
Quest’aspetto dottrinale ha il suo esatto corrispondente, nell’ambito della
grammatica sacra, dal momento che Huwa
riveste, sintatticamente, la funzione specifica di copula e sostituisce tout
court il verbo “essere”. A livello linguistico-espressivo, il termine Huwa è realmente onnipresente e
onnipervadente. Ed è con le seguenti parole che lo Shaykh al-Akbar si esprime,
al riguardo, agli inizi del Kitâb al-yâ’:
“Perciò Huwa rimane, sotto ogni
aspetto, né conosciuto, né raggiunto, né contemplato, né alluso. Non vi è sé se
non Huwa e ciò che altro da Huwa, lo è nell’Io, nel Tu e nelle loro sorelle.
Sia lode a Colui che ha nobilitato il Discorso divino diretto per mezzo del Sé,
e ha portato questo Discorso in mezzo alle altre facoltà di discernimento. Non
vi è divinità se non Lui (Huwa). E
grazie all’onnipervasione (sarayân)
del Sé negli esseri creati, giacché ad essi non appartiene alcuna esistenza (wujûd) se non per mezzo del Sé, e ad
essi non appartiene alcuna sussistenza (baqâ’)
dopo l’esistenza se non per mezzo del Sé, tutto ciò che è dopo il Sé diviene un
sostituto[18]
di Huwa ed un’apposizione esplicativa[19],
intendo che si unisce a lui per illustrare i gradi che appartengono a Huwa, ma che non sono Huwa. Il Sé permane nella Sua sintesi
indifferenziata (ijmâl) e nella Sua
gloriosa inaccessibilità (‘izza)”[20].
Se, finora, non possiamo che dire che
Huwa è Huwa, e basta, è altrettanto vero, tuttavia, che Huwa è anche qualcos’altro, o meglio,
che Huwa può trovare un equivalente
in qualcosa che non è semplicemente se stesso: è questo il ruolo della yâ’. La yâ’, abbiamo visto, ha valore numerico identico a Huwa, dunque sotto quest’aspetto è
identica a Huwa, eppure non è
identica a Huwa in quanto a forma
grafica, fonazione e funzione, le quali, anzi, ne sono eterogenee. Nell’essenza
identica a Huwa, la yâ’ ne è un’espressione, in sé
differente. Ma che cos’è la yâ’? E
qual è il fondamento simbolico che determina il suo ruolo straordinario, quello
che Ibn ‘Arabî designa come “un potere immenso (sultân ‘azîm), al quale nessuno può avvicinarsi, senza che esso
eserciti il suo comando su costui”[21]?
La yâ’ ha la funzione di metonimia, di espressione simbolica di Huwa, la terza persona divina. Essa però
non viene considerata semplicemente in quanto lettera dell’alfabeto, bensì come
pronome suffisso di prima persona singolare: vocalizzata in “i”, e dunque
diventata lunga: -î, essa si suffigge
ai sostantivi, assumendo il valore dell’aggettivo possessivo “mio”. Se suffissa
ai verbi, la yâ’ viene preceduta da
una nûn – chiamata “nûn di difesa” – divenendo -nî, col significato di “me” e “mi”. È
per questo che Ibn ‘Arabî può scrivere che la yâ’ “è intermedia fra Anâ
[ossia Io] e Huwa”, poiché dal punto
di vista dottrinale è un’indicazione allusiva (ishâra) di Huwa, ma al
contempo – sia metafisicamente sia grammaticalmente – è espressione diretta
della prima persona divina. La yâ’,
dunque, è kinâya di Huwa. La kinâya è un modo metaforico dal valore cognitivo, è un traghetto
che conduce dal “di qua” formale ed individuale della yâ’ al “di là” sovraformale e trascendente di Huwa. La yâ’ del pronome
suffisso è, anzi, secondo Ibn ‘Arabî, l’unica metafora che avvicini
autenticamente a Huwa. L’identità dei
due termini (data, in primo luogo, dal medesimo valore numerico) permette di
attuare uno slittamento inespresso dall’ambito della terza persona a quello
della prima persona, senza che il referente autentico (e unico) muti o cambi.
La yâ’ rappresenta lo specchio di Huwa in ogni essere: in altre parole, è
il riflesso del Sé dell’Ipseità nell’individualità, ciò che produce la
distinzione personale[22]. La yâ’ è allora un’ishâra dell’Identità
suprema, quando la prima persona è quella della Personalità divina, identità
che è di fatto sempre quella di Lui stesso con Se stesso: “Per questo Egli dice
di Se stesso innî, «in verità Io» e non dice «Huwa»: inna fa in modo di realizzare la yâ’, e la yâ’ è un
Discorso divino diretto (fahwâniyya) che appartiene all’Unità”[23]. Nel
già citato capitolo 333 delle Futûhât,
Ibn ‘Arabî fa menzione dello “Spirito divino della yâ’” (rûh ilâhî yâ’î):
“Lo Spirito della yâ’ rimanda (ja‘ala) all’essere (wujûd) dello Spirito stesso (‘ayn
al-rûh) il quale è la Parola del Vero insufflata nella natura”[24].
Vi è ancora un aspetto che va
segnalato: alla yâ’ in quanto pronome
personale suffisso viene attribuito un “potere immenso”, chiamato ta’thîr, vale
a dire la capacità di produrre un influsso, una traccia visibile. Essa ha la
proprietà, infatti, di annullare la vocalizzazione finale del sostantivo cui si
suffigge, eliminando quindi le differenze morfologiche che distinguono i tre
casi della declinazione, riducendoli tutti all’identità con se stessa: kitâb-î,
“il mio libro”, sarà l’unica forma esistente, a prescindere dalla funzione
sintattica del termine. Potremmo definire, allora, quello della yâ’ come un potere riduttore, e
precisamente di riduzione all’unità (poiché una sola è la vocalizzazione che
rimane). La yâ’ della prima persona
realizza il riassorbimento nell’unità autentica della molteplicità illusoria. E
come la yâ’ (che vale 11) è una
metonimia di Huwa (che vale 11), così
Huwa è una metonimia dell’Unità
essenziale (ahadiyya) [che è,
ovviamente, 1] la quale non è altro che l’Essenza incondizionata: “Sappiate che
Huwa implica la yâ’ più di ogni altra metonimia, giacché Huwa vale 11, ossia è il nome dell’Unità (ahadiyya). Ora, l’Unità richiede l’uno, e ciò che rimane è il 10.
Ma Huwa non ha il valore di 10,
perciò è indispensabile la yâ’[25].
Per questo Egli dice di Se stesso innî,
«in verità Io» e non dice «Huwa»: inna fa in modo di realizzare la yâ’, e la yâ’ è un Discorso divino diretto (fahwâniyya) che appartiene all’Unità”[26].
Nel Kitâb al-alif troviamo l’allusione alla medesima opera di
reintegrazione essenziale nell’unità, a partire dal principio rappresentato
dalla lettera alif, la quale ha il
valore numerico di 1 e il cui grafema è un tratto verticale: “L’alif pervade tutti i luoghi di
articolazione delle lettere come l’uno pervade tutti i gradi dei numeri[27]. Perciò
abbiamo intitolato questo libro “Il Libro
dell’Alif”, che è l’Asse immutabile di tutte le lettere (qayyûm al-hurûf)”[28]. Hurûf, che deriva da una radice che
esprime la nozione di limite, indica le condizioni limitative degli esseri e
degli archetipi. Perciò l’alif
principiale è immagine dell’Asse del Mondo che governa e informa tutti i piani
dell’esistenza universale. Viene ad essere, in altre parole, un’immagine del
Sé.
E subito dopo le parole akbariane
portano a un accostamento con la trattazione del Kitâb al-yâ’: “Assomigliano all’alif,
in quanto ad onnipervasione (sarayân)
sia la wâw vocalizzata da una
precedente «u» [ossia la «û»], sia la
yâ’ vocalizzata da una precedente «i»
[ossia la «î»]”[29].
I pronomi della Persona divina.
Non è difficile comprendere, dalle
nozioni appena esposte, che nel testo il Sé non viene considerato puramente
nello stato supremo di non-manifestazione, ossia “all’interno” della Sua
Ipseità, poiché, a buon diritto, di ciò è metafisicamente impossibile parlare.
Del Sé, dunque, è possibile affermare qualcosa solo nella prospettiva delle Sue
successive auto-manifestazioni o teofanie, le quali si possono verificare
secondo differenti modalità di esteriorizzazione[30]. Questi
momenti epifanici peculiari trovano il loro pieno simbolismo applicato
nell’ambito della linguistica sacra: vi è, infatti, all’interno della lingua,
una classe di termini che esprime, più compiutamente delle altre, le qualità
inerenti ad una manifestazione, secondo vari livelli, del Sé, del Principio
unico e immutabile. Tale classe è quella dei pronomi personali (mudmarât o
damâ’ir), i quali, con la loro stessa struttura, simboleggiano in una maniera
più pertinente dei sostantivi, dei quali fanno parte anche i Nomi divini, la
qualità dell’immutabilità metafisica, mai inficiata da alcuna condizione
contingente. I sostantivi, infatti – e quindi anche tutti i Nomi divini, fino
ad “Allâh” – si declinano, ossia subiscono un mutamento desinenziale per
l’influsso che l’ambiente circostante esercita su di loro. Non così i pronomi:
essi, infatti, sono indeclinabili.
L’indeclinabilità dei pronomi
coincide con “l’immutabilità[31] e
l’inalterabilità. Perciò [i pronomi] spettano per diritto ontologico (istahaqqat) alla funzione di Divinità (ulûhiyya), in misura ancora maggiore dei
Nomi. […] Quanto ai sostantivi, essi sono sottoposti ad alterazione in base
alla differenza delle necessità e dei gradi. I nomi non riescono a difendersi
come si difendono i pronomi”[32].
Secondo un altro aspetto non meno
importante, poi, l’efficacia fondante del pronome personale si autentica nel
fatto che esso “riconduce necessariamente ad una realtà confermata (amr muqarrar)”[33]. Il
corretto uso grammaticale del pronome in arabo prevede, infatti, che esso venga
usato solo dopo che, nel testo, si sia menzionato esplicitamente il suo
referente, e la sua presenza di norma avviene in modo tale che l’attribuzione
della sua identità sia inequivocabile. Traslare tutto ciò nel campo metafisico
significa affermare e realizzare l’Identità Suprema, il Tawhîd dell’Ipseità: poiché il referente di Huwa è la Huwiyya, è
l’Essenza assoluta.
Lo Shaykh al-Akbar si sofferma
brevemente, nel corso del Kitâb al-yâ’,
sulla funzione dottrinale di alcune delle forme pronominali, e in particolare
su Huwa, in primo luogo, che, com’è
noto, esprime la terza persona singolare (maschile), poi Anâ, “Io” e Anta “Tu”,
dunque, rispettivamente la prima e la seconda persona singolare[34]. In
tutti i casi, però, il referente di tali diversi pronomi, il Nominato, se
vogliamo, è unico, e la pluralità delle voci pronominali non corrisponde ad
altro che a una pluralità di modi epifanici dell’una e unica Personalità
divina, ciascuno dei quali ha luogo in un determinato grado.
Il grado più elevato e sublime è
quello di Huwa, poiché è
caratterizzato dalla qualità suprema dell’Ipseità, ossia dell’Essenza. Huwa incarna, per così dire, la realtà
incondizionata e inaccessibile. Tale nozione costituisce il fondamento metafisico
dell’apparente paradosso, che vede nel pronome dell’assente la manifestazione
dell’irrinunciabile Principio di ogni realtà, a qualsiasi livello. Se,
nell’apparenza dettata dall’ordinarietà dell’uso, Huwa rappresenta il grado dell’assenza, tanto che la terza persona
prende il nome, in arabo, dell’assente (al-ghâ’ib),
in realtà Huwa è il simulacro
dell’Essenza Suprema incondizionata, al di là di qualsivoglia demarcazione o concettualizzazione
possibile[35].
Huwa rappresenta il grado
dell’arcano, misterioso e segreto, della Personalità divina[36], e ciò
secondo due rapporti universali. Da un lato Huwa
rappresenta il Sé supremo e assoluto, l’Essenza incontaminata e libera da ogni
relazione (dhât mutlaqa), in altre parole la realtà dell’Ipseità trascendente (huwiyya khâlisiyya); dall’altro lato, Huwa designa la Realtà essenziale non
manifestata che penetra e sostanzia l’esistenza – di cui un principio
corrispondente è la Realtà muhammadiana (Haqîqa muhammadiyya) – e che in
relazione all’Essenza prende il nome di Ipseità onnipervadente (huwiyya sâriyya), in certo modo
“immanente”.
Ibn ‘Arabî mette in guardia
dall’attribuire questo, che è il grado più elevato, a quello di cui è foriero Anâ, ossia dal confondere l’epifania
della prima Persona divina con la condizione realizzativa più nobile. L’errore
nasce dalla considerazione, congetturale, che Anâ sia “la più nobile delle metonimie, per via dell’unificazione (ittihâd)”[37]. Ma, in
realtà, l’unificazione non è possibile, ossia non è logicamente sostenibile,
dal momento che Anâ implica di per sé
sempre distinzione ed esclusività: esplicitare una nozione rigorosamente
soggettiva, rinviandola a sé stessi, in quanto “colui il quale sta parlando”[38]
equivale a separare, per ciò stesso, colui che parla e, perlomeno, la realtà circostante,
ossia il soggetto parlante e l’oggetto di cui questi fa parola. La smentita
akbariana è, perciò, incontrovertibile: il grado della prima persona è del
tutto esclusivo, dunque o designa unicamente l’io individuale della creatura
oppure l’Io divino che si manifesta in un supporto creaturale[39],
annientando per ciò stesso l’autocoscienza di quest’ultimo. “Essi non sanno che
l’unificazione è assolutamente impossibile e che il significato che ti risulta
da ciò che tu intendi con «unificazione» è «chi dice Io». Non c’è, quindi,
unificazione, giacché il parlante (alnâtiq),
rispetto a te, non è Anta, «Tu». Tu,
infatti, dici Anâ, perciò Anta non c’è. Tu non puoi fare a meno di
dire «Io», o attraverso la tua egoità (bi-anâniyyati-ka)[40] oppure
attraverso la Sua egoità (bi-anâniyyati-hi).
Se tu dici «Io» attraverso la tua egoità, allora tu non sei Lui. Se tu parli
attraverso la Sua egoità, allora non sei tu che parli, ma è Lui (Huwa) che dice “Io” attraverso la Sua
egoità. Sicché, in ogni modo, non c’è nessuna unificazione, né per la via del
significato né per la via della forma, poiché per i sapienti chi parla è –
immancabilmente – Anâ: o conosce Huwa oppure no”[41]. Lungi
dal verificare un’identificazione o un’assimilazione, il grado iniziatico di Anâ realizza, attraverso il consueto,
esteriore ossimoro, la totale alterità: la differenza che separa il “me”
individuale e il “Me” principiale, alla luce dell’incommensurabilità fra finito
contingente e Infinito necessario, si traduce in vera e propria inconciliabilità
di statuto (tanâqud al-hukm)[42].
Nel Libro dedicato al Nome “Allâh”
Ibn ‘Arabî non manca di chiarire che Anâ
è un grado apparente, esteriore (zâhir)
di Huwa[43],
dal momento che comporta un livello epifanico in qualche modo esterno, inserito
nella contingenza. Dal punto di vista teofanico, la nozione di anâniyya comporta una discesa (inzâl) del Sé nel piano d’esistenza
umano, per cui “l’innesto”, per così dire, del Sé, in certe condizioni
particolari, della manifestazione origina il “me”, ossia l’individualità, la
coscienza individuale. La prima Persona divina o, più precisamente, il Tawhîd dell’Ego (anâna) che essa implica, va inserito, di riflesso, in una
prospettiva di realizzazione discendente. In effetti, il primo Tawhîd dell’Ego è quello del versetto
coranico che menziona la discesa degli Angeli sui Profeti e sugli Inviati:
“Egli fa scendere gli Angeli con lo Spirito, procedente dal Suo Ordine, su chi
Egli vuole fra i Suoi Servi: «Ammonite che non vi è Dio se non Me[44]. Perciò
siate timorosi!»” (Cor. 16:2). Nell’ambito della realizzazione iniziatica
discendente, cui Ibn ‘Arabî dà il nome di “ritorno” (rujû‘) alle creature oppure di “viaggio da Lui” (safar min ‘indi-hi)[45], il
simbolismo superiore di Anâ, ossia
colui che parla, rimanda alla funzione del Profeta, che non solo parla “in nome
di”, ma anche dalla bocca del quale è Dio stesso a parlare. Il Profeta è,
infatti, e lo strumento e il ricettacolo immediato di un’epifania: “Il fatto
che questo [tipo di] ispirazione (wahy)
vada riferita, in modo particolare, alla natura di Anâ (anâyya) indica che
si tratta di un Verbo divino (kalâm ilâhî)
con la soppressione di ogni intermediario”[46].
La differenza di prospettiva
dottrinale evocata da Anâ e Huwa dà luogo a una considerazione di
superiorità e pre-eccellenza reciproca: nei Fusûs
al-hikam[47],
lo Shaykh al-Akbar evidenzia tale sottile e complessa distinzione a partire dai
due versetti coranici che contengono i due saluti di pace indirizzati, da parte
divina, uno a Gesù e l’altro a Yahyà (Giovanni). Se Gesù si esprime in prima
persona: “Pace su di me (‘alayyà) il
giorno in cui fui generato, il giorno in cui morirò e il giorno in cui sarò
resuscitato come vivo (hayyan)!”
(Cor. 19:33), circa Yahyà, invece, viene riportata una parola alla terza
persona singolare: “La Pace sia su di lui (‘alay-hi)
il giorno in cui fu generato, il giorno in cui morirà e il giorno in cui sarà
resuscitato come vivo (hayyan)!”
(Cor. 19:15). Le parole di Gesù sono più perfette dal punto di vista
dell’unificazione (akmal fî ’littihâd)
– che va interpretata come la presenza della manifestazione teofanica senza
intermediario individuale, mentre quelle di Yahyà sono più perfette dal punto
di vista dell’unione e del credo (akmal
fî ’l-ittihâd wa-’l-i‘tiqâd). Queste ultime rappresentano cioè un grado
unitivo più eccellente, poiché rimandano, grazie alla terza persona di Huwa, alla realtà metafisica
dell’Ipseità, con meno possibilità d’interpretazioni erronee o d’ambiguità. La
maggior perfezione di Yahyà rispetto a Gesù, in questa visione, viene inoltre
simboleggiata dall’epiteto esoterico di dhikr
yâ’, “il ricordo-menzione della yâ’”
con cui viene designato (e cui viene fatto equivalere il nome di) Zaccaria.
Essendo Yahyà il figlio di Zaccaria, egli è, dunque l’interiore del dhikr yâ’, ne è lo strumento vivificante, come
vuole il suo stesso nome[48]. Tutto
ciò sarà più chiaro ancora se si ha presente che la yâ’ è, morfologicamente, il prefisso del verbo di terza persona,
all’imperfetto[49].
Il grado di Yahyà, alla luce di quanto esso rivela del dhikr yâ’, sembra inerire direttamente a Huwa.
[1] Vedi infra, p. 149.
[2] Vedi infra, p. 157.
[3] Dalla
radice NTJ, “partorire, figliare”.
[4] Fut., III, p. 676. 5.
[5] Ossia
gli uteri (Cor. 31: 34).
[6] Fut., II, p. 412. 28. Si tratta sempre
del sedicesimo Tawhîd.
[7] Fut., II, p. 440. 25.
[8] Fut., I, p. 170. 12.
[9] Kitâb
al-alif, pp. 11-12; Fut., I, pp. 170-71; II, 412-13. Sull’inclusione delle
classi, su cui riposa il ragionamento sillogistico, vedi anche Ibn ‘Arabî, Les
trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 107-08. Sarebbe
interessante, a questo punto, indagare a proposito delle possibili analogie
riscontrabili fra il sillogismo e la nozione della sezione aurea, sulla base
della proporzione che la esprime (A : B = B : C), e del fatto che sia B che C
sono contenuti in A…
[10] Le
nozze sono coranicamente designate come un segreto (sirr) in Cor 2:235. Quanto al trait
d’union simbolico fra la manifestazione e il segreto, si pensi al fatto che
l’assise di al-Rahmân avviene su un
Trono, che è ‘arsh, ma anche sarîr, che in arabo deriva dalla stessa
radice SRR di sirr, e può, anzi, significare anche “cosa nascosta”.
[11] Kitâb al-alif, p. 11.
[12] Si veda
anche Ibn ‘Arabî, Le livre du Mîm, du Wâw
et du Nûn, op. cit., pp. 44-45. Per la trattazione di tutti questi aspetti
connessi, rimandiamo inoltre all’undicesimo capitolo dei Fusûs al-hikam, che, evidentemente, non possiamo qui riassumere:
esso illustra alcune particolarità della Saggezza “delle aperture” (futûhiyya) propria al Profeta arabo
Sâlih (va notato che anche nel Kitâb
al-yâ’ viene dato particolare risalto, in un modo o nell’altro, alla
nozione di fath, “l’apertura”). Vi
sono menzionate, in stretta correlazione, le aperture dei Suoi Misteri (futûh ghuyûbi-Hi), con un’indicazione
allusiva alla Sua Ipseità, e la qualità della singolarità (fardiyya), identificata al ternario (tathlîth), in quanto radice della manifestazione (asl al-takwîn), col rimando al già
citato versetto del Kun (Cor. 16:40).
E, cosa non meno importante, ancora una volta viene illustrato il simbolismo
del sillogismo come prova logica. Si veda Ibn ‘Arabî, Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., pp. 293-309.
[13] In
questa prospettiva, se l’Uomo è lo Spirito del mondo, il mondo in sé
corrisponde ad un corpo (jasad); Fut., II, pp. 67, 468; III, p. 363.
[14] Fut., I, p. 153. 23: “L’Uomo è il
Compendio (mukhtasar) [del mondo]
nella qualità corporea (jirmiyya) e
ne è il corrispondente (mudâhî) nel
principio spirituale (ma‘nà)”.
[15] Fut., I, p. 125. 31. Vedere anche R.
Guénon, La Grande Triade, op. cit.,
cap. IX Il Figlio del Cielo e della Terra; P. Grison, La lumière et le boisseau, Paris, 1986, capp. 2, 6.
[16] Si
tratta di un’altra espressione dell’Identità suprema, poiché, in verità, “il
figlio (walad) è il segreto (sirr) di suo padre”, in Fus., I, p. 66 – ed è per questo motivo
che “il figlio (walad) anela di
nostalgia (hanna hanîn) per suo
padre”, Fut., III, p. 125. 16. Sul
valore simbolico del numero undici, considerato come emblema dell’Uomo
universale, vedi R. Guénon, La Grande
Triade, op. cit., cap. VIII e L’Esoterismo
di Dante, Roma, 1976, cap. VII. Sull’importanza del simbolismo del numero
11 in Dante e nei Fedeli d’Amore, cfr. N. D’Anna, La Sapienza nascosta. Linguaggio e simbolismo in Dante, Roma, 2001,
pp. 84-85.
[17] Vedi Fut., cap. 72 citato in C. A. Gilis, Lo Spirito universale dell’Islam, op.
cit., p. 45; Qaysarî, La scienza
iniziatica, pp. 60-61. Si noti come l’espressione Huwa Huwa contenga la
ripetizione del numero 11, a formare il totale di 22, un altro numero simbolico
di non trascurabile importanza.
[18] Badal, qui usato anche in riferimento al
suo significato grammaticale di “permutativo”, che corrisponde, in linea
generale, alla funzione di un’apposizione.
[19] ‘Atf al-bayân è un’altra espressione
tecnica dell’analisi grammaticale.
[20] Vedi infra, p. 136.
[21] Vedi infra, p. 139.
[22] In
termini indù, si tratta del riflesso dello Spirito universale (Âtmâ) nello spirito di vita (jîvâtmâ) reggitore di ogni essere
individuale. Si veda, ad esempio, Bhagavadgîtâ
con il commento di Srî Sankâracârya, a c. di G. Marano, Milano, 1997, in
particolare pp. 261 e segg.; R. Guénon, Studi
sull’Induismo, cap. I Âtmâ-Gîtâ;
M. M. Lenzi, Il segreto richiamo. Figura,
funzione e simulacro del Maestro spirituale, Rimini, 2003, pp. 41-43.
[23] Vedi infra, p. 147.
[24] Fut., III, p. 125. 15.
[25] Perché
il valore numerico della lettera yâ’
è precisamente 10.
[26] Vedi infra, p. 147. Si ricordi, a tale
proposito, che Dante identifica precisamente il Nome divino primordiale, usato
da Adamo nello stato edenico, con “I” (Par.
XXVI, 133-35). Cfr. N. D’Anna, La
Sapienza nascosta. Linguaggio e simbolismo in Dante, Roma, 2001, cap. 6.
[27] Ogni
numero viene originato, sotto questo aspetto, dalla ripetizione dell’unità per
se stessa; allo stesso modo, il valore numerico di 11 non è altro che l’unità
ripetuta.
[28] Kitâb al-alif, in Rasâ’il, p. 12.
[29] Ibidem. Lo speciale rapporto di
continuità che lega la yâ’ all’alif trova espressione, nella grammatica
sacra, nella forma particolare dell’alif
chiamata maqsûra, “accorciata” o
“ristretta”: essa ha luogo solo in finale di parola, e coniuga il grafismo
della yâ’ (senza i due punti
diacritici sottostanti) alla vocale breve «a», e, di fatto, come tale va
pronunciata. Ancora, è opportuno riconoscere che il simbolismo della lettera yâ’ non si esaurisce certamente con
quanto detto: esso, anzi, è suscettibile di una serie di sviluppi notevolissimi
e sottili, i quali vanno a toccare, tra le altre, le figure profetiche di Yahyà
(Giovanni) e Zakariyyâ (Zaccaria). Il nome di quest’ultimo viene identificato,
da Ibn ‘Arabî, all’espressione dhikr yâ’,
ossia “l’incantazione” – che è allo stesso tempo “menzione” e “ricordo” – della
yâ’. La yâ’ è, metonimicamente, l’iniziale di Yahyà, il figlio di Zaccaria
che “vivifica” (è questo il significato del nome Yahyà) suo padre: il figlio è,
infatti, il segreto di suo padre. Si vedano i Fusûs al-hikam, capp. 20 e 21, ossia Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., pp. 541-68 e il
ventitreesimo Tawhîd, in Les trente-six Attestations coraniques de
l’Unité, op. cit., pp. 150-58 (Fut.,
II,p. 416-17).
[30] “i
tratta sempre di “azioni” da Lui, per Lui e per mezzo di Lui compiute. Si è già
fatto notare come tale principio dottrinale viene significativamente
evidenziato, nell’ambito linguistico, dalla morfologia dei sostantivi derivati
dalla quinta forma verbale della radice, ossia quella che esprime la voce
medio-riflessiva.
[31] Thubût. È la condizione metafisica
dell’archetipo (‘ayn thâbita).
[32] Vedi infra, p. 142-43.
[33] Fut., II, p. 420. 17. La frase è
inserita nel trentaquattresimo Tawhîd,
e il pronome personale cui Ibn ‘Arabî si sta riferendo è Huwa, in quanto emblema dell’Ipseità onniavvolgente (al-huwiyya al-muhîta). La veridicità
della presente argomentazione garantisce valore gnoseologico assoluto alla via
negativa che si sostanzia di qualità apofatiche (nu‘ût al-salb) e dello stato finale di perplessità (hayra) iniziatica.”
[34] Tutta
la tematica, cui appartengono rilievi e prospettive piuttosto complesse, viene
ripresa nel corso del capitolo 198 delle Futûhât,
e più precisamente nella nota sezione dei 36 Tawhîd. Non essendo, evidentemente, suscettibile di facili
riassunti, si rimanda alla traduzione fornitane da Gilis: Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attestations coraniques de
l’Unité, op. cit., opera che conviene avere integralmente presente, per
poter meglio apprezzare gli argomenti in questione.
[35] Ciò
accade in conformità alla legge universale dell’analogia inversa, per cui di
necessità il punto più alto si riflette, specularmente, nel punto più basso:
nel caso presente, il principio più interiore o, meglio, quello ineludibilmente
onnipresente e onnipervadente trova il suo riflesso formale nel termine più
esteriore o, meglio, meno attualmente presente e sempre, obbligatoriamente
“altro”, secondo le percezioni logico-mentali implicate dal linguaggio.
[36]
All’interno di questo grado supremo, è possibile distinguere una moltitudine di
prospettive, ciascuna delle quali si differenzia dalle altre per l’aspetto
peculiare che ha in vista, in relazione a questa o a quella qualità
dell’Essenza. Ne è prova il fatto che, dei 36 Tawhîd menzionati nel capitolo 198, almeno una ventina sono
definiti come “facenti parte del Tawhîd
dell’Ipseità”, di cui precisano, di volta in volta, un aspetto specifico, quali
l’universalità (sa‘a), la Realtà
attuale (wujûd), l’onnicomprensività
(ihâta), la vita (hayât), l’inaccessibilità (‘izza) ecc.
[37] Ittihâd, ossia l’unione, che vale anche
come fusione e coincidenza. È l’assimilazione implicita nell’affermazione del
pronome di prima persona.
[38] Man huwa mutakallim; è la definizione
tradizionale di Anâ.
[39]
Internamente, per cui “prende il posto” dell’individualità contingente, da cui
le allocuzioni teopatiche, quale la celeberrima “Anâ al-Haqq”, “Io sono il Vero”, di Al-Hallâj, che gli sarà
fatale. Esternamente, come il Roveto ardente della storia mosaica.
[40] Anâniyya deriva da Anâ e, più precisamente, da anâna,
ossia “il fatto di dire «io»”: l’anâniyya
corrisponde poi alla natura intima dell’essere che dice “io”, ossia la natura
personale.
[41] Vedi infra, p. 144.
[42] Vedi infra, p. 164.
[43] Kitâb al-jalâla, in Rasâ’il, p. 11.
[44] Lâ ilâha illâ Anâ.
[45] Ibn
‘Arabî Le Dévoilement des effects du
voyage (K. Al-isfâr ‘an natâ’ij
al-asfâr), a c. di D. Gril, Combas, 1994, pp. 3-4. Il significato della
preposizione “da” è duplice: sia “a partire da Lui” sia “da parte Sua”, poiché
nella fase discendente l’individualità è estinta, perciò, in realtà, non vi è
che il Principio che sussiste, ossia che ritorna. Nell’apoteosi compiuta della
figura umana, è realmente Dio che vede attraverso l’occhio dell’uomo, afferra tramite
la sua mano e cammina col suo piede, com’è detto nel notissimo detto
tradizionale, in cui Dio afferma: “Il Mio servitore non si avvicina a Me con
nulla di meglio di quel che gli ho reso obbligatorio, ed egli non cessa di
avvicinarsi a Me con le opere supererogatorie fino a che Io l’ami, e quando lo
amo, Io sono l’udito con cui sente, la vista con cui vede, la mano con cui
afferra ed il piede con cui cammina”; cfr. Kalâbadhî, Il Sufismo nelle parole
degli antichi, a c. di P. Urizzi, Palermo, 2002, p. 198.
[46] Fut., II, p. 414. 18, nel commento
akbariano al diciannovesimo Tawhîd:
“Noi non abbiamo inviato prima di te alcun Inviato senza ispirargli che «Non vi
è dio se non Io» (lâ ilâha illâ Anâ)”
(Cor. 21:25). Si veda anche Ibn ‘Arabî, Les
trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 126 e segg.
[47] Fus., I, pp. 175-76 e la traduzione di
Gilis, Le Livre des Chatons des Sagesses,
op. cit., pp. 544-45.
[48] Le
parole con cui inizia il capitolo dei Fusûs
dedicato a Yahyà sono chiarissime: “Allâh lo ha chiamato Yahyà, cioè tramite
lui vive (yahyâ) il dhikr di Zakariyyâ”. La voce verbale
“vive” non si distingue dal nome del Profeta che per la grafia dell’ultima
lettera, che nel verbo è un’alif, mentre nel sostantivo è un’alif maqsûra,
vale a dire una yâ’ senza punti. Non
è senza importanza, inoltre, il fatto che il nome di Zaccaria venga scritto,
tout court, come dhikr yâ nel commento al ventitreesimo Tawhîd che analizza la nozione della
reciproca superiorità (tafâdul) fra
Profeti.
[49] Due dei
tre verbi del versetto coranico succitato iniziano con yâ’: yamûtu, “morirà” e yub‘athu, “sarà resuscitato”.
Riassumendo, la yâ’ suffissa ai
sostantivi (e ai verbi, nella sua forma -nî)
indica un pronome di prima persona singolare, mentre prefissa ai verbi
all’imperfetto (nelle due vocalizzazioni ya-
e yu-) designa la terza persona.
Sarebbe interessante, a questo punto, indagare un po’ più da vicino il
simbolismo di questa lettera in funzione dei suoi ruoli morfologici. Essa
sembra attuare il passaggio informatore (in senso discendente) dal Sé all’io,
il primo attraverso una posizione iniziale attiva e agente, nei verbi, il
secondo attraverso una posizione, invece, finale immobile e fissa, nei
sostantivi (nel qual caso, infatti, non dà adito ad ulteriori possibili distinzioni
di caso).
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