"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 29 marzo 2018

Chiara Casseler, Saggio introduttivo a Ibn ‘Arabî, Il libro del Sé divino (Kitâb al-yâ’ wa Huwa kitâb al-Huwa) - Parte 3/4


Chiara Casseler
Saggio introduttivo a Ibn ‘Arabî, Il libro del Sé divino (Kitâb al-yâ’ wa Huwa kitâb al-Huwa)
Parte 3/4


Il sillogismo.

Vi è, come abbiamo visto, ancora una terza classe di unione nuziale, elencata nel capitolo 21; a essa fa diretta allusione il Kitâb al-yâ’: “La Hâ’ è una cosa che unisce Huwa e Hiya, come il termine medio che lega le due premesse le quali sono condotte alla conclusione, poiché esse sono composte di tre [elementi]. Perciò è indispensabile il termine medio”[1] e, qualche paragrafo più tardi: “Per questo la Hâ’ è il termine medio fra Huwa e Hiya in vista della conclusione, [termine medio] che è unico e dispari”[2].
Traduciamo fard con l’espressione “unico e dispari”, poiché il termine medio è uno solo, ma siccome è il terzo elemento, dopo le due premesse, ed il tre è il primo numero dispari, ecco che il termine medio è anche dispari!
Il termine medio (al-sabab al-râbit), letteralmente “la causa o il mezzo legante”, le due premesse (al-muqaddimatâni) e la conclusione (intâj)[3] costituiscono le parti del sillogismo. È questo, in realtà, il nikâh intelligibile: il corrispondente dell’unione fisica dei due sposi è, dal punto di vista logico, il sillogismo, in cui dall’unione delle due premesse scaturisce la conclusione, grazie alla presenza in entrambi di un termine medio e comune. Quest’argomentazione è presente in molte delle pagine akbariane che trattano delle nozze e della triplicità, poiché come il corpo si fonda sulla triplicità delle dimensioni, allo stesso modo la costituzione delle prove logiche (adilla) ha come principio la triplicità[4]. Se più di una volta, a partire dallo stesso Libro del Sé divino, Ibn ‘Arabî si limita ad alludere al procedimento logico citandone solo gli elementi che lo compongono, quando invece lo nomina, gli attribuisce, di norma, il termine di dalîl (da cui il plurale adilla) che identifica il segno probante. Il principio di produzione, infatti, al livello logico, si manifesta con un valore gnoseologico certo: se viene applicata correttamente la disposizione strutturale delle parti e delle modalità che formano il sillogismo, questo non potrà che dare un esito, una conclusione autenticamente valida.
In ragione della Scienza di Dio, che conosce il risultato di ogni nikâh, poiché Egli ha la scienza di ciò che è contenuto nelle matrici (arhâm)[5], come ci annuncia la Sua Parola, il sillogismo – coito di due idee in vista del parto di una terza idea – va ascritto direttamente (nasaba) alla Sua Conoscenza (‘alà ma‘rifati-Hi)[6]. Le due premesse, grazie all’elemento comune che le unisce, partoriscono la conclusione, come i due sposi, grazie al loro amplesso, danno l’esistenza al figlio.
Questa forma logica contiene in sé un ternario autentico, vale a dire le due premesse e la conclusione, e un quaternario strutturale, ossia le due parti in cui ciascuna premessa si divide. Tuttavia questo computo è solo apparente, poiché la particolarità del sillogismo consiste nell’esistenza di un termine medio presente in entrambe le premesse: ogni sillogismo, pertanto, contiene tre elementi eterogenei più una ripetizione. È quest’ultima che collega le due premesse e permette il successivo risultato logico. L’ordinamento formalmente quaternario si risolve in un ternario effettivo. È sempre nel corso del capitolo 198 che viene illustrata la struttura (tarkîb) delle prove logiche: “Il sillogismo è sempre triplice per costituzione. Vi sono necessariamente due termini separati (mufradâni) e un legame che li unisce (jâmi‘), e questo terzo aspetto (wajh) è necessariamente presente in ciascuna delle due premesse in vista della produzione conclusiva (intâj). Si avrà sempre un [rapporto] A – B e un [rapporto] B – C, con B che si ripete (takarrara)”[7]. La ripetizione del termine medio, che permette il contatto e l’unione intelligibile fra A e C, rappresenta l’aspetto speciale (al-wajh alkhâss) del sillogismo, allo stesso modo in cui l’incontro genitale (iltiqâ’ al-farjayn) e la discesa dell’acqua prodotta dalla passione (shahwa) è l’aspetto peculiare delle nozze fisiche. A quest’atto, per essere fecondo, dev’essere propria anche una condizione speciale (shart khâss): essa consiste nel fatto che il luogo (mahall) preposto al parto accetti, senza corromperlo, il seme, e che il seme accetti l’aprirsi della forma (fath al-sûra)[8]. E lo stesso accade nel sillogismo: la sua condizione speciale è che la qualità enunciata (hukm) nella premessa maggiore abbia un’applicazione più generale, includente la causa (‘illa) delle premesse, ossia il termine medio. Solo in questo caso l’esito, chiamato anche matlûb, ossia “l’oggetto ricercato”, è veridico[9].
La ripetuta, a tratti insistita, menzione del procedimento sillogistico si spiega proprio in ragione della sua funzione all’interno della logica umana, quale simbolo che riproduce il processo creativo, il cui segreto e mistero è rappresentato dall’unione delle due premesse, e mutatis mutandis, da quella dei due poli della manifestazione universale[10]. Il principio produttore non è la dualità, non risiede nella semplice polarizzazione dell’Essenza in vista dell’esistenziazione. Accanto ai due elementi ce ne vuole un terzo, che è un movimento particolare secondo un aspetto particolare (al-haraka al-makhsûsa ‘alà al-wajh al-makhsûs)[11]: l’esistenza del principio maschile, in sé, e, accanto a quella, l’esistenza del principio femminile, in sé, non danno esito ad alcun prodotto. I due devono muoversi ed unirsi (co-ire), attraverso il movimento dell’unione sessuale (harakat al-jimâ‘), perché venga partorito un risultato[12].

Il rapporto Huwa – yâ’.


Qual è il risultato della ierogamia universale? Che cosa produce l’auto-orientazione (tawajjuh) dell’Essenza, a partire dalla Sua Ipseità, tramite la Sua Parola? Senza dubbio si dovrà rispondere che tale atto conoscitivo primordiale origina il Mondo (al-‘âlam). Oppure, dal punto di vista esattamente speculare, si dirà che l’esito non è altri che l’Uomo: l’Uomo Universale (al-insân al-kâmil), il quale è lo Spirito del Mondo (rûh al-‘âlam)[13] e il suo compendio (mukhtasar) sintetizzante e universale[14]. Ibn ‘Arabî, inoltre, mette in luce la qualità di essere totalizzante (kawn jâmi‘) esclusiva all’Uomo proprio nella prospettiva della sua filiazione: “L’Uomo è il figlio generato (mutawallid) dal Cielo e dalla Terra, i quali sono per lui come suo padre e sua madre”[15]. L’emblema simbolico di quest’unione nuziale e del suo prodotto è, precisamente, l’unione del 5 (numero terrestre) e del 6 (numero celeste), ossia della hâ’ iniziale e della wâw finale. La somma di tale congiungimento è 11[16], che corrisponde da un lato al valore numerico di Huwa, dall’altro a quello del nome della lettera yâ’. L’esito del movimento gnoseologico che l’Essenza compie da Se stessa su Se stessa non produce altro che Huwa, Egli, il Sé. Si tratta, in ultima analisi, di un processo di polarizzazione, se vogliamo di specularizzazione, nell’ambito di una Riflessione suprema, ciò che viene limpidamente palesato nella forma dei termini come tajallî, “auto-manifestazione” e tawajjuh, “auto-orientazione” i quali hanno precisamente valore riflessivo. Poiché, in realtà, non esiste che il Sé, e l’Identità suprema, in definitiva, è sempre quella dell’Essenza con Se stessa, del Sé con Se stesso: Huwa Huwa[17]. Affermare l’identità dell’Essenza con Se stessa non significa, d’altro canto, esaurirne la conoscenza; anzi, tale identità non comunica nulla, se non l’ignoranza sulla sua essenza, o, meglio, l’impossibilità d’attingervi. Si tratta dell’aspetto proprio, esclusivo del Tawhîd divino, ab intra. Ab extra, invece, l’esito logico di Huwa Huwa è l’Ipseità onnipervadente (huwiyya sâriyya): il Sé rappresenta il principio e la ragion d’essere di ogni realtà, in cui è perciò attualmente presente, pur non limitandosi a coincidere identicamente con ogni essere, ciò che varrebbe come contraddizione panteistica, come pura impossibilità metafisica. Quest’aspetto dottrinale ha il suo esatto corrispondente, nell’ambito della grammatica sacra, dal momento che Huwa riveste, sintatticamente, la funzione specifica di copula e sostituisce tout court il verbo “essere”. A livello linguistico-espressivo, il termine Huwa è realmente onnipresente e onnipervadente. Ed è con le seguenti parole che lo Shaykh al-Akbar si esprime, al riguardo, agli inizi del Kitâb al-yâ’: “Perciò Huwa rimane, sotto ogni aspetto, né conosciuto, né raggiunto, né contemplato, né alluso. Non vi è sé se non Huwa e ciò che altro da Huwa, lo è nell’Io, nel Tu e nelle loro sorelle. Sia lode a Colui che ha nobilitato il Discorso divino diretto per mezzo del Sé, e ha portato questo Discorso in mezzo alle altre facoltà di discernimento. Non vi è divinità se non Lui (Huwa). E grazie all’onnipervasione (sarayân) del Sé negli esseri creati, giacché ad essi non appartiene alcuna esistenza (wujûd) se non per mezzo del Sé, e ad essi non appartiene alcuna sussistenza (baqâ’) dopo l’esistenza se non per mezzo del Sé, tutto ciò che è dopo il Sé diviene un sostituto[18] di Huwa ed un’apposizione esplicativa[19], intendo che si unisce a lui per illustrare i gradi che appartengono a Huwa, ma che non sono Huwa. Il Sé permane nella Sua sintesi indifferenziata (ijmâl) e nella Sua gloriosa inaccessibilità (‘izza)”[20].
Se, finora, non possiamo che dire che Huwa è Huwa, e basta, è altrettanto vero, tuttavia, che Huwa è anche qualcos’altro, o meglio, che Huwa può trovare un equivalente in qualcosa che non è semplicemente se stesso: è questo il ruolo della yâ’. La yâ’, abbiamo visto, ha valore numerico identico a Huwa, dunque sotto quest’aspetto è identica a Huwa, eppure non è identica a Huwa in quanto a forma grafica, fonazione e funzione, le quali, anzi, ne sono eterogenee. Nell’essenza identica a Huwa, la yâ’ ne è un’espressione, in sé differente. Ma che cos’è la yâ’? E qual è il fondamento simbolico che determina il suo ruolo straordinario, quello che Ibn ‘Arabî designa come “un potere immenso (sultân ‘azîm), al quale nessuno può avvicinarsi, senza che esso eserciti il suo comando su costui”[21]?
La yâ’ ha la funzione di metonimia, di espressione simbolica di Huwa, la terza persona divina. Essa però non viene considerata semplicemente in quanto lettera dell’alfabeto, bensì come pronome suffisso di prima persona singolare: vocalizzata in “i”, e dunque diventata lunga: , essa si suffigge ai sostantivi, assumendo il valore dell’aggettivo possessivo “mio”. Se suffissa ai verbi, la yâ’ viene preceduta da una nûn – chiamata “nûn di difesa” – divenendo -nî, col significato di “me” e “mi”. È per questo che Ibn ‘Arabî può scrivere che la yâ’ “è intermedia fra Anâ [ossia Io] e Huwa”, poiché dal punto di vista dottrinale è un’indicazione allusiva (ishâra) di Huwa, ma al contempo – sia metafisicamente sia grammaticalmente – è espressione diretta della prima persona divina. La yâ’, dunque, è kinâya di Huwa. La kinâya è un modo metaforico dal valore cognitivo, è un traghetto che conduce dal “di qua” formale ed individuale della yâ’ al “di là” sovraformale e trascendente di Huwa. La yâ’ del pronome suffisso è, anzi, secondo Ibn ‘Arabî, l’unica metafora che avvicini autenticamente a Huwa. L’identità dei due termini (data, in primo luogo, dal medesimo valore numerico) permette di attuare uno slittamento inespresso dall’ambito della terza persona a quello della prima persona, senza che il referente autentico (e unico) muti o cambi. La yâ’ rappresenta lo specchio di Huwa in ogni essere: in altre parole, è il riflesso del Sé dell’Ipseità nell’individualità, ciò che produce la distinzione personale[22]. La yâ’ è allora un’ishâra dell’Identità suprema, quando la prima persona è quella della Personalità divina, identità che è di fatto sempre quella di Lui stesso con Se stesso: “Per questo Egli dice di Se stesso innî, «in verità Io» e non dice «Huwa»: inna fa in modo di realizzare la yâ’, e la yâ’ è un Discorso divino diretto (fahwâniyya) che appartiene all’Unità”[23]. Nel già citato capitolo 333 delle Futûhât, Ibn ‘Arabî fa menzione dello “Spirito divino della yâ’” (rûh ilâhî yâ’î): “Lo Spirito della yâ’ rimanda (ja‘ala) all’essere (wujûd) dello Spirito stesso (‘ayn al-rûh) il quale è la Parola del Vero insufflata nella natura”[24].
Vi è ancora un aspetto che va segnalato: alla yâ’ in quanto pronome personale suffisso viene attribuito un “potere immenso”, chiamato ta’thîr, vale a dire la capacità di produrre un influsso, una traccia visibile. Essa ha la proprietà, infatti, di annullare la vocalizzazione finale del sostantivo cui si suffigge, eliminando quindi le differenze morfologiche che distinguono i tre casi della declinazione, riducendoli tutti all’identità con se stessa: kitâb-î, “il mio libro”, sarà l’unica forma esistente, a prescindere dalla funzione sintattica del termine. Potremmo definire, allora, quello della yâ’ come un potere riduttore, e precisamente di riduzione all’unità (poiché una sola è la vocalizzazione che rimane). La yâ’ della prima persona realizza il riassorbimento nell’unità autentica della molteplicità illusoria. E come la yâ’ (che vale 11) è una metonimia di Huwa (che vale 11), così Huwa è una metonimia dell’Unità essenziale (ahadiyya) [che è, ovviamente, 1] la quale non è altro che l’Essenza incondizionata: “Sappiate che Huwa implica la yâ’ più di ogni altra metonimia, giacché Huwa vale 11, ossia è il nome dell’Unità (ahadiyya). Ora, l’Unità richiede l’uno, e ciò che rimane è il 10. Ma Huwa non ha il valore di 10, perciò è indispensabile la yâ’[25]. Per questo Egli dice di Se stesso innî, «in verità Io» e non dice «Huwa»: inna fa in modo di realizzare la yâ’, e la yâ’ è un Discorso divino diretto (fahwâniyya) che appartiene all’Unità”[26].
Nel Kitâb al-alif troviamo l’allusione alla medesima opera di reintegrazione essenziale nell’unità, a partire dal principio rappresentato dalla lettera alif, la quale ha il valore numerico di 1 e il cui grafema è un tratto verticale: “L’alif pervade tutti i luoghi di articolazione delle lettere come l’uno pervade tutti i gradi dei numeri[27]. Perciò abbiamo intitolato questo libro “Il Libro dell’Alif”, che è l’Asse immutabile di tutte le lettere (qayyûm al-hurûf)”[28]. Hurûf, che deriva da una radice che esprime la nozione di limite, indica le condizioni limitative degli esseri e degli archetipi. Perciò l’alif principiale è immagine dell’Asse del Mondo che governa e informa tutti i piani dell’esistenza universale. Viene ad essere, in altre parole, un’immagine del Sé.
E subito dopo le parole akbariane portano a un accostamento con la trattazione del Kitâb al-yâ’: “Assomigliano all’alif, in quanto ad onnipervasione (sarayân) sia la wâw vocalizzata da una precedente «u» [ossia la «û»], sia la yâ’ vocalizzata da una precedente «i» [ossia la «î»]”[29].

I pronomi della Persona divina.


Non è difficile comprendere, dalle nozioni appena esposte, che nel testo il Sé non viene considerato puramente nello stato supremo di non-manifestazione, ossia “all’interno” della Sua Ipseità, poiché, a buon diritto, di ciò è metafisicamente impossibile parlare. Del Sé, dunque, è possibile affermare qualcosa solo nella prospettiva delle Sue successive auto-manifestazioni o teofanie, le quali si possono verificare secondo differenti modalità di esteriorizzazione[30]. Questi momenti epifanici peculiari trovano il loro pieno simbolismo applicato nell’ambito della linguistica sacra: vi è, infatti, all’interno della lingua, una classe di termini che esprime, più compiutamente delle altre, le qualità inerenti ad una manifestazione, secondo vari livelli, del Sé, del Principio unico e immutabile. Tale classe è quella dei pronomi personali (mudmarât o damâ’ir), i quali, con la loro stessa struttura, simboleggiano in una maniera più pertinente dei sostantivi, dei quali fanno parte anche i Nomi divini, la qualità dell’immutabilità metafisica, mai inficiata da alcuna condizione contingente. I sostantivi, infatti – e quindi anche tutti i Nomi divini, fino ad “Allâh” – si declinano, ossia subiscono un mutamento desinenziale per l’influsso che l’ambiente circostante esercita su di loro. Non così i pronomi: essi, infatti, sono indeclinabili.
L’indeclinabilità dei pronomi coincide con “l’immutabilità[31] e l’inalterabilità. Perciò [i pronomi] spettano per diritto ontologico (istahaqqat) alla funzione di Divinità (ulûhiyya), in misura ancora maggiore dei Nomi. […] Quanto ai sostantivi, essi sono sottoposti ad alterazione in base alla differenza delle necessità e dei gradi. I nomi non riescono a difendersi come si difendono i pronomi”[32].
Secondo un altro aspetto non meno importante, poi, l’efficacia fondante del pronome personale si autentica nel fatto che esso “riconduce necessariamente ad una realtà confermata (amr muqarrar)”[33]. Il corretto uso grammaticale del pronome in arabo prevede, infatti, che esso venga usato solo dopo che, nel testo, si sia menzionato esplicitamente il suo referente, e la sua presenza di norma avviene in modo tale che l’attribuzione della sua identità sia inequivocabile. Traslare tutto ciò nel campo metafisico significa affermare e realizzare l’Identità Suprema, il Tawhîd dell’Ipseità: poiché il referente di Huwa è la Huwiyya, è l’Essenza assoluta.
Lo Shaykh al-Akbar si sofferma brevemente, nel corso del Kitâb al-yâ’, sulla funzione dottrinale di alcune delle forme pronominali, e in particolare su Huwa, in primo luogo, che, com’è noto, esprime la terza persona singolare (maschile), poi Anâ, “Io” e Anta “Tu”, dunque, rispettivamente la prima e la seconda persona singolare[34]. In tutti i casi, però, il referente di tali diversi pronomi, il Nominato, se vogliamo, è unico, e la pluralità delle voci pronominali non corrisponde ad altro che a una pluralità di modi epifanici dell’una e unica Personalità divina, ciascuno dei quali ha luogo in un determinato grado.
Il grado più elevato e sublime è quello di Huwa, poiché è caratterizzato dalla qualità suprema dell’Ipseità, ossia dell’Essenza. Huwa incarna, per così dire, la realtà incondizionata e inaccessibile. Tale nozione costituisce il fondamento metafisico dell’apparente paradosso, che vede nel pronome dell’assente la manifestazione dell’irrinunciabile Principio di ogni realtà, a qualsiasi livello. Se, nell’apparenza dettata dall’ordinarietà dell’uso, Huwa rappresenta il grado dell’assenza, tanto che la terza persona prende il nome, in arabo, dell’assente (al-ghâ’ib), in realtà Huwa è il simulacro dell’Essenza Suprema incondizionata, al di là di qualsivoglia demarcazione o concettualizzazione possibile[35]. Huwa rappresenta il grado dell’arcano, misterioso e segreto, della Personalità divina[36], e ciò secondo due rapporti universali. Da un lato Huwa rappresenta il Sé supremo e assoluto, l’Essenza incontaminata e libera da ogni relazione (dhât mutlaqa), in altre parole la realtà dell’Ipseità trascendente (huwiyya khâlisiyya); dall’altro lato, Huwa designa la Realtà essenziale non manifestata che penetra e sostanzia l’esistenza – di cui un principio corrispondente è la Realtà muhammadiana (Haqîqa muhammadiyya) – e che in relazione all’Essenza prende il nome di Ipseità onnipervadente (huwiyya sâriyya), in certo modo “immanente”.
Ibn ‘Arabî mette in guardia dall’attribuire questo, che è il grado più elevato, a quello di cui è foriero Anâ, ossia dal confondere l’epifania della prima Persona divina con la condizione realizzativa più nobile. L’errore nasce dalla considerazione, congetturale, che Anâ sia “la più nobile delle metonimie, per via dell’unificazione (ittihâd)”[37]. Ma, in realtà, l’unificazione non è possibile, ossia non è logicamente sostenibile, dal momento che Anâ implica di per sé sempre distinzione ed esclusività: esplicitare una nozione rigorosamente soggettiva, rinviandola a sé stessi, in quanto “colui il quale sta parlando”[38] equivale a separare, per ciò stesso, colui che parla e, perlomeno, la realtà circostante, ossia il soggetto parlante e l’oggetto di cui questi fa parola. La smentita akbariana è, perciò, incontrovertibile: il grado della prima persona è del tutto esclusivo, dunque o designa unicamente l’io individuale della creatura oppure l’Io divino che si manifesta in un supporto creaturale[39], annientando per ciò stesso l’autocoscienza di quest’ultimo. “Essi non sanno che l’unificazione è assolutamente impossibile e che il significato che ti risulta da ciò che tu intendi con «unificazione» è «chi dice Io». Non c’è, quindi, unificazione, giacché il parlante (alnâtiq), rispetto a te, non è Anta, «Tu». Tu, infatti, dici Anâ, perciò Anta non c’è. Tu non puoi fare a meno di dire «Io», o attraverso la tua egoità (bi-anâniyyati-ka)[40] oppure attraverso la Sua egoità (bi-anâniyyati-hi). Se tu dici «Io» attraverso la tua egoità, allora tu non sei Lui. Se tu parli attraverso la Sua egoità, allora non sei tu che parli, ma è Lui (Huwa) che dice “Io” attraverso la Sua egoità. Sicché, in ogni modo, non c’è nessuna unificazione, né per la via del significato né per la via della forma, poiché per i sapienti chi parla è – immancabilmente – Anâ: o conosce Huwa oppure no”[41]. Lungi dal verificare un’identificazione o un’assimilazione, il grado iniziatico di Anâ realizza, attraverso il consueto, esteriore ossimoro, la totale alterità: la differenza che separa il “me” individuale e il “Me” principiale, alla luce dell’incommensurabilità fra finito contingente e Infinito necessario, si traduce in vera e propria inconciliabilità di statuto (tanâqud al-hukm)[42].
Nel Libro dedicato al Nome “Allâh” Ibn ‘Arabî non manca di chiarire che Anâ è un grado apparente, esteriore (zâhir) di Huwa[43], dal momento che comporta un livello epifanico in qualche modo esterno, inserito nella contingenza. Dal punto di vista teofanico, la nozione di anâniyya comporta una discesa (inzâl) del Sé nel piano d’esistenza umano, per cui “l’innesto”, per così dire, del Sé, in certe condizioni particolari, della manifestazione origina il “me”, ossia l’individualità, la coscienza individuale. La prima Persona divina o, più precisamente, il Tawhîd dell’Ego (anâna) che essa implica, va inserito, di riflesso, in una prospettiva di realizzazione discendente. In effetti, il primo Tawhîd dell’Ego è quello del versetto coranico che menziona la discesa degli Angeli sui Profeti e sugli Inviati: “Egli fa scendere gli Angeli con lo Spirito, procedente dal Suo Ordine, su chi Egli vuole fra i Suoi Servi: «Ammonite che non vi è Dio se non Me[44]. Perciò siate timorosi!»” (Cor. 16:2). Nell’ambito della realizzazione iniziatica discendente, cui Ibn ‘Arabî dà il nome di “ritorno” (rujû‘) alle creature oppure di “viaggio da Lui” (safar min ‘indi-hi)[45], il simbolismo superiore di Anâ, ossia colui che parla, rimanda alla funzione del Profeta, che non solo parla “in nome di”, ma anche dalla bocca del quale è Dio stesso a parlare. Il Profeta è, infatti, e lo strumento e il ricettacolo immediato di un’epifania: “Il fatto che questo [tipo di] ispirazione (wahy) vada riferita, in modo particolare, alla natura di Anâ (anâyya) indica che si tratta di un Verbo divino (kalâm ilâhî) con la soppressione di ogni intermediario”[46].
La differenza di prospettiva dottrinale evocata da Anâ e Huwa dà luogo a una considerazione di superiorità e pre-eccellenza reciproca: nei Fusûs al-hikam[47], lo Shaykh al-Akbar evidenzia tale sottile e complessa distinzione a partire dai due versetti coranici che contengono i due saluti di pace indirizzati, da parte divina, uno a Gesù e l’altro a Yahyà (Giovanni). Se Gesù si esprime in prima persona: “Pace su di me (‘alayyà) il giorno in cui fui generato, il giorno in cui morirò e il giorno in cui sarò resuscitato come vivo (hayyan)!” (Cor. 19:33), circa Yahyà, invece, viene riportata una parola alla terza persona singolare: “La Pace sia su di lui (‘alay-hi) il giorno in cui fu generato, il giorno in cui morirà e il giorno in cui sarà resuscitato come vivo (hayyan)!” (Cor. 19:15). Le parole di Gesù sono più perfette dal punto di vista dell’unificazione (akmal fî ’littihâd) – che va interpretata come la presenza della manifestazione teofanica senza intermediario individuale, mentre quelle di Yahyà sono più perfette dal punto di vista dell’unione e del credo (akmal fî ’l-ittihâd wa-’l-i‘tiqâd). Queste ultime rappresentano cioè un grado unitivo più eccellente, poiché rimandano, grazie alla terza persona di Huwa, alla realtà metafisica dell’Ipseità, con meno possibilità d’interpretazioni erronee o d’ambiguità. La maggior perfezione di Yahyà rispetto a Gesù, in questa visione, viene inoltre simboleggiata dall’epiteto esoterico di dhikr yâ’, “il ricordo-menzione della yâ’” con cui viene designato (e cui viene fatto equivalere il nome di) Zaccaria. Essendo Yahyà il figlio di Zaccaria, egli è, dunque l’interiore del dhikr yâ’, ne è lo strumento vivificante, come vuole il suo stesso nome[48]. Tutto ciò sarà più chiaro ancora se si ha presente che la yâ’ è, morfologicamente, il prefisso del verbo di terza persona, all’imperfetto[49]. Il grado di Yahyà, alla luce di quanto esso rivela del dhikr yâ’, sembra inerire direttamente a Huwa.




[1] Vedi infra, p. 149.
[2] Vedi infra, p. 157.
[3] Dalla radice NTJ, “partorire, figliare”.
[4] Fut., III, p. 676. 5.
[5] Ossia gli uteri (Cor. 31: 34).
[6] Fut., II, p. 412. 28. Si tratta sempre del sedicesimo Tawhîd.
[7] Fut., II, p. 440. 25.
[8] Fut., I, p. 170. 12.
[9] Kitâb al-alif, pp. 11-12; Fut., I, pp. 170-71; II, 412-13. Sull’inclusione delle classi, su cui riposa il ragionamento sillogistico, vedi anche Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 107-08. Sarebbe interessante, a questo punto, indagare a proposito delle possibili analogie riscontrabili fra il sillogismo e la nozione della sezione aurea, sulla base della proporzione che la esprime (A : B = B : C), e del fatto che sia B che C sono contenuti in A…
[10] Le nozze sono coranicamente designate come un segreto (sirr) in Cor 2:235. Quanto al trait d’union simbolico fra la manifestazione e il segreto, si pensi al fatto che l’assise di al-Rahmân avviene su un Trono, che è ‘arsh, ma anche sarîr, che in arabo deriva dalla stessa radice SRR di sirr, e può, anzi, significare anche “cosa nascosta”.
[11] Kitâb al-alif, p. 11.
[12] Si veda anche Ibn ‘Arabî, Le livre du Mîm, du Wâw et du Nûn, op. cit., pp. 44-45. Per la trattazione di tutti questi aspetti connessi, rimandiamo inoltre all’undicesimo capitolo dei Fusûs al-hikam, che, evidentemente, non possiamo qui riassumere: esso illustra alcune particolarità della Saggezza “delle aperture” (futûhiyya) propria al Profeta arabo Sâlih (va notato che anche nel Kitâb al-yâ’ viene dato particolare risalto, in un modo o nell’altro, alla nozione di fath, “l’apertura”). Vi sono menzionate, in stretta correlazione, le aperture dei Suoi Misteri (futûh ghuyûbi-Hi), con un’indicazione allusiva alla Sua Ipseità, e la qualità della singolarità (fardiyya), identificata al ternario (tathlîth), in quanto radice della manifestazione (asl al-takwîn), col rimando al già citato versetto del Kun (Cor. 16:40). E, cosa non meno importante, ancora una volta viene illustrato il simbolismo del sillogismo come prova logica. Si veda Ibn ‘Arabî, Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., pp. 293-309.
[13] In questa prospettiva, se l’Uomo è lo Spirito del mondo, il mondo in sé corrisponde ad un corpo (jasad); Fut., II, pp. 67, 468; III, p. 363.
[14] Fut., I, p. 153. 23: “L’Uomo è il Compendio (mukhtasar) [del mondo] nella qualità corporea (jirmiyya) e ne è il corrispondente (mudâhî) nel principio spirituale (ma‘nà)”.
[15] Fut., I, p. 125. 31. Vedere anche R. Guénon, La Grande Triade, op. cit., cap. IX Il Figlio del Cielo e della Terra; P. Grison, La lumière et le boisseau, Paris, 1986, capp. 2, 6.
[16] Si tratta di un’altra espressione dell’Identità suprema, poiché, in verità, “il figlio (walad) è il segreto (sirr) di suo padre”, in Fus., I, p. 66 – ed è per questo motivo che “il figlio (walad) anela di nostalgia (hanna hanîn) per suo padre”, Fut., III, p. 125. 16. Sul valore simbolico del numero undici, considerato come emblema dell’Uomo universale, vedi R. Guénon, La Grande Triade, op. cit., cap. VIII e L’Esoterismo di Dante, Roma, 1976, cap. VII. Sull’importanza del simbolismo del numero 11 in Dante e nei Fedeli d’Amore, cfr. N. D’Anna, La Sapienza nascosta. Linguaggio e simbolismo in Dante, Roma, 2001, pp. 84-85.
[17] Vedi Fut., cap. 72 citato in C. A. Gilis, Lo Spirito universale dell’Islam, op. cit., p. 45; Qaysarî, La scienza iniziatica, pp. 60-61. Si noti come l’espressione Huwa Huwa contenga la ripetizione del numero 11, a formare il totale di 22, un altro numero simbolico di non trascurabile importanza.
[18] Badal, qui usato anche in riferimento al suo significato grammaticale di “permutativo”, che corrisponde, in linea generale, alla funzione di un’apposizione.
[19] ‘Atf al-bayân è un’altra espressione tecnica dell’analisi grammaticale.
[20] Vedi infra, p. 136.
[21] Vedi infra, p. 139.
[22] In termini indù, si tratta del riflesso dello Spirito universale (Âtmâ) nello spirito di vita (jîvâtmâ) reggitore di ogni essere individuale. Si veda, ad esempio, Bhagavadgîtâ con il commento di Srî Sankâracârya, a c. di G. Marano, Milano, 1997, in particolare pp. 261 e segg.; R. Guénon, Studi sull’Induismo, cap. I Âtmâ-Gîtâ; M. M. Lenzi, Il segreto richiamo. Figura, funzione e simulacro del Maestro spirituale, Rimini, 2003, pp. 41-43.
[23] Vedi infra, p. 147.
[24] Fut., III, p. 125. 15.
[25] Perché il valore numerico della lettera yâ’ è precisamente 10.
[26] Vedi infra, p. 147. Si ricordi, a tale proposito, che Dante identifica precisamente il Nome divino primordiale, usato da Adamo nello stato edenico, con “I” (Par. XXVI, 133-35). Cfr. N. D’Anna, La Sapienza nascosta. Linguaggio e simbolismo in Dante, Roma, 2001, cap. 6.
[27] Ogni numero viene originato, sotto questo aspetto, dalla ripetizione dell’unità per se stessa; allo stesso modo, il valore numerico di 11 non è altro che l’unità ripetuta.
[28] Kitâb al-alif, in Rasâ’il, p. 12.
[29] Ibidem. Lo speciale rapporto di continuità che lega la yâ’ all’alif trova espressione, nella grammatica sacra, nella forma particolare dell’alif chiamata maqsûra, “accorciata” o “ristretta”: essa ha luogo solo in finale di parola, e coniuga il grafismo della yâ’ (senza i due punti diacritici sottostanti) alla vocale breve «a», e, di fatto, come tale va pronunciata. Ancora, è opportuno riconoscere che il simbolismo della lettera yâ’ non si esaurisce certamente con quanto detto: esso, anzi, è suscettibile di una serie di sviluppi notevolissimi e sottili, i quali vanno a toccare, tra le altre, le figure profetiche di Yahyà (Giovanni) e Zakariyyâ (Zaccaria). Il nome di quest’ultimo viene identificato, da Ibn ‘Arabî, all’espressione dhikr yâ’, ossia “l’incantazione” – che è allo stesso tempo “menzione” e “ricordo” – della yâ’. La yâ’ è, metonimicamente, l’iniziale di Yahyà, il figlio di Zaccaria che “vivifica” (è questo il significato del nome Yahyà) suo padre: il figlio è, infatti, il segreto di suo padre. Si vedano i Fusûs al-hikam, capp. 20 e 21, ossia Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., pp. 541-68 e il ventitreesimo Tawhîd, in Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 150-58 (Fut., II,p. 416-17).
[30] “i tratta sempre di “azioni” da Lui, per Lui e per mezzo di Lui compiute. Si è già fatto notare come tale principio dottrinale viene significativamente evidenziato, nell’ambito linguistico, dalla morfologia dei sostantivi derivati dalla quinta forma verbale della radice, ossia quella che esprime la voce medio-riflessiva.
[31] Thubût. È la condizione metafisica dell’archetipo (‘ayn thâbita).
[32] Vedi infra, p. 142-43.
[33] Fut., II, p. 420. 17. La frase è inserita nel trentaquattresimo Tawhîd, e il pronome personale cui Ibn ‘Arabî si sta riferendo è Huwa, in quanto emblema dell’Ipseità onniavvolgente (al-huwiyya al-muhîta). La veridicità della presente argomentazione garantisce valore gnoseologico assoluto alla via negativa che si sostanzia di qualità apofatiche (nu‘ût al-salb) e dello stato finale di perplessità (hayra) iniziatica.”
[34] Tutta la tematica, cui appartengono rilievi e prospettive piuttosto complesse, viene ripresa nel corso del capitolo 198 delle Futûhât, e più precisamente nella nota sezione dei 36 Tawhîd. Non essendo, evidentemente, suscettibile di facili riassunti, si rimanda alla traduzione fornitane da Gilis: Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., opera che conviene avere integralmente presente, per poter meglio apprezzare gli argomenti in questione.
[35] Ciò accade in conformità alla legge universale dell’analogia inversa, per cui di necessità il punto più alto si riflette, specularmente, nel punto più basso: nel caso presente, il principio più interiore o, meglio, quello ineludibilmente onnipresente e onnipervadente trova il suo riflesso formale nel termine più esteriore o, meglio, meno attualmente presente e sempre, obbligatoriamente “altro”, secondo le percezioni logico-mentali implicate dal linguaggio.
[36] All’interno di questo grado supremo, è possibile distinguere una moltitudine di prospettive, ciascuna delle quali si differenzia dalle altre per l’aspetto peculiare che ha in vista, in relazione a questa o a quella qualità dell’Essenza. Ne è prova il fatto che, dei 36 Tawhîd menzionati nel capitolo 198, almeno una ventina sono definiti come “facenti parte del Tawhîd dell’Ipseità”, di cui precisano, di volta in volta, un aspetto specifico, quali l’universalità (sa‘a), la Realtà attuale (wujûd), l’onnicomprensività (ihâta), la vita (hayât), l’inaccessibilità (‘izza) ecc.
[37] Ittihâd, ossia l’unione, che vale anche come fusione e coincidenza. È l’assimilazione implicita nell’affermazione del pronome di prima persona.
[38] Man huwa mutakallim; è la definizione tradizionale di Anâ.
[39] Internamente, per cui “prende il posto” dell’individualità contingente, da cui le allocuzioni teopatiche, quale la celeberrima “Anâ al-Haqq”, “Io sono il Vero”, di Al-Hallâj, che gli sarà fatale. Esternamente, come il Roveto ardente della storia mosaica.
[40] Anâniyya deriva da Anâ e, più precisamente, da anâna, ossia “il fatto di dire «io»”: l’anâniyya corrisponde poi alla natura intima dell’essere che dice “io”, ossia la natura personale.
[41] Vedi infra, p. 144.
[42] Vedi infra, p. 164.
[43] Kitâb al-jalâla, in Rasâ’il, p. 11.
[44] Lâ ilâha illâ Anâ.
[45] Ibn ‘Arabî Le Dévoilement des effects du voyage (K. Al-isfâr ‘an natâ’ij al-asfâr), a c. di D. Gril, Combas, 1994, pp. 3-4. Il significato della preposizione “da” è duplice: sia “a partire da Lui” sia “da parte Sua”, poiché nella fase discendente l’individualità è estinta, perciò, in realtà, non vi è che il Principio che sussiste, ossia che ritorna. Nell’apoteosi compiuta della figura umana, è realmente Dio che vede attraverso l’occhio dell’uomo, afferra tramite la sua mano e cammina col suo piede, com’è detto nel notissimo detto tradizionale, in cui Dio afferma: “Il Mio servitore non si avvicina a Me con nulla di meglio di quel che gli ho reso obbligatorio, ed egli non cessa di avvicinarsi a Me con le opere supererogatorie fino a che Io l’ami, e quando lo amo, Io sono l’udito con cui sente, la vista con cui vede, la mano con cui afferra ed il piede con cui cammina”; cfr. Kalâbadhî, Il Sufismo nelle parole degli antichi, a c. di P. Urizzi, Palermo, 2002, p. 198.
[46] Fut., II, p. 414. 18, nel commento akbariano al diciannovesimo Tawhîd: “Noi non abbiamo inviato prima di te alcun Inviato senza ispirargli che «Non vi è dio se non Io» (lâ ilâha illâ Anâ)” (Cor. 21:25). Si veda anche Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 126 e segg.
[47] Fus., I, pp. 175-76 e la traduzione di Gilis, Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., pp. 544-45.
[48] Le parole con cui inizia il capitolo dei Fusûs dedicato a Yahyà sono chiarissime: “Allâh lo ha chiamato Yahyà, cioè tramite lui vive (yahyâ) il dhikr di Zakariyyâ”. La voce verbale “vive” non si distingue dal nome del Profeta che per la grafia dell’ultima lettera, che nel verbo è un’alif, mentre nel sostantivo è un’alif maqsûra, vale a dire una yâ’ senza punti. Non è senza importanza, inoltre, il fatto che il nome di Zaccaria venga scritto, tout court, come dhikr nel commento al ventitreesimo Tawhîd che analizza la nozione della reciproca superiorità (tafâdul) fra Profeti.
[49] Due dei tre verbi del versetto coranico succitato iniziano con yâ’: yamûtu, “morirà” e yub‘athu, “sarà resuscitato”. Riassumendo, la yâ’ suffissa ai sostantivi (e ai verbi, nella sua forma -nî) indica un pronome di prima persona singolare, mentre prefissa ai verbi all’imperfetto (nelle due vocalizzazioni ya- e yu-) designa la terza persona. Sarebbe interessante, a questo punto, indagare un po’ più da vicino il simbolismo di questa lettera in funzione dei suoi ruoli morfologici. Essa sembra attuare il passaggio informatore (in senso discendente) dal Sé all’io, il primo attraverso una posizione iniziale attiva e agente, nei verbi, il secondo attraverso una posizione, invece, finale immobile e fissa, nei sostantivi (nel qual caso, infatti, non dà adito ad ulteriori possibili distinzioni di caso).

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