Chiara Casseler
Saggio introduttivo a Ibn ‘Arabî, Il libro del Sé divino
(Kitâb al-yâ’ wa Huwa kitâb al-Huwa)
Parte 4/4
Giona e la teofania del “Tu”.
Quanto alla seconda Persona divina, designabile col pronome Anta, “Tu”, essa sembra indicare una manifestazione teofanica di tipo complementare rispetto a quella della prima Persona. Visti l’uno in rapporto all’altro, Anâ evoca una modalità interiore e Anta, al contrario, una modalità esteriore[1]
Così, Ibn ‘Arabî scrive che “Anta è quanto di più lontano ci sia da Huwa”, poiché questo modo epifanico ha luogo quando Anâ sussiste simultaneamente alla manifestazione (zuhûr) di Huwa[2], ossia quando il velo e le condizioni limitative del piano d’esistenza individuale insistono nel loro effetto, nonostante il rivelarsi di Huwa. Nel Kitâb al-yâ’, Ibn ‘Arabî sottolinea la relazione di dipendenza esistente fra Anta e la manifestazione: “Quanto ad Anta, l’esistenza (wujûd) lo esige”[3]. È possibile intravedere, allora, una coppia di rapporti di reciproca implicazione, la prima fra Anâ e Anta, la seconda fra Anta e il wujûd: “Quanto ad Anta, è più difficile di Anâ e più spessamente velato, questo poiché Anta si rivela teofanicamente (yatajallà) solo nella forma della scienza. Perciò Anta viene ignorato, se non è secondo la forma della scienza di colui cui si rivela teofanicamente: si tratta di una Stazione pericolosa, giacché Anâ trae la sua permanenza da questa Stazione e, se non fosse per Anâ, Anta non permarrebbe: Huwa da Anta viene escluso e colui dal quale viene escluso Huwa, si tema per lui”[4].
La teofania di Anta è correlata, obbligatoriamente, ad uno statuto di esteriorità, in certo modo anche di “estraneità”, poiché non può prescindere dalla permanenza contemporanea di un soggetto, come tale cosciente. Ed è a causa di questa condizione di dualità, la quale appartiene sempre, in ultima analisi, ad un dominio estrinseco, che il modo epifanico del “Tu” ha bisogno della garanzia di una controparte equilibratrice che possa farlo risalire alla purezza essenziale della corretta prospettiva metafisica, unificante. Lo Shaykh al-Akbar avverte, infatti, che si tratta di una Stazione spirituale insidiosa, di un luogo spirituale che può ingannare. Il garante che può tutelare è, allora, la trascendenza (tanzîh), che trova motivo d’essere solo in un ordine esterno, se vogliamo cosmico, ossia in un livello che ha bisogno d’esser superato: “Colui il cui gusto iniziatico è quello dell’Anta ha bisogno di far propria la trascendenza (tanzîh) in modo da non prendere forma, e così elevarsi dal grado dell’Immaginazione (khayâl), per poi contemplare tutti i gradi del Cosmo Invisibile[5]. In verità, quanto a Huwa “niente è simile a Lui” (Cor. 42:11); allora la teofania dell’Anta gli si concede”[6].
Anta comporta un maggior grado di velamento, un maggiore spessore distanziante: è, infatti, “più spessamente velato” (akthaf hijâban), come si legge nel passo appena citato. La nozione di velo e nascondimento caratterizza la definizione dell’unico Tawhîd coranico corrispondente, vale a dire le parole pronunciate da Giona (Yûnus): “E quello della Nûn, giacché se ne andò, in collera, e ritenne che non avremmo potuto [nulla] contro di lui, invocò nelle tenebre (zulumât): «Non vi è dio se non Tu! (lâ ilâha illâ Anta). Sia gloria a Te! In verità io (innî) sono degli ingiusti (zâlimîn)»” (Cor. 21:87). “Questo è il Tawhîd dell’afflizione, cioè il Tawhîd della seconda persona[7], ed è il Tawhîd del sollievo (tanfîs)”, secondo le parole del capitolo 198[8], e quest’affermazione è oltremodo significativa se si tiene a mente che il termine “afflizione” è, in arabo, ghamm, che designa una condizione di tristezza e ansietà, ma deriva dal verbo ghamma, il cui primo significato è “coprire, velare, nascondere”[9], poi “angosciare, affliggere”. Alla nozione di “copertura” va accostata senza difficoltà la menzione dell’oscurità, delle tenebre, ossia zulûmât che deriva dalla medesima radice ZLM di zâlim, “ingiusto”, nel senso di “colui che fa un torto, che agisce opprimendo”, ciò che non si può separare dal concetto di alterità, vale a dire della dualità che è sempre, in ultima analisi, una percezione fallace e distorcente (non retta, non diritta, alias non giusta) dell’autentica Realtà metafisica. Ed è soltanto all’interno delle tenebre, in uno stato di “ingiustizia”, ossia di non riconoscimento della reale attualità metafisica, in altre parole è soltanto nella mancata percezione di quest’ultima, dunque in uno stato di assenza, originato dal velo buio delle tenebre, che Giona si rivolge ad un Altro.
Il sollievo di cui sarà oggetto Giona è, in seguito, la sua uscita dal ventre della balena (al-hût), che è anche uno dei significati del termine nûn – oltre ad essere, ovviamente, il nome della lettera “enne”. Se osserviamo il grafismo della lettera araba, che è ن, possiamo notare come essa sia una perfetta rappresentazione dello stato di Giona: egli è il punto centrale del ventre panciuto della nûn, tracciata come un’ampia circonferenza inconclusa verso l’alto, ma informata dal suo centro. La sua speciale condizione di mancanza di luce, avviluppante, gli fa percepire un nûn interno e separato, per così dire, dall’Anta esterno, motivo per il quale egli si rivolge, invocandolo, ad Anta. È nel capitolo 33 delle Futûhât che si trovano delle indicazioni più dettagliate in proposito: l’origine della speciale condizione di Giona è la sua collera, menzionata coranicamente, che va assimilata all’oscurità[10]. “La collera (ghadab) è la tenebra del cuore (zulmat al-qalb). A causa dell’elevatezza del grado spirituale di Giona essa produsse una traccia [visibile][11] nel suo esteriore. Perciò egli si trovò nel ventre della balena (batn al-hût), come volle Iddio, perché Dio gli facesse notare quale fosse stato il suo stato quando era un embrione (janîn)[12] nel ventre di sua madre”[13]. La condizione fetale è totalmente estranea da qualsiasi mozione di collera, sia attiva sia passiva: “Egli era nel grembo[14] d’Allâh, senza conoscere altri che il suo Signore. Perciò Dio lo restituì in quella condizione nel ventre della balena, cosicché ne potesse avere scienza di fatto, non verbalmente. Egli allora invocò nelle tenebre: «Non vi è dio se non Tu!» discolpando la sua comunità[15] in questo Tawhîd. In altre parole: «Tu puoi fare ciò che vuoi. Tu estendi la Tua Misericordia[16] su chi vuoi. Sia gloria a Te! In verità io sono degli ingiusti (zâlimîn), [parola] che deriva da zulma, la tenebra, cioè la mia tenebra è ritornata su di me. Non sei Tu che mi hai trattato ingiustamente[17], piuttosto ciò che era nel mio interiore è trapelato (sarà) nel mio esteriore, e la luce (nûr) si è trasferita nel mio interiore”[18]. Il capovolgimento prospettico è la caratteristica peculiare del cuore, in arabo qalb: è per via della sua natura che rivolge e capovolge continuamente, che qalb porta questo nome, dal momento che esso deriva dalla radice di taqallub, “capovolgimento, rovesciamento”[19]. Il cuore opera dunque una proiezione, da dentro a fuori, del punto interiore centrale (il cuore) alla circonferenza esteriore abbracciante (il ventre e la balena), materiando così la realtà simbolica della lettera nûn. Dal punto di vista iniziatico simili inversioni di prospettiva si attuano costantemente, poiché esse si fondano sull’incessante mutare delle Teofanie divine, il cui continuo susseguirsi implica un taqallub, poiché esse si rinnovano inesauribili. L’esito finale è, ad ogni modo, il riequilibrio, poiché la luce così proiettata torna a illuminare il cuore, e la tenebra della collera se ne svanisce, lasciando il posto alla diffusione della luce del Tawhîd e all’espansione della Misericordia, con un rinnovato moto d’effetto esteriore: “Quella luce si espanse (sarà) all’esterno, come prima aveva fatto la tenebra della collera”[20].
L’intreccio del simbolismo di Giona, della lettera nûn e del grande pesce o balena che inghiotte e vomita, intatto, l’uomo, costituisce una fitta trama dall’importanza capitale nella tradizione spirituale islamica (e akbariana, in particolare, se vogliamo), né è estranea alla scienza simbolica presente in altre tradizioni (quale quella indù, specialmente). La connotazione fondamentale di quest’immagine simbolica è l’implicazione di due condizioni, una precedente e una successiva, intervallate da uno stato di occultamento, di tenebra (anche di assenza apparente, che non è però mai mancanza tout court). Il commento akbariano al Tawhîd dell’Anta, contenuto nel capitolo 198, sembra alludere alla figura di Giona nella sua valenza ciclica e metastorica, con particolare riguardo ai tempi escatologici, di cui vengono menzionati i terrori dei giorni dell’Anticristo (dajjâl) prima, e del Giorno della Resurrezione poi, senza maggiori delucidazioni, tuttavia, del ruolo del profeta in proposito. La mancanza di espliciti riferimenti al personaggio di Giona sembra caratterizzare enigmaticamente, del resto, anche il capitolo dei Fusûs al-hikam dedicato alla sua Saggezza e, prima ancora, la sura coranica che pure gli è intitolata. All’interno di quest’ultima, il profeta vi viene menzionato men che “di sfuggita”, e solo nell’espressione qawm Yûnus (Cor. 10:98), ossia “il popolo di Giona”. Conformemente all’uso linguistico di qawm, possiamo interpretare questa locuzione come una designazione dell’élite spirituale, poiché al-qawm indica propriamente gli Iniziati[21].
Da un punto di vista microcosmico, invece, Giona equivale al cuore[22]: in una prospettiva iniziatica, di narrazione della Via spirituale, la figura di Giona, in special modo la sua uscita dalla bocca della balena, rappresenta la realizzazione della condizione umana primordiale (in altre parole, l’uscita dalla caverna iniziatica, di cui la balena è un logico equivalente), che è in realtà un ritorno che vale come rinascita. Se il testo coranico recita “Noi lo gettammo fuori sulla terra nuda, ed egli era stremato[23]” (Cor. 37:140), Ibn ‘Arabî illustra questo momento come una seconda nascita: “La balena lo vomitò[24] dal suo ventre come un partorito (mawlûdan) secondo l’intatta natura primordiale (al-fitra al-salîma). […] Egli uscì debole come un infante (tifl)”[25]. Nel capitolo dei Fusûs sulla Saggezza di Mosè si trovano ulteriori chiarimenti: il neonato (tifl) viene generato nella completezza della fitra, vale a dire secondo una vita pura (tâhira) poiché incontaminata da desideri di natura individuale. E dal momento che la sua esistenziazione è recente (hadîth al-takwîn) egli inoltre detiene uno stato di particolare prossimità rispetto al suo Creatore[26].
V’è ancora un elemento simbolico che si riferisce alla condizione spirituale di Giona e che viene presentato e illustrato, anche se concisamente, nel capitolo 33 delle Futûhât: l’albero di yaqtîn che Dio fa spuntare sopra il neonato Profeta. Se l’ascendenza del termine è coranica[27], yaqtîn non rimane una parola meno insolita ed enigmatica. In realtà si tratta di un hapax legomenon, presente solo in questo versetto del Libro rivelato, e a mala pena giustificabile dal punto di vista morfologico ordinario[28]. Lo Shaykh al-Akbar ne illustra la funzione e la derivazione radicale come segue: “[Dio] lo allevò (rabbâ) per mezzo del yaqtîn, giacché le sue foglie sono morbide, [cosicché] le mosche (dhubâb) non lo attaccassero, poiché l’infante, per via della sua debolezza, non è in grado di allontanare le mosche da se stesso. Perciò [Dio] lo coprì con un albero (shajara) la cui caratteristica era che le mosche non gli si avvicinavano, con la morbidezza delle sue foglie, giacché le foglie del yaqtîn sono come il cotone (qutun), in quanto a morbidezza, a differenza di tutte le altre foglie degli alberi, nelle quali c’è una certa ruvidezza. Dio – potente ed eccelso – lo fece sviluppare secondo un’altra costituzione (nash’a)”[29]. Ibn ‘Arabî provvede a stabilire una distinzione totale fra quest’“albero” e tutti gli altri, e questa discriminazione qualitativa è una chiave essenziale che suggerisce la dimensione squisitamente simbolica dell’immagine[30]. L’unicum linguistico costituito dal suo nome e la qualità esclusiva delle sue foglie, fonte di morbidezza, che è anche beatitudine – conformemente ai due significati del termine arabo ni‘ma – riconduce la raffigurazione dell’albero alla sua natura simboleggiante l’intervento divino che fa ombra, ossia protegge sotto la sua egida (rinnovata immagine del ventre materno e del seno divino), il cuore purificato, ormai senza più inclinazioni e desideri soggettivi, quindi inerme e immobile, come pietra[31].
Quella raffigurata da Giona è una Stazione iniziatica molto difficile, “stretta” (dayyiq), secondo la definizione akbariana che segue nel capitolo 33. Essa costituisce l’estremo limite di cui sono capaci gli Uomini di Dio, anzi, solo una piccola élite (tâ’ifa) fra loro, poiché tale Stazione comporta la mondatura (tamhîs) di tutte le intenzioni (niyyât), ossia il trascendimento delle tensioni ed inclinazioni individuali, che vengono riassorbite nell’asse principiale dell’Ordine di Dio (amr Allâh), dell’imperativo divino che ridiscende ad informare gli esseri. La Stazione di Giona realizza perfettamente la coscienza (la percezione e l’ascolto nel proprio interiore) del Comandamento assiale, l’eco del quale riverbera in atto in ogni stato, assegnandogli immediatamente il suo grado d’esistenza. Istantanea e perenne riattualizzazione dell’Amr primordiale, che non è altro che il Kun esistenziatore.
La lettera nûn.
A Giona viene attribuito, nel testo coranico, l’epiteto di “quello della nûn”. S’è già visto che uno dei significati di nûn è “balena”, ciò che fa di questo termine un equivalente del termine hût coranico, sicché l’appellativo lo designa come “quello della balena”. Ma non basta: nûn è anche, e innanzitutto, il nome della lettera araba corrispondente alla “enne”, e la sua forma grafica dichiaratamente circolare è una chiara allusione alla rotondità sia del “grande pesce”, ma prima ancora, dell’altro elemento connotante la narrazione simbolica della Rivelazione: la nave su cui Giona sale in fuga (Cor. 37:140). In arabo viene designata dal sostantivo fulk, il medesimo che indica l’arca di Noè[32]. Contiguo a fulk, è il sostantivo falak – che rappresenta un’altra vocalizzazione possibile dello stesso schema consonantico – che è “la sfera, la volta celeste” e identifica ogni corpo di forma globosa, sferica[33]. La nûn raffigura, allo stesso tempo, entrambe le condizioni di Giona: dapprima contenuto nella nave, che solca il mare in superficie, in seguito inghiottito nella balena, che nuota nelle profondità marine.
La medesima ambientazione simbolica riappare, con la precisione dei tratti marini e “gionaici”, all’interno del Kitâb al-yâ’, dove viene rimandata alla prospettiva della scienza iniziatica suprema, che è quella procedente dalla teofania di Huwa, esperita dallo stesso Ibn ‘Arabî: “Ci siamo levati in un mare senza sponda all’interno dell’arca (fulk) muhammadiana yathribita[34].
Si meravigliarono di noi i pesci[35] e gli altri animali del mare, siccome issammo la nostra vela e stendemmo interamente le nostre vele, cercando ciò che non ha fine”[36]. Dopo aver descritto lo stato di smarrimento e di perplessità spirituale che l’esperienza del Sé induce nell’essere, nell’aspetto del Tremendo, Ibn ‘Arabî continua: “Io mi gettai dall’arca nudo e spogliato dalla tenebra di quell’arca, mi tuffai e trovai sollievo”. Possiamo osservare senza difficoltà la serie degli elementi reiterati nell’uno e nell’altro caso, e anche linguisticamente identici: sia lo stato di Ibn ‘Arabî nella nave che quello di Giona all’interno della balena vengono qualificati per la loro tenebra oscurante (zulma in entrambi i casi). Se Giona, poi, è rigurgitato dal ventre della balena, dunque senza alcun intervento da parte sua che vada a guastare la perfezione della sua condizione servitoriale, allo stesso modo l’autore del Kitâb al-yâ’ si getta nel mare del Sé, agendo in obbedienza all’imperativo divino rivoltogli in precedenza (“Tuffati!”).
L’ultimo elemento è in realtà un rimando simbolico, cui lo Shaykh al-Akbar allude tramite il velo linguistico, sempre discreto, ma non per questo meno nitido: ci riferiamo alla dittologia “nudo e spogliato”, che indica lo stato del suo essere nel momento in cui egli abbandona la nave per immergersi completamente nell’acqua. Questa coppia di aggettivi non è affatto sinonimica, e anzi, a ben guardare, ci suggerisce una precisazione interessantissima: ‘uryân, “nudo”, significa “privo di vestiti”, quindi spoglio di rivestimenti esteriori, giacché le vesti coprono il corpo, essendovi sovrapposte come qualcosa che si può anche togliere, ossia non fanno parte della costituzione fisica stessa. Munsalikh, invece, tradotto con “spogliato”, significa esattamente “scuoiato”, ossia senza pelle (da cui, poi, e solo per traslato “staccato, liberato da”). Questo participio deriva dal verbo insalakha che vale “essere privato della pelle”, “uscire dall’involucro” e “spogliarsi”, detto dell’uomo e del serpente[37]. Con queste parole Ibn ‘Arabî sembra indicare con una certa chiarezza una condizione iniziatica rapportabile a quella di Giona, nato per la seconda volta secondo la Fitra primordiale, quindi ormai spogliato dei limiti dell’ordinaria condizione individuale (senza la biblica “tunica di pelle”).
Come accade per ogni supporto simbolico tradizionale, anche alla pelle appartiene una complessa polivalenza di applicazioni. Se, in generale, è possibile distinguere due valenze fondamentali, una inferiore e una superiore, quella di cui s’è trattato finora va assimilata alla valenza inferiore, prestando tuttavia la massima attenzione a non confondere “inferiore” con “negativo”. La pelle che deve essere tolta o di cui ci si deve disfare raffigura la condizione sensibile e materiale propria all’uomo, ma intesa e considerata come una limitazione che va compresa e poi trascesa, dal punto di vista iniziatico, con il compimento della Via spirituale. Dal punto di vista superiore – ossia quello che inserisce ogni cosa nell’armonia universale di cui è un riflesso, nel proprio ordine[38] – l’involucro esteriore che è la pelle rappresenta, per metonimia, la condizione propria all’essere umano. Quest’idea prende luogo nella costituzione radicale di bashara, il sostantivo che significa “pelle, epidermide”. La forma maschile del medesimo sostantivo, bashar, identifica l’essere umano stesso, sia come individuo sia come specie. E ciò vale come una buona notizia, una lieta novella (bushrà, dalla stessa radice)[39], poiché la genesi primordiale dell’Uomo avviene in un modo di assoluta eccellenza rispetto a tutti gli altri esseri prodotti. Nel capitolo 73 delle Futûhât leggiamo che “la costituzione dell’essere umano (bashar) è conforme a quella di tutto il mondo, ossia comprende ciò che questo comporta di contatto diretto (mubâshara), parzialità (tahajjuz)[40] e divisione (inqisâm), e perciò è chiamato bashar”[41].
L’Uomo è l’essere creato per ultimo, nell’apparenza esteriore, poiché solo la sua qualità di ultimo può autenticarlo sigillo e compendio dell’intero universo, ossia l’unico essere sintetizzante e totalizzante (kawn jâmi‘) in sé tutte le realtà. In altri termini, l’Uomo è l’unico essere che è stato creato dalle due Mani divine, come segno del nobilitante privilegio divino (al-tashrîf al-ilâhî) concessogli: “Dal momento che Dio l’aveva esistenziato con le due Mani, lo chiamò bashar, «essere umano», per via del contatto diretto (mubâshara) con quella Dignità (janâb) attraverso le due Mani che Gli sono attribuite”[42]. La precisa menzione di due Mani, benché entrambe siano tradizionalmente definite come “una Destra benedetta”, comporta in sé una distinzione, per il fatto stesso che esse sono due: esse sono l’immagine di quel processo di polarizzazione (taqâbul) coessenziale a qualunque dinamica metafisica e cosmologica[43]. L’immagine delle due Mani divine è l’equipollente di quella delle due lettere costitutive del Kun primordiale, ossia la kâf e la nûn[44].
Originato dalla polarizzazione, l’Uomo la contiene in sé e la esprime. La tunica di pelle che riveste l’uomo non è altro che la condizione individuale che comporta contatto fisico, estensione e divisibilità. E la limitazione della divisibilità, per quanto di illusorio e lontanante essa comporta, deve essere trascesa, per realizzare l’Identità suprema essenziale. Il simbolo che ipostatizza tale superamento, in un ambiente cosmico contraddistinto dalla dualità e dalla molteplicità, non può prendere altra forma, allora, che quella di un atto unitivo, ed è la relazione sessuale, che è esattamente il significato di mubâshara[45].
Se la costituzione umana porta il nome di bashar, ciò accade, abbiamo visto, poiché essa racchiude sinteticamente in sé tutti i gradi dell’universo. Ciò che la caratterizza qualitativamente è, sotto quest’aspetto, l’insufflazione dello Spirito, che non è altra cosa dallo Spirito Fedele (al-rûh al-amîn), l’epiteto di Jibrîl (Gabriele), ispiratore dei Profeti umani[46]. Nel Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn Ibn ‘Arabî illustra, nei termini della Scienza delle Lettere, il rapporto fra la funzione angelica di Jibrîl ed il mondo formale di cui il nome stesso della lettera nûn è un’allusione simbolica: la nûn iniziale è quella superiore, delle realtà spirituali. La wâw che le è contigua, e attaccata nella scrittura, rappresenta la missione angelica, affine alla prima nûn per natura spirituale, mentre è separata, graficamente[47], dalla seconda nûn, che è quella rappresentante il dominio formale, corporeo. La nûn, dunque, “è la Stazione di Jibrîl: essa conferisce i doni [divini] in maniera sintetica (mujmalan), senza alcuna distinzione (tafsîl). È la wâw a distinguerli, poiché essa è il Calamo (qalam) che ha la scienza della scrittura (tastîr)”[48]. Nella prospettiva cosmogonica universale, infatti, la nûn è la scienza sintetica e ne è emblema simbolico il Calamaio (dawât) che contiene l’inchiostro con cui il Calamo (l’Intelletto Primo) vergherà la Tavola Custodita (l’Anima universale)[49]. Non ci si dovrà stupire, allora, se uno dei significati propri del termine nûn è “calamaio”[50].
Il simbolismo della lettera nûn, si può già intuire, è molto articolato e coinvolge molteplici dati e punti di vista dottrinali a differenti livelli, con complesse applicazioni mai banalmente univoche. Ciò che ci interessa mettere ancora in luce in queste righe è il suo rapporto con un’altra nozione che riveste importanza capitale nell’elaborazione akbariana – non differentemente da altri contesti tradizionali – e che, al pari degli altri nessi simbolici impliciti nella nûn, qui possiamo solo limitarci ad evocare. Si tratta della figura circolare, nella sua duplicità di cerchio e sfera, dal momento che il grafismo della nûn è eminentemente circolare. E questo ci riporta di nuovo, direttamente, al testo del Libro del Sé divino, in cui la nûn viene descritta come il semidiametro (nisf qutr) di una sfera. Nel secondo capitolo delle Futûhât, la nûn scritta (raqmiyya) viene definita come shatr al-falak, ossia la metà della sfera[51]. La sua forma tracciata corrisponde, infatti, alla metà inferiore di una circonferenza, rispetto al suo diametro orizzontale, e compresa del suo punto centrale. È, invece, nel Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn che Ibn ‘Arabî illustra con chiarezza che la figura integrale della nûn è un cerchio completo e una sfera totale: “Nella scrittura non vi appare che una semicirconferenza (nisf al-dâ’ira), analogamente a ciò che appare della Sfera [celeste] (al-falak) e analogamente a ciò che appare della costituzione (nash’a), giacché la costituzione del mondo è in sfere (kuràn)”[52]. Quest’ultimo è un dato tradizionale messo sovente in luce dalla dottrina akbariana. Quella sferica e circolare è la prima forma esistenziata, rappresenta un simbolo di perfezione ed equilibrio – data l’equidistanza di ogni punto della figura rispetto al centro – ed è presente in ogni manifestazione dell’esistenza e in ogni essere creato: “La prima forma che si manifestò nel corpo fu la forma circolare (al-shakl al-mustadîr). Essa è la più eccellente delle forme ed occupa, nel dominio delle forme, lo stesso rango che ha l’alif tra le lettere: essa include l’insieme delle forme come la lettera alif include l’insieme delle lettere”[53].
Il testo dedicato alle tre lettere mîm, wâw e nûn ci rivela, inoltre, che la nûn che sigilla il termine Kun coincide con la metà inferiore, visibile della lettera stessa: “È a partire dalla nûn manifesta nel Kun che appaiono le realtà sensibili (mahsûsât)”[54]. L’altra metà, invece, invisibile[55] e costituita come la semicirconferenza superiore del cerchio[56], rappresenta il principio delle realtà spirituali (rûhâniyyât). La nûn inferiore e visibile corrisponde al simbolo dell’arca, della nave salvifica della Legge muhammadiana, mentre la nûn superiore, con la semicirconferenza rivolta verso il basso, è un equivalente simbolico dell’arcobaleno (che è un arco balenante di luce), il segno dell’unione del Cielo e della Terra, ossia un emblema celeste della Scienza sintetica[57]. L’immagine akbariana della “doppia nûn” coincide, allora, con quella del cerchio perfettamente tracciato assieme al suo centro[58]. L’applicazione metafisica di tale immagine ci riconduce al cuore del nostro argomento, poiché il cerchio tagliato orizzontalmente in due metà dal suo diametro viene messo in diretta connessione con l’Ipseità, nel corso del capitolo 427 delle Futûhât, che tratta della Dimora spirituale della “distanza di due archi” (qâb qawsayn)[59]. Il diametro del cerchio origina la distinzione fra il cosmo e Allâh, tuttavia tale retta è soltanto immaginaria (mutawahhim) e non ha esistenza propria: “Essa divide il cerchio in due archi, tuttavia l’Ipseità (huwiyya) è il cerchio stesso e non è altro che i due archi. E un arco è identico all’altro, dal punto di vista dell’Ipseità. E la retta immaginaria che li divide, sei tu (anta). L’intero universo, in rapporto al Principio, ha un’esistenza soltanto immaginaria e non è realmente esistente (mawjûd)”[60].
È in una prospettiva simile che possiamo interpretare il grafismo della nûn come una circonferenza dotata del suo punto centrale, e non si faticherà a scorgere in ciò il corrispettivo geometrico dell’immagine di Giona nel ventre (batn) della balena. Conformemente al punto di vista della principialità del punto, manifesto ed inesteso, rispetto alla dimensione spaziale, la presenza del germe vivo, e immortale, occultato nell’arcano della dimensione invisibile, sarà un equivalente del principio che regge e manifesta ogni essere, vale a dire il Sé che, presente nel punto più intimo di ogni creatura, ne costituisce il fondo – non sostanziale, bensì essenziale – più segreto. È ancora una volta alle parole del Kitâb al-yâ’ che bisogna guardare, per comprendere la fine profondità allusiva con cui si realizza tale nozione, nei termini della linguistica sacra, attraverso l’identità radicale. È infatti a mabtûn, “che è reso celato”, un altro termine della radice BTN, da cui batn, che viene affidato il compito di ri-velare il mistero del Sé che vivifica ogni cosa, qui dal punto di vista più specificatamente iniziatico: “Non c’è alcuna Stazione spirituale in cui vi sia una teofania (tajallî), come la teofania di Anâ, di Innî, «In verità Io», di Anta, di Ka, “Te” senza che Huwa sia celato all’interno[61] di quella teofania. In questo modo, da un lato si verifica la comunicazione di quanto si manifesta di queste Stazioni e, dall’altro, per mezzo di Huwa, si verifica la pura trascendenza (tanzîh) dell’Essenza incondizionata”[62].
Conclusione.
Pur consapevoli che tanto, ancora, andrebbe evidenziato ed approfondito, della vasta e profonda dottrina adombrata nelle dense parole del Kitâb al-yâ’, ci fermiamo a questo punto, credendo di avere fatto un po’ di luce almeno sui temi principali dell’epistola. Vorremmo terminare questi rapidi accenni citando nella sua integrità una splendida sentenza di Hallâj (m. 922), a proposito di Huwa. Le parole di questo Maestro, di fronte alla posteriore esposizione akbariana, testimoniano brillantemente la straordinaria limpidezza e la coerenza concettuale ed espressiva che animano la grande tradizione spirituale islamica del Tasawwuf.
“[Egli] non è preceduto dal prima, né soppresso dal dopo; l’idea di procedere da non Lo tocca, né quella di a causa di Gli si addice, né ha rapporti con verso; non v’è in che Lo localizzi, né quando che Lo situi, né se che si consulti con Lui; non è coperto dal sopra, né trasportato dal sotto, non v’è di fronte che Gli si opponga, né presso che rivaleggi con Lui, né dietro che Lo afferri, né davanti che Lo limiti. Non v’è un prima che Lo faccia apparire, né un dopo che Lo estingua, né un tutto che Lo riunisca, né un v’è che determini la Sua esistenza, come pure un non v’è che Lo faccia cessare d’esistere; non v’è luogo segreto che Lo nasconda. La Sua eternità ha preceduto l’essere contingente, la Sua esistenza il nulla e la Sua preeternità la fine.
Se dici: Quando? Il Suo essere ha già preceduto il momento temporale.
Se dici: Prima. Il prima viene dopo di Lui.
Se dici: Lui (Huwa). Ebbene, le lettere Hâ’ e Wâw (che lo compongono) son state create da Lui.
Se dici: Come? La Sua Essenza sfugge ad ogni descrizione a causa della nozione di modalità.
Se dici: Dove? La Sua Esistenza ha preceduto il luogo.
Se dici: Lui cos’è? La Sua Ipseità (huwiyya) è diversa dalle cose.
Al di fuori di Lui non v’è nessuno in cui possano coesistere simultaneamente due attributi (antitetici) senza che si venga a creare una contraddizione interna. Egli, invece, è nascosto nella Sua manifestazione (bâtin fî zuhûrihi), apparente nel Suo occultamento (zâhir fî istitârihi); è l’Apparente e il Nascosto, Colui che è prossimo e Colui che è lontano, e le creature non possono quindi trovare qualcuno che Gli assomigli.
La Sua azione Si esercita senza che Egli Se ne occupi direttamente, Si fa intendere senza che avvenga un incontro, la Sua guida non ha bisogno d’indicazioni.
Non è mosso da passioni, né ha a che fare con i pensieri.
La Sua Essenza è prima di ogni definizione, e la Sua azione non subisce imposizioni”[63].
Sappiamo di lasciare, ora, molti dati inesplicati, numerosi percorsi speculativi incalcati e, ancora, svariati punti oscuri – all’ombra della nostra incomprensione, che va ascritta integralmente alla nostra incapacità o ignoranza.
Per tutto il resto, rendo grazie a Paolo Urizzi, il quale ha pazientemente illuminato la strada affinché quest’opera venisse compiuta.
Ringrazio inoltre il prof. Michel Chodkiewicz per le sue preziose indicazioni.
Un pensiero particolare rivolgo agli amici Akeel Almarai e Stefania Dodoni, per gli indispensabili suggerimenti linguistici fornitimi, e agli amici Giulio De Crescenzo e Giorgio Giurini per la loro mirabile disponibilità dottrinale. Voglio inoltre ringraziare tutti coloro che, in questo o in quel modo, mi sono stati d’aiuto, e il mio ricordo mi sollevi dal menzionarli.
Così, Ibn ‘Arabî scrive che “Anta è quanto di più lontano ci sia da Huwa”, poiché questo modo epifanico ha luogo quando Anâ sussiste simultaneamente alla manifestazione (zuhûr) di Huwa[2], ossia quando il velo e le condizioni limitative del piano d’esistenza individuale insistono nel loro effetto, nonostante il rivelarsi di Huwa. Nel Kitâb al-yâ’, Ibn ‘Arabî sottolinea la relazione di dipendenza esistente fra Anta e la manifestazione: “Quanto ad Anta, l’esistenza (wujûd) lo esige”[3]. È possibile intravedere, allora, una coppia di rapporti di reciproca implicazione, la prima fra Anâ e Anta, la seconda fra Anta e il wujûd: “Quanto ad Anta, è più difficile di Anâ e più spessamente velato, questo poiché Anta si rivela teofanicamente (yatajallà) solo nella forma della scienza. Perciò Anta viene ignorato, se non è secondo la forma della scienza di colui cui si rivela teofanicamente: si tratta di una Stazione pericolosa, giacché Anâ trae la sua permanenza da questa Stazione e, se non fosse per Anâ, Anta non permarrebbe: Huwa da Anta viene escluso e colui dal quale viene escluso Huwa, si tema per lui”[4].
La teofania di Anta è correlata, obbligatoriamente, ad uno statuto di esteriorità, in certo modo anche di “estraneità”, poiché non può prescindere dalla permanenza contemporanea di un soggetto, come tale cosciente. Ed è a causa di questa condizione di dualità, la quale appartiene sempre, in ultima analisi, ad un dominio estrinseco, che il modo epifanico del “Tu” ha bisogno della garanzia di una controparte equilibratrice che possa farlo risalire alla purezza essenziale della corretta prospettiva metafisica, unificante. Lo Shaykh al-Akbar avverte, infatti, che si tratta di una Stazione spirituale insidiosa, di un luogo spirituale che può ingannare. Il garante che può tutelare è, allora, la trascendenza (tanzîh), che trova motivo d’essere solo in un ordine esterno, se vogliamo cosmico, ossia in un livello che ha bisogno d’esser superato: “Colui il cui gusto iniziatico è quello dell’Anta ha bisogno di far propria la trascendenza (tanzîh) in modo da non prendere forma, e così elevarsi dal grado dell’Immaginazione (khayâl), per poi contemplare tutti i gradi del Cosmo Invisibile[5]. In verità, quanto a Huwa “niente è simile a Lui” (Cor. 42:11); allora la teofania dell’Anta gli si concede”[6].
Anta comporta un maggior grado di velamento, un maggiore spessore distanziante: è, infatti, “più spessamente velato” (akthaf hijâban), come si legge nel passo appena citato. La nozione di velo e nascondimento caratterizza la definizione dell’unico Tawhîd coranico corrispondente, vale a dire le parole pronunciate da Giona (Yûnus): “E quello della Nûn, giacché se ne andò, in collera, e ritenne che non avremmo potuto [nulla] contro di lui, invocò nelle tenebre (zulumât): «Non vi è dio se non Tu! (lâ ilâha illâ Anta). Sia gloria a Te! In verità io (innî) sono degli ingiusti (zâlimîn)»” (Cor. 21:87). “Questo è il Tawhîd dell’afflizione, cioè il Tawhîd della seconda persona[7], ed è il Tawhîd del sollievo (tanfîs)”, secondo le parole del capitolo 198[8], e quest’affermazione è oltremodo significativa se si tiene a mente che il termine “afflizione” è, in arabo, ghamm, che designa una condizione di tristezza e ansietà, ma deriva dal verbo ghamma, il cui primo significato è “coprire, velare, nascondere”[9], poi “angosciare, affliggere”. Alla nozione di “copertura” va accostata senza difficoltà la menzione dell’oscurità, delle tenebre, ossia zulûmât che deriva dalla medesima radice ZLM di zâlim, “ingiusto”, nel senso di “colui che fa un torto, che agisce opprimendo”, ciò che non si può separare dal concetto di alterità, vale a dire della dualità che è sempre, in ultima analisi, una percezione fallace e distorcente (non retta, non diritta, alias non giusta) dell’autentica Realtà metafisica. Ed è soltanto all’interno delle tenebre, in uno stato di “ingiustizia”, ossia di non riconoscimento della reale attualità metafisica, in altre parole è soltanto nella mancata percezione di quest’ultima, dunque in uno stato di assenza, originato dal velo buio delle tenebre, che Giona si rivolge ad un Altro.
Il sollievo di cui sarà oggetto Giona è, in seguito, la sua uscita dal ventre della balena (al-hût), che è anche uno dei significati del termine nûn – oltre ad essere, ovviamente, il nome della lettera “enne”. Se osserviamo il grafismo della lettera araba, che è ن, possiamo notare come essa sia una perfetta rappresentazione dello stato di Giona: egli è il punto centrale del ventre panciuto della nûn, tracciata come un’ampia circonferenza inconclusa verso l’alto, ma informata dal suo centro. La sua speciale condizione di mancanza di luce, avviluppante, gli fa percepire un nûn interno e separato, per così dire, dall’Anta esterno, motivo per il quale egli si rivolge, invocandolo, ad Anta. È nel capitolo 33 delle Futûhât che si trovano delle indicazioni più dettagliate in proposito: l’origine della speciale condizione di Giona è la sua collera, menzionata coranicamente, che va assimilata all’oscurità[10]. “La collera (ghadab) è la tenebra del cuore (zulmat al-qalb). A causa dell’elevatezza del grado spirituale di Giona essa produsse una traccia [visibile][11] nel suo esteriore. Perciò egli si trovò nel ventre della balena (batn al-hût), come volle Iddio, perché Dio gli facesse notare quale fosse stato il suo stato quando era un embrione (janîn)[12] nel ventre di sua madre”[13]. La condizione fetale è totalmente estranea da qualsiasi mozione di collera, sia attiva sia passiva: “Egli era nel grembo[14] d’Allâh, senza conoscere altri che il suo Signore. Perciò Dio lo restituì in quella condizione nel ventre della balena, cosicché ne potesse avere scienza di fatto, non verbalmente. Egli allora invocò nelle tenebre: «Non vi è dio se non Tu!» discolpando la sua comunità[15] in questo Tawhîd. In altre parole: «Tu puoi fare ciò che vuoi. Tu estendi la Tua Misericordia[16] su chi vuoi. Sia gloria a Te! In verità io sono degli ingiusti (zâlimîn), [parola] che deriva da zulma, la tenebra, cioè la mia tenebra è ritornata su di me. Non sei Tu che mi hai trattato ingiustamente[17], piuttosto ciò che era nel mio interiore è trapelato (sarà) nel mio esteriore, e la luce (nûr) si è trasferita nel mio interiore”[18]. Il capovolgimento prospettico è la caratteristica peculiare del cuore, in arabo qalb: è per via della sua natura che rivolge e capovolge continuamente, che qalb porta questo nome, dal momento che esso deriva dalla radice di taqallub, “capovolgimento, rovesciamento”[19]. Il cuore opera dunque una proiezione, da dentro a fuori, del punto interiore centrale (il cuore) alla circonferenza esteriore abbracciante (il ventre e la balena), materiando così la realtà simbolica della lettera nûn. Dal punto di vista iniziatico simili inversioni di prospettiva si attuano costantemente, poiché esse si fondano sull’incessante mutare delle Teofanie divine, il cui continuo susseguirsi implica un taqallub, poiché esse si rinnovano inesauribili. L’esito finale è, ad ogni modo, il riequilibrio, poiché la luce così proiettata torna a illuminare il cuore, e la tenebra della collera se ne svanisce, lasciando il posto alla diffusione della luce del Tawhîd e all’espansione della Misericordia, con un rinnovato moto d’effetto esteriore: “Quella luce si espanse (sarà) all’esterno, come prima aveva fatto la tenebra della collera”[20].
L’intreccio del simbolismo di Giona, della lettera nûn e del grande pesce o balena che inghiotte e vomita, intatto, l’uomo, costituisce una fitta trama dall’importanza capitale nella tradizione spirituale islamica (e akbariana, in particolare, se vogliamo), né è estranea alla scienza simbolica presente in altre tradizioni (quale quella indù, specialmente). La connotazione fondamentale di quest’immagine simbolica è l’implicazione di due condizioni, una precedente e una successiva, intervallate da uno stato di occultamento, di tenebra (anche di assenza apparente, che non è però mai mancanza tout court). Il commento akbariano al Tawhîd dell’Anta, contenuto nel capitolo 198, sembra alludere alla figura di Giona nella sua valenza ciclica e metastorica, con particolare riguardo ai tempi escatologici, di cui vengono menzionati i terrori dei giorni dell’Anticristo (dajjâl) prima, e del Giorno della Resurrezione poi, senza maggiori delucidazioni, tuttavia, del ruolo del profeta in proposito. La mancanza di espliciti riferimenti al personaggio di Giona sembra caratterizzare enigmaticamente, del resto, anche il capitolo dei Fusûs al-hikam dedicato alla sua Saggezza e, prima ancora, la sura coranica che pure gli è intitolata. All’interno di quest’ultima, il profeta vi viene menzionato men che “di sfuggita”, e solo nell’espressione qawm Yûnus (Cor. 10:98), ossia “il popolo di Giona”. Conformemente all’uso linguistico di qawm, possiamo interpretare questa locuzione come una designazione dell’élite spirituale, poiché al-qawm indica propriamente gli Iniziati[21].
Da un punto di vista microcosmico, invece, Giona equivale al cuore[22]: in una prospettiva iniziatica, di narrazione della Via spirituale, la figura di Giona, in special modo la sua uscita dalla bocca della balena, rappresenta la realizzazione della condizione umana primordiale (in altre parole, l’uscita dalla caverna iniziatica, di cui la balena è un logico equivalente), che è in realtà un ritorno che vale come rinascita. Se il testo coranico recita “Noi lo gettammo fuori sulla terra nuda, ed egli era stremato[23]” (Cor. 37:140), Ibn ‘Arabî illustra questo momento come una seconda nascita: “La balena lo vomitò[24] dal suo ventre come un partorito (mawlûdan) secondo l’intatta natura primordiale (al-fitra al-salîma). […] Egli uscì debole come un infante (tifl)”[25]. Nel capitolo dei Fusûs sulla Saggezza di Mosè si trovano ulteriori chiarimenti: il neonato (tifl) viene generato nella completezza della fitra, vale a dire secondo una vita pura (tâhira) poiché incontaminata da desideri di natura individuale. E dal momento che la sua esistenziazione è recente (hadîth al-takwîn) egli inoltre detiene uno stato di particolare prossimità rispetto al suo Creatore[26].
V’è ancora un elemento simbolico che si riferisce alla condizione spirituale di Giona e che viene presentato e illustrato, anche se concisamente, nel capitolo 33 delle Futûhât: l’albero di yaqtîn che Dio fa spuntare sopra il neonato Profeta. Se l’ascendenza del termine è coranica[27], yaqtîn non rimane una parola meno insolita ed enigmatica. In realtà si tratta di un hapax legomenon, presente solo in questo versetto del Libro rivelato, e a mala pena giustificabile dal punto di vista morfologico ordinario[28]. Lo Shaykh al-Akbar ne illustra la funzione e la derivazione radicale come segue: “[Dio] lo allevò (rabbâ) per mezzo del yaqtîn, giacché le sue foglie sono morbide, [cosicché] le mosche (dhubâb) non lo attaccassero, poiché l’infante, per via della sua debolezza, non è in grado di allontanare le mosche da se stesso. Perciò [Dio] lo coprì con un albero (shajara) la cui caratteristica era che le mosche non gli si avvicinavano, con la morbidezza delle sue foglie, giacché le foglie del yaqtîn sono come il cotone (qutun), in quanto a morbidezza, a differenza di tutte le altre foglie degli alberi, nelle quali c’è una certa ruvidezza. Dio – potente ed eccelso – lo fece sviluppare secondo un’altra costituzione (nash’a)”[29]. Ibn ‘Arabî provvede a stabilire una distinzione totale fra quest’“albero” e tutti gli altri, e questa discriminazione qualitativa è una chiave essenziale che suggerisce la dimensione squisitamente simbolica dell’immagine[30]. L’unicum linguistico costituito dal suo nome e la qualità esclusiva delle sue foglie, fonte di morbidezza, che è anche beatitudine – conformemente ai due significati del termine arabo ni‘ma – riconduce la raffigurazione dell’albero alla sua natura simboleggiante l’intervento divino che fa ombra, ossia protegge sotto la sua egida (rinnovata immagine del ventre materno e del seno divino), il cuore purificato, ormai senza più inclinazioni e desideri soggettivi, quindi inerme e immobile, come pietra[31].
Quella raffigurata da Giona è una Stazione iniziatica molto difficile, “stretta” (dayyiq), secondo la definizione akbariana che segue nel capitolo 33. Essa costituisce l’estremo limite di cui sono capaci gli Uomini di Dio, anzi, solo una piccola élite (tâ’ifa) fra loro, poiché tale Stazione comporta la mondatura (tamhîs) di tutte le intenzioni (niyyât), ossia il trascendimento delle tensioni ed inclinazioni individuali, che vengono riassorbite nell’asse principiale dell’Ordine di Dio (amr Allâh), dell’imperativo divino che ridiscende ad informare gli esseri. La Stazione di Giona realizza perfettamente la coscienza (la percezione e l’ascolto nel proprio interiore) del Comandamento assiale, l’eco del quale riverbera in atto in ogni stato, assegnandogli immediatamente il suo grado d’esistenza. Istantanea e perenne riattualizzazione dell’Amr primordiale, che non è altro che il Kun esistenziatore.
La lettera nûn.
A Giona viene attribuito, nel testo coranico, l’epiteto di “quello della nûn”. S’è già visto che uno dei significati di nûn è “balena”, ciò che fa di questo termine un equivalente del termine hût coranico, sicché l’appellativo lo designa come “quello della balena”. Ma non basta: nûn è anche, e innanzitutto, il nome della lettera araba corrispondente alla “enne”, e la sua forma grafica dichiaratamente circolare è una chiara allusione alla rotondità sia del “grande pesce”, ma prima ancora, dell’altro elemento connotante la narrazione simbolica della Rivelazione: la nave su cui Giona sale in fuga (Cor. 37:140). In arabo viene designata dal sostantivo fulk, il medesimo che indica l’arca di Noè[32]. Contiguo a fulk, è il sostantivo falak – che rappresenta un’altra vocalizzazione possibile dello stesso schema consonantico – che è “la sfera, la volta celeste” e identifica ogni corpo di forma globosa, sferica[33]. La nûn raffigura, allo stesso tempo, entrambe le condizioni di Giona: dapprima contenuto nella nave, che solca il mare in superficie, in seguito inghiottito nella balena, che nuota nelle profondità marine.
La medesima ambientazione simbolica riappare, con la precisione dei tratti marini e “gionaici”, all’interno del Kitâb al-yâ’, dove viene rimandata alla prospettiva della scienza iniziatica suprema, che è quella procedente dalla teofania di Huwa, esperita dallo stesso Ibn ‘Arabî: “Ci siamo levati in un mare senza sponda all’interno dell’arca (fulk) muhammadiana yathribita[34].
Si meravigliarono di noi i pesci[35] e gli altri animali del mare, siccome issammo la nostra vela e stendemmo interamente le nostre vele, cercando ciò che non ha fine”[36]. Dopo aver descritto lo stato di smarrimento e di perplessità spirituale che l’esperienza del Sé induce nell’essere, nell’aspetto del Tremendo, Ibn ‘Arabî continua: “Io mi gettai dall’arca nudo e spogliato dalla tenebra di quell’arca, mi tuffai e trovai sollievo”. Possiamo osservare senza difficoltà la serie degli elementi reiterati nell’uno e nell’altro caso, e anche linguisticamente identici: sia lo stato di Ibn ‘Arabî nella nave che quello di Giona all’interno della balena vengono qualificati per la loro tenebra oscurante (zulma in entrambi i casi). Se Giona, poi, è rigurgitato dal ventre della balena, dunque senza alcun intervento da parte sua che vada a guastare la perfezione della sua condizione servitoriale, allo stesso modo l’autore del Kitâb al-yâ’ si getta nel mare del Sé, agendo in obbedienza all’imperativo divino rivoltogli in precedenza (“Tuffati!”).
L’ultimo elemento è in realtà un rimando simbolico, cui lo Shaykh al-Akbar allude tramite il velo linguistico, sempre discreto, ma non per questo meno nitido: ci riferiamo alla dittologia “nudo e spogliato”, che indica lo stato del suo essere nel momento in cui egli abbandona la nave per immergersi completamente nell’acqua. Questa coppia di aggettivi non è affatto sinonimica, e anzi, a ben guardare, ci suggerisce una precisazione interessantissima: ‘uryân, “nudo”, significa “privo di vestiti”, quindi spoglio di rivestimenti esteriori, giacché le vesti coprono il corpo, essendovi sovrapposte come qualcosa che si può anche togliere, ossia non fanno parte della costituzione fisica stessa. Munsalikh, invece, tradotto con “spogliato”, significa esattamente “scuoiato”, ossia senza pelle (da cui, poi, e solo per traslato “staccato, liberato da”). Questo participio deriva dal verbo insalakha che vale “essere privato della pelle”, “uscire dall’involucro” e “spogliarsi”, detto dell’uomo e del serpente[37]. Con queste parole Ibn ‘Arabî sembra indicare con una certa chiarezza una condizione iniziatica rapportabile a quella di Giona, nato per la seconda volta secondo la Fitra primordiale, quindi ormai spogliato dei limiti dell’ordinaria condizione individuale (senza la biblica “tunica di pelle”).
Come accade per ogni supporto simbolico tradizionale, anche alla pelle appartiene una complessa polivalenza di applicazioni. Se, in generale, è possibile distinguere due valenze fondamentali, una inferiore e una superiore, quella di cui s’è trattato finora va assimilata alla valenza inferiore, prestando tuttavia la massima attenzione a non confondere “inferiore” con “negativo”. La pelle che deve essere tolta o di cui ci si deve disfare raffigura la condizione sensibile e materiale propria all’uomo, ma intesa e considerata come una limitazione che va compresa e poi trascesa, dal punto di vista iniziatico, con il compimento della Via spirituale. Dal punto di vista superiore – ossia quello che inserisce ogni cosa nell’armonia universale di cui è un riflesso, nel proprio ordine[38] – l’involucro esteriore che è la pelle rappresenta, per metonimia, la condizione propria all’essere umano. Quest’idea prende luogo nella costituzione radicale di bashara, il sostantivo che significa “pelle, epidermide”. La forma maschile del medesimo sostantivo, bashar, identifica l’essere umano stesso, sia come individuo sia come specie. E ciò vale come una buona notizia, una lieta novella (bushrà, dalla stessa radice)[39], poiché la genesi primordiale dell’Uomo avviene in un modo di assoluta eccellenza rispetto a tutti gli altri esseri prodotti. Nel capitolo 73 delle Futûhât leggiamo che “la costituzione dell’essere umano (bashar) è conforme a quella di tutto il mondo, ossia comprende ciò che questo comporta di contatto diretto (mubâshara), parzialità (tahajjuz)[40] e divisione (inqisâm), e perciò è chiamato bashar”[41].
L’Uomo è l’essere creato per ultimo, nell’apparenza esteriore, poiché solo la sua qualità di ultimo può autenticarlo sigillo e compendio dell’intero universo, ossia l’unico essere sintetizzante e totalizzante (kawn jâmi‘) in sé tutte le realtà. In altri termini, l’Uomo è l’unico essere che è stato creato dalle due Mani divine, come segno del nobilitante privilegio divino (al-tashrîf al-ilâhî) concessogli: “Dal momento che Dio l’aveva esistenziato con le due Mani, lo chiamò bashar, «essere umano», per via del contatto diretto (mubâshara) con quella Dignità (janâb) attraverso le due Mani che Gli sono attribuite”[42]. La precisa menzione di due Mani, benché entrambe siano tradizionalmente definite come “una Destra benedetta”, comporta in sé una distinzione, per il fatto stesso che esse sono due: esse sono l’immagine di quel processo di polarizzazione (taqâbul) coessenziale a qualunque dinamica metafisica e cosmologica[43]. L’immagine delle due Mani divine è l’equipollente di quella delle due lettere costitutive del Kun primordiale, ossia la kâf e la nûn[44].
Originato dalla polarizzazione, l’Uomo la contiene in sé e la esprime. La tunica di pelle che riveste l’uomo non è altro che la condizione individuale che comporta contatto fisico, estensione e divisibilità. E la limitazione della divisibilità, per quanto di illusorio e lontanante essa comporta, deve essere trascesa, per realizzare l’Identità suprema essenziale. Il simbolo che ipostatizza tale superamento, in un ambiente cosmico contraddistinto dalla dualità e dalla molteplicità, non può prendere altra forma, allora, che quella di un atto unitivo, ed è la relazione sessuale, che è esattamente il significato di mubâshara[45].
Se la costituzione umana porta il nome di bashar, ciò accade, abbiamo visto, poiché essa racchiude sinteticamente in sé tutti i gradi dell’universo. Ciò che la caratterizza qualitativamente è, sotto quest’aspetto, l’insufflazione dello Spirito, che non è altra cosa dallo Spirito Fedele (al-rûh al-amîn), l’epiteto di Jibrîl (Gabriele), ispiratore dei Profeti umani[46]. Nel Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn Ibn ‘Arabî illustra, nei termini della Scienza delle Lettere, il rapporto fra la funzione angelica di Jibrîl ed il mondo formale di cui il nome stesso della lettera nûn è un’allusione simbolica: la nûn iniziale è quella superiore, delle realtà spirituali. La wâw che le è contigua, e attaccata nella scrittura, rappresenta la missione angelica, affine alla prima nûn per natura spirituale, mentre è separata, graficamente[47], dalla seconda nûn, che è quella rappresentante il dominio formale, corporeo. La nûn, dunque, “è la Stazione di Jibrîl: essa conferisce i doni [divini] in maniera sintetica (mujmalan), senza alcuna distinzione (tafsîl). È la wâw a distinguerli, poiché essa è il Calamo (qalam) che ha la scienza della scrittura (tastîr)”[48]. Nella prospettiva cosmogonica universale, infatti, la nûn è la scienza sintetica e ne è emblema simbolico il Calamaio (dawât) che contiene l’inchiostro con cui il Calamo (l’Intelletto Primo) vergherà la Tavola Custodita (l’Anima universale)[49]. Non ci si dovrà stupire, allora, se uno dei significati propri del termine nûn è “calamaio”[50].
Il simbolismo della lettera nûn, si può già intuire, è molto articolato e coinvolge molteplici dati e punti di vista dottrinali a differenti livelli, con complesse applicazioni mai banalmente univoche. Ciò che ci interessa mettere ancora in luce in queste righe è il suo rapporto con un’altra nozione che riveste importanza capitale nell’elaborazione akbariana – non differentemente da altri contesti tradizionali – e che, al pari degli altri nessi simbolici impliciti nella nûn, qui possiamo solo limitarci ad evocare. Si tratta della figura circolare, nella sua duplicità di cerchio e sfera, dal momento che il grafismo della nûn è eminentemente circolare. E questo ci riporta di nuovo, direttamente, al testo del Libro del Sé divino, in cui la nûn viene descritta come il semidiametro (nisf qutr) di una sfera. Nel secondo capitolo delle Futûhât, la nûn scritta (raqmiyya) viene definita come shatr al-falak, ossia la metà della sfera[51]. La sua forma tracciata corrisponde, infatti, alla metà inferiore di una circonferenza, rispetto al suo diametro orizzontale, e compresa del suo punto centrale. È, invece, nel Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn che Ibn ‘Arabî illustra con chiarezza che la figura integrale della nûn è un cerchio completo e una sfera totale: “Nella scrittura non vi appare che una semicirconferenza (nisf al-dâ’ira), analogamente a ciò che appare della Sfera [celeste] (al-falak) e analogamente a ciò che appare della costituzione (nash’a), giacché la costituzione del mondo è in sfere (kuràn)”[52]. Quest’ultimo è un dato tradizionale messo sovente in luce dalla dottrina akbariana. Quella sferica e circolare è la prima forma esistenziata, rappresenta un simbolo di perfezione ed equilibrio – data l’equidistanza di ogni punto della figura rispetto al centro – ed è presente in ogni manifestazione dell’esistenza e in ogni essere creato: “La prima forma che si manifestò nel corpo fu la forma circolare (al-shakl al-mustadîr). Essa è la più eccellente delle forme ed occupa, nel dominio delle forme, lo stesso rango che ha l’alif tra le lettere: essa include l’insieme delle forme come la lettera alif include l’insieme delle lettere”[53].
Il testo dedicato alle tre lettere mîm, wâw e nûn ci rivela, inoltre, che la nûn che sigilla il termine Kun coincide con la metà inferiore, visibile della lettera stessa: “È a partire dalla nûn manifesta nel Kun che appaiono le realtà sensibili (mahsûsât)”[54]. L’altra metà, invece, invisibile[55] e costituita come la semicirconferenza superiore del cerchio[56], rappresenta il principio delle realtà spirituali (rûhâniyyât). La nûn inferiore e visibile corrisponde al simbolo dell’arca, della nave salvifica della Legge muhammadiana, mentre la nûn superiore, con la semicirconferenza rivolta verso il basso, è un equivalente simbolico dell’arcobaleno (che è un arco balenante di luce), il segno dell’unione del Cielo e della Terra, ossia un emblema celeste della Scienza sintetica[57]. L’immagine akbariana della “doppia nûn” coincide, allora, con quella del cerchio perfettamente tracciato assieme al suo centro[58]. L’applicazione metafisica di tale immagine ci riconduce al cuore del nostro argomento, poiché il cerchio tagliato orizzontalmente in due metà dal suo diametro viene messo in diretta connessione con l’Ipseità, nel corso del capitolo 427 delle Futûhât, che tratta della Dimora spirituale della “distanza di due archi” (qâb qawsayn)[59]. Il diametro del cerchio origina la distinzione fra il cosmo e Allâh, tuttavia tale retta è soltanto immaginaria (mutawahhim) e non ha esistenza propria: “Essa divide il cerchio in due archi, tuttavia l’Ipseità (huwiyya) è il cerchio stesso e non è altro che i due archi. E un arco è identico all’altro, dal punto di vista dell’Ipseità. E la retta immaginaria che li divide, sei tu (anta). L’intero universo, in rapporto al Principio, ha un’esistenza soltanto immaginaria e non è realmente esistente (mawjûd)”[60].
È in una prospettiva simile che possiamo interpretare il grafismo della nûn come una circonferenza dotata del suo punto centrale, e non si faticherà a scorgere in ciò il corrispettivo geometrico dell’immagine di Giona nel ventre (batn) della balena. Conformemente al punto di vista della principialità del punto, manifesto ed inesteso, rispetto alla dimensione spaziale, la presenza del germe vivo, e immortale, occultato nell’arcano della dimensione invisibile, sarà un equivalente del principio che regge e manifesta ogni essere, vale a dire il Sé che, presente nel punto più intimo di ogni creatura, ne costituisce il fondo – non sostanziale, bensì essenziale – più segreto. È ancora una volta alle parole del Kitâb al-yâ’ che bisogna guardare, per comprendere la fine profondità allusiva con cui si realizza tale nozione, nei termini della linguistica sacra, attraverso l’identità radicale. È infatti a mabtûn, “che è reso celato”, un altro termine della radice BTN, da cui batn, che viene affidato il compito di ri-velare il mistero del Sé che vivifica ogni cosa, qui dal punto di vista più specificatamente iniziatico: “Non c’è alcuna Stazione spirituale in cui vi sia una teofania (tajallî), come la teofania di Anâ, di Innî, «In verità Io», di Anta, di Ka, “Te” senza che Huwa sia celato all’interno[61] di quella teofania. In questo modo, da un lato si verifica la comunicazione di quanto si manifesta di queste Stazioni e, dall’altro, per mezzo di Huwa, si verifica la pura trascendenza (tanzîh) dell’Essenza incondizionata”[62].
Conclusione.
Pur consapevoli che tanto, ancora, andrebbe evidenziato ed approfondito, della vasta e profonda dottrina adombrata nelle dense parole del Kitâb al-yâ’, ci fermiamo a questo punto, credendo di avere fatto un po’ di luce almeno sui temi principali dell’epistola. Vorremmo terminare questi rapidi accenni citando nella sua integrità una splendida sentenza di Hallâj (m. 922), a proposito di Huwa. Le parole di questo Maestro, di fronte alla posteriore esposizione akbariana, testimoniano brillantemente la straordinaria limpidezza e la coerenza concettuale ed espressiva che animano la grande tradizione spirituale islamica del Tasawwuf.
“[Egli] non è preceduto dal prima, né soppresso dal dopo; l’idea di procedere da non Lo tocca, né quella di a causa di Gli si addice, né ha rapporti con verso; non v’è in che Lo localizzi, né quando che Lo situi, né se che si consulti con Lui; non è coperto dal sopra, né trasportato dal sotto, non v’è di fronte che Gli si opponga, né presso che rivaleggi con Lui, né dietro che Lo afferri, né davanti che Lo limiti. Non v’è un prima che Lo faccia apparire, né un dopo che Lo estingua, né un tutto che Lo riunisca, né un v’è che determini la Sua esistenza, come pure un non v’è che Lo faccia cessare d’esistere; non v’è luogo segreto che Lo nasconda. La Sua eternità ha preceduto l’essere contingente, la Sua esistenza il nulla e la Sua preeternità la fine.
Se dici: Quando? Il Suo essere ha già preceduto il momento temporale.
Se dici: Prima. Il prima viene dopo di Lui.
Se dici: Lui (Huwa). Ebbene, le lettere Hâ’ e Wâw (che lo compongono) son state create da Lui.
Se dici: Come? La Sua Essenza sfugge ad ogni descrizione a causa della nozione di modalità.
Se dici: Dove? La Sua Esistenza ha preceduto il luogo.
Se dici: Lui cos’è? La Sua Ipseità (huwiyya) è diversa dalle cose.
Al di fuori di Lui non v’è nessuno in cui possano coesistere simultaneamente due attributi (antitetici) senza che si venga a creare una contraddizione interna. Egli, invece, è nascosto nella Sua manifestazione (bâtin fî zuhûrihi), apparente nel Suo occultamento (zâhir fî istitârihi); è l’Apparente e il Nascosto, Colui che è prossimo e Colui che è lontano, e le creature non possono quindi trovare qualcuno che Gli assomigli.
La Sua azione Si esercita senza che Egli Se ne occupi direttamente, Si fa intendere senza che avvenga un incontro, la Sua guida non ha bisogno d’indicazioni.
Non è mosso da passioni, né ha a che fare con i pensieri.
La Sua Essenza è prima di ogni definizione, e la Sua azione non subisce imposizioni”[63].
Sappiamo di lasciare, ora, molti dati inesplicati, numerosi percorsi speculativi incalcati e, ancora, svariati punti oscuri – all’ombra della nostra incomprensione, che va ascritta integralmente alla nostra incapacità o ignoranza.
Per tutto il resto, rendo grazie a Paolo Urizzi, il quale ha pazientemente illuminato la strada affinché quest’opera venisse compiuta.
Ringrazio inoltre il prof. Michel Chodkiewicz per le sue preziose indicazioni.
Un pensiero particolare rivolgo agli amici Akeel Almarai e Stefania Dodoni, per gli indispensabili suggerimenti linguistici fornitimi, e agli amici Giulio De Crescenzo e Giorgio Giurini per la loro mirabile disponibilità dottrinale. Voglio inoltre ringraziare tutti coloro che, in questo o in quel modo, mi sono stati d’aiuto, e il mio ricordo mi sollevi dal menzionarli.
[1] Sulla relazione fra le qualità di apparente e di nascosto (rispettivamente zâhiriyya e bâtiniyya) nella loro applicazione metafisica universale, ossia allo Spirito Muhammadiano (rûh muhammadî), si veda Qaysarî, La scienza iniziatica, op. cit., p. 47.
[2] Kitâb al-jalâla, p. 11.
[3] Vedi infra, p. 168.
[4] Vedi infra, p. 145.
[5] In arabo al-ghayb al-kawnî; si tratta degli stati sovra-formali della manifestazione, mentre khayâl designa il mondo della manifestazione sottile.
[6] Vedi infra, p. 146.
[7] In arabo mukhâtib, “colui al quale si indirizza la parola, cui ci si rivolge”.
[8] Fut., II, p. 414. 34.
[9] Detto anche delle nuvole; e, ancora, “soffocare”, detto del caldo afoso.
[10] Simile accostamento è presente anche in italiano, nell’espressione “perdere il lume degli occhi o della ragione”, solitamente a causa di uno stato emotivo di collera imperiosa, che viene infatti descritta come “furia cieca”.
[11] In arabo aththara; si tratta dello stesso verbo che nel Kitâb al-yâ’ viene usato a proposito della yâ’, che detiene un ta’thîr, un “potere immenso”, vale a dire la capacità di produrre un influsso, un’influenza effettiva.
[12] Janîn: “tutto ciò che è nascosto in fondo, che è velato allo sguardo”; “embrione, feto”. Deriva da janna, il cui primo senso è “essere avviluppato e coperto” del feto nell’utero, “coprire, avvolgere” della notte e dell’oscurità e “avvolgere il cadavere nel sudario”. Da qui, altre voci della radice passano a significare “nascondere ed essere nascosto”, ma anche “essere pazzo, posseduto”. Questa radice comprende, inoltre, termini come janna, “giardino; Paradiso”; jânn, “serpente” (precisamente un serpente bianco, piccolo e innocuo che vive fra gli uomini); i jinn e majnûn “pazzo, folle e furioso”. Le interconnessioni simboliche cui danno adito questi sviluppi radicali (in apparenza eterogenei) andrebbero senza dubbio analizzate con un’attenzione particolare. In linea molto generale, noteremo soltanto come la condizione fetale o embrionale si possa accostare a quella ofidica, a motivo del “velo” che avvolge sia il feto che il serpente, nel primo caso come amnio (burqu‘ al-janîn), nel secondo come corio, spoglie. A questo proposito, non può passare inosservata la coincidenza per cui, in sanscrito, il termine jarâyu designi sia la “placenta” sia il “corio”. E se la placenta umana deriva da una fusione del corion, involucro embrionale in forma di membrana sottile, forse bisognerebbe soffermarsi meglio sulle nozioni implicate dal greco khorion “placenta, membrana e pelle”, di fatto analogo al latino corium, “pelle dura di animali, dell’uomo e corteccia”, da cui, in italiano, “cuoio” e “coriaceo”; né “corteccia”, dal latino cortex, “corteccia, guscio, involucro” e “scorza”, appaiono estranee al medesimo ambito linguistico e simbolico. In arabo, burqu‘ identifica il velo con cui la donna si copre completamente il volto, lasciando solo due fori per gli occhi. Il verbo corrispondente (barqa‘a, “coprire il volto con un velo”) compare in un verso di poesia in cui Ibn ‘Arabî descrive lo svelamento aurorale di Laylà (che è la notte e l’Amata per eccellenza, vale a dire l’Essenza; tradizionalmente, l’amante di Laylà porta il nome di Majnûn, il folle): “Ed io, quando giunsi a Laylà, lei si velò il volto. E da Lei, al levarsi del mattino (al-ghadât), mi turbò il suo svelarsi (sufûr)”, Le Dévoilement des effects du voyage, op. cit., p. 19. Nel testo viene evidenziato il legame etimologico fra sufûr, “svelamento” e safar, “viaggio”. Quanto allo svelarsi nel suo rapporto con l’aurora, ossia lo svanire della notte, si veda, ad esempio, il versetto coranico 72:34: “E per l’alba, quando ella si scopre!” (la sura di cui fa parte è intitolata al mudaththir, “l’avvolto nel mantello”), che viene citato dallo Shaykh al-Akbar subito prima del verso poetico. Quanto al rapporto fra il serpente e la condizione edenica, si rammenti che, tradizionalmente, all’uomo primordiale viene attribuita forma ofidica (le cui due peculiarità principali sono l’assenza di arti e la proprietà di avvolgersi in spire); se ne veda l’allusione contenuta in uno degli epiteti che designano il grado dell’insân al-kâmil, ossia Jânn ibn Jânn, in Ibn ‘Arabî, Le Livre de l’Arbre et des Quatre Oiseaux, a c. di D. Gril, Paris, 1984, p. 41. La rappresentazione simbolica del serpente equivale dunque a quella geometrica circolare. In un’altra opera, infatti, Ibn ‘Arabî afferma esplicitamente che “la forma dell’Uomo nella sua verità essenziale (fî’l-haqîqa) è sferica (mustadîr)”, Al-Tadbîrât al-ilâhiyya, ed. Nyberg, p. 225. Si ricordi, inoltre, il mito platonico degli “uomini sferici” dell’età primordiale, “intesi, evidentemente, come un’immagine della forma sferica del corpo universale”, secondo Paolo Urizzi, in Regalità e Califfato (Parte seconda), in Perennia Verba, 4/2000 (pp. 138-69), p. 155. Su tutti questi elementi simbolici, organicamente intesi, si veda il ricchissimo quadro tracciato da A. K. Coomaraswamy nel suo articolo The Darker Side of Dawn, trad. it. Il volto oscuro dell’Aurora, in Perennia Verba, 5/2001, pp. 41-66. Dello stesso autore si veda anche Âtmayajna: il sacrificio di sé, trad. it. in Perennia Verba, 4/2000, pp. 3-58. I dati addotti fin qui, pur nella loro scarna concisione, sono già in grado di condurci ad intuire come la figura di Giona, prima in uno stato di tenebra avviluppante, poi nell’uscita da questa condizione buia ad una luminosa, crepuscolare, possa rappresentare un equivalente del passaggio iniziatico di uscita dalla caverna, ossia la restaurazione della condizione umana primordiale. Vedremo infatti che la balena rigurgita Giona come un infante appena partorito.
[13] Fut., I, p. 212. 6.
[14] Kanaf comporta un significato di “asilo e rifugio” e viene utilizzato anche in contesti metaforici, col senso di “sotto l’egida di”. Se si rammenta che l’egida è una pelle animale, da cui per antonomasia lo scudo di Giove che essa ricopriva, e che “scudo”, in arabo, è mijann, dalla ormai nota radice JNN, non si faticherà ad intuire, una volta di più, l’ambito simbolico “embrionale” ed interiore proprio alla rappresentazione di Giona. Il termine mijann compare nel Kitâb al-yâ’ per designare la nûn che difende dall’effetto della yâ’; vedi infra, p. 139.
[15] Sebbene la consuetudine linguistica comporti la traduzione del verbo ‘adhara come “discolpare, giustificare”, va innanzitutto segnalata un’anomalia nella costruzione grammaticale, poiché essa risulta sempre scusare qualcuno (accusativo) da o per qualcosa (‘an)”. L’accusativo della persona sembra essere qui sostituito dal ‘an della cosa. Come giustificarlo? Forse, ricorrendo alle altre idee che la radice esprime: il secondo significato del verbo è, precisamente “circoncidere”. Quando l’idea di circoncisione viene applicata alla donna, ciò si traduce nel senso di “essere vergine”, da cui al-‘adhrâ’, che è l’epiteto classico della Vergine Maria. Nel contesto specifico, è presente la locuzione ‘udhran ‘an ummati-hi, in cui ‘an è una preposizione che indica, di norma, distacco e separazione, quindi si potrebbe supporre “circonciso dalla sua comunità”, vale a dire reso innocente e purificato. Poiché simbolicamente la circoncisione restituisce all’uomo la sua condizione virginale, primordiale: il prepuzio che deve essere reciso porta il nome, in arabo, di ghulfa (femminile), dalla radice GHLF che significa “chiudere, rivestire, avvolgere”. Da qui l’emblema del “cuore incirconciso” (qalb aghlaf), ossia indurito, inaridito. Il prepuzio dei cuori è la condizione esteriore della ghafla (da una radice GHFL, che anagramma GHLF), della “disattenzione” che è in realtà incoscienza, mancata percezione della propria autentica natura, poiché velati dal mondo esteriore. Nei Fusûs al-Hikam leggiamo che i cuori di coloro che non si preoccupano (ghâfilûn) della vita futura, essendone immemori, sono incirconcisi (ghulf), vale a dire “chiusi in un involucro” (ghilâf), ed esso non è altro che un velo che impedisce loro di percepire la realtà in quanto tale; vedi Fus., p. 128 e Cor. 2:88; 30:7; in Cor. 4:155 la qualità dei cuori incirconcisi viene correlata al sigillo posto da Dio su di essi. Da confrontare con la nozione biblica della circoncisione del cuore, ad esempio in Ger 4, 4; Dt 10, 16 e 30, 6 e nella Lettera paolina ai Romani, 2, 29. Se volessimo riprendere gli accenni fatti in precedenza al simbolismo del serpente, che muta il suo corio, uscendosene, dovremmo considerare nella medesima prospettiva metaforica l’atto di svestizione che comporta il rito della circoncisione (etimologicamente, un taglio circolare, all’intorno): non è altro che l’uomo nuovo che abbandona la sua vecchia tunica di pelle, ofidicamente, per uscire dalla tenebra alla luce. Sulla femminilità del prepuzio, si veda M. Griaule, Dieu d’eau. Entretiens avec Ogotemméli, Fayard, 1966, pp. 161-62 (in cui viene riportato, che, secondo il simbolismo Dogon, il prepuzio, una volta reciso, assume una forma ofidica, poiché diviene una specie di lucertola) e sui temi dello scorticamento spirituale, A. K. Coomaraswamy, Il volto oscuro dell’Aurora, art. cit.
[16] Rahma, da rahim, “utero”.
[17] Sono più d’uno i versetti coranici che lo rammentano. Uno di questi, va notato, è contenuto nella sura di Giona: “In verità Dio non fa torto agli uomini in alcuna cosa. Sono gli uomini, invece, che fanno torto a se stessi (alle loro anime)” (Cor. 10:44); cfr. anche Cor. 3:117; 11:101; 16:33 e 118, ecc.
[18] Fut., I, p. 212. 8. Tale condizione spirituale sembra realizzare una situazione inversa rispetto a quella vissuta da Mosè, quando ridiscese dal Monte Sinai, la cui pelle del viso brillava di luce, a seguito del suo incontro con Dio. Lo stato mosaico rifletteva nell’esteriore traccia visibile dell’effetto della Luce. E lo splendore del suo volto era di tale violenza da accecare chiunque si accingesse a guardarlo, sicché il profeta dovette velarsi; si vedano Fut., IV, pp. 50-51 e M. Chodkiewicz, Le Sceau des saints. Prophétie et sainteté dans la doctrine d’Ibn ‘Arabî, Paris, 1986, pp. 95-97.
[19] Sul simbolismo spirituale del cuore, si vedano gli articoli di A. Ventura, La presenza divina nel cuore, in Quaderni di Studi Arabi, 5/1985, pp. 63-72; C. Casseler, La dottrina del cuore nel Tasawwuf, in La porta d’oriente, 1/2001, pp. 84-102; C. Casseler, Il cuore. Luce e Spirito, in La porta d’oriente, 5/2001, pp. 99-118.
[20] Fut., I, p. 212. 11.
[21] Tralasciamo, ora, tutti gli sviluppi cui si andrebbe incontro se si prendesse in considerazione il ruolo di Giona in quanto janîn, ossia embrione. Egli andrebbe allora rapportato macrocosmicamente al germe d’oro che caratterizza lo stato umano (l’Hiranyagharbha indù) e, microcosmicamente, al principio corrispettivo che regge ogni essere umano (il Luz, nocciolo d’immortalità ebraico), cui andrebbero correlati, rispettivamente, i princìpi che nell’Islâm hanno i nomi di nafs wâhida (l’anima unica da cui il genere umano è stato creato) e nafs nâtiqa (l’anima parlante-raziocinante propria all’uomo). Né si può considerare certo un caso che la Saggezza di Giona porta l’attributo, nei Fusûs, di nafsiyya, “relativa all’anima”. Da un punto di vista leggermente diverso, una delle possibili interpretazioni di tale qualità è quella che considera la natura “istmica” del personaggio, allo stesso modo in cui l’anima rappresenta il luogo intermedio, l’istmo (barzakh) nel composto umano, fra spirito (rûh) e corpo (jism); si veda Ibn ‘Arabî, Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., p. 505. Quanto al nome proprio del profeta, forse non si sbaglierebbe troppo se si leggesse in Yûnus l’emblema di una forma verbale di terza persona; si potrebbe, in tal caso, risalire senza troppe difficoltà alla radice WNS, che rimanda a ’NS ed è foriera delle idee di “familiarità; affabilità” e “intimità” (uns – termine tecnico spirituale). Dalla stessa radice è insân, “uomo”. Nell’ipotesi di una forma verbale, essa potrebbe coincidere con yûnas, ossia “egli è scorto, riconosciuto, constatato”. Che Yûnus sia un’espressione allusiva del Principio, nell’aspetto di “Attestato”?
[22] I commentari coranici esoterici li identificano senza lasciar adito a dubbi.
[23] Saqîm significa “ammalato, infermo”; qui, “senza forze, inerme”.
[24] Un duplice parto (wilâdatayn), perciò, connota la natura di Giona: il primo, inferiore, dall’utero materno, il secondo, superiore, dalla bocca della balena.
[25] Fut., I, p. 212. 12. Cfr. il racconto tradizionale di Tarafî: “Poi la balena […] lo buttò fuori a Nisibi, all’aria aperta e sulla superficie terrestre, dopo un periodo di quaranta giorni, come un pulcino spennato, senza neppure un pelo”, in Storie dei profeti, a c. di R. Tottoli, Genova, 1997, p. 128. Sull’assenza di peli come caratteristica dell’essere secondo la Fitra, si veda il hadîth che legittima la depilazione, in M. Vâlsan, L’Islam et la fonction de René Guénon, Paris, 1984, p. 150.
[26] Dalla forza di questa Stazione, così la chiama Ibn ‘Arabî, gli deriva il privilegio di esercitare un potere e un’influenza immensa sull’adulto, obbligandolo ad occuparsi di lui, anche rinunciando alla sua dignità (nel gioco, ad esempio). Per una traduzione in francese del passo, si veda Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., pp. 633 e segg. Sulla santa infanzia, che è una delle peculiarità di Gesù e di Yahyà, si vedano Fut., cap. 480 e C. A. Gilis, Lo Spirito universale dell’Islam, op. cit., p. 73. Né si dimentichino le parole di Gesù secondo l’adagio evangelico: “Chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino non entrerà in esso” (Lc. 18, 17).
[27] Cor. 37:146: “E Noi facemmo spuntare su di lui un albero di yaqtîn”.
[28] Analogamente al corrispettivo ebraico di yaqtîn, che è kikaiòn. Sebbene il termine venga usualmente tradotto con “ricino”, non sembra esserci alcun motivo in grado di avallare filologicamente simile traduzione (è però vero che una parola greca foneticamente simile a kikaiòn, “kiki” designa il ricino…). Senza contare, poi, le incongruenze cui si va incontro quando si abbia in mente che, secondo alcune tradizioni giudaiche (ma anche islamiche), Giona si cibò dei frutti di quest’albero. E quelli del ricino (sempreché il ricino biblico sia identificabile con il Ricinus communis, ordinariamente inteso) sono minuti, secchi e immangiabili. Rispetto al dato tradizionale islamico, poi, che definisce il yaqtîn come acaule, si ha divergenza insanabile, essendo il ricino un albero dal fusto alto ed eretto.
[29] Fut., I, p. 212. 14.
[30] Ibn ‘Arabî si attiene rigorosamente alla narrazione coranica, che cita soltanto un albero di yaqtîn fatto spuntare su Giona, senza specificare altro. Egli non cita due qualità del yaqtîn che, al contrario, sembrano comparire nei commentari coranici e nei racconti tradizionali. La prima è il fatto che il yaqtîn “non si erge su un tronco (lâ yaqûmu ‘alà sâq) e cresce sulla faccia della terra. Ed egli era ombreggiato dalle sue foglie”, in Tafsîr Ibn ‘Arabî (in realtà di Qâshânî), 2 voll., Beyrût, s.d., al-juz’ al-thânî, p. 167. Si potrebbe, tuttavia, attribuire la prima frase anche a Giona, poiché sâq significa sia “tronco” che “gamba”. Dal momento che Giona si trova nella condizione di un neonato, è lecito ritenere che, come quest’ultimo, egli non stia in piedi. È per questo motivo che egli può essere ombreggiato anche da un albero senza tronco. La seconda è il fatto che Giona si nutre dei frutti di questa pianta (Tarafî, Storie dei profeti, op. cit., p. 128). Che sia stata, dunque, la presenza delle due qualità vegetali appena menzionate – l’assenza del tronco, dunque il portamento acaule, e l’edulità dei suoi frutti – ad aver suggerito ai commentatori coranici l’identificazione del yaqtîn ad una specie di zucca? Per un’interessante argomentazione etimologica ed eziologica cristiana sull’identificazione del kikaiòn biblico, si veda Girolamo, Commento al Libro di Giona, a c. di N. Pavia, Roma, 1992, pp. 91 e segg. Girolamo traduce il termine con “edera” e con “zucca”, sebbene avverta che si tratta di rese imprecise, mancando la lingua latina del vocabolo esatto che designi quello che egli ritiene essere “un tipo di cespuglio o arbusto a foglie larghe”, quindi dotato di tronco, e che cresce con straordinaria rapidità sui terreni sabbiosi della Palestina.
[31] Il grado minerale rappresentato dalla pietra, incapace di muoversi da sé è, infatti, un emblema simbolico della prosternazione del cuore (sujûd al-qalb) dalla quale non ci si rialza più. È il perfetto compimento della realizzazione spirituale, che estingue qualsiasi intervento, mozione, intenzione individuali, per il raggiungimento della servitù perfetta (‘ubûda), ossia il grado dell’Uomo Universale; cfr. G. De Luca, «Non sono Io il vostro Signore?», art. cit.
[32] Dalla medesima radice FLK si ha falûka, da cui l’italiano “feluca”.
[33] La rotondità è l’idea primordiale espressa dalla radice FLK, il cui primo significato è “essere arrotondato” detto del seno e “avere i seni formati”, detto di una ragazza.
[34] Al-fulk al-muhammadî al-yathribî. Si legga anche falak, “sfera”. S’è già detto che l’aggettivo “yathribita” deriva da Yathrib, il nome originario di Medina, la città del Profeta. Si tratta di una designazione allusiva della Non Stazione (lâ maqâm) suprema, sulla base del celebre versetto coranico: “O gente di Yathrib, voi non avete luogo dove stare (lâ muqâm la-kum)! Ritornate, allora!” (Cor. 33:13).
[35] Hîtân è precisamente il plurale di hût.
[36] Vedi infra, pp. 161-62.
[37] Salakha è “scuoiare un montone”; salkh e mislâkh “la pelle dell’animale scorticato” e silkh, “la spoglia del serpente”.
[38] Ogni realtà è specchio ed espressione della Realtà, quindi non rappresenta una condizione in sé totalmente negativa o limitante, quanto piuttosto uno strumento funzionale a traghettare al di qua e al di là dell’ambito formale: l’espressione (‘ibâra) è, etimologicamente, attraversamento e passaggio (‘ubûr).
[39] Una delle idee espresse dalla radice BSHR è la gioia, la letizia (bishr). Si rammenti che il Vangelo è la buona novella (eu-angelos) del Verbo fattosi carne. Sembra, a questo punto, difficilmente liquidabile come una mera coincidenza casuale il fatto che le considerazioni che seguono, sulla valenza dottrinale della pelle in connessione con lo stato umano, siano contenute nel capitolo dei Fusûs dedicato alla Saggezza di Gesù.
[40] Tahajjuz significa “partigianeria” e “inclinazione, propensione”; conviene notare, tuttavia, che il primo significato del verbo tahayyaza è “avvolgersi in spire”, del serpente. La radice HWZ esprime due delle principali condizioni che connotano lo stato umano: lo spazio (hayyiz) e l’individualità, cui allude il significato del verbo hâza, “prendere e avere esclusivamente per sé”, quindi “impadronirsi, appropriarsi”.
[41] Fut., II, p. 71. 3. Queste parole fanno parte della quarantaquattresima risposta del questionario di Tirmidhî, la cui domanda era “Perché [l’uomo] è chiamato bashar?”. La domanda precedente, invece, chiedeva che cosa fosse la Fitra. Ancora una volta, tale continuità sembra suggerire l’esistenza di una precisa relazione fra la natura primordiale e la dimensione “cutanea”.
[42] Fus., I, p. 144. Per una traduzione completa di questo, che è il capitolo della Saggezza cristica, si veda Perennia Verba, 2/1998. La nozione della creazione dell’Uomo operata dalle due Mani divine, in diretta correlazione alla nobiltà della sua natura è presente anche nella parte introduttiva del capitolo 73 e, molto significativamente, nel corso dello stesso capitolo, nella risposta alla domanda n° 44 appena citata.
[43] Fus., I, p. 144. Lo Shaykh al-Akbar cita il taqâbul come qualità irrinunciabilmente presente sia al livello dei Nomi divini, sia nella Natura (tabî‘a), di cui è una legge fondamentale.
[44] Fut., II, p. 70.
[45] La terza forma del verbo, di cui mubâshara è il masdar, esprime il senso della reciprocità di un atto compiuto da due soggetti. Su tutta la questione si veda anche C. A. Gilis, Lo Spirito universale dell’Islam, op. cit., pp. 103-05.
[46] Per assolvere la sua funzione nel piano d’esistenza umano, Jibrîl deve assumere una forma consona e corrispondente a questo stato: è per questo che Jibrîl viene inviato a Maria nella forma simile a quella di “un essere umano proporzionatamente perfetto (basharan sawiyyan)” (Cor. 19:17). Si veda ancora una volta Fut., II, p. 70 e il già citato capitolo 15 dei Fusûs al-hikam, riguardante Gesù. Sulla missione umana (risâla bashariyya) e quella angelica (risâla malakiyya), si vedano, rispettivamente, i capitoli 159 e 160 delle Futûhât e, inoltre, Ibn ‘Arabî, Le livre du Mîm, du Wâw et du Nûn, op. cit., pp. 17-18 e il capitolo 13 dei Fusûs riguardante la Saggezza della forza imperiosa (malkiyya) di Lot, in Le Livre des Chatons des Sagesses, op. cit., pp. 335 e segg.
[47] La wâw è una delle lettere che, nella scrittura, legano a destra, ma non a sinistra.
[48] Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn, in Rasâ’il, pp. 12-13.
[49] Si veda, ad esempio, M. Chodkiewicz, Le Sceau des saints. Prophétie et sainteté dans la doctrine d’Ibn ‘Arabî, Paris, 1986, p. 213; Jurjânî, Kitâb al-ta‘rîfât, op. cit., p. 318.
[50] Il grafismo circolare della nûn evoca la sintesi (jam‘) tradizionale operata dalla Legge muhammadiana finale – immagine speculare dell’universalità della Scienza –, che è l’arca di salvezza ciclica. Ma jam‘ è allo stesso tempo il nome del plurale: ed è nel ruolo di nûn al-jam‘ che tale lettera realizza la sua funzione al livello morfologico. Nella classe verbale dell’imperfetto, ad esempio, la nûn è, infatti, il prefisso della prima persona plurale (naf‘alu), ed è il suffisso della seconda e della terza persona plurale (taf‘alûna e yaf‘alûna). Essa connota ugualmente il pronome personale corrispondente: nahnu è “noi” e –nâ è la sua forma suffissa “ci”. Il suffisso –nâ, inoltre, è la desinenza della prima persona plurale del perfetto. Nella classe nominale, invece, la nûn è il suffisso del plurale sano maschile (-ûna, -îna). Vedere anche Fut., cap. 289 e C. A. Gilis, Lo Spirito universale dell’Islam, op. cit., p. 62.
[51] Fut., I, p. 53. 30.
[52] Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn, in Rasâ’il, p. 12.
[53] Fut., II, p. 675. 19. Si veda anche Jîlî, Un commentaire ésotérique de la formule inaugurale du Qoran, op. cit., p. 178. Sulla rilevanza fondamentale della forma sferica che caratterizza ogni manifestazione cosmica, si veda il trattato di Ibn ‘Arabî intitolato Il nodo del sagace, op. cit.
[54] Kitâb al-mîm wa-’l-wâw wa-’l-nûn, in Rasâ’il, p. 12. Questa nûn procede dal Discorso divino diretto (fahwâniyya). Analoga affermazione è contenuta nel Kitâb al-yâ’, vedi infra, p. 159.
[55] In arabo mughayyab, dalla radice di ghayb.
[56] Così viene, di fatto, raffigurata nel testo. Il suo grafismo è un esatto equivalente del na sanscrito.
[57] Sull’arcobaleno, chiamato in arabo qaws quzah, ossia “l’arco di Quzah” (quest’ultimo è il nome del monte sulla cui cima, in epoca preislamica, era acceso un fuoco ardente) si veda C. A. Gilis, La Doctrine initiatique du Pèlerinage à la Maison d’Allâh, Paris, 1982, p. 246.
[58] Questa figura è anche l’emblema alchemico del Sole e dell’oro. Sul denso simbolismo della nûn, le cui risonanze dottrinali sono tanto vaste e profonde, quanto non riassumibili, si vedano anche Ibn ‘Arabî, Les trente-six Attestations coraniques de l’Unité, op. cit., pp. 112 e segg.; Le livre du Mîm, du Wâw et du Nûn, op. cit., pp. 75 e segg.; M. Vâlsan, L’Islam et la fonction de René Guénon, Paris, 1984, pp. 123-24, 139-41; R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, 1990, cap. 23.
[59] Cor. 53:9. L’espressione allude al culmine dell’ascensione spirituale profetica ed assume, nella dottrina iniziatica, un valore tecnico di straordinaria importanza; si vedano Fut., II, p. 558; IV, p. 51; M. Chodkiewicz, Le Sceau des saints, op. cit., pp. 110, 219; G. De Luca, «Non sono Io il vostro Signore?», art. cit., pp. 64, 82; P. Urizzi, in Regalità e Califfato (Parte prima), in Perennia Verba, 3/1999, p. 146-47.
[60] Fut., IV, p. 40. 10. Dal punto di vista metafisico, infatti, niente è dotato di una qualche realtà effettiva, al di fuori dell’Essenza. A proposito della relazione simbolica fra il cerchio e l’Ipseità, si ricordi che quest’ultima viene qualificata come muhîta, “onniavvolgente”. Ora, il maschile del medesimo participio, muhît è il termine tecnico che designa la circonferenza.
[61] Mabtûn. La radice BTN da cui deriva il verbo batana significa “penetrare nell’intimo” e poi “essere celato; nascondersi”; dalla stessa radice abbiamo batn, “ventre, grembo” e bâtin “interno, intimo”.
[62] Vedi infra, pp. 132-33.
[63] Kalâbadhî, Il Sufismo nelle parole degli antichi, op. cit., pp. 67-68.
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