René Guénon
Considerazioni sull'Iniziazione
XXXII - I limiti del mentale
Parlavamo poco fa della mentalità necessaria per l’acquisizione della conoscenza iniziatica, mentalità completamente diversa dalla mentalità profana, e alla formazione della quale contribuisce grandemente l’osservanza dei riti e delle forme esteriori in uso nelle organizzazioni tradizionali, senza che questo nulla tolga dei loro altri effetti di ordine più profondo; ma occorre che si comprenda bene che ciò corrisponde solo a uno stadio preliminare, costituente una preparazione ancora esclusivamente teorica, e non certo all’iniziazione effettiva.
È il caso – in effetti – di insistere sull’insufficienza del mentale rispetto a ogni conoscenza di tipo propriamente metafisico e iniziatico; siamo obbligati a servirci del termine «mentale», preferendolo a qualunque altro[1], come equivalente del sanscrito manas, perché esso gli si ricollega attraverso il suo radicale; vogliamo dunque intendere con tale parola l’insieme delle facoltà di conoscenza che sono specificamente caratteristiche dell’individuo umano (esso stesso indicato in diverse lingue con termini che hanno la medesima radice), delle quali la ragione è la principale.
Abbiamo precisato abbastanza sovente la distinzione tra la ragione, facoltà di ordine puramente individuale, e l’intelletto puro, che è – al contrario – sovraindividuale, perché sia inutile che vi ritorniamo in quest’occasione; ricorderemo soltanto che la conoscenza metafisica, nel vero senso della parola, poiché è d’ordine universale, sarebbe impossibile se non esistesse nell’essere una facoltà dello stesso tipo, quindi trascendente rispetto all’individuo: tale facoltà è propriamente l’intuizione intellettuale. In effetti, essendo ogni conoscenza essenzialmente un’identificazione, è evidente che l’individuo – in quanto tale – non può raggiungere la conoscenza di quel che è di là dall’ambito individuale, cosa che sarebbe contraddittoria; tale conoscenza è possibile soltanto perché l’essere che è un individuo umano in un certo stato contingente di manifestazione è altresì allo stesso tempo, qualcos’altro: sarebbe assurdo dire che l’uomo, come uomo e con i suoi mezzi umani, può superare se stesso; sennonché, l’essere che appare in questo mondo come un uomo è, in realtà, una cosa tutta diversa in virtù del principio permanente e immutabile che lo costituisce nella sua essenza profonda[2]. Qualsiasi conoscenza che si possa dire veramente iniziatica è il frutto di una comunicazione stabilita coscientemente con gli stati superiori; ed è a una tale comunicazione che si riferiscono nettamente, se si comprendono nel loro vero significato e senza tener conto dell’abuso che troppo spesso se ne fa nel linguaggio comune della nostra epoca, termini come «ispirazione» e «rivelazione »[3].
La conoscenza diretta d’ordine trascendente, con la certezza assoluta che implica, è di tutta evidenza – in se stessa – incomunicabile e inesprimibile; ogni espressione, poiché è necessariamente formale per sua definizione stessa, e di conseguenza individuale[4], non è adeguata a essa e di essa può dare soltanto, se si può dire così, un riflesso nell’ambito umano. Tale riflesso può aiutare taluni esseri a conseguire realmente quella stessa conoscenza, risvegliando in essi le facoltà superiori, ma, come già abbiamo detto, non può assolutamente dispensarli dal fare personalmente quel che nessuno può fare per loro; esso è unicamente un «supporto» per il loro lavoro interiore. Del resto, a questo riguardo, occorre fare una grande differenza, in quanto mezzi d’espressione, tra i simboli e il linguaggio ordinario; abbiamo spiegato in precedenza che i simboli, in virtù del loro carattere essenzialmente sintetico, sono particolarmente adatti a servire come punto d’appoggio all’intuizione intellettuale, mentre il linguaggio, che è essenzialmente analitico, è propriamente soltanto lo strumento del pensiero discorsivo e razionale. E bisogna per di più aggiungere che i simboli, a causa del loro aspetto «non-umano», portano in sé un’influenza la cui azione è atta a risvegliare direttamente la facoltà intuitiva in coloro che li meditino nel modo voluto; sennonché questo si riferisce unicamente al loro impiego in certo qual modo rituale quali supporti di meditazione, e non certamente ai commenti verbali che è possibile effettuare sul loro significato, i quali non rappresentano in ogni caso che uno studio ancora esteriore di essi[5]. Poiché il linguaggio umano è per sua stessa costituzione strettamente legato all’esercizio della facoltà razionale, ne consegue che tutto ciò che è espresso o tradotto a mezzo di esso assume necessariamente – in modo più o meno esplicito – la forma di un «ragionamento»; ma occorre però capire che può esserci soltanto una rassomiglianza del tutto apparente ed esteriore – rassomiglianza di forme e non di fondo –, tra il ragionamento comune, vertente sulle cose delle sfera individuale, che sono quelle a cui esso è propriamente e direttamente applicabile, e quello che è destinato a riflettere, per quanto è possibile, qualcosa delle verità di ordine sovraindividuale. Per questo abbiamo detto che l’insegnamento iniziatico non deve mai rivestire una forma «sistematica», ma deve al contrario aprirsi sempre su possibilità illimitate, in modo da mantenere riservata la parte dell’inesprimibile, che in realtà è tutto l’essenziale; e, con ciò, lo stesso linguaggio, quando sia applicato alle verità di questo tipo, partecipa in certo qual modo del carattere dei simboli veri e propri[6]. Comunque sia, colui che in virtù dello studio di una qualsiasi esposizione dialettica, sia giunto a una conoscenza teorica di talune di queste verità, non ha tuttavia ancora affatto di esse una conoscenza diretta e reale (o per essere più esatti, «realizzata»), in vista della quale simile conoscenza discorsiva e teorica non può costituire nulla più di una semplice preparazione.
Tale preparazione teorica, per quanto indispensabile sia di fatto, non ha tuttavia in se stessa se non un valore di mezzo contingente e accidentale; finché ci si limita a essa, non si potrà parlare di iniziazione effettiva, neanche al livello più elementare. Se non intervenga nulla di più e di diverso, si tratterà soltanto di qualcosa di analogo – in un ambito più elevato – di quel che è una qualunque «speculazione» che si riferisca a un’altra sfera[7], giacché una conoscenza di questo genere, semplicemente teorica, coinvolge soltanto il mentale, mentre la conoscenza effettiva coinvolge «lo spirito e l’anima», vale a dire, in una parola, tutto l’essere. È d’altronde questa la ragione per la quale, anche al di fuori del punto di vista iniziatico, i semplici mistici, senza oltrepassare i confini della sfera individuale, sono ciò nonostante, nel loro ambito che è quello della tradizione exoterica, incontestabilmente superiori non soltanto ai filosofi, ma pure ai teologi, giacché anche la più piccola particola di conoscenza effettiva vale incomparabilmente di più di tutti i ragionamenti che derivano soltanto dal mentale [8].
Finché la conoscenza coinvolge soltanto il mentale, essa non è se non una semplice conoscenza «per riflesso», come quella delle ombre che vedono i prigionieri della caverna simbolica di Platone, quindi una conoscenza indiretta e del tutto esteriore; passare dall’ombra alla realtà, afferrata direttamente in se stessa, equivale propriamente a passare dall’«esterno» all’«interno», e anche – secondo il punto di vista dal quale ci poniamo qui più specialmente – dall’iniziazione virtuale all’iniziazione effettiva. Tale passaggio comporta la rinuncia al mentale, ossia a qualunque facoltà discorsiva, la quale è ormai diventata impotente, giacché non è in grado di superare i limiti impostile dalla sua stessa natura[9]; solo l’intuizione intellettuale è di là da questi limiti, in quanto non appartiene alla sfera delle facoltà individuali. Servendosi del simbolismo tradizionale fondato sulle corrispondenze organiche, si può dire che il centro della coscienza deve essere allora trasferito dal «cervello» al «cuore»[10]; al fine dell’effettuazione di un simile trasferimento qualsiasi «speculazione» e qualunque dialettica non sono evidentemente più di nessun ausilio; ed è soltanto a partire da questo punto che è possibile parlare veramente di iniziazione effettiva. Il punto in cui questa incomincia è perciò ben al di là di quello in cui finisce tutto quel che si può trovare di relativamente valido in qualsivoglia «speculazione»; tra l’una e l’altra esiste un vero e proprio abisso, che solo la rinuncia al mentale – come abbiamo appena detto – permette di superare. Colui che si aggrappi al ragionamento e non se ne liberi al momento voluto rimane prigioniero della forma, la quale è la limitazione per cui si definisce lo stato individuale; non oltrepasserà perciò mai quest’ultimo, e non andrà mai più lontano dell’«esterno», ciò che equivale a dire che rimarrà legato al ciclo indefinito della manifestazione. Il passaggio dall’«esterno» all’«interno» è altresì il passaggio dalla molteplicità all’unità, dalla circonferenza al centro, al punto unico dal quale è possibile per l’essere umano, restaurato nelle prerogative dello «stato primordiale», elevarsi agli stati superiori[11] e con la realizzazione totale della sua vera essenza, essere infine effettivamente e attualmente quel che è potenzialmente da tutta l’eternità. Colui che conosce se stesso nella «verità» dell’«Essenza» eterna e infinita[12], quegli conosce e possiede ogni cosa in se stesso e da se stesso, poiché è giunto a quello stato incondizionato che non lascia fuori di sé nessuna possibilità, e un tale stato – nei confronti del quale tutti gli altri, per elevati che siano, non sono ancora se non stadi preliminari senza nessuna comune misura con esso[13] –, tale stato, che è il fine ultimo di ogni iniziazione, è propriamente ciò che si deve comprendere come «Identità Suprema».
XXXII - I limiti del mentale
Parlavamo poco fa della mentalità necessaria per l’acquisizione della conoscenza iniziatica, mentalità completamente diversa dalla mentalità profana, e alla formazione della quale contribuisce grandemente l’osservanza dei riti e delle forme esteriori in uso nelle organizzazioni tradizionali, senza che questo nulla tolga dei loro altri effetti di ordine più profondo; ma occorre che si comprenda bene che ciò corrisponde solo a uno stadio preliminare, costituente una preparazione ancora esclusivamente teorica, e non certo all’iniziazione effettiva.
È il caso – in effetti – di insistere sull’insufficienza del mentale rispetto a ogni conoscenza di tipo propriamente metafisico e iniziatico; siamo obbligati a servirci del termine «mentale», preferendolo a qualunque altro[1], come equivalente del sanscrito manas, perché esso gli si ricollega attraverso il suo radicale; vogliamo dunque intendere con tale parola l’insieme delle facoltà di conoscenza che sono specificamente caratteristiche dell’individuo umano (esso stesso indicato in diverse lingue con termini che hanno la medesima radice), delle quali la ragione è la principale.
Abbiamo precisato abbastanza sovente la distinzione tra la ragione, facoltà di ordine puramente individuale, e l’intelletto puro, che è – al contrario – sovraindividuale, perché sia inutile che vi ritorniamo in quest’occasione; ricorderemo soltanto che la conoscenza metafisica, nel vero senso della parola, poiché è d’ordine universale, sarebbe impossibile se non esistesse nell’essere una facoltà dello stesso tipo, quindi trascendente rispetto all’individuo: tale facoltà è propriamente l’intuizione intellettuale. In effetti, essendo ogni conoscenza essenzialmente un’identificazione, è evidente che l’individuo – in quanto tale – non può raggiungere la conoscenza di quel che è di là dall’ambito individuale, cosa che sarebbe contraddittoria; tale conoscenza è possibile soltanto perché l’essere che è un individuo umano in un certo stato contingente di manifestazione è altresì allo stesso tempo, qualcos’altro: sarebbe assurdo dire che l’uomo, come uomo e con i suoi mezzi umani, può superare se stesso; sennonché, l’essere che appare in questo mondo come un uomo è, in realtà, una cosa tutta diversa in virtù del principio permanente e immutabile che lo costituisce nella sua essenza profonda[2]. Qualsiasi conoscenza che si possa dire veramente iniziatica è il frutto di una comunicazione stabilita coscientemente con gli stati superiori; ed è a una tale comunicazione che si riferiscono nettamente, se si comprendono nel loro vero significato e senza tener conto dell’abuso che troppo spesso se ne fa nel linguaggio comune della nostra epoca, termini come «ispirazione» e «rivelazione
La conoscenza diretta d’ordine trascendente, con la certezza assoluta che implica, è di tutta evidenza – in se stessa – incomunicabile e inesprimibile; ogni espressione, poiché è necessariamente formale per sua definizione stessa, e di conseguenza individuale[4], non è adeguata a essa e di essa può dare soltanto, se si può dire così, un riflesso nell’ambito umano. Tale riflesso può aiutare taluni esseri a conseguire realmente quella stessa conoscenza, risvegliando in essi le facoltà superiori, ma, come già abbiamo detto, non può assolutamente dispensarli dal fare personalmente quel che nessuno può fare per loro; esso è unicamente un «supporto» per il loro lavoro interiore. Del resto, a questo riguardo, occorre fare una grande differenza, in quanto mezzi d’espressione, tra i simboli e il linguaggio ordinario; abbiamo spiegato in precedenza che i simboli, in virtù del loro carattere essenzialmente sintetico, sono particolarmente adatti a servire come punto d’appoggio all’intuizione intellettuale, mentre il linguaggio, che è essenzialmente analitico, è propriamente soltanto lo strumento del pensiero discorsivo e razionale. E bisogna per di più aggiungere che i simboli, a causa del loro aspetto «non-umano», portano in sé un’influenza la cui azione è atta a risvegliare direttamente la facoltà intuitiva in coloro che li meditino nel modo voluto; sennonché questo si riferisce unicamente al loro impiego in certo qual modo rituale quali supporti di meditazione, e non certamente ai commenti verbali che è possibile effettuare sul loro significato, i quali non rappresentano in ogni caso che uno studio ancora esteriore di essi[5]. Poiché il linguaggio umano è per sua stessa costituzione strettamente legato all’esercizio della facoltà razionale, ne consegue che tutto ciò che è espresso o tradotto a mezzo di esso assume necessariamente – in modo più o meno esplicito – la forma di un «ragionamento»; ma occorre però capire che può esserci soltanto una rassomiglianza del tutto apparente ed esteriore – rassomiglianza di forme e non di fondo –, tra il ragionamento comune, vertente sulle cose delle sfera individuale, che sono quelle a cui esso è propriamente e direttamente applicabile, e quello che è destinato a riflettere, per quanto è possibile, qualcosa delle verità di ordine sovraindividuale. Per questo abbiamo detto che l’insegnamento iniziatico non deve mai rivestire una forma «sistematica», ma deve al contrario aprirsi sempre su possibilità illimitate, in modo da mantenere riservata la parte dell’inesprimibile, che in realtà è tutto l’essenziale; e, con ciò, lo stesso linguaggio, quando sia applicato alle verità di questo tipo, partecipa in certo qual modo del carattere dei simboli veri e propri[6]. Comunque sia, colui che in virtù dello studio di una qualsiasi esposizione dialettica, sia giunto a una conoscenza teorica di talune di queste verità, non ha tuttavia ancora affatto di esse una conoscenza diretta e reale (o per essere più esatti, «realizzata»), in vista della quale simile conoscenza discorsiva e teorica non può costituire nulla più di una semplice preparazione.
Tale preparazione teorica, per quanto indispensabile sia di fatto, non ha tuttavia in se stessa se non un valore di mezzo contingente e accidentale; finché ci si limita a essa, non si potrà parlare di iniziazione effettiva, neanche al livello più elementare. Se non intervenga nulla di più e di diverso, si tratterà soltanto di qualcosa di analogo – in un ambito più elevato – di quel che è una qualunque «speculazione» che si riferisca a un’altra sfera[7], giacché una conoscenza di questo genere, semplicemente teorica, coinvolge soltanto il mentale, mentre la conoscenza effettiva coinvolge «lo spirito e l’anima», vale a dire, in una parola, tutto l’essere. È d’altronde questa la ragione per la quale, anche al di fuori del punto di vista iniziatico, i semplici mistici, senza oltrepassare i confini della sfera individuale, sono ciò nonostante, nel loro ambito che è quello della tradizione exoterica, incontestabilmente superiori non soltanto ai filosofi, ma pure ai teologi, giacché anche la più piccola particola di conoscenza effettiva vale incomparabilmente di più di tutti i ragionamenti che derivano soltanto dal mentale
Finché la conoscenza coinvolge soltanto il mentale, essa non è se non una semplice conoscenza «per riflesso», come quella delle ombre che vedono i prigionieri della caverna simbolica di Platone, quindi una conoscenza indiretta e del tutto esteriore; passare dall’ombra alla realtà, afferrata direttamente in se stessa, equivale propriamente a passare dall’«esterno» all’«interno», e anche – secondo il punto di vista dal quale ci poniamo qui più specialmente – dall’iniziazione virtuale all’iniziazione effettiva. Tale passaggio comporta la rinuncia al mentale, ossia a qualunque facoltà discorsiva, la quale è ormai diventata impotente, giacché non è in grado di superare i limiti impostile dalla sua stessa natura[9]; solo l’intuizione intellettuale è di là da questi limiti, in quanto non appartiene alla sfera delle facoltà individuali. Servendosi del simbolismo tradizionale fondato sulle corrispondenze organiche, si può dire che il centro della coscienza deve essere allora trasferito dal «cervello» al «cuore»[10]; al fine dell’effettuazione di un simile trasferimento qualsiasi «speculazione» e qualunque dialettica non sono evidentemente più di nessun ausilio; ed è soltanto a partire da questo punto che è possibile parlare veramente di iniziazione effettiva. Il punto in cui questa incomincia è perciò ben al di là di quello in cui finisce tutto quel che si può trovare di relativamente valido in qualsivoglia «speculazione»; tra l’una e l’altra esiste un vero e proprio abisso, che solo la rinuncia al mentale – come abbiamo appena detto – permette di superare. Colui che si aggrappi al ragionamento e non se ne liberi al momento voluto rimane prigioniero della forma, la quale è la limitazione per cui si definisce lo stato individuale; non oltrepasserà perciò mai quest’ultimo, e non andrà mai più lontano dell’«esterno», ciò che equivale a dire che rimarrà legato al ciclo indefinito della manifestazione. Il passaggio dall’«esterno» all’«interno» è altresì il passaggio dalla molteplicità all’unità, dalla circonferenza al centro, al punto unico dal quale è possibile per l’essere umano, restaurato nelle prerogative dello «stato primordiale», elevarsi agli stati superiori[11] e con la realizzazione totale della sua vera essenza, essere infine effettivamente e attualmente quel che è potenzialmente da tutta l’eternità. Colui che conosce se stesso nella «verità» dell’«Essenza» eterna e infinita[12], quegli conosce e possiede ogni cosa in se stesso e da se stesso, poiché è giunto a quello stato incondizionato che non lascia fuori di sé nessuna possibilità, e un tale stato – nei confronti del quale tutti gli altri, per elevati che siano, non sono ancora se non stadi preliminari senza nessuna comune misura con esso[13] –, tale stato, che è il fine ultimo di ogni iniziazione, è propriamente ciò che si deve comprendere come «Identità Suprema».
[1] La lingua francese non possiede altri termini di questa radice oltre
all’aggettivo «mental» (qui usato
come sostantivo); l’italiano ha invece il termine «mente», che è in queste
condizioni e poteva forse sostituire la parola «mentale», un po’ inusitata in
questo senso. Il traduttore ha preferito conservare l’aggettivo sostantivato di
cui R. Guénon si è servito nel corso di tutta la sua opera. [N.d.T.]
[2] Si tratta della distinzione fondamentale tra il «Sé» e l’«io», ovvero la
personalità e l’individualità, distinzione che è al principio della teoria
metafisica degli stati molteplici dell’essere.
[3] Queste due parole indicano in fondo la stessa cosa, guardata da due punti di
vista un po’ diversi: quella che è «ispirazione» per l’essere che la riceve,
diventa «rivelazione» per gli altri esseri, ai quali egli la trasmette, nella
misura in cui ciò è possibile, manifestandola esteriormente attraverso un
qualsiasi modo d’espressione.
[4] Ricorderemo che la forma è, fra le condizioni dell’esistenza manifestata,
quella che caratterizza propriamente qualsiasi stato individuale come tale.
[5] Ciò non vuol dire – beninteso – che colui che spiega i simboli servendosi del
linguaggio comune ne abbia necessariamente egli stesso soltanto una conoscenza
esteriore, ma esclusivamente che quest’ultima è tutto quel che egli può
comunicare agli altri per mezzo di simili spiegazioni.
[6] Quest’uso superiore del linguaggio è soprattutto possibile quando si tratti di
lingue sacre, le quali sono siffatte precisamente perché costituite in maniera
tale da portare in se stesse un tal carattere propriamente simbolico; esso è
naturalmente molto più difficile se effettuato con le lingue comuni,
soprattutto quando queste ultime siano abitualmente impiegate soltanto per
esprimere punti di vista profani, com’è il caso delle lingue moderne.
[7] Una simile «speculazione», nell’ambito esoterico, potrebbe essere confrontata,
non con la filosofia – che si riferisce solo a un punto di vista profano –, ma
piuttosto con quel che la teologia è nella sfera tradizionale exoterica e
religiosa.
[8] Dobbiamo precisare che questa superiorità dei mistici va intesa esclusivamente
come riferita al loro stato interiore, giacché, sotto un altro aspetto, può
succedere che – come abbiamo già indicato in precedenza – in mancanza di
preparazione teorica, essi siano incapaci di esprimerne checchessia in modo
intelligibile; e bisogna inoltre tener conto del fatto che, a onta di quel che
hanno veramente «realizzato», essi rischiano costantemente di disperdersi, per
la buona ragione che non possono superare le possibilità di ordine individuale.
[9] Tale rinuncia non vuole assolutamente significare che la conseguente
conoscenza, di cui qui si parla, sia in qualche modo contraria od opposta alla
conoscenza mentale, per ciò che questa ha di valido e di legittimo nel suo
ambito relativo, ossia nella sfera individuale; non si ripeterà mai troppe
volte – a evitare ogni equivoco al proposito – che il «sovrarazionale» non ha
nulla in comune con l’«irrazionale».
[10] Non c’è quasi bisogno di ricordare che il «cuore», assunto simbolicamente a
rappresentare il centro dell’individualità umana considerata nella sua
integralità, viene sempre posto in corrispondenza, da tutte le tradizioni, con
l’intelletto puro, il che non ha assolutamente alcun rapporto con la
«sentimentalità» che gli attribuiscono le concezioni profane dei moderni.
[11] Cfr. L’Ésotérisme de Dante, pp. 58-61.
[12] Intendiamo qui il termine «verità» nel senso della parola araba haqîqah, e il termine «essenza» nel senso
di Edh-Dhât. – A ciò si riferisce
nella tradizione islamica questo hadîth:
«Colui che conosce se stesso conosce il suo Signore» (Man arafa nafsahu faqad arafa Rabbahu); e tale conoscenza è
ottenuta mediante quello che viene chiamato l’«occhio del cuore» (aynul-qalb), il quale altro non è che
l’intuizione intellettuale stessa, come esprimono queste parole di El-Hallâj:
«Vidi il mio Signore con l’occhio del mio cuore e dissi: chi sei? Rispose: te»
(Raaytu Rabbî bi-ayni qalbî faqultu man
anta, qâla anta).
[13] Ciò non dev’essere inteso soltanto con riferimento agli stati che corrispondono
solo a estensioni dell’individualità, ma altresì agli stati sovraindividuali
ancora condizionati.
Nessun commento:
Posta un commento