"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 1 giugno 2014

René Guénon, L'esoterismo di Dante. VIII - I cicli cosmici

René Guénon 
L'esoterismo di Dante 

VIII - I cicli cosmici

Dopo queste osservazioni che crediamo atte a fissare alcuni punti storici importanti, arriviamo a ciò che Benini chiama la «cronologia» del poema di Dante.
Abbiamo già ricordato che egli compie il suo viaggio attraverso i mondi durante la settimana santa, cioè nel momento dell’anno liturgico che corrisponde all’equinozio di primavera; abbiamo visto altresì che quello stesso periodo, secondo Aroux, era riservato dai Catari alle iniziazioni. Nei capitoli massonici di Rosa-Croce, la commemorazione della Cena è invece celebrata il giovedì santo, e la ripresa dei lavori avviene simbolicamente il venerdì alle tre del pomeriggio, ossia il giorno e l’ora della morte di Cristo. Infine, l’inizio della settimana santa dell’anno 1300 coincide con il plenilunio, e a questo proposito si potrebbe far notare, per completare le concordanze segnalate da Aroux, che i Noachiti tengono le loro assemblee proprio durante il plenilunio.
L’anno 1300 rappresenta per Dante la metà della sua vita (aveva allora 35 anni) e la metà dei tempi; citeremo di nuovo Benini: «Preso da un pensiero straordinariamente egocentrico, Dante situò la sua visione a metà della vita del mondo ‑ il movimento dei cieli era durato 65 secoli fino a lui, e doveva durarne 65 dopo di lui ‑ e, con un abile gioco, vi fece convergere gli anniversari esatti, in tre specie di anni astronomici, dei più grandi eventi della storia, e in una quarta specie l’anniversario del maggiore evento della sua vita personale». Ciò che deve soprattutto catturare la nostra attenzione è la valutazione della durata totale del mondo ‑ noi diremmo piuttosto del ciclo attuale: due volte 65 secoli, cioè 130 secoli o 13.000 anni, dei quali i 13 secoli trascorsi dall’inizio dell’èra cristiana formano esattamente il decimo. Il numero 65 è del resto notevole in se stesso: la somma delle sue cifre dà ancora 11, e per di più questo numero 11 si trova scomposto in 6 e 5, che sono i numeri simbolici rispettivi del Macrocosmo e del Microcosmo e che Dante fa derivare dall’unità principiale: «... così come raia / da l’un, se si conosce, il cinque e ‘l sei».[1] Infine, traducendo 65 in lettere romene, come abbiamo fatto per 515, otteniamo LXV o, con la stessa inversione compiuta in precedenza, LVX, vale a dire la parola Lux; e questo può avere un rapporto con l’èra massonica della Vera Luce.[2]
Ma ecco la cosa più interessante: la durata di 13.000 anni non è altro che la metà del periodo della precessione degli equinozi, valutato con un errore di soli 40 anni per eccesso, dunque inferiore a mezzo secolo, e che rappresenta di conseguenza un’approssimazione del tutto accettabile, specialmente quando la durata è espressa in secoli. In effetti, il periodo totale è in realtà di 25.920 anni, sicché la sua metà è di 12.960 anni; questa metà del periodo equivale al «grande anno» dei Persiani e dei Greci, talvolta valutato anche in 12.000 anni, una cifra molto meno esatta dei 13.000 anni di Dante. Questo «grande anno» era effettivamente considerato dagli antichi come il tempo che intercorre tra due rinnovamenti del mondo, e va indubbiamente interpretato, nella storia dell’umanità terrestre, come l’intervallo che separa i grandi cataclismi durante i quali spariscono interi continenti (la distruzione dell’Atlantide fu l’ultimo). Per la verità, si tratta solo di un ciclo secondario, che potrebbe essere considerato come una frazione di un altro ciclo più esteso; ma in virtù di una certa legge di corrispondenza, ciascuno dei cicli secondari riproduce, su scala ridotta, fasi che sono paragonabili a quelle dei grandi cicli dei quali fa parte. Ciò che può essere detto delle leggi cicliche in generale troverà dunque la sua applicazione a gradi diversi: cicli storici, cicli geologici, cicli propriamente cosmici, con divisioni e suddivisioni che moltiplicano ulteriormente queste possibilità di applicazione. D’altronde, allorché si oltrepassano i limiti del mondo terreno, non si tratta più di misurare la durata di un ciclo con un numero di anni inteso letteralmente; i numeri assumono allora un valore puramente simbolico ed esprimono delle proporzioni più che una durata reale. Altrettanto vero è che, nella cosmologia indù, tutti i numeri ciclici sono basati essenzialmente sul periodo della precessione degli equinozi, con la quale hanno rapporti nettamente determinati;[3] ed è questo il fenomeno fondamentale nell’applicazione astronomica delle leggi cicliche, e perciò il punto di partenza naturale di tutte le trasposizioni analogiche alle quali possono dar luogo tali leggi. Non possiamo pensare di addentrarci qui nello sviluppo di queste teorie; ma è interessante che Dante si sia attenuto a tali criteri come base per la sua cronologia simbolica, e anche su questo punto possiamo constatare il suo perfetto accordo con le dottrine tradizionali dell’Oriente.[4]
Ma ci si può domandare perché Dante collochi la sua visione esattamente a metà del «grande anno», e se sia giusto parlare a questo proposito di «egocentrismo», o se non vi siano delle ragioni di altro ordine. Possiamo innanzitutto far osservare che, se si prende un qualsiasi punto di partenza nel tempo e si calcola la durata del periodo ciclico a cominciare da quell’origine, si giungerà sempre a un punto che sarà in perfetta corrispondenza con quello da cui si è partiti, giacché è la corrispondenza tra gli elementi dei cicli successivi ad assicurarne la continuità. Si può dunque scegliere l’origine in modo da porsi idealmente a metà di tale periodo; si hanno così due durate uguali, l’una anteriore e l’altra posteriore, nell’insieme delle quali si compie veramente tutta la rivoluzione dei cieli, poiché tutte le cose si ritrovano alla fine in una posizione non identica (pretenderlo significherebbe cadere nell’errore dell’«eterno ritorno» di Nietzsche), ma corrispondente per analogia a quella che esse avevano all’inizio. Lo si può rappresentare geometricamente in questo modo: se il ciclo in questione è il semi-periodo della precessione degli equinozi, e se si raffigura il periodo intero con una circonferenza, basterà tracciare un diametro orizzontale per dividere la circonferenza in due metà, ciascuna delle quali rappresenterà un mezzo periodo, il cui principio e la cui fine corrispondono alle due estremità del diametro; se si considera soltanto la mezza circonferenza superiore e se si traccia il raggio verticale, questo giungerà al punto mediano, che corrisponde al «centro dei tempi». La figura così ottenuta è il segno O, ossia il simbolo alchimistico del regno minerale;[5] sormontata da una croce, è il «globo del mondo», geroglifico della Terra ed emblema del potere imperiale.[6] Quest’ultimo uso del simbolo in discussione autorizza a pensare che esso doveva avere per Dante un valore particolare; e l’aggiunta della croce è giustificata dal fatto che il punto centrale in cui egli si situava corrispondeva geograficamente a Gerusalemme, la quale rappresentava per lui quello che possiamo chiamare «polo spirituale».[7] D’altro canto, agli antipodi di Gerusalemme, ossia all’altro polo, sorge il monte del Purgatorio, al di sopra del quale brillano le quattro stelle che formano la costellazione della «Croce del Sud»;[8] là è l’entrata dei Cieli, come sotto Gerusalemme si trova l’entrata degli Inferi; e in questa contrapposizione vediamo raffigurata l’antitesi del «Cristo doloroso» e del «Cristo glorioso».
A tutta prima si troverà forse sorprendente questa nostra equiparazione di un simbolismo cronologico e di un simbolismo geografico; eppure, proprio a questo volevamo arrivare per dare all’osservazione che precede il suo vero significato, giacché la stessa successione temporale, in tutto ciò, non che un modo di espressione simbolico. Un ciclo qualsiasi può essere diviso in due fasi, che sono cronologicamente le sue due metà successive, ed è sotto questa forma che le abbiamo subito considerate; ma in realtà queste due fasi rappresentano rispettivamente l’azione di due tendenze contrarie e tuttavia complementari; e tale azione può evidentemente essere sia simultanea che successiva. Situarsi nel centro del ciclo vuol dunque dire situarsi nel punto dove queste due tendenze si equilibrano: come dicono gli iniziati musulmani, è «il luogo divino in cui si conciliano i contrasti e le antinomie»; è il centro della «ruota delle cose», secondo l’espressione indù, o l’«invariabile centro» della tradizione estremo-orientale, il punto fisso intorno al quale si compie la rotazione delle sfere, la mutazione perpetua del mondo manifestato. Il viaggio di Dante si compie secondo l’«asse spirituale» del mondo; soltanto di là, in effetti, si possono vedere tutte le cose in modo permanente – in quanto siamo anche noi sottratti al cambiamento ‑ e averne di conseguenza una visione sintetica e totale.
Dal punto di vista propriamente iniziatico, quello che abbiamo detto risponde ancora a una verità profonda; l’essere deve prima di tutto identificare il centro della propria individualità (rappresentato dal cuore nel simbolismo tradizionale) con il centro cosmico dello stato di esistenza al quale appartiene questa individualità, prendendolo come base per elevarsi agli stati. superiori. In questo centro risiede l’equilibrio perfetto, immagine dell’immutabilità principiale nel mondo manifestato; in esso si proietta l’asse che collega fra loro tutti gli stati, il «raggio divino» che, nel suo senso ascendente, conduce direttamente a quegli stati superiori che occorre raggiungere. Ogni punto possiede virtualmente quelle possibilità ed è, se così si può dire, il centro in potenza; ma lo deve diventare effettivamente, con una identificazione reale, per rendere davvero possibile lo sviluppo totale dell’essere. Ecco perché Dante, per potersi elevare ai Cieli, doveva innanzitutto situarsi in un punto che fosse veramente il centro del mondo terrestre; e quel punto lo è secondo il tempo e secondo lo spazio, ossia in rapporto alle due condizioni essenziali che caratterizzano l’esistenza in questo mondo.
Se adesso riprendiamo la rappresentazione geometrica di cui ci siamo serviti in precedenza, vediamo che il raggio verticale, che va dalla superficie della terra al suo centro, corrisponde alla prima parte del viaggio di Dante, cioè alla traversata degli Inferi. Il centro della terra è il punto più basso, poiché è verso quel punto che tendono da ogni parte le forze della gravità; non appena viene superato, comincia la risalita, che si compie nella direzione opposta, per arrivare agli antipodi del punto di partenza. Per rappresentare questa seconda fase bisogna dunque prolungare il raggio al di là del centro, in modo da completare il diametro verticale; si ha allora la figura del cerchio diviso da una croce, ossia il segno O, che è il simbolo ermetico del regno vegetale. Ora, se si osserva con uno sguardo d’insieme la natura degli elementi simbolici che hanno un ruolo preponderante nelle prime due parti del poema, si può in effetti constatare che essi si riferiscono rispettivamente ai due regni minerale e vegetale; non insisteremo sulla relazione evidente che unisce il primo alle regioni interiori della terra, e ricorderemo soltanto gli «alberi mistici» dei Purgatorio e del Paradiso terrestre. Ci si aspetterebbe che la corrispondenza proseguisse tra la terza parte e il regno animale,[9] ma in verità ciò non avviene, perché i limiti del mondo terreno sono qui superati, sicché non è più possibile continuare ad applicare il medesimo simbolismo. È alla fine della seconda parte, ossia ancora nel Paradiso terrestre, che troviamo la maggior quantità di simboli animali; è necessario aver percorso i tre regni, che rappresentano le diverse modalità dell’esistenza nel nostro mondo, prima di poter passare ad altri stati, le cui condizioni sono del tutto diverse.[10]
Dobbiamo ancora considerare i due punti opposti, situati alle estremità dell’asse che attraversa la terra, e che sono, come abbiamo detto, Gerusalemme e il Paradiso terrestre. Si tratta, in certo qual modo, di proiezioni verticali dei due punti che segnano l’inizio e la fine del ciclo cronologico e che, come tali, nella raffigurazione precedente avevamo fatto corrispondere alle estremità del diametro orizzontale. Se queste estremità rappresentano la loro opposizione secondo il tempo, e se quelle del diametro verticale rappresentano la loro opposizione secondo lo spazio, si ha così un’espressione del ruolo complementare dei due principi la cui azione, nel nostro mondo, si traduce nell’esistenza delle due condizioni del tempo e dello spazio. La proiezione verticale potrebbe essere vista come una proiezione nell’«intemporale», se così possiamo esprimerci, poiché essa si compie secondo l’asse da cui tutte le cose sono considerate in modo permanente e non più transitorio; il passaggio dal diametro orizzontale al diametro verticale rappresenta dunque veramente una trasmutazione della successione in simultaneità.
Ma, si dirà, quale rapporto esiste fra i due punti in questione e le estremità del ciclo cronologico? Per uno di questi, il Paradiso terrestre, il rapporto è evidente, ed esso corrisponde all’inizio del ciclo; quanto all’altro, bisogna osservare che la Gerusalemme terrestre è vista come la prefigurazione della Gerusalemme celeste descritta nell’Apocalisse; d’altronde, Gerusalemme simbolicamente è anche il luogo in cui sono collocati la resurrezione e il giudizio che concludono il ciclo. La posizione dei due punti agli antipodi l’uno dell’altro assume inoltre un nuovo significato se si osserva che la Gerusalemme celeste non è altro che la ricostituzione del Paradiso terrestre, secondo un’analogia che si applica in senso inverso.[11] All’inizio dei tempi, ossia del ciclo attuale, il Paradiso terrestre è stato reso inaccessibile a causa della caduta dell’uomo; la nuova Gerusalemme deve «discendere dal cielo sulla terra» alla fine dello stesso ciclo, per segnare la restaurazione di tutte le cose nel loro ordine primordiale, e si può dire che essa avrà per il ciclo futuro lo stesso ruolo che il Paradiso terrestre ha per quello attuale. Infatti la fine di un ciclo è analoga al suo inizio e coincide con l’inizio del ciclo seguente; ciò che era solo virtuale all’inizio del ciclo si trova effettivamente realizzato al suo termine, e allora genera immediatamente le virtualità che a loro volta si svilupperanno nel corso del ciclo futuro; ma è una questione sulla quale non possiamo soffermarci senza uscire del tutto dal nostro tema.[12] Aggiungeremo soltanto, per indicare un altro aspetto dello stesso simbolismo, che il centro dell’essere, al quale abbiamo fatto allusione sopra, è designato dalla tradizione indù come la «città di Brahma» (in sanscrito Brama-pura), e che diversi testi ne parlano in termini quasi identici a quelli che troviamo nella descrizione apocalittica della Gerusalemme celeste.[13] Infine, per tornare a quanto riguarda più direttamente il viaggio di Dante, è opportuno osservare che se il punto iniziale del ciclo diventa il termine della traversata del mondo terrestre, ciò racchiude un’allusione formale a quel «ritorno alle origini» che ha un ruolo importante in tutte le dottrine tradizionali, e sul quale, con notevole accordo, l’esoterismo islamico e il Taoismo insistono particolarmente; anche qui si tratta della restaurazione dello «stato edenico» di cui abbiamo già parlato e che va considerata come una condizione preliminare per la conquista degli stati superiori dell’essere.
Il punto equidistante dalle due estremità di cui abbiamo parlato, ossia il centro della terra, è, come abbiamo detto, il punto più basso, e corrisponde anche al centro del ciclo cosmico, allorché questo ciclo è considerato cronologicamente o sotto l’aspetto della successione. Si può infatti dividere l’insieme in due fasi, l’una discendente, che va nel senso di. una differenziazione sempre più accentuata, e l’altra ascendente, di ritorno verso lo stato principiale. Queste due fasi, che la dottrina indù paragona a quelle della respirazione, si ritrovano anche nelle teorie ermetiche, in cui sono chiamate «coagulazione» e «soluzione»: in virtù delle leggi dell’analogia, la «Grande Opera» riproduce in compendio tutto il ciclo cosmico. Vi si può vedere la prevalenza rispettiva delle due tendenze contrarie, tamas e sattwa, che abbiamo definito in precedenza: la prima si manifesta in tutte le forze di contrazione e di condensazione, la seconda in tutte le forze di espansione e di dilatazione; e troviamo anche, a questo riguardo, una corrispondenza con le proprietà opposte del caldo e del freddo: il primo dilata i corpi, il secondo li contrae; per questo motivo l’ultimo cerchio dell’Inferno è gelato. Lucifero simboleggia l’«attrazione inversa della natura», cioè la tendenza all’individualizzazione, con tutte le limitazioni inerenti; la sua dimora è dunque «‘l punto / al qual si traggon d’ogni parte i pesi»,[14] o, in altri termini, il centro di quelle forze attrattive e compressive che nel mondo terrestre sono rappresentate dalla gravità; e questa, che attira i corpi verso il basso (che è in ogni luogo il centro della terra), è veramente una manifestazione del tamas. Possiamo osservare di sfuggita che ciò è contrario all’ipotesi geologica del «fuoco centrale», giacché il punto più basso deve essere precisamente quello dove la densità e la solidità sono al loro massimo; ed è altrettanto contrario all’ipotesi, avanzata da certi astronomi, di una «fine del mondo» per congelamento, poiché tale fine non può essere altro che un ritorno all’indifferenziazione. D’altronde, quest’ultima ipotesi è in contraddizione con tutte le concezioni tradizionali: non è solo per Eraclito e per gli Stoici che la distruzione del mondo doveva coincidere con la sua combustione; la stessa affermazione si trova pressappoco ovunque, dai Purâna dell’India all’Apocalisse; e dobbiamo anche constatare la consonanza di queste tradizioni con la dottrina ermetica, per la quale il fuoco (l’elemento nel quale predomina il sattwa) è l’agente del «rinnovamento della natura» o della «reintegrazione finale».
Il centro della terra rappresenta dunque il punto estremo della manifestazione nello stato di esistenza considerato; è un vero e proprio punto di arresto, a partire dal quale si produce un cambiamento di direzione, e la preponderanza passa dall’una all’altra delle due tendenze opposte. Perciò, non appena è stato raggiunto il fondo degli Inferi, comincia l’ascesa o il ritorno verso il principio, che segue immediatamente alla discesa; e il passaggio dall’uno all’altro emisfero avviene aggirando il corpo di Lucifero, così da far pensare che la considerazione di quel punto centrale abbia un certo rapporto con i misteri massonici della «Camera di Mezzo», in cui si tratta ugualmente di morte e resurrezione. Dovunque e sempre, ritroviamo l’espressione simbolica delle due fasi complementari che, nell’iniziazione o nella «Grande Opera» ermetica (che sono in fondo la medesima cosa), traducono quelle stesse leggi cicliche, universalmente applicabili, sulle quali si basa, secondo noi, tutta la costruzione del poema di Dante.


[1] Paradiso, XV, 56-57.
[2] Aggiungiamo che il numero 65 equivale in ebraico al nome divino Adonai.
[3] I numeri ciclici principali sono 72, 108 e 432; è facile vedere che si tratta delle frazioni esatte del numero 25.920, al quale sono direttamente collegati dalla divisione geometrica del cerchio; e questa divisione medesima è un’altra applicazione dei numeri ciclici.
[4] Del resto, in fondo vi è accordo fra tutte le tradizioni, quali che siano le loro differenze formali. Così, la teoria delle quattro età dell’umanità (che si riferisce a un ciclo più esteso di quello di 13.000 anni) si trova nell’antichità greco-romana, fra gli indù e nei popoli dell’America Centrale. Si può rilevare un’allusione alle quattro età (dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro) nella figura del «veglio di Creta» (Inferno, XIV, 94-120), che è d’altronde identica alla statua del sogno di Nabucodonosor (Daniele, 2); e i quattro fiumi che Dante fa uscire dagli Inferi non mancano di una certa analogia con quelli del Paradiso terrestre. Tutto ciò si può comprendere solo riferendosi alle leggi cicliche.
[5] Questo è uno dei simboli che si riferiscono alla divisione quaternaria del cerchio, le cui applicazioni analogiche sono quasi innumerevoli.
[6] Si veda O. Wirth, Le Symbolisme hermétique dans ses rapports avec l’Alchimie et la Franc-Maçonnerie, Paris, 1910, pp. 10 e 70-71.
[7] Il simbolismo del polo ha un ruolo considerevole in tutte le dottrine tradizionali; ma, per darne la spiegazione completa, sarebbe necessario dedicargli uno studio speciale.
[8] Purgatorio, I, 22-27.
[9] Il simbolo ermetico del regno animale è il segno O, che comporta il diametro verticale per intero e solo la metà del diametro orizzontale; questo simbolo è in certo modo contrario a quello del regno minerale, poiché quanto era orizzontale nell’uno diventa verticale nell’altro e viceversa; e il simbolo del regno vegetale, in cui vi è una sorta di simmetria o di equivalenza tra le due direzioni orizzontale e verticale, ben rappresenta uno stadio intermedio fra gli altri due.
[10] Faremo osservare che i tre gradi della Massoneria simbolica hanno, in certi riti, parole d’ordine che rappresentano rispettivamente i tre regni minerale, vegetale e animale; inoltre, il primo di questi tre termini viene a volte interpretato in un senso che è in stretto rapporto con il simbolismo del «globo del mondo».
[11] Fra il Paradiso terrestre e la Gerusalemme celeste c’è lo stesso rapporto che fra i due Adamo di cui parla San Paolo (Prima lettera ai Corinzi, 15).
[12] A questo proposito vi sarebbero molte altre questioni interessanti da approfondire, ad esempio: perché il Paradiso terrestre è descritto come un giardino e con un simbolismo vegetale, mentre la Gerusalemme celeste è descritta come una città e con un simbolismo minerale? Il fatto è che la vegetazione rappresenta l’elaborazione dei germi nella sfera dell’assimilazione vitale, mentre i minerali rappresentano i risultati definitivamente fissati, per così dire «cristallizzati», al termine dello sviluppo ciclico.
[13] I parallelismi cui danno luogo quei testi sono ancora più significativi quando si conosca la relazione che unisce l’Agnello del simbolismo cristiano all’Agni vedico (il cui veicolo è del resto rappresentato dall’ariete). Non pretendiamo che fra le parole Agnus e Ignis (l’equivalente latino di Agni) vi sia altro che una di quelle similitudini fonetiche alle quali alludevamo in precedenza, che possono benissimo non corrispondere ad alcuna parentela linguistica propriamente detta, ma che non sono puramente accidentali. Quello di cui vogliamo soprattutto parlare è un certo aspetto del simbolismo del fuoco, che in diverse forme tradizionali è strettamente legato all’idea dell’«Amore», trasposto in un senso superiore come in Dante; e in questo Dante si ispira a san Giovanni, al quale gli Ordini di cavalleria hanno sempre ricollegato le loro concezioni dottrinali. Si deve inoltre osservare che l’Agnello appare associato sia alle rappresentazioni del Paradiso terrestre che a quelle della Gerusalemme celeste. 
[14] Inferno, XXXIV, 110-111.

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