René Guénon
Forme tradizionali e cicli cosmici
Forme tradizionali e cicli cosmici
Atlantide e regione iperborea[1]
Nella rivista Atlantis (giugno 1929), Paul Le Cour riprende la nota di un nostro
articolo dello scorso maggio[2] in cui affermavamo la distinzione fra Regione iperborea e
Atlantide, contro coloro che vogliono confonderle e che parlano di «Atlantide
iperborea». A dire il vero, sebbene questa espressione sembri effettivamente
appartenere soltanto a Paul Le Cour, non era a lui solo che pensavamo, scrivendo
quella nota, perché egli non è certo l’unico a confondere le questioni di cui
si tratta. Tale confusione la si trova ugualmente in
Herman Wirth, autore di un’importante opera sulle origini dell’umanità (Der Aufgang der Menschheit), edita di
recente in Germania: questi usa costantemente il termine «nord-atlantico» per
designare la regione che costituì il punto di partenza della tradizione
primordiale.
Paul Le Cour, invece, a quanto ci risulta, è proprio il solo ad
averci imprestato l’affermazione della esistenza di
una «Atlantide iperborea»; e se a tal riguardo non lo abbiamo citato, è
solamente perché le questioni personali contano per noi assai poco, unicamente
avendo importanza il mettere in guardia i nostri lettori contro una falsa
interpretazione, quale che possa essere la sua provenienza. Ci chiediamo in che
modo Paul Le Cour ha mai letto quanto abbiamo scritto, e più che mai ce lo chiediamo ora, che ci fa dire che il Polo Nord,
originariamente, «non era affatto quello d’oggi, ma si trovava, a quanto pare,
in una regione prossima all’Islanda e alla Groenlandia». Dove avrà trovato
affermazioni del genere? Siamo assolutamente sicuri di non aver mai scritto una
sola parola al riguardo, di non aver mai fatto il minimo accenno alla
questione, per noi secondaria, di un possibile spostamento del polo,
dall’inizio del nostro Manvantara[3]; a maggior ragione non abbiamo mai precisato la sua
collocazione originaria che del resto, per più d’un motivo, sarebbe difficile
da definire rispetto alle terre attuali.
Le Cour dice ancora che, «malgrado il nostro induismo, ammettiamo che l’origine delle
tradizioni è occidentale»; noi, invece, non la pensiamo affatto così: infatti,
abbiamo sempre sostenuto che essa è polare, e il polo, a quanto si sa, non è
occidentale più di quanto non sia orientale; insomma, ci ostiniamo a pensare
che il Nord e l’Ovest sono due punti cardinali diversi, così come dicevamo
nella nota presa di mira.
Solamente in un’epoca già lontana
dalle origini, la sede della tradizione primordiale, trasferita in altre
regioni, ha potuto divenire e occidentale e orientale,
occidentale per taluni periodi, orientale per altri e, in ogni caso,
sicuramente orientale nell’ultima fase, già molto prima dell’inizio dei
cosiddetti tempi «storici» (in quanto sono i soli accessibili alle indagini
della storia «profana»). D’altra parte ‑ lo si
tenga ben presente ‑ non è certo «malgrado il nostro induismo» (Le Cour,
adoperando questo termine, probabilmente non pensava di dir cosa tanto esatta),
ma proprio a causa di esso, che consideriamo nordica l’origine delle
tradizioni, anzi, più precisamente, polare, poiché questo dicono espressamente
i Vêda, al pari di altri libri sacri[4].
La terra in cui il sole faceva il giro dell’orizzonte senza tramontare, doveva in effetti essere molto vicina al polo, se non
identificarsi con esso; è stato anche detto che, in seguito, i rappresentanti
della tradizione si spostarono in una regione, dove il giorno più lungo era il
doppio di quelle più corto, ma questo particolare si riferisce già ad una fase
ulteriore, che, geograficamente, non ha evidentemente più nulla a che vedere
con la regione iperborea.
Può darsi che Le Cour abbia ragione
a distinguere un’Atlantide meridionale da una settentrionale, anche se
probabilmente, in origine, esse non erano separate; tuttavia non è men vero che
la stessa Atlantide settentrionale non aveva nulla di iperboreo.
Ciò che complica non poco la questione, e lo riconosciamo di buon grado, è il fatto che le medesime designazioni sono state
applicate, nel corso del tempo, a territori ben diversi, e non solo alle
successive localizzazioni del centro tradizionale primordiale, ma anche ai
centri secondari che ne derivavano più o meno direttamente. Abbiamo segnalato
questa difficoltà nel nostro studio su Le
Roi du Monde[5], dove, proprio alla pagina cui si riferisce Le Cour,
scrivevamo: «Bisogna distinguere la Tula
atlantica (luogo d’origine dei Toltechi, probabilmente situata nell’Atlantide
settentrionale) dalla Tula iperborea;
in realtà è quest’ultima che rappresenta il centro primo e supremo per l’intero
Manvantara attuale; essa fu l’“isola
sacra” per eccellenza, e la sua posizione, all’origine, era letteralmente
polare. Tutte le altre “isole sacre”, designate dovunque con nomi dal
significato identico, furono soltanto delle immagini della Tula iperborea; e questo vale anche per il centro spirituale della
tradizione atlantica, che regge soltanto un ciclo storico secondario,
subordinato al Manvantara»[6].
E aggiungevamo in nota: «Nella determinazione del
punto di congiunzione della tradizione atlantica con quella iperborea, una
difficoltà di non poco conto deriva dalla sostituzione di certi nomi,
sostituzione che può dar luogo a molteplici confusioni; ma il problema,
nonostante tutto, non è forse interamente insolubile».
Quando parlavamo di quel «punto di congiunzione», pensavamo soprattutto al Druidismo,
ed ecco che ‑ proprio a proposito del Druidismo ‑ troviamo ancora
in Atlantis (luglio-agosto 1929)
un’altra nota che testimonia come, talvolta, sia difficile farsi comprendere.
Riguardo al nostro articolo di giugno sulla «triplice
cinta»[7], Le Cour scrive quanto segue: «Fare di questo emblema
unicamente un simbolo druidico, significa limitarne l’importanza; esso è
verosimilmente anteriore e si irradia oltre il mondo druidico». Ora, siamo così
lontani dal farne unicamente un simbolo druidico, che, nell’articolo in
questione, dopo aver riportato, come dice lo stesso Le Cour,
degli esempi ripresi in Italia e in Grecia, abbiamo scritto: «Il fatto che la
medesima raffigurazione si ritrovi presso altri popoli, oltre che fra i Celti,
indicherebbe l’esistenza, sotto altre forme tradizionali, di gerarchie
iniziatiche costituite sullo stesso modello (della gerarchia druidica), il che
è perfettamente normale». Quanto al problema della priorità, bisognerebbe
sapere innanzitutto a che epoca precisa risale il Druidismo, ed è probabile che
esso abbia origini molto più lontane, nel tempo, di quanto non si creda
comunemente, tanto più che i Druidi erano i custodi di una tradizione di cui
una parte notevole era incontestabilmente di provenienza iperborea.
Approfitteremo di questa
occasione, per fare un altro rilievo, che pure ha la sua importanza: noi
diciamo «iperboreo», per conformarci alla consuetudine invalsa a partire dai
Greci; ma l’uso di questa parola dimostra che i Greci, almeno quelli dell’età
«classica», avevano ormai perduto il senso della designazione originaria. In
realtà, basterebbe dire «Boreo», che è l’esatto equivalente del sanscrito Varâha, o piuttosto, quando si tratta di
una terra, al suo derivato femminile Vârâhî:
è la «terra del cinghiale», che divenne anche la «terra
dell’orso», in un’epoca successiva. durante il.
predominio degli Kshatriya, al quale
pose fine Parashu-Râma[8].
Per terminare questa necessaria
messa a punto, ci resta ancora da dire qualche parola su tre o quattro
argomenti che Le Cour affronta incidentalmente nelle sue due note; vi è
innanzitutto un accenno allo swastika,
a proposito del quale egli dice che «ne facciamo il
segno del polo». Senza la minima animosità, vorremmo pregare qui Paul Le Cour
di non assimilare il nostro caso al suo, poiché, infine, bisogna pur dire come
stanno le cose: noi lo consideriamo come un «ricercatore» (e con ciò non si vogliono affatto sminuire i suoi meriti), che propone
delle spiegazioni in base alle sue vedute personali, talvolta un po’
arrischiate, e questo è nel suo diritto, dato che egli non è ricollegato ad
alcuna tradizione vivente e non è in possesso di alcun dato ricevuto per
trasmissione diretta.
In altri termini, si potrebbe dire
che egli fa dell’archeologia, mentre noi facciamo
della scienza iniziatica, e sono questi due punti di vista che, anche quando
toccano i medesimi argomenti, non potrebbero coincidere in nessun modo. Noi non
«facciamo» dello swastika
il segno del polo: diciamo che esso è il segno del polo, e lo è sempre stato, e
che tale è il suo autentico significato tradizionale; e contro questo fatto ‑
che è ben diverso da quanto dice Le Cour ‑ né noi né Le Cour possiamo far
nulla. Le Cour, il quale, evidentemente, può soltanto
fornire delle interpretazioni più o meno ipotetiche, sostiene che lo swastika «è soltanto un simbolo, che si
riferisce a un ideale ben poco elevato»[9]; ed è questo il suo punto di vista, e nulla di più, per cui
noi siamo tanto meno disposti a discuterne, in quanto esso non rappresenta,
dopo tutto, che un semplice apprezzamento, dettato dal sentimento; «elevato» o
no, un «ideale» è per noi qualcosa di vacuo, e, per la verità, si tratta qui di
cose ben più «positive», diremmo, se non si fosse abusato del termine.
Le Cour, poi, non si mostra
soddisfatto della nota che abbiamo dedicato all’articolo di un suo
collaboratore, il quale voleva vedere a tutti i costi
un’opposizione fra l’Oriente e l’Occidente, dando prova, nei confronti
dell’Oriente, di un esclusivismo deplorevole[10].
Egli scrive in proposito delle cose sbalorditive: «René
Guénon, il quale è un logico puro, è soltanto capace d’indagare, tanto in
Oriente che in Occidente, l’aspetto meramente intellettuale delle cose, come
testimoniano i suoi scritti; e lo dimostra una volta di più, dichiarando che Agni è sufficiente a se stesso (cfr. Regnabit, aprile 1926) e ignorando la
dualità Aor-Agni, sulla quale
torneremo spesso, poiché essa è la pietra angolare del mondo manifestato».
Nonostante la nostra abituale indifferenza rispetto a quanto si scrive sul
nostro conto, non possiamo lasciar dire che siamo «un logico puro», quando, al
contrario, consideriamo la logica e la dialettica nient’altro che dei semplici
strumenti di esposizione, talvolta utili a questo titolo, ma del tutto
esteriori, privi di interesse per se stessi. Noi ci
ricolleghiamo, e lo ripetiamo ancora una volta, al solo punto di vista
iniziatico, e tutto il resto, vale a dire tutto ciò che costituisce conoscenza «profana», è completamente privo di valore, ai nostri occhi.
Se è vero che parliamo sovente di «intellettualità pura», è anche vero che
questa espressione ha un ben diverso significato da quello attribuitole da Le
Cour, il quale mostra di confondere «intelligenza» e «ragione», e, per un altro
aspetto, prende in considerazione una «intuizione estetica», mentre non esiste
altra vera intuizione che non sia l’«intuizione
intellettuale», d’ordine sovrarazionale. Vi è qui d’altronde qualcosa di ben
più formidabile di quanto non possa immaginare chi, manifestamente, non
sospetta minimamente cosa possa essere la «realizzazione
metafisica», e che probabilmente ci considera semplici teorici, il che prova
una volta di più che egli ha letto davvero male i nostri scritti, che pure
sembrano preoccuparlo stranamente.
Quanto alla storia di Aor-Agni, che noi non
«ignoriamo» affatto, sarebbe ora di smetterla una volta per tutte con
tali fantasticherie, di cui del resto Le Cour non è responsabile: se «Agni è sufficiente a se stesso», è per
la buona ragione che questo termine, in sanscrito, designa il fuoco in tutti i
suoi aspetti, senza alcuna eccezione, e coloro i quali pretendono il contrario
dimostrano semplicemente, in tal modo, una completa ignoranza della tradizione
indù. Non dicevamo nulla di diverso, nella nota del nostro articolo di Regnabit, che crediamo necessario
riprodurre qui testualmente: «Sapendo che, fra i lettori di Regnabit, alcuni sono a conoscenza delle
teorie di una scuola i cui studi, benché molto interessanti e apprezzabili sotto
molti aspetti, richiedono tuttavia delle riserve,
dobbiamo dire qui che non possiamo accettare l’uso dei termini Aor e Agni per designare i due aspetti complementari del fuoco (luce e
calore). Infatti, la prima di queste due parole è ebraica, mentre la seconda
appartiene al sanscrito, e non è lecito associare così dei termini presi da
tradizioni differenti, quali che siano le concordanze reali fra
di esse, ed anche l’identità congenita che si cela sotto la diversità
delle forme; non bisogna confondere il “sincretismo” con la vera sintesi.
Inoltre, se Aor è esclusivamente la
luce, Agni è il Principio igneo
integralmente considerato (l’esatto corrispondente dell’ignis latino), quindi è insieme luce e calore; limitare questo
termine alla designazione del secondo aspetto è del tutto arbitrario e
ingiustificato». C’è appena bisogno di dire che, nello scrivere questa nota,
eravamo ben lungi dal pensare a Paul Le Cour; infatti, pensavamo unicamente a
Hiéron de Paray-le-Monial, al quale si deve tale
bizzarra associazione verbale. Riteniamo di non dover tenere in alcun conto le
fantasticherie uscite dall’immaginazione un po’ troppo fertile del de
Sarachaga, quindi prive di qualsiasi autorità e senza alcun valore dal punto di
vista tradizionale, al quale intendiamo attenerci rigorosamente[11].
Infine, Le Cour approfitta
dell’occasione per riaffermare la teoria anti-metafisica e anti-iniziatica
dell’«individualismo» occidentale, ciò che, in
definitiva, impegna lui solo, ed è perciò affar suo. Aggiunge poi, con una
sorta di fierezza che dimostra quanto poco egli sia distaccato dalle
contingenze individuali: «Restiamo fermi nelle nostre
convinzioni, perché, nel dominio della conoscenza, noi siamo gli antenati».
Questa pretesa è davvero straordinaria: Le Cour si crede dunque così vecchio?
Gli Occidentali moderni non solo non possono considerarsi antenati di nessuno,
ma non sono neppure dei discendenti legittimi, poiché hanno perduto la chiave
della tradizione loro propria; non è certo «in Oriente che ha avuto luogo una
deviazione», qualunque cosa possano dirne coloro che
ignorano tutto delle dottrine orientali. Gli «antenati», per riprendere il
termine di Le Cour, sono coloro che detengono
effettivamente la tradizione primordiale; non potrebbero essercene altri e,
nell’epoca attuale, essi non si trovano di sicuro in Occidente.
[1] Articolo pubblicato su Le Voile d’Isis, ottobre 1929. [N.d.C.]
[2] Articolo intitolato Les pierres de foudre, pubblicato su Le Voile d’Isis, numero di maggio del 1929, e che ora costituisce
il capitolo XXV della raccolta Symboles
fondamentaux de la Science sacrée (1962).
[3] Tale questione sembra essere collegata a quella
dell’inclinazione dell’asse terrestre, inclinazione
che, secondo certi dati tradizionali, non sarebbe esistita dall’origine, ma
sarebbe una conseguenza di ciò che gli Occidentali chiamano «la caduta
dell’uomo».
[4] Chi vorrà avere riferimenti precisi al riguardo potrà
trovarne nella ragguardevole opera di B.G. Tilak, The Arctic Home in the Vêda, che,
disgraziatamente, è del tutto sconosciuta in Europa, certo perché l’autore era
un Indù non occidentalizzato.
[5] [Tr. it.: Il Re del Mondo, Atanòr, Roma 1972 ‑
N.d.R.]
[6] A proposito della Tula
atlantica, crediamo sia interessante riportare qui una informazione
che abbiamo rilevato da un resoconto geografico del Journal des Débats (22 gennaio 1929), su Les Indiens de l’isthme de Panama, di cui perfino l’autore
dell’articolo non ha sicuramente compreso l’importanza: «Nel 1925, gran parte
degli Indiani Cuna si ribellò, uccise i soldati panamensi di stanza sul loro
territorio e fondò la Repubblica indipendente di Tule, che ebbe per bandiera uno swastika
su fondo arancione con bordatura rossa. Questa repubblica esiste tuttora». Ciò
sta ad indicare che, per quanto riguarda le tradizioni
dell’antica America, sussistono delle vestigia in misura molto maggiore di
quanto non si creda.
[7] Articolo intitolato La triple enceinte druidique pubblicato su Le Voile d’Isis, giugno 1929, che costituisce attualmente
il capitolo X di Symboles fondamentaux de
la Science sacrée.
[8] Il nome di Vârâhî
si applica alla «terra sacra», assimilata simbolicamente ad
un aspetto particolare della Shakti
di Vishnu, considerato allora
specialmente nel suo terzo avatâra; a
questo proposito, molto vi sarebbe da dire, e forse, un giorno, torneremo in
argomento. Con lo stesso nome, non è stata mai designata l’Europa, come invece
sembra aver creduto Saint-Yves d’Alveydre; d’altra parte, tali questioni
avrebbero potuto essere più chiare, in Occidente, se Fabre d’Olivet e i suoi
discepoli non avessero mescolato inestricabilmente la storia di Parashu-Râma e quella di Râma-Chandra, vale a dire il sesto e il
settimo avatâra, che sono invece ben distinti, da ogni punto di vista.
[9] Vogliamo supporre che, scrivendo queste parole, Le
Cour abbia pensato piuttosto alle interpretazioni moderne che non a quelle
tradizionali dello swastika, come
quella concepita ad esempio dai «razzisti» tedeschi, che si sono appropriati di
questo emblema, paludandolo dell’appellativo barocco ed
insignificante di hakenkreuz o «croce
uncinata».
[10] Le Cour ci rimprovera di
aver detto a questo proposito che il suo collaboratore «non ha certamente il
dono delle lingue», e trova che la nostra «è un’affermazione infelice»; il
fatto è che egli confonde semplicemente il «dono delle lingue» con le
cognizioni linguistiche; in realtà, esso non ha assolutamente nulla a che
vedere con l’erudizione.
[11] È lo stesso de Sarachaga che scriveva
zwadisca per swastika; uno dei suoi discepoli, al quale una volta lo facemmo
notare, ci assicurò che doveva avere i suoi motivi, per scriverlo così: ecco una
giustificazione un po’ troppo semplicistica!
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