"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 18 dicembre 2016

Demetrio Giordani, Conoscenza e visio beatifica. Il Punto di vista di Shaykh Ahmad Sirhindî

Demetrio Giordani
Conoscenza e visio beatifica.
Il Punto di vista di Shaykh Ahmad Sirhindî

Shaykh Ahmad Sirhindî (1564-1624) nacque e morì a Sirhind, località del Punjab a metà strada tra Delhi e Lahore. Fu un importante membro dell’ordine sufi dei Naqshbandiyya; fu un mujtahid, e un teologo, appartenente alla scuola di diritto hanafita e di teologia maturidita.
Di lui si parla in India e altrove come del Rinnovatore del Secondo Millennio dell’Islam (mujaddid-i alf-i thânî); la sua fama è dovuta soprattutto all’impatto che ebbero le sue lettere (maktûbât) nell’ambiente religioso dell’India del XVII secolo e alla forte influenza che esercitò alla corte dell’imperatore moghul Jahângîr (1601-1627).
La sua opera di riforma religiosa era in parte rivolta verso gli ambienti intellettuali della corte imperiale che in quel periodo erano pervasi da correnti di pensiero fortemente contaminate dal sincretismo, e verso alcune correnti del Sufismo dell’India in cui erano particolarmente in auge le dottrine della scuola metafisica di Muhyi al-Dîn IbnArabî, nota come Wahdat al-Wujûd, o «Unicità dell’Essere», a cui egli oppose un punto di vista differente, espresso dalla dottrina metafisica della Wahdat al-Shuhûd o «Unicità della Visione».
Non essendo mia intenzione descrivere nel dettaglio le differenze sostanziali tra le due dottrine, mi soffermerò però su alcuni aspetti della dottrina metafisica di Shaykh Ahmad Sirhindî che rappresentano a mio giudizio uno dei punti più elevati dell’elaborazione teorica e dottrinale del Sufismo.
Uno degli argomenti più frequentemente trattato da Sirhindî nelle sue opere è quello della visione di Dio e della sua modalità. Nella teologia islamica, la questione della visio beatifica, espressione che in arabo si traduce con il termine ru’ya, è stato un problema ardentemente dibattuto; secondo l’opinione ortodossa prevalente, Dio potrà essere visto solo dai credenti nell’Altro Mondo, e questa visione sarà loro concessa come premio supremo, come spiega il versetto: «Volti in quel giorno saranno splendenti, miranti al loro Signore».[1]
A questo proposito viene spesso citato un hadîth qudsî[2] in cui il Profeta parlando ai suoi compagni disse: «Voi vedrete il vostro Signore come vedete la luna durante le notti di luna piena».[3]
Resta da determinare con quali occhi, secondo i teologi, i credenti potranno vedere Iddio nell’Altro Mondo. La Visione avverrà con gli occhi del corpo, oppure sarà solamente una visione spirituale, anche se e quando i corpi verranno resuscitati? L’Imâm Abû Hanîfa dice chiaramente nel Fiqh Akbar che Iddio sarà visibile in Paradiso dai credenti, che lo vedranno con gli occhi del corpo, senza comparazione o modalità, e non ci sarà distanza alcuna tra Lui e le Sue creature.[4] I Mutaziliti negavano fermamente la possibilità di tale visione, poiché, sostenevano, essendo Iddio immateriale non può essere visto dagli occhi del corpo di nessun essere vivente. Essi fondavano la loro posizione sul versetto coranico che dice: «Non lo afferrano gli sguardi ed Egli tutti gli sguardi afferra».[5]
Per gli Ash‘ariti, al contrario, Iddio potrà essere visto con gli occhi del corpo (bi-labsâr), proprio perché Egli esiste, e tutto quel che esiste può esser visto.[6] Kalâbâdhî, autore di uno dei uno dei primi grandi trattati sul sufismo, diceva però che a vederlo saranno solo i credenti e non i miscredenti, perché sarà un privilegio accordato loro da Dio.[7] Al-Ghazâlî precisa però che si tratterà di una visione spirituale determinata da una disposizione naturale del cuore, chiamata a volte intelletto (‘aql), oppure visione interiore (basîra), luce della fede o della certezza (nûr al-îmân wa-l-yaqîn).[8]
Altri teologi sunniti, tra cui alcuni sapienti della scuola di Al-Mâturîdî, distinguevano tra ru’ya, «visione» diretta e idrâk, «percezione» e affermavano che se anche Iddio può essere visto mediante gli sguardi non potrà però essere afferrato da essi; non è possibile infatti parlare di idrâk in rapporto a Dio, perché ciò implicherebbe che l’oggetto della percezione abbia dei limiti che lo circoscrivono, e che sia dunque possibile raggiungerlo e contenerlo.
Nell’Aldilà i credenti avranno la visione di Dio ma non avranno l’opportunità di «cogliere» Dio con gli sguardi o di comprenderLo con la ragione.[9]
Shaykh Ahmad Sirhindî conferma la tesi maturidita e in una delle sue lettere afferma:

L’impossibilità non è nel rivelarsi, ma nella percezione, la quale implica in qualche modo il «contenimento» (ihâta) dell’oggetto: è detto infatti: «Gli sguardi non Lo afferrano (tudriku-Hu)»,[10] e non: «Gli sguardi non Lo vedono (tarâHu)».[11]
In Paradiso i musulmani vedranno Iddio senza direzione, senza stare di fronte a Lui, senza come (bî-kayfa), senza una comprensione vera (ihâta-yi haqq). Noi crediamo nella visione di Iddio Altissimo nell’Aldilà ma non ci preoccupiamo del come Egli potrà essere visto, poiché questo vederLo è senza modalità, e in questa attuale condizione (dell’umanità nel mondo terrestre) per coloro che sono condizionati, quella realtà non è rappresentabile, per quelli oltre all’aver fede non c’è altra opportunità (di conoscenza). Guai ai filosofi, ai Mutaziliti, e al resto delle sette di innovatori eretici, che per la loro cecità e grettezza, rifiutano la visione nell’Altro Mondo e pensano di poter dedurre per analogia il Mondo del Mistero da quello visibile (qiyâs-i ghâ’ib bar shâhid konand).[12]

I pareri invece sono discordi sulla questione della possibilità che tale visione possa avvenire nella vita terrena; è tuttavia opinione assai diffusa che tale visione sia stata concessa al Profeta, al culmine dell’Ascensione, e ciò si intuirebbe dal famoso versetto della Sura della Stella: «E il cuore non smentì quel che vide».[13]
L’unica cosa in discussione è se quella visione il Profeta l’abbia avuta con gli occhi del corpo, oppure con quelli della vista interiore del cuore. Se poi vi siano stati altri, oltre al Profeta, ad aver avuto la visione di Dio, alcuni, tra cui Al-Ash‘arî, ritenevano possibile che alcuni grandi santi l’avessero ricevuta a titolo di karâma, come frutto del particolare favore divino.[14] Questa opinione è stata condivisa anche da numerosi sufi, come Sahl al-Tustarî che operando una successiva chiarificazione, affermava nel IX secolo che la visione strictu senso era un esclusivo privilegio dei beati in Paradiso, ma che anche gli uomini di Dio ne beneficiano in anticipo in questo mondo grazie allo svelamento del cuore (kushûf al-qalb fi-l-dunyâ).[15]
A questo proposito Hujwîrî riporta i detti di Junayd, Bayazîd al-Bistâmî e Dhû-l-Nûn Misrî e afferma sulla base di questi eminenti pareri che Iddio può essere contemplato in questo mondo e che tale contemplazione assomiglia alla visione nella vita futura. Egli racconta che un giorno chiesero a Abû Yazîd al-Bistâmî quanti anni avesse, ed egli rispose:

“Quattro!” Gli altri dissero: “Com’è possibile?” Ed egli rispose: “Sono stato velato da Dio per via di questo mondo per settant’anni, ma l’ho visto negli ultimi quattro anni: il periodo durante il quale si è velati non fa parte della vita”.[16]

Lo Shaykh Abû-l-Qâsim al-Qushayrî nella sua famosa Risâla distingue, al pari di molti altri, tre gradi nella progressione verso la conoscenza di Dio: muhâdara, presenza; mukâshafa svelamento; mushâhada, contemplazione, che sono tappe che possiamo ritrovare un po’ ovunque, nella letteratura del Sufismo, sotto altre definizioni.[17]
Un altro versetto che allude chiaramente alla visio beatifica e su cui si è concentrata l’attenzione dei commentatori è quello che riguarda il colloquio di Mosé con Dio, e che dice:

E quando Mosé venne al nostro convegno e il suo Signore ebbe parlato con lui Mosè disse: «O Signore! Mostrati a me, che io possa contemplarti!» Iddio Rispose: «Non Mi vedrai (lan tarânî)! Ma guarda il monte e se esso rimarrà fermo al suo posto, ebbene, tu Mi vedrai!» Ma quando Iddio si manifestò al monte lo ridusse in polvere e Mosè cadde fulminato […].[18]

Secondo uno dei commentatori questo versetto sta ad indicare che nulla, neanche la montagna più imponente, può sopportare la Sua visione. Lo sta a riaffermare il detto profetico che dice: «Il Suo velo è la luce, se fosse lacerato lo splendore del Suo Volto distruggerebbe ogni cosa che giunge a percepirlo con lo sguardo».[19] Nulla resiste alla visione, afferma ‘Abd al-Rahmân al-Sulamî, ad eccezione dei cuori degli gnostici che Iddio stesso ha adornato con la Sua conoscenza, consolidato con i raggi della Sua grazia, santificato con il Suo sguardo, e illuminato con la Sua luce.[20]
Resta da chiedersi come mai tutti questi grandi sufi contraddicono nei loro intenti il preciso decreto coranico con cui Iddio, nega categoricamente – lan tarânî – la visione del Suo Volto. Muhyi ad-Din IbnArabî, il quale riprende nelle sue opere lo stesso genere di vocabolario e di tematiche di Al-Qushayrî e degli altri sufi, fornisce una spiegazione possibile del versetto, che consente di intravedere una scappatoia alla rigidità interpretativa della parola rivelata. Nel capitolo 367 delle sue Futûhât al-Makkiyya, Al-Shaykh al-Akbar riporta le parole del colloquio che lui stesso ebbe con Mosè nel sesto cielo:

Tu hai chiesto di vederlo – gli chiese –. Ma l’Inviato di Dio ha detto «Nessuno vedrà Iddio prima di morire».[21] «È stato così – gli disse Mosè – Quando Gli chiesi di vederLo, Egli mi ha esaudito e io sono caduto fulminato. Ed è stato durante questa folgorazione che io L’ho visto». «Eri morto, allora?» «In pratica ero morto».[22]

Apprendiamo quindi da Al-Shaykh al-Akbar che il lan tarânî del Corano non è un decreto ineluttabile, in determinate condizioni Dio può essere visto, poiché è Lui che vuole essere conosciuto, ed è Lui solo che determina la modalità e l’entità di questa conoscenza. Ciò però presuppone un passaggio fondamentale, e una trasformazione radicale dell’essere di chi vede, il cui esito finale non sarebbe altro che: «La sottomissione incondizionata allo splendore mortale della teofania».[23]
La dottrina ibnarabiana della visione divina, ruota intorno al hadith qudsî che recita: «Ero un tesoro nascosto e volli essere conosciuto, creai allora le creature e mi sono fatto conoscere da loro, ed è per Me che essi Mi hanno conosciuto».[24]
Il termine chiave con cui IbnArabî descrive l’avvenire di questa conoscenza è tajallî, che può essere tradotto secondo il contesto con «epifania» o «teofania». Nel Corano la manifestazione divina che riduce in polvere la montagna e fulmina Mosè è infatti espressa con tale verbo: fa-lamma tajallà Rabbuhu lil-jabali ja‘alahu dakkan.[25]
Il tajallî è un Atto divino ed è in virtù di questo Atto divino che l’uomo può accedere a una percezione diretta di Dio. Shaykh Ahmad Sirhindî riprende nelle sue opere lo stesso termine e afferma che il massimo grado della perfezione della santità è collegato al passaggio attraverso tre stadi, che sono i tre gradi delle epifanie divine, ovvero l’Epifania degli Atti (tajallî al-af‘âl), in cui gli atti umani appaiono come delle attribuzioni dell’unico Atto divino; l’Epifania degli Attributi (tajallî al-sifât), in cui le qualità degli esseri appaiono come ombre degli Attributi divini; e le Epifanie dell’Essenza (al-tajalliyyât al-Dhâtiyya).
Nell’epistola Mabda’ wa Ma’âd Ahmad Sirhindî riafferma che l’apparizione dell’Essenza di Dio nell’Altro Mondo sarà una realtà per tutti i credenti, ma che alcuni tra gli eletti possono avere un prova di ciò che essa sarà già nella condizione attuale d’esistenza. Egli però mette in guardia continuamente sulla sua percezione, dicendo che non bisogna indagare sulle modalità di tale visione, perché, spiega, la gran parte dei sapienti ha tentato di dare una definizione della visio beatifica, ma ha sempre fallito nel tentativo, per il semplice fatto che essi hanno sempre cercato di comprendere la realtà dell’Altro mondo volendo dedurla per analogia dalla realtà di questo basso mondo.

La visione di Dio Potente ed Eccelso nell’Altro Mondo è per i credenti una realtà. A proposito di tale questione nessuno, tra le fazioni dell’Islâm e tra i saggi filosofi, afferma tale possibilità, al di fuori della Gente della Sunna. Il motivo per cui molti musulmani negano tale visione è dovuto alla deduzione per analogia del Non Manifestato dal Manifestato, e questa è una deduzione distorta (qiyâs-i ghâ’ib bar shâhid, wa ân fâsid ast). Quello che appare nella visione è incomparabile e senza modalità (bîcegûn), e quindi anche l’immagine ad esso legata sarà senza modalità. Bisogna credere in ciò, e non bisogna preoccuparsi di come ciò possa avvenire. Questo segreto può essere manifesto oggi (in questo mondo) agli eletti tra i santi, ed anche se non è propriamente una visione, non vuol dire che essa non possa aver luogo «come se tu Lo vedessi» (ka’annaka tarâHu).[26] Domani viceversa tutti i credenti vedranno il Vero – Sublime ed Eccelso – con i propri occhi (be-cishm-i sar), ma non potranno afferrare nulla, in quanto «gli sguardi non L’afferrano».[27]

Nell’opinione di Ahmad Sirhindî la possibilità di giungere alla visione dell’Essenza di Dio in questo mondo è concessa solo ai seguaci perfetti del Profeta dell’Islâm, poiché partecipano parzialmente e per via ereditaria[28] del beneficio concesso esclusivamente a lui durante la Notte del Viaggio notturno. La visione dei santi è però ben diversa dalla visione del Profeta. Dice infatti:

I corpi dei santi muhammadiani partecipano alle perfezioni dei gradi di questa santità [particolare], in base al fatto che il Profeta nella notte dell’ascensione fu trasportato col corpo sino a dove Dio volle, gli vennero fatti vedere il paradiso e l’inferno, gli fu rivelato quel che gli fu rivelato e gli venne lì concesso l’onore della visione corporea (al-ru’ya al-basariyya). Questo tipo di ascensione (mi‘râj) è particolare del Profeta, e quei santi che lo seguono in modo perfetto viaggiando «sotto il suo piede» partecipano anch’essi a questo grado particolare.
Anche alla terra va il pregio della coppa dei nobili.
Il succo del discorso è che la visione in questo mondo è una caratteristica riservata al Profeta, mentre lo stato di cui possono godere i santi che si trovano «sotto il suo piede» non è una visione. La differenza fra la visione [profetica] e lo stato [dei santi] è come quella che intercorre fra il principio (asl) e la sua ramificazione (far‘), fra la persona e l’ombra che essa proietta: l’una non è dunque uguale all’altra.[29]

Vi è nella dottrina di Sirhindi una importante distinzione nel carattere della visione del divino che ebbe Muhammad, durante la sua ascensione, e quella che ebbe Mosè, proprio perché, da quanto ci spiega l’esegesi di Ibn ‘Arabî, Mosè ebbe una visione fulminante dell’Essenza divina, mentre a Muhammad fu consentito vedere Iddio tramite una visione durevole e permanente. Questa peculiare dote di Muhammad, che è proprio quella visione dell’Essenza pura, che gli si è mostrata senza il velo dei Nomi degli Attributi e dei Rapporti, si riverbera in qualche modo anche nei santi che sono affini al suo modello e che ne sono a tutti gli effetti gli eredi. Ciò è possibile che avvenga al massimo dei gradi della realizzazione spirituale, che nella via dei Naqshbandî, è quello della «Fissazione del ricordo» (yâd dasht),[30] ed è il grado in cui la visione da «lampeggiante» o «fulminante» (barqî) ovvero discontinua, diviene «durevole» (dâ’imî). Questo è anche il grado della più completa estinzione in Allâh (fanâ’ fi-Llâh).

Sappi che con «fissazione del ricordo» (yâd dâsht) si intende nella via dei maestri antichi (Khwâjagân) una presenza senza assenza (hudûr-i bî-ghaybat), vale a dire il permanere della presenza dell’Essenza suprema senza che si frappongano i veli dei Modi e delle Relazioni divine (hujub-i shuyûnî wa i‘tibârâtî), che sta a significare la presenza in un dato momento e l’assenza in un altro, quando cioè i veli vengono completamente rimossi per un istante e tornano a coprire nell’istante successivo ‒ come avviene nel caso dell’epifania lampeggiante dell’Essenza (tajalliyi dhâtî-yi barqî), allorché i veli vengono rimossi come in un lampo dall’Essenza suprema e per un attimo svaniscono i Suoi Modi e le Sue Relazioni. Tutto ciò viene considerato come cosa di poco conto dai grandi di questa via.
Raggiungere la presenza senza assenza sta nel fatto che l’Epifania lampeggiante dell’Essenza diviene permanente, senza che al suo apparire si frappongano i Modi e le Relazioni. Tutto ciò si verifica alla fine di questa via, in questa stazione si compie l’estinzione più perfetta, che diventa permanente, senza più alcuna possibilità di velatura: se infatti i veli tornassero a distendersi, la presenza si trasformerebbe in assenza e non si potrebbe dunque parlare di «fissazione del ricordo». La contemplazione dei grandi di questa via si realizza quindi nel modo più perfetto e completo, poiché la completezza dell’estinzione e la perfezione della permanenza dipendono dalla perfezione e dalla completezza della contemplazione.[31]

Resta comunque un fatto accertato che anche nel grado della «fissazione del ricordo» nulla può essere riportato dell’Unità assoluta (Ahadiyyat) spoglia di Nomi, Qualità, Modi e Relazioni. La visione epifanica dell’Essenza divina non ha forma, né qualità, né dimensione, né direzione: è una visione (ru’yat) senza modalità, un rivelarsi senza percezione (idrâk). Anche se l’Essenza di Dio può essere vista, tale visione non può tuttavia essere «compresa» in alcun modo: quindi non c’è quindi alcuna possibilità, secondo il Mujaddid, di «conoscere Dio» nel senso abituale del termine e di descrivere questa conoscenza. La sola possibilità data agli uomini è quella dello stupore (hayrat) e dell’ignoranza (jahl) proprie della condizione della vera Estinzione (fanâ’ fi-l-Lâh).

È per questo motivo che è stato detto che la conoscenza dell’Essenza di Dio – che sia glorificato! – è ignoranza, nel senso che non si tratta di una conoscenza che possa essere riferita al contingente, poiché quest’ultima appartiene alla categoria del «come», e qui non vi è alcun «come». Se il riflettere sull’Essenza di Dio è stato interdetto,[32] ciò dipende dal fatto che Egli – sia esaltato! – è al di là di ogni capacità di riflessione (tafakkur) e di immaginazione (takhayyul). Si può trovare Lui solo tramite Lui stesso – che sia glorificato! – e non col pensiero o con l’immaginazione.[33]

In altre parole:

Fin qui la penna è giunta, poi la punta s’è spezzata![34]

Nessuno tenti con la rete di catturare la Fenice
Che sempre e solo vento con essa prenderà![35]




[1] Cor. 75: 22-23.

[2] Letteralmente «tradizione santa»; un particolare genere di detti tramandati dal Profeta Muhammad, che contengono una rivelazione non contenuta nel Corano.

[3] 3A. J. WENSINCK, Concordances et Indices de la Tradition Musulmane [= Concordances], vol. II, pag. 151, Brill, Leiden-NewYork 1992.

[4] ABÛ HANÎFA, Fiqh Akbar II, art. 17, in A. J. WENSINCK, The Muslim Creed. Its Genesis and Historical Development, Londra 1965, pp. 193-194.

[5] Cor. 6: 103.

[6] L. GARDET, Dieu et la Destinée de l’Homme, Parigi 1967, pp. 338-346.

[7] ABÛ BAKR MUHAMMAD AL-KALÂBÂDHÎ, Al-Ta‘arruf li-madhab ahl al-tasawwuf, trad. it. Il Sufismo nelle parole degli antichi. Introduzione, traduzione e note a cura di Paolo Urizzi, Palermo 2002, p. 81.

[8] ABÛ HÂMID AL-GHAZÂLÎ, Ihyâ’’ulûm al-dîn, vol. IV, libro 6, p. 325, Beirut, Dâr al-Kutub al-‘ilmiyya, s.d.

[9] ‘ABD AL-KARÎM AL-BAZDAWÎ, Kitâb Usûl al-Dîn [= Usûl], Il Cairo 1963, pp. 77-88.

[10] Cor. 6: 103.

[11] A. SIRHINDÎ, Maktûbât-i Imâm-i Rabbânî [= Maktûbât], Istanbul 1977, vol. III, lettera n. 48, p. 384.

[12] Ibid., vol. II - lettera n. 67, p.183.

[13] Cor. 53: 11.

[14] ‘ABD AL-KARÎM AL-BAZDAWÎ: Usûl, cit. pp. 78-80.

[15] Sul commento coranico di Tustarî, vedere l’opera di G. BOWERING, The Mystical Vision of Existence in Classical Islâm, Berlin-New York 1980, pp. 165-175.

[16] ‘ALÎ IBNUTHMÂN AL-HUJWÎRÎ, Kashf al-Mahjûb, trad. ingl. di R. A. Nicholson, Londra 1911, p. 331.

[17] ABÛ-L-QÂSIM AL-QUSHAYRÎ, Al-Risâla al-Qushayriyya, Il Cairo 1940, p. 43.

[18] Cor. 7: 143.

[19] A. J. WENSINCK, Concordances, cit., Vol. I, p. 424.

[20] ‘ABD AL-RAHMÂN AL-SULAMÎ, Haqâ’iq al-Tafsîr, Beirut 2001, vol. I, p. 239.

[21] IBN MÂJA, fitan, 33.

[22] MUHYI AL-DÎN IBNARABÎ: Al-Futûhât al-Makkiyya [= Futûhât], Il Cairo 1911, vol. III, p. 349. Vedere anche a questo proposito, M. CHODKIEWICZ, La vision de Dieu selon IbnArabî [= La vision], in E. CHAUMONT (Ed.), Autour du regard. Mélanges Gimaret, Parigi 2003.

[23] M. CHODKIEWICZ, La vision, cit., p. 170.

[24] Hadîth che non figura nelle principali raccolte canoniche, figura spesso però nell’opera di IbnArabî, ad es. in Futûhât, vol. II, p. 232, 327, 399 e vol. III, p. 267.

[25] Cor. 7: 143.

[26] Allusione al famoso hadîth nel quale si tramanda che un giorno il Profeta, mentre era con i suoi compagni, venne visitato dall’Arcangelo Gabriele nelle vesti di un viaggiatore, che gli chiese il significato dell’Islâm, della fede (imân) e della perfezione (ihsân); rispondendo a quest’ultimo quesito il Profeta rispose che l’ihsân «è che tu adori Dio come se tu Lo vedessi; perché se tu non Lo vedi, Egli vede Te». YAHYA IBN SHARÂF AL-DÎN ALNAWAWÎ, Matn Al-Arba‘în Al-Nawawiyya; hadîth n. 2.

[27] Cor. 6: 103; A. SIRHINDÎ, Mabda’wa Ma‘âd [= Mabda’], Karachi-Istanbul 2000, p. 65-66. ID., L’inizio e il Ritorno [= L’inizio], traduzione e note a cura di Demetrio Giordani, Milano 2003, pp. 89-90.

[28] Per Ahmad Sirhindî l’esperienza visionaria dei santi è strettamente legata alle caratteristiche della santità dei profeti maggiori, che sono i loro modelli, dai quali ricevono specifiche caratteristiche, affinità e virtù spirituali per via ereditaria. Seconde le parole dello Shaykh, ogni santo è sotto il piede (tahta qadam) di un profeta che governa la sua santità. Secondo una classificazione tradizionale un santo può appartenere al tipo musawî, o ‘isâwî o hûdawî, o muhammadî a seconda se le caratteristiche peculiari della sua santità dipendono dall’essere erede di Mose, di Gesù, di Hûd, oppure di Muhammad.

[29] A. SIRHINDÎ, Maktûbât, cit., vol. I, lettera n.135, pp. 242-243.

[30] La via dei Naqshbandî è basata su undici regole fondamentali, otto delle quali stabilite da Khwâja ‘Abd al-Khâliq Ghujdawânî (m.1220), e tre da Bahâ’ al-Dîn Shâh Naqshband di Bukhâra (m. 1389). Vedere sull’argomento ABÛ-L-HASAN ZAYD FÂRÛQÎ, Le undici regole della Naqshbandiyya, in «’Ayn al-Hayât. Quaderno di studi della Tarîqa Naqshbandiyya» 1 (1995), pp. 77-103, traduzione e commento di Alberto Ventura.

[31] A. SIRHINDÎ, Maktûbât, cit., vol. I, lettera n.151, p. 254. Vedere anche: Maktûbât, cit., vol. I, lettera n. 287, p. 563.

[32] Allusione alla tradizione profetica che dice: «Riflettete su tutto, ma non riflettete sull’Essenza di Dio». Su questo hadîth e sulle relative fonti, BADΑU-L-ZAMÂN FORÛZÂNFAR, Ahâdîth o Qisas-i Mathnawî, Teheran 1376, H.sh., p. 418; W. C. CHITTICK, The Sufi Path of Knowledge, S.U.N.Y., New York 1989. Si confrontino queste parole di Sirhindî con quanto scrive l’Imâm ABÛ HÂMID AL GHAZÂLÎ, che cita lo stesso detto profetico: «Volgere lo sguardo all’Essenza divina produce stupore, sbigottimento, e turbamento d’intelletto. Dunque giusto non affrontarele vie della meditazione sull’Essenza e sulle Qualità di Dio Glorioso, perché la maggior parte delle menti non vi resistono». Kitâb al-Tafakkur, Il libro della Meditazione, trad. di G. Celentano, Trieste 1988, pp. 64-65.

[33] A. SIRHINDÎ, Maktûbât, cit., vol. III, lettera n. 75, p. 440. Sull’argomento della visione dell’Essenza presso IbnArabī, si veda P. URIZZI: La Visione teofanica presso Ibn ‘Arabî, in «Perennia Verba» 1 (1997), pp. 37-72 e n. 2 (1998), pp. 3-35; T. IZUTSU, Sufism and Taoism. A Comparative Study of Key Philosophical Concepts. University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1983, pp. 23-38; M. CHODKIEWICZ, La vision, cit.; W. C. CHITTICK, The Self-Disclosure of God. Principles of Ibn al-‘Arabî Cosmology, S.U.N.Y., New York 1998, pp. 91-120.

[34] A. SIRHINDÎ, Maktûbât, cit., vol. III, lettera n. 75, p. 440.


[35] ID., Mabda’, cit., p. 72; ID., L’inizio e il Ritorno, cit., p. 95.

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