Demetrio
Giordani
Conoscenza e visio beatifica.
Il Punto di vista di Shaykh Ahmad Sirhindî
Il Punto di vista di Shaykh Ahmad Sirhindî
Shaykh Ahmad Sirhindî (1564-1624) nacque
e morì a Sirhind, località del Punjab a metà strada tra Delhi e Lahore. Fu un
importante membro dell’ordine sufi dei Naqshbandiyya; fu un mujtahid, e un
teologo, appartenente alla scuola di diritto hanafita e di teologia maturidita.
Di lui si parla in India e altrove come del Rinnovatore del Secondo Millennio dell’Islam (mujaddid-i alf-i thânî); la sua fama è dovuta soprattutto all’impatto che ebbero le sue lettere (maktûbât) nell’ambiente religioso dell’India del XVII secolo e alla forte influenza che esercitò alla corte dell’imperatore moghul Jahângîr (1601-1627).
La sua opera
di riforma religiosa era in parte rivolta verso gli ambienti intellettuali
della corte imperiale che in quel periodo erano pervasi da correnti di pensiero
fortemente contaminate dal sincretismo, e verso alcune correnti del Sufismo
dell’India in cui erano particolarmente in auge le dottrine della scuola metafisica
di Muhyi al-Dîn Ibn ‘Arabî, nota come Wahdat al-Wujûd, o «Unicità
dell’Essere», a cui egli oppose un punto di vista differente, espresso dalla
dottrina metafisica della Wahdat
al-Shuhûd o «Unicità della Visione».Di lui si parla in India e altrove come del Rinnovatore del Secondo Millennio dell’Islam (mujaddid-i alf-i thânî); la sua fama è dovuta soprattutto all’impatto che ebbero le sue lettere (maktûbât) nell’ambiente religioso dell’India del XVII secolo e alla forte influenza che esercitò alla corte dell’imperatore moghul Jahângîr (1601-1627).
Non essendo mia intenzione descrivere nel
dettaglio le differenze sostanziali tra le due dottrine, mi
soffermerò però su alcuni aspetti della dottrina metafisica di Shaykh Ahmad Sirhindî
che rappresentano a mio giudizio uno dei punti più elevati dell’elaborazione
teorica e dottrinale del Sufismo.
Uno degli
argomenti più frequentemente trattato da Sirhindî nelle sue opere è quello della
visione di Dio e della sua modalità. Nella teologia
islamica, la questione della visio beatifica,
espressione che in arabo si traduce con il termine ru’ya, è stato un problema
ardentemente dibattuto; secondo l’opinione ortodossa prevalente, Dio potrà
essere visto solo dai credenti nell’Altro Mondo, e questa visione sarà loro
concessa come premio supremo, come spiega il versetto: «Volti in quel giorno
saranno splendenti, miranti al loro Signore».[1]
A questo proposito viene
spesso citato un hadîth qudsî[2]
in cui il Profeta parlando ai suoi compagni disse: «Voi vedrete il vostro Signore come
vedete la luna durante le notti di luna piena».[3]
Resta da determinare con quali occhi,
secondo i teologi, i credenti potranno vedere Iddio nell’Altro Mondo. La
Visione avverrà con gli occhi del corpo, oppure sarà solamente una visione
spirituale, anche se e quando i corpi verranno
resuscitati? L’Imâm Abû Hanîfa dice chiaramente nel Fiqh Akbar che Iddio sarà visibile in Paradiso dai credenti, che lo
vedranno con gli occhi del corpo, senza comparazione o modalità,
e non ci sarà distanza alcuna tra Lui e le Sue creature.[4]
I Mutaziliti negavano fermamente la possibilità di
tale visione, poiché, sostenevano, essendo Iddio immateriale non può essere
visto dagli occhi del corpo di nessun essere vivente. Essi fondavano la loro
posizione sul versetto coranico che dice: «Non lo
afferrano gli sguardi ed Egli tutti gli sguardi afferra».[5]
Per gli Ash‘ariti, al contrario, Iddio
potrà essere visto con gli occhi del corpo (bi-labsâr),
proprio perché Egli esiste, e tutto quel che esiste può
esser visto.[6]
Kalâbâdhî, autore di uno dei uno dei primi grandi
trattati sul sufismo, diceva però che a vederlo saranno solo i credenti e non i
miscredenti, perché sarà un privilegio accordato loro da Dio.[7]
Al-Ghazâlî precisa però che si tratterà di una visione spirituale determinata
da una disposizione naturale del cuore, chiamata a volte intelletto (‘aql), oppure visione interiore (basîra), luce della fede o della certezza
(nûr al-îmân wa-l-yaqîn).[8]
Altri teologi sunniti, tra cui alcuni
sapienti della scuola di Al-Mâturîdî, distinguevano tra ru’ya, «visione» diretta e idrâk,
«percezione» e affermavano che se anche Iddio può essere visto mediante gli
sguardi non potrà però essere afferrato da essi; non è possibile infatti parlare di idrâk
in rapporto a Dio, perché ciò implicherebbe che l’oggetto della percezione abbia
dei limiti che lo circoscrivono, e che sia dunque possibile raggiungerlo e
contenerlo.
Nell’Aldilà i credenti avranno la visione
di Dio ma non avranno l’opportunità di «cogliere» Dio
con gli sguardi o di comprenderLo con la ragione.[9]
Shaykh Ahmad Sirhindî conferma la tesi
maturidita e in una delle sue lettere afferma:
L’impossibilità non è nel
rivelarsi, ma nella percezione, la quale implica in qualche modo il «contenimento»
(ihâta) dell’oggetto: è detto infatti: «Gli sguardi non Lo afferrano (tudriku-Hu)»,[10]
e non: «Gli sguardi non Lo vedono (tarâHu)».[11]
In Paradiso i musulmani
vedranno Iddio senza direzione, senza stare di fronte a Lui, senza come (bî-kayfa), senza una comprensione vera
(ihâta-yi haqq). Noi crediamo nella visione di Iddio Altissimo nell’Aldilà ma
non ci preoccupiamo del come Egli potrà essere visto, poiché questo vederLo è
senza modalità, e in questa attuale condizione
(dell’umanità nel mondo terrestre) per coloro che sono condizionati, quella
realtà non è rappresentabile, per quelli oltre all’aver fede non c’è altra
opportunità (di conoscenza). Guai ai filosofi, ai Mutaziliti, e al resto delle
sette di innovatori eretici, che per la loro cecità e
grettezza, rifiutano la visione nell’Altro Mondo e pensano di poter dedurre per
analogia il Mondo del Mistero da quello visibile (qiyâs-i ghâ’ib bar shâhid konand).[12]
I pareri invece sono discordi sulla
questione della possibilità che tale visione possa avvenire nella vita terrena;
è tuttavia opinione assai diffusa che tale visione sia stata concessa al
Profeta, al culmine dell’Ascensione, e ciò si intuirebbe
dal famoso versetto della Sura della Stella: «E il cuore non smentì quel che
vide».[13]
L’unica cosa in discussione è
se quella visione il Profeta l’abbia avuta con gli occhi del corpo, oppure con
quelli della vista interiore del cuore. Se poi vi siano stati altri, oltre al
Profeta, ad aver avuto la visione di Dio, alcuni, tra cui Al-Ash‘arî,
ritenevano possibile che alcuni grandi santi l’avessero ricevuta a titolo di karâma, come frutto del particolare
favore divino.[14] Questa opinione è stata condivisa anche da numerosi sufi,
come Sahl al-Tustarî che operando una successiva chiarificazione, affermava nel
IX secolo che la visione strictu senso
era un esclusivo privilegio dei beati in Paradiso, ma che anche gli uomini di
Dio ne beneficiano in anticipo in questo mondo grazie allo svelamento del cuore
(kushûf al-qalb fi-l-dunyâ).[15]
A questo proposito Hujwîrî riporta i
detti di Junayd, Bayazîd al-Bistâmî e Dhû-l-Nûn Misrî e afferma sulla base di questi eminenti pareri che Iddio può essere
contemplato in questo mondo e che tale contemplazione assomiglia alla visione
nella vita futura. Egli racconta che un giorno chiesero
a Abû Yazîd al-Bistâmî quanti anni avesse, ed egli rispose:
“Quattro!” Gli altri dissero:
“Com’è possibile?” Ed egli rispose: “Sono stato velato da Dio per via di questo
mondo per settant’anni, ma l’ho visto negli ultimi quattro anni: il periodo
durante il quale si è velati non fa parte della vita”.[16]
Lo Shaykh Abû-l-Qâsim al-Qushayrî nella
sua famosa Risâla distingue, al pari
di molti altri, tre gradi nella progressione verso la conoscenza di Dio: muhâdara, presenza; mukâshafa svelamento; mushâhada,
contemplazione, che sono tappe che possiamo ritrovare
un po’ ovunque, nella letteratura del Sufismo, sotto altre definizioni.[17]
Un altro versetto che allude chiaramente
alla visio beatifica e su cui si è
concentrata l’attenzione dei commentatori è quello che riguarda il colloquio di
Mosé con Dio, e che dice:
E quando Mosé venne al nostro
convegno e il suo Signore ebbe parlato con lui Mosè disse: «O
Signore! Mostrati a me, che io possa contemplarti!» Iddio Rispose: «Non Mi vedrai (lan tarânî)! Ma guarda il
monte e se esso rimarrà fermo al suo posto, ebbene, tu Mi vedrai!» Ma quando
Iddio si manifestò al monte lo ridusse in polvere e Mosè cadde fulminato […].[18]
Secondo uno dei commentatori
questo versetto sta ad indicare che nulla, neanche la montagna
più imponente, può sopportare la Sua visione. Lo sta a
riaffermare il detto profetico che dice: «Il Suo velo è la luce, se
fosse lacerato lo splendore del Suo Volto distruggerebbe ogni cosa che giunge a
percepirlo con lo sguardo».[19]
Nulla resiste alla visione, afferma ‘Abd al-Rahmân al-Sulamî, ad eccezione dei
cuori degli gnostici che Iddio stesso ha adornato con la Sua conoscenza,
consolidato con i raggi della Sua grazia, santificato con il Suo sguardo, e
illuminato con la Sua luce.[20]
Resta da chiedersi come mai tutti questi
grandi sufi contraddicono nei loro intenti il preciso decreto coranico con cui
Iddio, nega categoricamente – lan
tarânî – la visione del Suo Volto. Muhyi ad-Din Ibn
‘Arabî, il quale riprende nelle sue opere lo stesso genere di
vocabolario e di tematiche di Al-Qushayrî e degli altri sufi, fornisce una
spiegazione possibile del versetto, che consente di intravedere una scappatoia
alla rigidità interpretativa della parola rivelata. Nel capitolo 367 delle sue Futûhât al-Makkiyya, Al-Shaykh al-Akbar riporta le parole del
colloquio che lui stesso ebbe con Mosè nel sesto cielo:
Tu hai chiesto di vederlo
– gli chiese –. Ma
l’Inviato di Dio ha detto «Nessuno vedrà Iddio prima di morire».[21]
«È stato così – gli disse Mosè – Quando Gli chiesi di vederLo, Egli
mi ha esaudito e io sono caduto fulminato. Ed è stato
durante questa folgorazione che io L’ho visto». «Eri morto, allora?» «In pratica ero morto».[22]
Apprendiamo quindi da Al-Shaykh al-Akbar che il lan tarânî del
Corano non è un decreto ineluttabile, in determinate condizioni Dio può essere
visto, poiché è Lui che vuole essere conosciuto, ed è Lui solo che determina la
modalità e l’entità di questa conoscenza. Ciò però presuppone un passaggio
fondamentale, e una trasformazione radicale dell’essere di chi vede, il cui
esito finale non sarebbe altro che: «La sottomissione
incondizionata allo splendore mortale della teofania».[23]
La dottrina ibnarabiana della visione
divina, ruota intorno al hadith qudsî che recita: «Ero
un tesoro nascosto e volli essere conosciuto, creai allora le creature e mi
sono fatto conoscere da loro, ed è per Me che essi Mi hanno conosciuto».[24]
Il termine chiave con cui Ibn ‘Arabî descrive l’avvenire di questa conoscenza è tajallî, che può essere tradotto secondo
il contesto con «epifania» o «teofania». Nel Corano la manifestazione divina
che riduce in polvere la montagna e fulmina Mosè è infatti
espressa con tale verbo: fa-lamma tajallà
Rabbuhu lil-jabali ja‘alahu dakkan.[25]
Il tajallî
è un Atto divino ed è in virtù di questo Atto divino
che l’uomo può accedere a una percezione diretta di Dio. Shaykh Ahmad Sirhindî
riprende nelle sue opere lo stesso termine e afferma che il massimo grado della
perfezione della santità è collegato al passaggio attraverso tre stadi, che
sono i tre gradi delle epifanie divine, ovvero
l’Epifania degli Atti (tajallî al-af‘âl),
in cui gli atti umani appaiono come delle attribuzioni dell’unico Atto divino; l’Epifania
degli Attributi (tajallî al-sifât),
in cui le qualità degli esseri appaiono come ombre degli Attributi divini; e le
Epifanie dell’Essenza (al-tajalliyyât
al-Dhâtiyya).
Nell’epistola Mabda’ wa Ma’âd Ahmad
Sirhindî riafferma che l’apparizione dell’Essenza di Dio nell’Altro Mondo sarà
una realtà per tutti i credenti, ma che alcuni tra gli eletti possono avere un prova di ciò che essa sarà già nella
condizione attuale d’esistenza. Egli però mette in guardia continuamente sulla
sua percezione, dicendo che non bisogna indagare sulle modalità
di tale visione, perché, spiega, la gran parte dei sapienti ha tentato di dare
una definizione della visio beatifica,
ma ha sempre fallito nel tentativo, per il semplice fatto che essi hanno sempre
cercato di comprendere la realtà dell’Altro mondo volendo dedurla per analogia
dalla realtà di questo basso mondo.
La visione di Dio Potente ed
Eccelso nell’Altro Mondo è per i credenti una realtà. A proposito di tale
questione nessuno, tra le fazioni dell’Islâm e tra i saggi filosofi, afferma
tale possibilità, al di fuori della Gente della Sunna.
Il motivo per cui molti musulmani negano tale visione è dovuto alla deduzione
per analogia del Non Manifestato dal Manifestato, e questa è una deduzione
distorta (qiyâs-i ghâ’ib bar shâhid, wa
ân fâsid ast). Quello che appare nella visione è incomparabile e senza modalità (bîcegûn),
e quindi anche l’immagine ad esso legata sarà senza modalità. Bisogna credere
in ciò, e non bisogna preoccuparsi di come ciò possa
avvenire. Questo segreto può essere manifesto oggi (in questo mondo) agli
eletti tra i santi, ed anche se non è propriamente una
visione, non vuol dire che essa non possa aver luogo «come se tu Lo vedessi» (ka’annaka tarâHu).[26]
Domani viceversa tutti i credenti vedranno il Vero – Sublime ed Eccelso
– con i propri occhi (be-cishm-i
sar), ma non potranno afferrare nulla, in quanto
«gli sguardi non L’afferrano».[27]
Nell’opinione di Ahmad Sirhindî la
possibilità di giungere alla visione dell’Essenza di Dio in questo mondo è
concessa solo ai seguaci perfetti del Profeta dell’Islâm, poiché partecipano parzialmente
e per via ereditaria[28] del beneficio concesso esclusivamente a lui durante la
Notte del Viaggio notturno. La visione dei santi è però ben diversa dalla
visione del Profeta. Dice infatti:
I corpi dei santi
muhammadiani partecipano alle perfezioni dei gradi di questa santità
[particolare], in base al fatto che il Profeta nella notte dell’ascensione fu
trasportato col corpo sino a dove Dio volle, gli vennero
fatti vedere il paradiso e l’inferno, gli fu rivelato quel che gli fu rivelato
e gli venne lì concesso l’onore della visione corporea (al-ru’ya al-basariyya). Questo tipo di ascensione (mi‘râj) è
particolare del Profeta, e quei santi che lo seguono in modo perfetto viaggiando
«sotto il suo piede» partecipano anch’essi a questo grado particolare.
Anche
alla terra va il pregio della coppa dei nobili.
Il succo del discorso è che
la visione in questo mondo è una caratteristica riservata al Profeta, mentre lo
stato di cui possono godere i santi che si trovano «sotto
il suo piede» non è una visione. La differenza fra la visione [profetica] e lo
stato [dei santi] è come quella che intercorre fra il principio (asl) e la sua ramificazione (far‘), fra la persona e l’ombra che essa
proietta: l’una non è dunque uguale all’altra.[29]
Vi è nella dottrina di Sirhindi una importante distinzione nel carattere della visione del divino
che ebbe Muhammad, durante la sua ascensione, e quella che ebbe Mosè, proprio perché,
da quanto ci spiega l’esegesi di Ibn ‘Arabî, Mosè ebbe una visione fulminante dell’Essenza
divina, mentre a Muhammad fu consentito vedere Iddio tramite una visione durevole
e permanente. Questa peculiare dote di Muhammad, che è proprio quella visione dell’Essenza
pura, che gli si è mostrata senza il velo dei Nomi degli Attributi e dei
Rapporti, si riverbera in qualche modo anche nei santi che sono affini al suo
modello e che ne sono a tutti gli effetti gli eredi.
Ciò è possibile che avvenga al massimo dei gradi della realizzazione spirituale,
che nella via dei Naqshbandî, è quello della
«Fissazione del ricordo» (yâd dasht),[30]
ed è il grado in cui la visione da «lampeggiante» o «fulminante» (barqî) ovvero discontinua, diviene
«durevole» (dâ’imî). Questo è anche
il grado della più completa estinzione in Allâh (fanâ’ fi-Llâh).
Sappi che con «fissazione del
ricordo» (yâd dâsht) si intende nella via dei maestri antichi (Khwâjagân) una presenza senza assenza (hudûr-i bî-ghaybat), vale a dire il
permanere della presenza dell’Essenza suprema senza che si
frappongano i veli dei Modi e delle Relazioni divine (hujub-i shuyûnî wa i‘tibârâtî), che sta a significare la presenza
in un dato momento e l’assenza in un altro, quando cioè i veli vengono
completamente rimossi per un istante e tornano a coprire nell’istante
successivo ‒ come avviene nel caso dell’epifania lampeggiante
dell’Essenza (tajalliyi dhâtî-yi barqî),
allorché i veli vengono rimossi come in un lampo dall’Essenza suprema e per un
attimo svaniscono i Suoi Modi e le Sue Relazioni. Tutto ciò viene
considerato come cosa di poco conto dai grandi di questa via.
Raggiungere la presenza senza
assenza sta nel fatto che l’Epifania lampeggiante dell’Essenza diviene permanente,
senza che al suo apparire si frappongano i Modi e le Relazioni. Tutto ciò si verifica alla fine di questa via, in questa stazione si
compie l’estinzione più perfetta, che diventa permanente, senza più alcuna
possibilità di velatura: se infatti i veli tornassero a distendersi, la presenza
si trasformerebbe in assenza e non si potrebbe dunque parlare di «fissazione
del ricordo». La contemplazione dei grandi di questa via si realizza quindi nel
modo più perfetto e completo, poiché la completezza dell’estinzione e la
perfezione della permanenza dipendono dalla perfezione
e dalla completezza della contemplazione.[31]
Resta comunque un fatto accertato che
anche nel grado della «fissazione del ricordo» nulla
può essere riportato dell’Unità assoluta (Ahadiyyat)
spoglia di Nomi, Qualità, Modi e Relazioni. La visione epifanica dell’Essenza
divina non ha forma, né qualità, né dimensione, né direzione: è una visione (ru’yat) senza modalità,
un rivelarsi senza percezione (idrâk).
Anche se l’Essenza di Dio può essere vista, tale visione non può tuttavia
essere «compresa» in alcun modo: quindi non c’è quindi alcuna possibilità,
secondo il Mujaddid, di «conoscere Dio» nel senso abituale del termine e di
descrivere questa conoscenza. La sola possibilità data agli uomini è quella
dello stupore (hayrat) e
dell’ignoranza (jahl) proprie della
condizione della vera Estinzione (fanâ’
fi-l-Lâh).
È per questo motivo che è
stato detto che la conoscenza dell’Essenza di Dio – che sia glorificato! –
è ignoranza, nel senso che non si tratta di una conoscenza che possa essere
riferita al contingente, poiché quest’ultima appartiene alla categoria del
«come», e qui non vi è alcun «come». Se il riflettere
sull’Essenza di Dio è stato interdetto,[32] ciò dipende dal fatto che Egli – sia esaltato!
– è al di là di ogni capacità di riflessione (tafakkur) e di immaginazione (takhayyul). Si può trovare Lui solo
tramite Lui stesso – che sia glorificato! – e non
col pensiero o con l’immaginazione.[33]
In altre parole:
Fin
qui la penna è giunta, poi la punta s’è spezzata![34]
Nessuno
tenti con la rete di catturare la Fenice
Che
sempre e solo vento con essa prenderà![35]
[1] Cor. 75: 22-23.
[2] Letteralmente «tradizione santa»; un particolare genere di detti
tramandati dal Profeta Muhammad, che contengono una rivelazione non contenuta
nel Corano.
[3] 3A. J.
WENSINCK, Concordances et Indices de la Tradition
Musulmane [= Concordances], vol. II, pag. 151, Brill, Leiden-NewYork 1992.
[4] ABÛ HANÎFA, Fiqh Akbar II, art. 17, in A. J. WENSINCK, The
Muslim Creed. Its Genesis and Historical Development, Londra 1965, pp.
193-194.
[5] Cor. 6: 103.
[6] L.
GARDET, Dieu et la Destinée de l’Homme,
Parigi 1967, pp. 338-346.
[7] ABÛ BAKR MUHAMMAD
AL-KALÂBÂDHÎ, Al-Ta‘arruf li-madhab ahl
al-tasawwuf, trad. it. Il Sufismo
nelle parole degli antichi. Introduzione, traduzione e
note a cura di Paolo Urizzi, Palermo 2002, p. 81.
[8] ABÛ
HÂMID AL-GHAZÂLÎ, Ihyâ’’ulûm al-dîn,
vol. IV, libro 6, p. 325, Beirut, Dâr al-Kutub al-‘ilmiyya, s.d.
[9] ‘ABD
AL-KARÎM AL-BAZDAWÎ, Kitâb Usûl al-Dîn
[= Usûl], Il Cairo 1963, pp. 77-88.
[10] Cor. 6: 103.
[11] A.
SIRHINDÎ, Maktûbât-i Imâm-i Rabbânî [=
Maktûbât], Istanbul 1977, vol. III, lettera n. 48, p. 384.
[12] Ibid., vol. II - lettera n. 67, p.183.
[13] Cor. 53: 11.
[14] ‘ABD AL-KARÎM
AL-BAZDAWÎ: Usûl, cit. pp. 78-80.
[15] Sul
commento coranico di Tustarî, vedere l’opera di G. BOWERING, The Mystical Vision of Existence in
Classical Islâm, Berlin-New York 1980, pp. 165-175.
[16] ‘ALÎ IBN ‘UTHMÂN AL-HUJWÎRÎ, Kashf
al-Mahjûb, trad. ingl. di R. A. Nicholson, Londra 1911, p. 331.
[17] ABÛ-L-QÂSIM
AL-QUSHAYRÎ, Al-Risâla al-Qushayriyya, Il Cairo 1940, p. 43.
[18] Cor. 7: 143.
[19] A. J.
WENSINCK, Concordances, cit., Vol. I,
p. 424.
[20] ‘ABD
AL-RAHMÂN AL-SULAMÎ, Haqâ’iq al-Tafsîr,
Beirut 2001, vol. I, p. 239.
[21] IBN MÂJA, fitan, 33.
[22] MUHYI AL-DÎN IBN ‘ARABÎ: Al-Futûhât al-Makkiyya [= Futûhât], Il Cairo 1911, vol.
III, p. 349. Vedere anche a questo proposito, M. CHODKIEWICZ, La vision de Dieu selon Ibn ‘Arabî [= La vision], in E. CHAUMONT (Ed.), Autour
du regard. Mélanges Gimaret, Parigi
2003.
[23] M. CHODKIEWICZ, La vision, cit., p. 170.
[24] Hadîth che non figura nelle principali raccolte canoniche, figura
spesso però nell’opera di Ibn ‘Arabî, ad es. in Futûhât, vol. II, p. 232, 327, 399 e
vol. III, p. 267.
[25] Cor. 7: 143.
[26] Allusione al famoso
hadîth nel quale si tramanda che un giorno il Profeta, mentre era con i suoi
compagni, venne visitato dall’Arcangelo Gabriele nelle
vesti di un viaggiatore, che gli chiese il significato dell’Islâm, della fede (imân) e della perfezione (ihsân); rispondendo a quest’ultimo
quesito il Profeta rispose che l’ihsân «è che tu adori Dio come se tu Lo
vedessi; perché se tu non Lo vedi, Egli vede Te». YAHYA IBN
SHARÂF AL-DÎN ALNAWAWÎ, Matn Al-Arba‘în
Al-Nawawiyya; hadîth n. 2.
[27] Cor. 6:
103; A. SIRHINDÎ, Mabda’wa Ma‘âd [= Mabda’], Karachi-Istanbul 2000, p. 65-66.
ID., L’inizio e il Ritorno [= L’inizio], traduzione e
note a cura di Demetrio Giordani, Milano 2003, pp. 89-90.
[28] Per Ahmad Sirhindî
l’esperienza visionaria dei santi è strettamente legata alle caratteristiche
della santità dei profeti maggiori, che sono i loro modelli, dai quali ricevono
specifiche caratteristiche, affinità e virtù spirituali per via ereditaria.
Seconde le parole dello Shaykh, ogni santo è sotto il piede (tahta qadam) di un
profeta che governa la sua santità. Secondo una classificazione tradizionale un
santo può appartenere al tipo musawî, o ‘isâwî o hûdawî, o muhammadî a seconda se le caratteristiche peculiari della sua
santità dipendono dall’essere erede di Mose, di Gesù, di Hûd, oppure di
Muhammad.
[29] A. SIRHINDÎ, Maktûbât, cit., vol. I, lettera n.135,
pp. 242-243.
[30] La via dei Naqshbandî è
basata su undici regole fondamentali, otto delle quali stabilite da Khwâja ‘Abd
al-Khâliq Ghujdawânî (m.1220), e tre da Bahâ’ al-Dîn Shâh Naqshband di Bukhâra
(m. 1389). Vedere sull’argomento ABÛ-L-HASAN ZAYD FÂRÛQÎ, Le undici regole della Naqshbandiyya, in
«’Ayn al-Hayât. Quaderno di studi della Tarîqa
Naqshbandiyya» 1 (1995), pp. 77-103, traduzione e commento di Alberto Ventura.
[31] A. SIRHINDÎ, Maktûbât, cit., vol. I, lettera n.151,
p. 254. Vedere anche: Maktûbât,
cit., vol. I, lettera n. 287, p. 563.
[32] Allusione alla
tradizione profetica che dice: «Riflettete su tutto,
ma non riflettete sull’Essenza di Dio». Su questo hadîth e sulle relative
fonti, BADΑU-L-ZAMÂN FORÛZÂNFAR, Ahâdîth
o Qisas-i Mathnawî, Teheran 1376, H.sh., p. 418;
W. C. CHITTICK, The Sufi Path of Knowledge, S.U.N.Y., New York 1989. Si
confrontino queste parole di Sirhindî con quanto
scrive l’Imâm ABÛ HÂMID AL GHAZÂLÎ,
che cita lo stesso detto profetico: «Volgere lo sguardo all’Essenza divina
produce stupore, sbigottimento, e turbamento d’intelletto. Dunque giusto non
affrontarele vie della meditazione sull’Essenza e sulle Qualità di Dio
Glorioso, perché la maggior parte delle menti non vi
resistono». Kitâb al-Tafakkur, Il libro
della Meditazione, trad. di G. Celentano, Trieste 1988, pp. 64-65.
[33] A. SIRHINDÎ, Maktûbât, cit., vol. III, lettera n. 75,
p. 440. Sull’argomento della visione dell’Essenza presso Ibn ‘Arabī, si veda P. URIZZI: La Visione teofanica presso Ibn ‘Arabî,
in «Perennia Verba» 1 (1997), pp. 37-72 e n. 2 (1998), pp. 3-35; T. IZUTSU, Sufism and Taoism. A Comparative Study of
Key Philosophical Concepts. University of California Press, Berkeley-Los
Angeles 1983, pp. 23-38; M. CHODKIEWICZ, La
vision, cit.; W. C. CHITTICK, The
Self-Disclosure of God. Principles of Ibn al-‘Arabî
Cosmology, S.U.N.Y., New York 1998, pp. 91-120.
[34] A. SIRHINDÎ, Maktûbât, cit., vol. III, lettera n. 75,
p. 440.
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