Demetrio
Giordani
Le metamorfosi dell’anima e gli stadi
della via spirituale.
Considerazioni intorno a Al-Sayr
wa-l-Sulûk ilâ Maliki-l-Mulûk dello
shaykh Qâsim ibn Salâh al-Dîn al-Khânî di Aleppo (1619-1697)
Il trattato al centro di questo studio fa
parte di quel genere di opere che riescono a racchiudere alcuni dei principali
argomenti dottrinali del sufismo in un sistema sintetico e accessibile anche ai
meno esperti.
L’opera ha per oggetto una «scienza dell’anima» complessa, che abbraccia anche il dominio della metafisica e non si limita a definire le virtù nobili e le qualità riprovevoli dell’animo umano, ma descrive le trasformazioni che l’anima dell’aspirante (murîd) subisce durante il percorso della Via di realizzazione spirituale (sulûk), dallo stadio più grossolano e torbido fino ai più alti gradi di sottigliezza e perfezione.
Il linguaggio del trattato affonda le radici in quello tradizionale del sufismo, utilizzato nei grandi trattati degli autori classici; tuttavia lo scritto del nostro autore ha la particolarità di essere più esplicito e meno enigmatico di tante opere di contenuto simile, vuoi perché è stato redatto con un intento didattico e in un epoca relativamente moderna (inizi XVII secolo), vuoi perché gli autori moderni rispetto agli antichi hanno maggiore necessità di farsi capire. Sta di fatto che dal trattato emerge in modo chiaro la figura di un esperto educatore, profondo conoscitore delle fonti tradizionali, interprete perfetto della scienza tradizionale dell’essere umano.
L’opera ha per oggetto una «scienza dell’anima» complessa, che abbraccia anche il dominio della metafisica e non si limita a definire le virtù nobili e le qualità riprovevoli dell’animo umano, ma descrive le trasformazioni che l’anima dell’aspirante (murîd) subisce durante il percorso della Via di realizzazione spirituale (sulûk), dallo stadio più grossolano e torbido fino ai più alti gradi di sottigliezza e perfezione.
Il linguaggio del trattato affonda le radici in quello tradizionale del sufismo, utilizzato nei grandi trattati degli autori classici; tuttavia lo scritto del nostro autore ha la particolarità di essere più esplicito e meno enigmatico di tante opere di contenuto simile, vuoi perché è stato redatto con un intento didattico e in un epoca relativamente moderna (inizi XVII secolo), vuoi perché gli autori moderni rispetto agli antichi hanno maggiore necessità di farsi capire. Sta di fatto che dal trattato emerge in modo chiaro la figura di un esperto educatore, profondo conoscitore delle fonti tradizionali, interprete perfetto della scienza tradizionale dell’essere umano.
L’ opera e il suo autore
L’autore del trattato non è molto noto;
alcune note autobiografiche riportate dallo storico siriano Al-Murâdî nel Silk al-Durar ci dicono che lo Shaykh
Qâsim ibn Salâh al-Dîn al-Khânî era un sufi e un dotto giurisperito di scuola
giuridica hanafita. Nacque ad Aleppo nel 1028 dell’egira e qui compì i primi
studi; nel 1050 si recò a Baghdâd e vi restò per due
anni; poi tornò ad Aleppo e da qui andò a Bassora per poi recarsi a Mecca e
Medina per il Pellegrinaggio. In seguito si diresse a Istanbul (Islâmbûl) e vi rimase per un anno e
sette mesi, quindi fece definitivamente ritorno ad Aleppo, dove insegnò per il
resto dei suoi giorni nella madrasa
al-Halawiyya e divenne muftî delle
scuole giuridiche degli Imâm Abû Hanîfa e Al-Shâfi’î.
Racconta lo Shaykh:
«I miei viaggi si protrassero per circa dieci anni; durante questo periodo
ero impegnato nel dare e nel prendere, nel comprare e nel vendere. Dopo che
feci ritorno ad Aleppo sentii il desiderio di isolarmi
dalla gente, perciò abbandonai il vendere e il comprare e iniziai a percorrere
la via della mortificazione e della povertà spirituale. Cambiai abiti,
compagnia e “respiri” (anfâs)[1] e mi sforzai di combattere
la mia anima e i suoi nemici col digiuno e la veglia per circa sette anni.
Durante circa due di questi sette anni mi limitai a prender cibo ogni sessanta
ore e vuotavo in gola un pugno di farina di cui facevo una minestra (harîra) che addolcivo con un cucchiaio
di miele. Il pugno di farina di cui sopra pesava all’incirca quindici dirham.[2]
Durante il resto dei giorni in quei sette anni il mio cibo fu davvero scarso, e
tutto questo in base all’indicazione dei miei maestri, che Iddio sia
soddisfatto di loro (…).
Quando
giunsi alla fine dei circa sette anni del mio combattimento spirituale ed entrammo
nella luna del mese di Shawwâl
dell’anno 1066, Iddio l’Altissimo gettò nel mio cuore l’amore
per la ricerca della scienza esteriore e studiai sotto la guida dei dotti
maestri all’incirca per due anni. Iddio mi mostrò
della scienza quel che mi mostrò, abbandonai allora lo studio, intrapresi
l’insegnamento e istruii degli studenti. Molti di loro ridevano e si prendevano
gioco di me dicendo: “Sono dieci anni che ci impegniamo nella scienza e ancora
non siamo pronti”. Uno di quelli che venne a sedersi alla mia lezione
sfottendomi non si alzò da quell’assemblea – lo giuro – se non dopo
aver mutato la sua disapprovazione nella ferma convinzione nei principi
dottrinali. Il giorno seguente tornò a sedersi dinanzi a me per apprendere, e
disse che quello che era accaduto era stato davvero un avvenimento
straordinario».[3]
Lo storico Al-Murâdî riporta anche un
breve elenco delle opere composte dallo Shaykh Al-Khânî in cui figura una Risâla fi-l-Mantiq, che compare nei
repertori bibliografici più importanti, laddove vengono
attribuite allo Shaykh altre dieci opere.[4]
Ma il trattato che è concordemente ritenuto l’opera
più importante dello Shaykh Qâsim
al-Khânî è Al-Sayr wa-l-Sulûk ilâ Malik
al-Mulûk.[5]
Vi è incertezza nel identificare
la confraternita dello Shaykh, poiché
il trattato non ne fa mai menzione, e nemmeno gli autori dei repertori arabi si
esprimono chiaramente in proposito. Marijan Molé ci fornisce un indizio in un
suo articolo,[6] dove esamina il contenuto di due raccolte (majmû’a) di manoscritti naqshbandî, e segnala, in particolare,
la raccolta conservata alla Bodleian Library di Oxford che contiene una copia
manoscritta di Al-Sayr wa-l-Sulûk. La
raccolta, composta intorno al 1224 dell’egira, proviene, secondo Molé: «dagli ambienti naqshbandî del Kurdistan occidentale, non
ancora toccati dalla riforma khâlidî».[7]
Da segnalare che nel colofone in coda al trattato viene
associato al nome dello Shaykh anche il titolo onorifico di «Polo dominicale» (Al-Qutb al-rabbânî). Ma
anche in questo caso non c’è nulla che possa definitivamente attribuire al
Nostro un’affiliazione naqshbandî.
Il secondo indizio ce
lo fornisce Carl Brockelmann nella Geschichteder
Arabichen Literatur[8]
dove annota accanto al nome dello Shaykh
anche la nisba Al-Qâdirî. Brockelmann
parla ampiamente del trattato citando
per esteso una fonte italiana, la rivista
italo-egiziana Il Convito – An-Nâdî,
che ne aveva ospitato una traduzione parziale. La
rivista rappresenta di per sé un interessante caso storico-letterario, che
merita una leggera digressione.
Il
Convito – An-Nâdî nacque all’inizio del
Novecento dalla collaborazione di due personaggi, Enrico Insabato, agente del
Governo italiano in Egitto, e Ivan Gustav Agueli (1869-1917), un pittore
svedese che in quel paese è attualmente considerato
uno dei padri dell’arte moderna. Agueli fu un uomo dalla vita avventurosa;
durante il suo soggiorno a Parigi aveva condotto vita da bohémien, ed era stato
incarcerato per aver dato ospitalità in casa sua ad un
anarchico ricercato. In prigione si dedicò allo studio dell’arabo, dell’ebraico
e del malese e sviluppò un intenso interesse per il mondo orientale. Ritornato
in libertà, viaggiò lungamente e visitò l’Egitto, l’India e Ceylon e si
convertì poi all’Islâm con il nome di ‘Abd al-Hâdî Agueli-’Aqîlî.
Nel 1901, attraverso gli ambienti
anarchici di Parigi, Agueli entrò in contatto con un medico italiano, il dott.
Enrico Insabato, che era appena tornato da un lungo viaggio in Egitto; insieme idearono un progetto tra i più singolari dell’epoca.
Trasferirisi entrambi al Cairo, nel 1904 diedero vita
alla rivista bilingue: Il Convito –
An-Nâdî, di cui Insabato divenne sia proprietario che direttore. Nell’intenzione
dei fondatori, la rivista italoaraba doveva diventare la tribuna ufficiale
delle relazioni culturali tra l’Italia e il mondo arabo; ad
essa avrebbero dovuto collaborare anche personalità insigni dell’ambiente
culturale musulmano.[9]
Il progetto ebbe un discreto successo, la
tiratura della rivista raggiunse anche le cinquemila copie ed ebbe diffusione
in molte parti del mondo islamico, soprattutto attraverso i canali che Agueli
riuscì ad attivare all’interno degli ambienti tradizionali del sufismo. Egli
nel frattempo era stato iniziato al tasawwuf
dallo shaykh shâdhilî ‘Abd al-Rahmân ‘Illaysh al-Kabîr,
che fu anche il principale collaboratore della rivista.
Il contributo di Agueli era soprattutto
finalizzato alla traduzione di scritti di Muhyî al-Dîn Ibn ‘Arabî
e di altri autori rappresentativi del tasawwuf; forse fu proprio in base al
consiglio di ‘Abd al-Rahmân ‘Illaysh, che Agueli iniziò la traduzione di Al-Sayr wa-l-Sulûk. A
partire dal numero del primo Maggio del 1907, e per altri quattro
numeri, la rivista pubblicò il testo arabo dei primi tre capitoli del trattato
a fianco di un’ottima traduzione italiana, che Agueli intitolò «Il progredire
verso il Re dei Re».[10]
In quello stesso anno, però, la rivista
terminò le pubblicazioni e la traduzione dell’opera rimase incompleta.[11]
Il testo arabo del trattato è stato
recentemente pubblicato da una nota casa editrice libanese.[12]
In questa edizione l’opera risulta composta di dieci
capitoli, più la premessa (tamhîd) e
l’introduzione (muqaddima)
dell’autore. Questo è l’indice:
Capitolo primo: «Sul
biasimo di questo basso mondo e dei suoi godimenti, e sulla definizione chiara
della sua vera natura».
Capitolo secondo:
«Sull’incitamento a intraprendere il cammino in questa via e definizione dei
suoi meriti»
Capitolo terzo: «Sulla
chiara esposizione dei veli (che si stendono) tra Iddio e il servo».
Capitolo quarto: «Sulla
definizione dell’anima che incita al male».
Capitolo quinto: «Sulla
definizione dell’anima che biasima».
Capitolo sesto: «Sulla
definizione dell’anima ispirata».
Capitolo settimo: «Sulla
definizione dell’anima pacificata».
Capitolo ottavo: «Sulla
definizione dell’anima soddisfatta».
Capitolo nono: «Sulla
definizione dell’anima gradita».
Capitolo decimo: «Sulla
definizione dell’anima perfetta».
Conclusione: «Sulla
definizione delle qualità della guida spirituale, dei suoi comportamenti e dei
suoi stati».
L’anima
e i suoi gradi
Nel capitolo introduttivo dell’opera, lo
Shaykh Al-Khânî spiega il significato di alcuni dei principali termini tecnici
(istilâhât) del linguaggio dei sufi, quasi sempre ripresi dal Kitâb
al-Ta’rîfât, il famoso glossario di Muhammad al-Sharîf al-Jurjânî, teologo
e sufi persiano, morto nel 1413 d. C.. A proposito del termine anima (nafs) lo Shaykh scrive:
«L’Anima passionale (al-nafs al-shahwâniyya) è il vapore sottile che arreca la vita, i
sensi, il movimento volontario. È quello che i saggi filosofi chiamano “lo Spirito animale” (al-rûh al-hayawânî). Èuna sostanza che dà luce al corpo; se si irradia all’esterno e all’interno del corpo causa la
veglia, se si irradia all’interno e non all’esterno determina il sonno; se
invece la sua irradiazione cessa del tutto ne consegue la morte. Gloria
all’Artefice, il Saggio.
L’Anima razionale (al-nafs al-nâtiqa) è una sostanza priva
in sé di qualsiasi realtà materiale, si associa però a tale realtà (materiale) nelle
sue azioni, cosicché viene chiamata “che induce al
male” (alammâra), “che biasima” (al-lawwâma), “ispirata” (al-mulhima), “pacificata” (al-mutma’inna), “soddisfatta” (al-râdiya), “gradita” (al-mardiyya), “perfetta” (al-kâmila). Ogni volta che assume una caratteristica
particolare viene designata in base a questa
caratterizzazione e prende uno di quei nomi. (…)
Menzioneremo le
caratteristiche di ciascuna anima in un capitolo apposito,
in cui elencheremo i segni peculiari, gli attributi, gli stati spirituali, il
mondo attinente, i meriti e i difetti e gli avvenimenti straordinari che
accadono al viandante durante l’acquisizione delle
caratteristiche di ciascuna di esse; e inoltre le
invocazioni che riguardano in particolare ognuna delle (sette) anime, e ti
spiegheremo altro ancora in dettaglio a suo tempo, se Iddio vorrà».[13]
Quel che appare chiaro è la settuplice
distinzione dei gradi dell’anima razionale che è una caratteristica dei
trattati più recenti, a fronte della classica distinzione limitata a soli tre
gradi, ovvero: l’anima «che induce al male», quella
«che biasima» e l’anima «pacificata», con alcune eccezioni che includono
l’anima cosiddetta «ispirata» tra quella «che biasima» e l’anima «pacificata».[14]
A questo proposito lo shaykh fa alcune dichiarazioni che diradano qualche ombra
in più sull’enigma della sua affiliazione:
«Allorché
avrai conosciuto la differenza tra le anime saprai che non c’è differenza in
questo senso tra coloro che affermano che le stazioni attraverso le quali
progredisce il viandante sono sette, come i Khalwatiyya
, e gli altri che affermano che esse sono tre».[15]
Nello schema del trattato ognuno di
questi sette gradi dell’anima razionale è associato ad
una latîfa che localizza ognuno dei
gradi nella realtà microcosmica corporea. Nella terminologia sufi il termine latîfa indica una componente
immateriale della persona, un «organo sottile» che può essere risvegliato da un
maestro iniziatore e reso perfetto attraverso la pratica spirituale, la cui
funzione è quella di mediare tra il mondo materiale e quello trascendente. Su questo argomento, lo Shaykh
Al-Khânî appare estremamente reticente, mantiene estrema riservatezza e rimanda
il senso delle sue parole ai «pochi intenditor». Dice infatti:
«Sappi che quella sostanza chiamata “anima
razionale” possiede molti nomi; essa può essere chiamata “cuore” (qalb), oppure “la realtà sottile umana”
(al-latîfa al-insâniyya), oppure “la
realtà essenziale dell’uomo” (haqîqa
al-insân). È per quella sostanza che l’uomo percepisce, conosce ed è in
grado di eseguire i precetti della legge religiosa, ed è a causa di essa che
egli sarà chiamato a rispondere. Questa sostanza possiede una realtà esteriore
e composita, ed è l’anima passionale di cui s’è parlato altrove, e una parte
interiore che è lo “Spirito” (al-rûh);
essa possiede altresì un interiore dell’interiore che è il “Segreto” (al-sirr), che a sua volta ha una realtà
interiore che è “il Segreto del Segreto” (sirr
al-sirr), la cui realtà interiore è chiamata “il Nascosto” (al-khafî) che a sua volta ha una realtà
interiore che è chiamata “il più Nascosto” (al-akhfâ)».[16]
Per far comprendere meglio come l’anima
possa avere una realtà interiore, che a sua volta ne ha una interiore,
e così via fino ai sette gradi qui descritti, l’autore fa l’esempio del trono,
che in realtà è fatto di legno, che originariamente è composto dalla pianta,
che a sua volta è composta dai quattro elementi (al-’anâsir al-arba’), che a loro volta sono formati dalla Materia
Prima (al-hayûlâ al-awwal) e così
via.[17]
A proposito della corrispondenza tra le latâ’if umane e le realtà metafisiche
che sono le loro origini l’autore spiega che
all’origine di tutto c’è lo Spirito supremo (al-rûh al-a’zam), che nel macrocosmo (al-’âlam alkabîr) possiede nomi e luoghi di manifestazione (mazâhir) differenti, quali: l’Intelletto
primo (al-’aql al-awwal), il Calamo
supremo (al-qalam al-a’lâ), la Realtà
muhammadica (al-haqîqa al-muhammadiyya),
lo Spirito muhammadico, (al-rûh
al-muhammadî), la Luce (al-nûr),
l’Anima universale (al-nafs al-kulliyya).
Nel microcosmo umano (al-’âlam alsaghîr)
lo Spirito supremo possiede altrettanti
nomi e luoghi di manifestazione, ed essi sono: al-akhfâ, al-khafî, sirr al-sirr, al-sirr, al-rûh, al-qalb, al-nafs
al-nâtiqa, al-latîfa al-insâniyya.[18]
L’anima razionale, in sintesi, possiede
al proprio interno delle potenzialità gerarchicamente ordinate, delle realtà
«sottili» (latâ’if) che gradualmente affiorano alla coscienza grazie all’esercizio spirituale e
alla continua menzione di un Nome divino (dhikr).
Se l’anima rimane allo stadio inerte
di quella «che incita al male» (al-ammâra) non registrerà alcun
progresso, e si fermerà al grado più esteriore e grossolano del suo sviluppo;
ma se grazie all’impegno nell’osservanza della Legge supererà la propria
condizione e giungerà interiormente al livello di sottigliezza interiore di qalb,
entrerà nella condizione dell’anima «che
biasima» e otterrà le conoscenze proprie di quel grado di sottigliezza. Se
procederà oltre questa condizione e giungerà ancora più interiormente al grado
sottile di rûh
arriverà ad essere «ispirata», se proseguirà nel suo cammino fino a raggiungere
il grado di sirr, diventerà
«pacificata», se entrerà nel grado di sirr
al-sirr sarà «soddisfatta » e sarà «gradita» solo se entrerà nella sfera di
khafî. Se avrà raggiunto la
sottigliezza di akhfâ, sarà giunta
infine alla perfezione.[19]
Le sette tappe del pellegrinaggio
interiore
Si narra in un hadîth
nabawî:
«A
Dio appartengono settanta veli di luce e tenebra, se essi fossero lacerati gli
splendori del Suo Volto annienterebbero tutto quel che
percepisce la vista delle Sue creature».[20]
Dice a questo
proposito lo Shaykh Al-Khânî:
«Il
cammino su questa via si compie attraverso la lacerazione di quei settanta veli
e ciò dipende dalle sette stazioni menzionate; in ciascuna di esse l’anima è
avvolta da dieci veli, il primo di essi è più spesso del
secondo, il secondo più spesso del terzo e così via fino al decimo, il nono
velo è più spesso del decimo. Allo stesso modo il velo di ciascuna
anima è più spesso del velo dell’anima che la segue nell’ordine, (dalla prima)
fino alla settima; ogni volta che il viaggiatore raggiunge una delle sette
stazioni, s’immagina di essere giunto fino ad Allâh».[21]
All’inizio
l’anima è nel grado di massima opacità e tenebrosità, condizioni proprie della
natura animale: è per questo, dice lo Shaykh
citando un tipico esempio ghazaliano,
che se un uomo segue il richiamo della cupidigia e della lussuria, vede se
stesso in sogno prostrarsi di fronte a un maiale
o a un somaro, e se invece cede alla rabbia, vede se stesso prostrato di fronte
a un cane.[22]
Non è affatto raro nella letteratura sufi associare un
modello zoomorfo agli aspetti più subdoli e bestiali dell’anima inferiore;
Hujwîrî, ad esempio, riporta nella sua opera più famosa le parole di Muhammad
‘Uliyyân Nasavî, uno dei più importanti compagni di Junayd, che disse:
«Durante il periodo iniziale
della vita spirituale, quando divenni ben consapevole della malvagità
dell’anima ed ero al corrente dei luoghi in cui essa
metteva le sue trappole, sentivo continuamente il suo odio nel cuore. Un giorno
qualcosa di simile ad una piccola volpe uscì fuori
dalla mia gola, e Dio – sia esaltato – mi diede conoscenza
facendomi sapere che quella era la mia anima inferiore. La scaraventai sotto i
piedi ma ogni volta che le davo un calcio lei diventava
sempre più grande. Dissi: “Com’è possibile! Ogni cosa
perisce per
le ferite e la sofferenza, perché tu invece
diventi più grande?”. Rispose: “Perché io sono creata come il contrario di ogni
cosa; quel che per altri è piacere, per me è dolore, quel che per altri è dolore, per me è piacere”».[23]
Sharâfuddîn Manerî, uno dei santi indiani
più famosi del XIV secolo riporta in una delle sue lettere:
«Shaykh Abû-l-’Abbâs (Shaqânî) racconta: “Una
volta entrai a casa mia e vidi un cane giallo; quando cercai di cacciarlo via
s’infilò sotto la mia pelle e scomparve”. Shaykh
Abû-l-Qâsim Gurgânî disse che durante il periodo iniziale della sua vita
spirituale aveva visto la
sua anima inferiore nella forma di un
serpente. Un altro darwîsh
vide la sua anima inferiore sotto forma di un topo”».[24]
Secondo il nostro Shaykh, l’ambito corporeo in cui opera l’anima «che incita al male»
(al-nafs al-ammâra bi-l-sû’) è il
petto (sadr, pl. sudûr), in piena concordanza con il versetto del Corano che parla
dell’azione di Satana «che sussurra nei petti (sudûr) degli uomini» (Corano CXIV: 5). La
fase del cammino dell’aspirante, corrispondente a questo grado dell’anima, è
quella «verso Iddio» (sayruhâ ilâ Allâh). Essa appartiene, ontologicamente parlando, al
«mondo della manifestazione» (âlam
al-shahâda), la sua condizione preferenziale è
l’essere incline alle passioni, il suo campo d’azione è la legge rivelata (al-sharî’a). I suoi attributi includono:
l’ignoranza, l’avarizia, l’avidità, l’arroganza, l’ira, la concupiscenza,
l’ingordigia, l’invidia, la distrazione, la cattiveria
del carattere, il dedicarsi a fondo a cose che non la riguardano, il prendersi
gioco, l’odio, il far del male per mezzo della mano o della lingua.[25]
Dice lo Shaykh Al-Khânî che è proprio questa
l’anima malvagia a cui alludeva Yûsuf dopo che Zulaykha aveva tentato di
sedurlo nella casa del suo signore e padrone: «Ma non voglio chiamarmi del
tutto innocente, ché l’anima passionale spinge al male, a meno che il mio
Signore non abbia pietà, e certo il mio Signore è indulgente clemente» (Corano: XII: 53). Sempre riguardo
all’aspetto infido dell’anima lo Shaykh
Al-Khânî scrive:
«Il Profeta disse: “Il peggiore dei tuoi
nemici è l’anima che sta tra i tuoi fianchi”. Disse inoltre: “Siamo tornati dal jihâd minore
al jihâd maggiore”. Ha chiamato
minore il jihâd
contro gli infedeli e ha chiamato maggiore il jihâd contro l’anima, poiché essa è posta sotto il dominio
tenebroso della natura (zulma al-tabî’a
) e non riesce quindi a discernere tra il vero e il falso, né distingue il bene
dal male, ed è solo per il suo tramite che Satana il maledetto riesce ad avere
accesso all’essere umano».[26]
Per trovare la via d’uscita
da questa «prigione della natura» (sijn
altabî’a) e per ripulire lo specchio del cuore dalla «ruggine» di tutte le
qualità infime di cui s’è parlato, è necessario – dice lo Shaykh – ricordarsi
incessantemente di Dio tramite la formula dell’attestazione di fede, ovvero «Non c’è altra divinità fuorché Iddio» (Lâ ilâha illâ Allâh).
«Nell’affermare “Non c’è altra divinità” (Lâ ilâha), cancellerai dal cuore tutti
gli oggetti di devozione all’infuori di Dio; (poi) dovrai pronunciare “fuorché
Iddio” (illâ Allâh) con forza e
intensità, come se colpissi la parte sinistra del petto».[27]
La seconda stazione è quella che viene denominata dell’«anima che biasima» (al nafs al-lawwâma) e prende il nome dal
versetto che recita: «Giuro per l’anima biasimatrice» (Corano LXXV: 2). In questa stazione il viandante procede lungo il
suo cammino «per Dio» (sayruhâ li-Llâh). Il luogo d’origine dell’«anima
che biasima» è il mondo intermedio (‘âlam
al-barzakh), la sua residenza è nel cuore (qalb), la sua condizione spirituale è l’amore (al-mahabba) e il suo campo d’azione la via iniziatica (tarîqa). I suoi attributi includono: il
biasimo, la riflessione, la vanagloria, il criticare gli altri, l’ipocrisia
celata e l’amore per la fama e l’autorità.
Lo Shaykh spiega che in questa stazione l’anima del viandante potrebbe
ancora conservare alcune qualità perverse caratteristiche dell’«anima che
istiga al male»; però adesso riesce a vedere il vero e a distinguerlo dal
falso, ma non riesce a liberarsi completamente delle qualità biasimevoli, malgrado l’adesione ai precetti della legge rivelata e gli
sforzi devoti, le azioni buone, come le veglie, i digiuni, l’elemosina ecc..
Queste azioni vengono contaminate dalla vanagloria e dall’ipocrisia nascosta,
poiché anche se colui che le compie agisce solo per Dio, celando al mondo le
sue azioni devote per non mostrarle agli occhi della gente, tuttavia egli amerà
essere lodato ed elogiato per questo. Anche se detesta questa sua tendenza non è capace di sradicarla totalmente dal suo
cuore; se poi la sradicasse totalmente diverrebbe sincero e sicuro, e questo è
assai pericoloso: il
Profeta
infatti disse che «gli uomini sinceri corrono un grande pericolo»,
poiché chi è sincero ama far sapere alla gente che è sincero, e questa, al
contrario dell’agire per essere visti dagli altri, è quell’ipocrisia nascosta, che
secondo lo Shaykh non è altro che una forma di idolatria (shirk).
«Sappi allora che se possiedi tali
attributi sei nella seconda stazione e la tua anima è chiamata “biasimatrice”.
Essa è una stazione in cui nessuno è fuori pericolo, anche se è sincero nella
sua condotta, come ti è stato appena spiegato. È la seconda stazione del
viaggio spirituale dei Ravvicinati (al-muqarrabîn),
di coloro che cercano l’estinzione (fanâ’) per se stessi e la permanenza (baqâ’) presso il loro Signore. Ad essi viene ordinato di morire prima del loro tempo, perché
il loro signore ha detto: “Morite prima di morire” ed essi si affrettano verso
la morte della propria anima. Quanto ai Puri (abrâr), che sono “Quelli della destra”, questa è per loro l’ultima
stazione e la più alta delle dimore spirituali; per questo si dice che “le buone azioni dei Puri sono cattive azioni
per i Ravvicinati”, poiché questi ultimi non si fermano a questa seconda
stazione, ma da questa ascendono alle altre, finché non giungono fino alla
settima (…) Non si trattengono in questa stazione a
causa del grande pericolo e della fatica costante che essa richiede».[28]
In questa seconda stazione il viandante è
occupato nella recitazione del Nome divino Allâh, che designa l’Essenza divina, in piedi, seduto, disteso, notte e giorno. Volto
verso la qibla dovrà invocare Iddio a occhi chiusi, con forza e ad alta voce,
alzando il volto verso l’alto, poi «battendolo» sul petto,
senza voltarlo né a destra né a sinistra com’era nel caso precedente.[29]
La terza stazione è quella che viene denominata dell’«anima ispirata» (al-nafs al-mulhima). La fase del suo cammino è quella «su Dio» (sayruhâ ‘alâ
Allâh), poiché il viandante dello spirito, in questa stazione, posa il suo
sguardo solo su Allâh, giacché ha estinto dalla sua contemplazione tutto ciò
che è estraneo a Lui. Il suo mondo è il mondo degli
Spiriti (‘âlam al-arwâh), l’ambito in
cui essa risiede nell’uomo è lo Spirito (al-rûh),
il suo stato spirituale è l’Amore appassionato (al-’ishq), il suo campo d’azione è la gnosi (al-ma’rifa). Le sue qualità principali sono la generosità, la
temperanza, la scienza, l’umiltà, la pazienza, il vedere come Iddio l’Altissimo
«tiene per il ciuffo» tutto quel che cammina sulla
terra. Queste e altre sono le qualità dell’anima che viene
chiamata «ispirata» poiché nel Corano sta scritto: «Per l’anima e chi la
plasmò, e pietà e empietà le ispirò» (Corano
XCI: 7-8). In questa stazione l’anima è in grado di ricevere, senza
intermediari, sia la visita degli angeli che dei
demoni; proprio a causa di ciò – spiega lo Shaykh – il viandante ha bisogno di una guida che lo tragga
dall’oscurità del dubbio alle luci delle teofanie (tajalliyyât).
«In questa stazione la condizione
spirituale del viandante è debole, egli è incapace di distinguere tra Maestà e
Bellezza (divine) e neppure tra quel che gli ispira un angelo e quel che gli
sussurra un demone, poiché non s’è affrancato completamente dalla sua natura
(inferiore) né sono decadute per lui tutte le esigenze inerenti alla condizione
umana».[30]
Il Nome divino che il viandante deve
recitare in questa stazione è Hû, possibilmente
accompagnato, all’inizio, dall’invocazione Yâ.
Per fuggire dai pericoli di questa stazione – spiega lo Shaykh – questo Nome dovrà essere
recitato in ogni momento, in piedi, seduti o distesi, notte e giorno.
I gradi dell’anima dal
quarto al sesto traggono il loro nome dal passo coranico che recita: «E tu o
anima rasserenata, ritorna al tuo Signore, soddisfatta e gradita, ed entra tra i
Miei servi, entra nel Mio Paradiso» (Corano
LXXXIX: 27-30). A
mano a mano che l’autore si addentra nella trattazione delle tappe più elevate
del cammino, le sue parole divengono sempre più misurate, il tono sempre più
apologetico, sempre meno sono i dettagli concessi alla spiegazione, sempre più
le allusioni celate dietro il linguaggio degli iniziati.
La quarta delle tappe è appunto quella
dell’«anima rasserenata» (mutma’inna). La fase del suo cammino è quella «insieme
a Dio» (sayruhâ ma’ Allâh), il suo mondo
originario è quello della Realtà Muhammadiana (al-haqîqa al-muhammadiyya), il suo luogo di residenza corporeo è il
segreto (al-sirr), la sua condizione
spirituale è la serenità sincera, il suo campo d’azione alcuni segreti della
Legge rivelata. Le sue qualità sono la liberalità, l’affidamento fiducioso, la
magnanimità, la servitù devota, la riconoscenza, la soddisfazione per il
decreto divino e la pazienza per la prova.
Questa è la stazione dell’assestamento (tamkîn), e della «visione della certezza»
(‘ayn al-yaqîn), mentre la stazione
precedente era la stazione dell’instabilità e della
«volubilità» (talwîn).
«In
questa stazione il viandante è delizia degli occhi per chi guarda e per l’udito
di chi ascolta, se parla a lungo le sue parole non
tediano, poiché la sua lingua interpreta ciò che Iddio l’Altissimo gli ha
suggerito nel cuore sulla realtà interiore delle cose e sui segreti della
Legge rivelata. Non pronuncia
parole che non siano in accordo con quel che ha detto Iddio e quel che ha detto
il Suo inviato, le pronuncia senza averle lette in un libro e senza averle
prima udite da qualcuno, perché ha ascoltato oltre l’organo sensibile
quel che Iddio gli ha ispirato nel segreto del cuore: “Io sono il tuo
segreto, o amato, e tu sei il Mio segreto (Anâ
sirruka ayyuhâ al-habîb wa anta sirrî)” e si è rasserenato quel che in esso
tumultuava».[31]
Il Nome divino che il viandante recita in
questa stazione è Al-Haqq (Il Vero)
pronunciato con o senza l’invocazione Yâ
(yâ Haqq!).
La quinta delle tappe è quella in cui
l’anima è chiamata «soddisfatta» (râdiya). La fase del suo cammino è quella «in Dio» (fî-Llâh), il suo mondo originario è il Lâhût, il mondo
dei Nomi e degli Attributi divini, la sua dimora corporea è il «Segreto del
Segreto» (sirr al-sirr), la sua
condizione spirituale è l’estinzione (al-fanâ’).
«Gli attributi principali di
quest’anima sono: la rinuncia a tutto quello che non è
Iddio l’Altissimo, la sincerità, lo scrupolo devoto, la soddisfazione per tutto
quello che avviene nell’universo senza che il cuore abbia un solo fremito,
senza che esso si sforzi di respingere
quel che gli è sgradito, né di obiettare
nulla, perché l’anima è assorbita nella contemplazione della Bellezza
assoluta».[32]
Il Nome divino che il viandante recita in
questa stazione è Al-Hayy (Colui che vive). Accanto a questo vi è la recitazione di
altri nomi «sussidiari» come Al-Wahhâb
(il Munifico), Al-Fattâh (Colui che apre), Al-Wâhid
(l’Unico) Al-Ahad (l’Uno), Al-Samad (l’Immutabile).
La sesta tappa è
quelle dell’anima «gradita» (mardiyya).
La fase del suo cammino è quella «da Dio» (‘an
Allâh), il suo è il mondo della manifestazione (‘âlam al-shahâda), il suo luogo di manifestazione corporea è «il
nascosto» (al-khafî), il suo stato spirituale lo stupore (al-hayra),
il suo campo d’azione di nuovo la Legge rivelata (al-sharî’a).
La particolarità di questa stazione sta
nel fatto che il viandante si volge di nuovo verso il mondo sensibile dopo la
«ridiscesa» dal grado dell’estinzione nella Realtà divina; in questa condizione
egli avrà l’incarico di guidare le creature «dall’oscurità della loro natura e
delle loro anime verso la luce dei loro spiriti» e di «riunire attraverso l’amore il Creatore e la creatura». Il viandante ha raggiunto
quindi la condizione elevata di luogotenente (khalîfa) di Dio sulla terra, e se all’inizio della via, nel grado
dell’«anima che esorta al male», il suo compito era il rispetto dei precetti
della Legge, giunto
in questo grado egli ha conseguito la
fiducia divina e la conoscenza dei fondamenti interiori della Legge, il suo
compito è quello di guidare gli uomini verso il Vero.
Scrive Al-Khânî:
«In questa stazione l’anima è chiamata
“gradita” perché il Vero, esaltato sia, è soddisfatto di lei, il suo cammino è
quello “da Dio” poiché essa ha ricevuto da Lui le conoscenze di cui aveva
necessità. Sappi che agli inizi di questa stazione rifulgono i primi segni
della Vicereggenza maggiore (al-khilâfa
al-kubrâ) di cui il viandante sarà infine investito; essa è l’investitura
di “Io sono l’udito con cui egli ode, la vista con cui egli vede, la mano con
cui afferra, il piede con il quale egli cammina”[33]».
Il Nome divino specifico di questa
stazione è Al-Qayyûm (il Sussistente di
per Sé).[34]
La settima è la stazione dell’anima
perfetta (kâmila), il suo itinerario
spirituale è «per Dio» (bi-Llâh). Il suo mondo la molteplicità nell’Unità e l’Unità nella
molteplicità. Il luogo di residenza corporeo è «il più nascosto» (al-akhfâ), la relazione tra esso e «il
nascosto» (al-khafî) è come quella
che sussiste tre lo spirito e il corpo. Il suo stato
spirituale è la Permanenza in Dio (al-baqâ’).
Le sue qualità sono tutte le buone qualità dell’anima menzionate precedentemente. Il nome con il quale il santo è impegnato
nella recitazione è Al-Qahhâr (il
Soggiogatore). Colui che detiene questa stazione non
ha altro desiderio se non la soddisfazione di Dio. Egli è il santo perfetto.
[1] Il termine anfâs è il plurale di nafas, alito, respiro, simile alla
parola nafs,
anima, il cui plurale però è nufûs o anfus. Forse si tratta di un gioco di
parole che allude al cambiamento delle «anime» (su cui vedi
infra) che si opera tramite le
tecniche di respirazione associate al dhikr,
la «memorazione» dei Nomi divini, rito fondamentale della pratica sufi.
[2] All’incirca 50 grammi.
[3] MUHAMMAD KHALÎL IBN ‘ALÎ AL-MURÂDÎ, Silk al-durar fî a’yân al-qarn al-thânî ‘ashar, Bûlâq 1301 (1883-84), IV, pp. 9-10.
[4] Cf. KHAYR AL-DÎN AL-ZIRIKLÎ, Al-A’lâm V: 177, Hâjjî Khalîfa: Kashf al-Zunûn 5: 833, MUHAMMAD RIDÂ KAHHÂLA, Mu’jam al-mu’allifîn VIII: 104
[5] C’è da segnalare che questo trattato è stato attribuito da Osman Yahyâ a Muhyî al-Dîn Ibn ‘Arabî; cf. Histoire et Classification de l’Oeuvre de Ibn ‘Arabî, Institut Français de Damas, Damasco 1964, vol. I, p. 452. Alcune parti del trattato sono state recentemente tradotte dal prof. ANGELO SCARABEL, Il sufismo. Storia e dottrina. Roma 2007, pp. 137, 159-160.
[6] MARIJAN MOLÉ, «Quelques traités naqshbandis» in: Farhang Irân Zamîn, Teheran 1338 (h. sh.), pp. 273 e ss.
[7] Ibid., p. 280. Mawlânâ Khâlid Baghdâdî (m. 1827) fu un’importante personalità della Naqshbandiyya che ebbe il ruolo di diffondere nell’Occidente ottomano la riforma dottrinale di Shâh Ahmad Sirhindî. Per quanto riguarda la sua figura e la Naqshbandiyya-Khâlidiyya si veda: ALBERT HOURANI: «Shaykh Khâlid and the Naqshbandi order», in Islamic Philosophy and the Classical Tradition, a cura di S. M. Stern, A. Hourani e V. Brown, Oxford 1972, pp. 89-103; HAMID ALGAR, «I Khâlidi-Naqshbandî della Turchia ottomana e le loro pratiche devozionali», in: ‘Ayn al-Hayât. Quaderno di Studi della Tarîqa Naqshbandiyya, n. 4, 1998, pp. 5-33.
[8] KARL BROCKELMANN, G. A. L. II, 344; G. A. S. II, 472.
[9] Vedere sull’argomento ANGELO SCARABEL, «Una rivista italo-araba di inizio secolo: Il Convito – An-Nâdî», in Oriente Moderno, 1978, pp. 52-67.
[10] Il Convito-An-Nâdî, Il Cairo 1907: anno IV, serie II, n°1, pp. 11 e ss.; n°2, pp. 53 e ss.; n° 3-4, pp. 79 e ss.; n° 5-6, pp. 143 e ss. La collezione dell’opera è conservata nella biblioteca dell’Istituto per l’Africa e l’Oriente di Roma
[11] La rivista riapparve brevemente nel 1910 riportando in un paio di numeri parti del testo arabo del trattato senza la traduzione italiana.
[12] QÂSIM IBN SALÂH AL-DÎN AL-KHÂNÎ, Al-Sayr wa-l-Sulûk ilâ Maliki-l-Mulûk, Beirut, Dâr al-Kutub al-’Ilmiyya, 2002. Introduzione e note di Ibrâhîm Shams al-Dîn. Non è possibile risalire al manoscritto o ai manoscritti originali che sono alla base di questa edizione, perché il curatore non ne dà notizia. Secondo quanto riportano Brockelmann e Kahhâla i manoscritti del trattato sono numerosi e sparsi un po’ ovunque nelle biblioteche del mondo islamico: uno di questi è conservato alla Biblioteca Vaticana (Vat. ar. 1253). Alcuni di questi esemplari però, come la copia litografata conservata alla British Library, sono delle versioni abbreviate del trattato.
[13] QÂSIM IBN SALÂH AL-DÎN AL-KHÂNÎ, Al-Sayr wa-l-Sulûk ilâ Maliki-l-Mulûk, Beirut 2002, pp. 62-63.
[14] Vedere a questo proposito ABÛ HÂMID AL-GHAZÂLÎ, Ihyâ’ ‘ulûm al-dîn, Beirut s. d., vol. III, p. 5, trad. italiana: Le Meraviglie del cuore (Kitâb ‘ajâ’ib al-qalb), a cura di Ines Peta, Torino 2006, pp. 26 e seguenti; NAJM AL-DÎN DÂYA RÂZ, The Path of God’s Bondsmen from Origin to Return; traduzione introduzione e note a cura di Hamid Algar, North Haledon 1980, pp. 333-393.
[15] AL-KHÂNÎ, Al-Sayr wa-l-Sulûk, cit. p. 159.
[16] Ibid., p. 63. La psicologia sufi è una materia varia e complessa; se ne possono notare i primi elementi già nell’opera di ‘Alî ibn ‘Uthmân al-Hujwîrî (m. 1072 d. C.), che riassume la dottrina di ‘Amr ibn ‘Uthmân al Makkî (m. 903 d. C.) basata su quattro livelli di interiorizzazione della preghiera, designati come il corpo (tan), il cuore (del), lo spirito (jân) e il segreto (sirr) (cf. The Kashf al-Mahjûb, trad. R. A. NICHOLSON, Lahore 1976, p. 309). Lo stesso schema tetradico viene descritto anche da Al-Sulamî (m. 1021 d. C.) nella Risâla al-Malâmatiyya (cf. I custodi del segreto, trad. a cura di G. Sassi, Milano 1997, pp. 34-35, 39). Un esempio ancor più chiaro di tale schema è nel trattato attribuito ad Al-Hakîm al-Tirmidhî (m. 908 d. C.) sulla differenza tra il «petto», il «cuore», il «il cuore interiore» e l’«intelletto» (Al-farq bayna al sadr wa-l-qalb wa-lfu’âd wa-l-lubb, trad. ingl. «A treatise on the heart» a cura di Nicholas Heer, in: Three Early Sufi Text, Louisville 2003, pp. 11-74). L’originale schema tetradico dei primi sufi inizia a diventare una scala eptadica a partire da un’opera di Rûzbehân Baqlî di Shîrâz (m. 1209 d. C.) in cui il petto (sadr) racchiude in sé gli altri sei centri sottili (qalb, ‘aql, fu’âd, rûh sirr, sirr al-sirr) e ad ognuno di questi centri sottili è associata una funzione cognitiva: sadr/sharh, qalb/wahy, ‘aql/’ilm, fu’âd/rû’ya, rûh/al-waqt, sirr/ma’rifa, sirr al-sirr/al-tawhîd. (Cf. «Kitâb al-Ighâna», in PAUL BALLANFAT, Quatre Traités Inédits de Rûzbehân Baqlî de Shîrâz, Institut Français de Recherche en Iran, Teheran 1998, p. 100). La serie eptadica di centri sottili si ripropone nelle opere dei sufi kubrawî del XIII e XIV secolo, e in particolar modo in quella di ‘Alâ’ al-Dawla Semnânî (m. 1336 d. C.) su cui si veda: HENRY CORBIN, L’uomo di luce nel sufismo iraniano, Roma 1988, En Islâm iranien, vol. III, p. 275 e ss., Parigi 1972. Su Semnânî vedere anche JAMAL J. ELIAS, The Throne Carrier of God, the Life and Thought of ‘Alâ’ ad-Dawla as-Simnânî, N. Y. 1995, e inoltre HERMAN LANDOLT, «Deux opuscules de Semnânî sur le moi théophanique» in Recherches en spiritualité iranienne, Teheran 2005, pp. 211-245. Come il sistema kubrawî, anche il sistema naqshbandî è basato su una scala di sette organi sottili, con una leggera differenza nella denominazione e nella dislocazione nel corpo umano, su cui si può vedere ALBERTO VENTURA, «L’invocazione del cuore», in Yâd Nâma, in memoria di Alessandro Bausani, Roma 1991; AHMAD SIRHINDÎ, L’inizio e il ritorno (Mabda’ o Ma’âd) a cura di Demetrio Giordani, Milano 2003, pp. 52-55; ARTHUR BUEHLER, Sufi Heirs of the Prophet. The Indian Naqshbandiyya and the Rise of the Mediating Sufi Shaykh, University of South Carolina 1998, pp. 98 e ss. Sulla dottrina dei centri sottili di un importante sufi naqshbandî indiano si può vedere MARCIA HERMANSEN: «Shâh Walî Allâh’s Theory of the Subtle Spiritual Centers (latâ’if): a Sufi Model of Personhood and Self-Tranformation» in Studies in Islâm, July 1982. Per uno sguardo sulla dottrina dei sette centri sottili presso la Chishtiyya indiana si può vedere CARL W. ERNST E BRUCE LAWRENCE, Sufi Martyrs of Love. The Chisti Order in South Asia and Beyond, New York 2002, pp. 130-133.
[17] Cf. Al-sayr wa-l-sulûk, cit., p. 63.
[18] Ibid., p. 94.
[19] Lo stesso modello di suddivisione eptadica dei gradi dell’anima è riprodotto dettagliatamente anche da Muhammad ibn ‘Alî al-Sanûsî (m. 1859) in un suo trattato; a tal proposito egli chiama in causa spesso lo Shaykh al Khânî, dimostrando una conoscenza profonda della sua opera, cf. AL-SANÛSÎ, Al-masâ’il al-’ashar, Il Cairo 1927, p. 132. Uno schema analogo che riproduce assieme ai gradi di ciascuna anima, le fasi del cammino, i gradi metafisici corrispondenti, i centri sottili corporei, gli stati spirituali e in più le luci caratteristiche di ciascun grado, nello stesso ordine e con definizioni del tutto simili a quelle elencate da Al-Khânî, è riportato nel popolare trattato della Qâdiriyya, Al-fuyûdât alrabbâniyya, compilato da Ismâ’îl Muhammad ibn Sa’îd, Il Cairo 1353 h., p. 35. Si veda anche SPENCER TRIMINGHAM, The Sufi Orders in Islam, Oxford 1973, pp. 152-153.
[20] Riportato da Muslim nel Sahîh: Al-Imân, 293; IBN MÂJAH nel Sunan: Al-Muqaddima, bâb 13; Ahmad ibn Hanbal nel Musnad, IV: 401-405.
[21] Al-sayr wa-l-sulûk, cit., p. 27.
[22] Cf. ibid., p. 96.
[23] ‘ALÎ IBN ‘UTHMÂN HUJWÎRÎ, Kashf al-Mahjûb, Teheran 1383 (h. sh.), p. 309.
[24] SHARÂFUDDÎN AHMAD IBN YAHYÂ MANERÎ, The Hundred Letters, traduzione, introduzione e note di Paul Jackson, New York 1980, p. 332. Vedere anche HUJWÎRÎ: Kashf al-Mahjûb, cit., p. 310.
[25] Cf. Al-sayr wa-l-sulûk, cit., p. 105.
[26] Ibid., p. 106.
[27] Ibid., p. 110.
[28] Ibid., p. 118.
[29] Cf. ibid., p. 122.
[30] Ibid., p. 138.
[31] Ibid., pp. 155-156.
[32] Ibid., p. 160.
[33] Riferimento a un Hadîth qudsî la cui parte finale dice: «Non cessa il Mio servo di avvicinarMisi con opere supererogatorie finché lo amo, e se Io lo amo sono l’udito con cui egli ode, la vista con cui egli vede, la mano con cui afferra, il piede con il quale egli cammina». Contenuto in AL-NAWAWÎ, Al-Arba’în al-nawawiyya, n. 38. Sulla nozione di Califfato cosmico vedere PAOLO URIZZI, «Regalità e Califfato» in Perennia Verba, Rimini 1999 n. 3, 2000 n. 4, 2001 n. 5, 2002-2003 n. 6-7. Sulla nozione di «Realizzazione discendente» si veda ALBERTO VENTURA, Profezia e santità secondo shaykh Ahmad Sirhindî, Cagliari 1990, pp. 47 e seguenti.
[34] Al-sayr wa-l-sulûk, cit., p. 160.
[2] All’incirca 50 grammi.
[3] MUHAMMAD KHALÎL IBN ‘ALÎ AL-MURÂDÎ, Silk al-durar fî a’yân al-qarn al-thânî ‘ashar, Bûlâq 1301 (1883-84), IV, pp. 9-10.
[4] Cf. KHAYR AL-DÎN AL-ZIRIKLÎ, Al-A’lâm V: 177, Hâjjî Khalîfa: Kashf al-Zunûn 5: 833, MUHAMMAD RIDÂ KAHHÂLA, Mu’jam al-mu’allifîn VIII: 104
[5] C’è da segnalare che questo trattato è stato attribuito da Osman Yahyâ a Muhyî al-Dîn Ibn ‘Arabî; cf. Histoire et Classification de l’Oeuvre de Ibn ‘Arabî, Institut Français de Damas, Damasco 1964, vol. I, p. 452. Alcune parti del trattato sono state recentemente tradotte dal prof. ANGELO SCARABEL, Il sufismo. Storia e dottrina. Roma 2007, pp. 137, 159-160.
[6] MARIJAN MOLÉ, «Quelques traités naqshbandis» in: Farhang Irân Zamîn, Teheran 1338 (h. sh.), pp. 273 e ss.
[7] Ibid., p. 280. Mawlânâ Khâlid Baghdâdî (m. 1827) fu un’importante personalità della Naqshbandiyya che ebbe il ruolo di diffondere nell’Occidente ottomano la riforma dottrinale di Shâh Ahmad Sirhindî. Per quanto riguarda la sua figura e la Naqshbandiyya-Khâlidiyya si veda: ALBERT HOURANI: «Shaykh Khâlid and the Naqshbandi order», in Islamic Philosophy and the Classical Tradition, a cura di S. M. Stern, A. Hourani e V. Brown, Oxford 1972, pp. 89-103; HAMID ALGAR, «I Khâlidi-Naqshbandî della Turchia ottomana e le loro pratiche devozionali», in: ‘Ayn al-Hayât. Quaderno di Studi della Tarîqa Naqshbandiyya, n. 4, 1998, pp. 5-33.
[8] KARL BROCKELMANN, G. A. L. II, 344; G. A. S. II, 472.
[9] Vedere sull’argomento ANGELO SCARABEL, «Una rivista italo-araba di inizio secolo: Il Convito – An-Nâdî», in Oriente Moderno, 1978, pp. 52-67.
[10] Il Convito-An-Nâdî, Il Cairo 1907: anno IV, serie II, n°1, pp. 11 e ss.; n°2, pp. 53 e ss.; n° 3-4, pp. 79 e ss.; n° 5-6, pp. 143 e ss. La collezione dell’opera è conservata nella biblioteca dell’Istituto per l’Africa e l’Oriente di Roma
[11] La rivista riapparve brevemente nel 1910 riportando in un paio di numeri parti del testo arabo del trattato senza la traduzione italiana.
[12] QÂSIM IBN SALÂH AL-DÎN AL-KHÂNÎ, Al-Sayr wa-l-Sulûk ilâ Maliki-l-Mulûk, Beirut, Dâr al-Kutub al-’Ilmiyya, 2002. Introduzione e note di Ibrâhîm Shams al-Dîn. Non è possibile risalire al manoscritto o ai manoscritti originali che sono alla base di questa edizione, perché il curatore non ne dà notizia. Secondo quanto riportano Brockelmann e Kahhâla i manoscritti del trattato sono numerosi e sparsi un po’ ovunque nelle biblioteche del mondo islamico: uno di questi è conservato alla Biblioteca Vaticana (Vat. ar. 1253). Alcuni di questi esemplari però, come la copia litografata conservata alla British Library, sono delle versioni abbreviate del trattato.
[13] QÂSIM IBN SALÂH AL-DÎN AL-KHÂNÎ, Al-Sayr wa-l-Sulûk ilâ Maliki-l-Mulûk, Beirut 2002, pp. 62-63.
[14] Vedere a questo proposito ABÛ HÂMID AL-GHAZÂLÎ, Ihyâ’ ‘ulûm al-dîn, Beirut s. d., vol. III, p. 5, trad. italiana: Le Meraviglie del cuore (Kitâb ‘ajâ’ib al-qalb), a cura di Ines Peta, Torino 2006, pp. 26 e seguenti; NAJM AL-DÎN DÂYA RÂZ, The Path of God’s Bondsmen from Origin to Return; traduzione introduzione e note a cura di Hamid Algar, North Haledon 1980, pp. 333-393.
[15] AL-KHÂNÎ, Al-Sayr wa-l-Sulûk, cit. p. 159.
[16] Ibid., p. 63. La psicologia sufi è una materia varia e complessa; se ne possono notare i primi elementi già nell’opera di ‘Alî ibn ‘Uthmân al-Hujwîrî (m. 1072 d. C.), che riassume la dottrina di ‘Amr ibn ‘Uthmân al Makkî (m. 903 d. C.) basata su quattro livelli di interiorizzazione della preghiera, designati come il corpo (tan), il cuore (del), lo spirito (jân) e il segreto (sirr) (cf. The Kashf al-Mahjûb, trad. R. A. NICHOLSON, Lahore 1976, p. 309). Lo stesso schema tetradico viene descritto anche da Al-Sulamî (m. 1021 d. C.) nella Risâla al-Malâmatiyya (cf. I custodi del segreto, trad. a cura di G. Sassi, Milano 1997, pp. 34-35, 39). Un esempio ancor più chiaro di tale schema è nel trattato attribuito ad Al-Hakîm al-Tirmidhî (m. 908 d. C.) sulla differenza tra il «petto», il «cuore», il «il cuore interiore» e l’«intelletto» (Al-farq bayna al sadr wa-l-qalb wa-lfu’âd wa-l-lubb, trad. ingl. «A treatise on the heart» a cura di Nicholas Heer, in: Three Early Sufi Text, Louisville 2003, pp. 11-74). L’originale schema tetradico dei primi sufi inizia a diventare una scala eptadica a partire da un’opera di Rûzbehân Baqlî di Shîrâz (m. 1209 d. C.) in cui il petto (sadr) racchiude in sé gli altri sei centri sottili (qalb, ‘aql, fu’âd, rûh sirr, sirr al-sirr) e ad ognuno di questi centri sottili è associata una funzione cognitiva: sadr/sharh, qalb/wahy, ‘aql/’ilm, fu’âd/rû’ya, rûh/al-waqt, sirr/ma’rifa, sirr al-sirr/al-tawhîd. (Cf. «Kitâb al-Ighâna», in PAUL BALLANFAT, Quatre Traités Inédits de Rûzbehân Baqlî de Shîrâz, Institut Français de Recherche en Iran, Teheran 1998, p. 100). La serie eptadica di centri sottili si ripropone nelle opere dei sufi kubrawî del XIII e XIV secolo, e in particolar modo in quella di ‘Alâ’ al-Dawla Semnânî (m. 1336 d. C.) su cui si veda: HENRY CORBIN, L’uomo di luce nel sufismo iraniano, Roma 1988, En Islâm iranien, vol. III, p. 275 e ss., Parigi 1972. Su Semnânî vedere anche JAMAL J. ELIAS, The Throne Carrier of God, the Life and Thought of ‘Alâ’ ad-Dawla as-Simnânî, N. Y. 1995, e inoltre HERMAN LANDOLT, «Deux opuscules de Semnânî sur le moi théophanique» in Recherches en spiritualité iranienne, Teheran 2005, pp. 211-245. Come il sistema kubrawî, anche il sistema naqshbandî è basato su una scala di sette organi sottili, con una leggera differenza nella denominazione e nella dislocazione nel corpo umano, su cui si può vedere ALBERTO VENTURA, «L’invocazione del cuore», in Yâd Nâma, in memoria di Alessandro Bausani, Roma 1991; AHMAD SIRHINDÎ, L’inizio e il ritorno (Mabda’ o Ma’âd) a cura di Demetrio Giordani, Milano 2003, pp. 52-55; ARTHUR BUEHLER, Sufi Heirs of the Prophet. The Indian Naqshbandiyya and the Rise of the Mediating Sufi Shaykh, University of South Carolina 1998, pp. 98 e ss. Sulla dottrina dei centri sottili di un importante sufi naqshbandî indiano si può vedere MARCIA HERMANSEN: «Shâh Walî Allâh’s Theory of the Subtle Spiritual Centers (latâ’if): a Sufi Model of Personhood and Self-Tranformation» in Studies in Islâm, July 1982. Per uno sguardo sulla dottrina dei sette centri sottili presso la Chishtiyya indiana si può vedere CARL W. ERNST E BRUCE LAWRENCE, Sufi Martyrs of Love. The Chisti Order in South Asia and Beyond, New York 2002, pp. 130-133.
[17] Cf. Al-sayr wa-l-sulûk, cit., p. 63.
[18] Ibid., p. 94.
[19] Lo stesso modello di suddivisione eptadica dei gradi dell’anima è riprodotto dettagliatamente anche da Muhammad ibn ‘Alî al-Sanûsî (m. 1859) in un suo trattato; a tal proposito egli chiama in causa spesso lo Shaykh al Khânî, dimostrando una conoscenza profonda della sua opera, cf. AL-SANÛSÎ, Al-masâ’il al-’ashar, Il Cairo 1927, p. 132. Uno schema analogo che riproduce assieme ai gradi di ciascuna anima, le fasi del cammino, i gradi metafisici corrispondenti, i centri sottili corporei, gli stati spirituali e in più le luci caratteristiche di ciascun grado, nello stesso ordine e con definizioni del tutto simili a quelle elencate da Al-Khânî, è riportato nel popolare trattato della Qâdiriyya, Al-fuyûdât alrabbâniyya, compilato da Ismâ’îl Muhammad ibn Sa’îd, Il Cairo 1353 h., p. 35. Si veda anche SPENCER TRIMINGHAM, The Sufi Orders in Islam, Oxford 1973, pp. 152-153.
[20] Riportato da Muslim nel Sahîh: Al-Imân, 293; IBN MÂJAH nel Sunan: Al-Muqaddima, bâb 13; Ahmad ibn Hanbal nel Musnad, IV: 401-405.
[21] Al-sayr wa-l-sulûk, cit., p. 27.
[22] Cf. ibid., p. 96.
[23] ‘ALÎ IBN ‘UTHMÂN HUJWÎRÎ, Kashf al-Mahjûb, Teheran 1383 (h. sh.), p. 309.
[24] SHARÂFUDDÎN AHMAD IBN YAHYÂ MANERÎ, The Hundred Letters, traduzione, introduzione e note di Paul Jackson, New York 1980, p. 332. Vedere anche HUJWÎRÎ: Kashf al-Mahjûb, cit., p. 310.
[25] Cf. Al-sayr wa-l-sulûk, cit., p. 105.
[26] Ibid., p. 106.
[27] Ibid., p. 110.
[28] Ibid., p. 118.
[29] Cf. ibid., p. 122.
[30] Ibid., p. 138.
[31] Ibid., pp. 155-156.
[32] Ibid., p. 160.
[33] Riferimento a un Hadîth qudsî la cui parte finale dice: «Non cessa il Mio servo di avvicinarMisi con opere supererogatorie finché lo amo, e se Io lo amo sono l’udito con cui egli ode, la vista con cui egli vede, la mano con cui afferra, il piede con il quale egli cammina». Contenuto in AL-NAWAWÎ, Al-Arba’în al-nawawiyya, n. 38. Sulla nozione di Califfato cosmico vedere PAOLO URIZZI, «Regalità e Califfato» in Perennia Verba, Rimini 1999 n. 3, 2000 n. 4, 2001 n. 5, 2002-2003 n. 6-7. Sulla nozione di «Realizzazione discendente» si veda ALBERTO VENTURA, Profezia e santità secondo shaykh Ahmad Sirhindî, Cagliari 1990, pp. 47 e seguenti.
[34] Al-sayr wa-l-sulûk, cit., p. 160.
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