"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 12 dicembre 2016

Titus Burckhardt Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam I - La realizzazione spirituale - Tre aspetti della Via: la Dottrina, la Virtù e l’Alchimia Spirituale


Titus Burckhardt
Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam

I - La Realizzazione Spirituale
Tre aspetti della Via: la Dottrina, la Virtù e l’Alchimia Spirituale


Come ogni via contemplativa, e indipendentemente dalla sua differenziazione secondo diversi «sentieri», il sufismo «operativo» implica tre elementi o aspetti costitutivi: la dottrina, la virtù spirituale, e un'arte della concentrazione che chiameremo, giusta l'espressione di alcuni sufi, «alchimia spirituale»[1].

L'assimilazione delle verità dottrinali è indispensabile; tuttavia non compie, da sola, la trasformazione dell'anima, salvo in alcuni casi eccezionalissimi, quando cioè l'anima è talmente ben disposta alla contemplazione che anche una breve considerazione dottrinale è bastevole per immergervela, come succede ad una soluzione soprassatura che, essendo sottoposta ad un impulso pur minimo, può repentinamente trasformarsi in cristalli. L'intelligenza dottrinale in sé è puramente statica; può liberare l'anima da alcune tensioni, ma non può trasformarla veramente senza il concorso della volontà, che rappresenta l'elemento dinamico della via. Succede anche piuttosto facilmente che l'intuizione delle verità metafisiche, risvegliata dapprima dallo studio della dottrina, si disgreghi a poco a poco nello spirito di colui che, credendo di possedere queste verità, vi aderisce soltanto mentalmente, come se la volontà non vi dovesse avere alcuna parte. La volontà deve diventare «povera» nei confronti di Dio, deve cioè conformarsi alla virtù spirituale; questa rappresenta una sorta di concentrazione latente dell'anima, una base solida e naturale della concentrazione diretta mente operativa il cui scopo è di squarciare il velo della coscienza, assorbita continuamente dal flusso delle forme. «La virtù spirituale (al-ihsân) - ha detto il Profeta - consiste nel fatto che tu adori Dio come se lo vedessi; e se tu non Lo vedi, Egli vede te».
Secondo la particolare natura del «sentiero» - e «vi sono tanti sentieri quante anime umane»[2] - la comprensione dottrinale ha un influsso più o meno importante; non esige necessariamente un sapere dottrinale particolarmente vasto: esso deve infatti svilupparsi in profondità e non in superficie. La cosa più importante, per colui che aspira alla gnosi, è l'essere cosciente del significato profondo dei riti che compie: deve infatti attuare i loro significati secondo la sua comprensione effettiva. In questo ambito, lo sforzo solamente quantitativo e la volontà cieca non possono approdare a nulla, poiché solo ciò la cui natura coincide con la propria porta alla conoscenza.
Bisogna poi aggiungere che ci sono sempre, nelle esperienze spirituali, alcuni elementi che non offrono, per cosi dire, appiglio all'intelligenza teorica; il fatto che la Verità divina oltrepassa infinitamente le sue prefigurazioni mentali deve necessariamente rivelarsi nell'economia della vita spirituale. Sotto questo aspetto si può anche constatare una certa inversione dei rapporti: i sostegni, la cui natura è meno discorsiva dunque più «oscura» per la ragione, trasmettono generalmente le grazie più forti; ai confini della pura contemplazione, i simboli diventano sempre più sintetici e sempre piu semplici nella loro forma.
La Realtà divina è al tempo stesso Conoscenza ed Essere; colui che si vuole avvicinare ad Essa deve vincere non solo l'ignoranza e l'incoscienza, ma anche l'accaparramento dello spirito, da parte di un sapere puramente teorico ed altre simili «irrealtà». Per tale ragione diversi sufi, tra cui i rappresentanti piu eminenti della gnosi come Muhyi-d-din ibn 'Arabi e 'Omar al-Khayyam[3], hanno affermato la supremazia della virtù e della concentrazione rispetto al sapere dottrinale; i veri «intellettivi» sono i primi a riconoscere la relatività di ogni espressione teorica. L'aspetto intellettuale della Via implica al tempo stesso lo studio della dottrina e il suo superamento mediante l'intuizione; l'errore è sempre rigorosamente escluso, ma anche il mentale, che trasmette la verità limitandola però in qualche modo, deve parimenti venire eliminato nella contemplazione unitiva.
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La virtù è una forma qualitativa della volontà; ora, chi dice forma, dice essenza intelligibile. La virtù spirituale è imperniata sulla propria essenza, che è una Qualità divina; cioè, questa virtù implica una sorta di conoscenza. Secondo Ahmed ibn al-'Arif, essa si distingue dalla virtù comune per la sua estraneità ad ogni interesse individuale; se implica una rinuncia, non è in considerazione di un'ulteriore ricompensa, giacché porta in sé il suo frutto, come la conoscenza e la bellezza. La virtù spirituale non è, certamente, né una semplice negazione degli istinti naturali - l'ascetismo è il suo grado inferiore - né una pura sublimazione psichica; essa trae origine da un presentimento della realtà divina sottostante agli oggetti del desiderio - la passione nobile è piu vicina alla virtù che non l'angoscia - e questo presentimento è in sé una specie di «grazia naturale» che compensa d'altra parte l'aspetto sacrifìcale della virtù; in seguito, il fiorire progressivo di questa richiede un irraggiamento sempre piu diretto della Qualità divina, la cui virtù è l'orma umana, e viceversa, la virtù aumenta nella misura in cui si rivela il suo modello divino. Questo nucleo intuitivo conferisce alla virtù spirituale la sua qualità inimitabile e quasi carismatica; grazie ad essa, l'Intelletto risplende, non in modo «sapienziale» ma in modo «esistenziale», con la bellezza dell'anima o con gli effetti miracolosi che l'affinità tra tale virtù e il suo modello divino può provocare nell'ambiente cosmico.
La conoscenza, nella sua integrità intellettiva, è essenzialmente sovra-individuale perché universale; ora, le virtù rappresentano, nell'individualità e in modo esistenziale, i gradi ed i modi della conoscenza; ne sono quindi i riflessi, non cerebrali o passeggeri, ma volitivi e stabili; sono, per usare un'altra espressione, acquisizioni d'essere e non improvvisazioni di pensiero. Proprio per questo, le virtù sono i sostegni indispensabili della conoscenza, ed ecco perché i sufi le identificano con i gradi spirituali.
Questo ci induce a parlare brevemente della teoria dello «stato» (al-hal) e della «stazione» (al-maqâm) spirituali. Lo «stato», secondo questo significato della parola, è un'immersione passeggera dell'anima nella Luce divina; si parla allora secondo l’intensità e la durata dello «stato», di «bagliori» (lawâih), di «lampi» (lawâmi’), d'«irraggiamento» (tajalli), eccetera. La «stazione» è lo «stato» divenuto permanente. La corrispondenza fra le diverse «stazioni» e le virtù spirituali è necessariamente molto complessa; la traccia etica di un livello spirituale è tanto piu sottile quanto più questo livello è elevato e quanto piu l'incommensurabilità fra Realtà contemplata e il ricettacolo umano diventa profonda. I diversi schemi psicologici delle stazioni spirituali hanno soprattutto un valore speculativo o indicativo.
Come le Qualità divine, che esse riflettono nell'ordine umano, le virtù spirituali possono essere considerate distintamente, secondo una differenziazione più o meno grande, o riassunte io alcuni tipi fondamentali. Allo stesso modo, virtù apparentemente opposte possono ridursi ad una sola ed identica attitudine; così, la pazienza (as-sabr) e lo zelo (al-ghayrah), che si manifesta per mezzo della santa collera, presuppongono ambedue un'asse interiore incrollabile; questa immutabilità si manifesta in modo passivo nella pazienza e in modo attivo nella collera.
In un certo senso, tutte le virtù sono contenute nella povertà spirituale (al-faqr), il cui nome è usato abitualmente per indicare ogni spiritualità; tale povertà non è altro che il vacare Deo, il vuoto per Dio; il suo inizio è il rifiuto delle passioni, il suo compimento l'annullamento dell'io davanti alla Divinità. La natura di questa virtù mostra in modo adeguato l'analogia inversa che collega il simbolo umano al suo archetipo divino: ciò che è vuoto da parte della creatura è plenitudine da parte del Creatore.
Un'altra virtù che si può considerare come un paradigma di tutto ciò che implica l'attitudine del «povero» (faqir) è la sincerità (al-ikhlâs) o veridicità (as-sidq); si tratta dell'assenza di preoccupazioni egocentriche nelle intenzioni e nel pensiero e, in sostanza, dell'annullamento del mentale davanti alla Verità divina; è dunque anche un vuoto da parte dell'individuo e correlativamente una plenitudine di ordine superiore, con la differenza tuttavia - rispetto alla povertà - che questa, come l'umiltà, appartiene soltanto al servo, mentre la veridicità appartiene innanzitutto al Signore; si può però osservare che la «povertà» o «umiltà» di Dio è la semplicità della Sua Essenza. Comunque sia, la sincerità spirituale implica la cessazione di questo sdoppiamento della coscienza che costituisce lo stato normale dell'anima: l'uomo inserisce fra il mondo - che comprende anche le sue azioni - e Dio, lo pseudo-principio dell'ego, istintivamente e fatalmente d'altronde, anziché vederli con l'occhio della Verità divina; colui che è sincero (as-siddîq) è indipendente dai suggerimenti congeniti o spontanei del suo «io» e non si compiace di esso, lasciando che la sinistra non sappia cosa fa la destra.
Abbiamo visto che Muhyi-d-dln ibn 'Arabi pone l'amore integrale al vertice della sua «scala» delle dimore dell'anima. Si può dunque considerarlo come la sintesi di tutte le virtù, ed infatti, se ogni virtù è una forma della volontà, l'amore spirituale è la volontà stessa, trasfigurata dall'attrazione divina. L'amore di Dio è imperfetto e persino inconcepibile senza l'amore di Dio nella creazione (ogni aspetto della Sua Rivelazione compreso l'intelletto puro) e senza l'amore della creatura anche minima in Dio; si può dire, in un certo senso, che bisogna amare Dio innanzitutto nella creazione, nel Suo Verbo rivelato e nella Sua verità, poi in Sé stesso, nella Sua aseità trascendente, e infine nei «piu piccoli» che esigono la nostra carità.
D'altra parte, tutte le virtù dello spirito sono compendiate nella Santità (al-wilâyah), che è la coscienza ininterrotta della Presenza divina.
Dicevamo che la comprensione dottrinale non ha alcun potere senza la virtù; il contrario è valido solo in misura minore, tuttavia a condizione che l'anima aderisca alla verità per mezzo di una qualunque forma rivelata. La virtù è il fondamento indiretto della concentrazione dello spirito, poiché un'anima viziosa è incapace,
a lungo andare, di concentrarsi sulla verità; viceversa, la concentrazione spirituale contribuisce allo sviluppo delle virtù. In un certo senso, la virtù contemplativa non può perfezionarsi senza l'aiuto di un'«alchimia» interiore che si prenda cura della trasmutazione delle forze naturali dell'anima[4], ma proprio in funzione del suo oggetto, il simbolo rivelato, la concentrazione schiude la via alla Grazia che trasforma l'anima.
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La parola «alchimia» si adatta bene all'arte della concentrazione considerata in sé poiché l'anima, dal punto di vista di quest'arte, è come una «materia» che bisogna trasformare, come il piombo che deve diventare oro. In altre parole, l'anima caotica e opaca deve diventare «formata» e cristallina; qui, la forma non è un irrigidimento in limiti determinati, ma, al contrario, una coordinazione quasi geometrica e, quindi, una liberazione virtuale dalle condizioni limitative dell'arbitrio psichico, proprio come l'oro e il cristallo attuano, sul piano delle sostanze solide, la natura della luce, il secondo per la sua forma geometrica[5] e, al tempo stesso, per la sua trasparenza.
Secondo il medesimo simbolismo - il più vicino all'alchimia propriamente detta - l'anima, irrigidita in uno stato di durezza sterile, deve essere «liquefatta», poi di nuovo «congelata» per potere sbarazzarsi delle sue impurità; tale «congelamento» sarà seguito da una «fusione» e quest'ultima da una «cristallizzazione» finale. Le forze naturali dell'anima, per compiere questi cambiamenti, sono attualizzate e coordinate, e possono essere paragonate a quelle della natura: il caldo, il freddo, l'umidità e l'aridità.
C'è nell'anima una forza espansiva la cui normale manifestazione è la gioia fiduciosa (bast) e l'amore, dunque il calore, e una forza contrattile - un freddo - che si manifesta attraverso il timore e la cui espressione spirituale è l'estrema contrazione (qabd) della coscienza nell'istantaneità, di fronte alla morte e all'eternità; quanto all'umidità e all'aridità, esse corrispondono rispettivamente alla passività «liquefattiva» dell'anima e all'attività «fissante» dello spirito[6]. Queste quattro forze possono, del resto, riallacciarsi a due principi complementari, analoghi allo «Zolfo» e al «Mercurio» dell'alchimia; nel metodo sufico, questi due principi si identificano rispettivamente con l'atto spirituale, cioè con l'affermazione attiva di un simbolo, e con la plasticità psichica. Con l'intervento della Grazia, l'affermazione volontaria del simbolo diventa l'attività permanente dello Spirito (ar-Rûh), mentre la plasticità o ricettività dell'anima acquisterà un'ampiezza cosmica[7].
La qualità ignea e la qualità «fissante» si ricollegano al polo attivo, analogo allo Zolfo, mentre la qualità contrattile e la qualità dissolvente, «umida», si riallacciano al polo passivo, il Mercurio dell'alchimia. È quindi facile vedere come le differenti qualità «naturali» dell'anima si combinino nei diversi stati: l'indurimento sterile dell'anima deriva dall'unione della qualità fissante - dell'aridità - del mentale con la qualità contrattile dello psichismo; il corrispondente di tale stato è la dissipazione proveniente da una connessione della forza espansiva del desiderio con il potere dissolvente dello psichismo passivo; questi due stati di squilibrio possono d'altronde assommarsi, come succede la maggior parte delle volte.
L'equilibrio dell'anima consiste in un ampio alternarsi di
espansione e di contrazione, paragonabile alla respirazione, e nelle «nozze» dell'attività «fissante» dello spirito con la ricettività «liquida» dell'anima.
Perché questa sintesi possa avvenire, bisogna che le potenze dell'anima non si lascino determinare da impulsi esterni, ma che rispondano all'attività spirituale imperniata sul cuore[8].
Abbiamo tratteggiato l'arte della concentrazione in termini propriamente alchemici, perché questa terminologia mette in evidenza la corrispondenza esistente tra i poteri dell'anima e le forze naturali, e anche fisiche, dell'organismo umano. L'utilizzazione di tali forze avvicina questo aspetto del Tasawwuf ai metodi del Rajâ Yoga.
Naturalmente, questa tecnica può essere descritta con simbolismi diversi. Gli autori sufici ne parlano quasi sempre in modo implicito, indicando l'uso dei simboli che sono l'oggetto della concentrazione; infatti, l'operazione «alchemica», come noi l'abbiamo considerata, non può separarsi dalla natura dei simboli usati come «mezzi di Grazia», e proprio mediante questi simboli l'aspetto «alchemico» dell'opera spirituale si ricollega all'aspetto intellettuale.
Il mezzo spirituale per eccellenza del Tasawwuf è il simbolo verbale, ripetuto interiormente o a voce alta, con o senza sincronizzazione del respiro; le diverse fasi dell'alchimia interiore, le «liquefazioni» e «cristallizzazioni» successive, sembreranno allora una permutazione (tasrîf) del simbolo uell'anima, conformemente alle diverse realtà divine (haqâiq) da esso espresse.
Al momento dell'invocazione di un Nome di Dio, i tre aspetti che costituiscono la Via - cioè la verità dottrinale, la virtù volitiva e l'alchimia spirituale - si riassumono in un unico atto interiore; la virtù sarà il riflesso umano dell'aspetto divino simbolizzato dal Nome sacro, mentre l'alchimia spirituale proverrà, nel suo piu intimo operare, dal potere teurgico dello stesso Nome, che si identifica misteriosamente con Dio.
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La dottrina si rivolge a ciò che è «naturalmente» metafisica nell'uomo. La virtù spirituale e la concentrazione mirano allo scioglimento del nodo dell'egocentrismo, che impedisce al cuore di contemplare direttamente le realtà principiali. Essendo l'affermazione individuale fatta di volizione, la virtù coglie l'ego per mezzo delle sue manifestazioni volitive; può succedere che un mutamento di direzione della volontà sveli di colpo il centro della coscienza, in modo che una rinuncia, un sacrificio, una «conversione» (at-tawbah) può comportare in alcuni casi, quasi improvvisamente, la visione dell'«occhio del cuore» ('ayn al-qalb). Quanto all'alchimia spirituale, essa trasforma la struttura psicofisica dell'uomo, agendo da un lato sui fondamenti organici della coscienza, e dall'altro diffondendo l'irraggiamento della Grazia, misteriosamente presente nei simboli divini.
Per completare il capitolo, citeremo anche il detto del maestro al-'Arabî al-Hasanî ad-Darqawî, che compendia diversi aspetti della Via: «Il significato [l'intuizione spirituale: al-ma'nâ] è molto sottile; si può ricordarlo solo con l'aiuto del sensibile (al-hiss), e si può mantenerlo solo mediante la conversazione spirituale (al-mudhâkarah), l'invocazione [o il ricordo di Dio: adh-dhikr] e la rottura delle abitudini naturali [cioè passive e istintive]».





[1] Il termine arabo piu usato è al-kimiyâ as-sa'dah, che significa letteralmente «l'alchimia della beatitudine»; al-Ghazzali lo usa con un significato piu generale e piu esteriore di quello da noi qui considerato.
[2] Questo detto arabo non deve intendersi alla lettera; vuol dire semplicemente che la diversità delle nature individuali implica una diversità di metodi spirituali. I tipi mentali si lasciano sempre ricondurre a poche categorie.
[3] Cfr. A. Christensen, Un traité de Métaphysique de Omar Khayyam, in «Le Monde Oriental», I, 1. 1906.
[4] La teoria sufica delle virtù spirituali differisce sotto molti aspetti da quella che si trova nell'insegnamento monastico d'Oriente. Cosi i Sufi non considerano generalmente la castità una virtù di base, ma la risultante di diverse altre virtù.
[5] È necessario ricordare che la propagazione della luce è rettilinea.
[6] Cfr. l'articolo di Maurice Aniane: Notes sur l'alchimie, nella raccolta Yoga dei Cahiers du Sud, Parigi 1953, e la nostra serie di articoli: Considérations sur l'alchimie, in Etudes Traditionnelles, ottobre-novembre 1948. Parigi. (Si fa rimando anchesì all'opera dell'Autore: «L'Alchimie», Fondation L. Keimer. Basilea 1974 - n.d.t.).
[7] Secondo Muhy-d-dln ibn 'Arabì, il significato universale dello Zolfo è l'Atto divino (al-Amr) e quello del Mercurio la Natura totale (Tabi'at al-kull).
[8] Questo corrisponde, nell'alchimia propriamente detta, alla «chiusura ermetica» del vaso.

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