"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 7 settembre 2017

Kalâbâdhî, Il Sufismo nelle parole degli antichi - La loro dottrina sulla predeterminazione e la creazione degli atti

Kalâbâdhî
Il Sufismo nelle parole degli antichi

La loro dottrina sulla predeterminazione e la creazione degli atti

I maestri son tutti unanimi nell'affermare che Dio è il Creatore di tutti gli atti (af'âl) dei Suoi servitori, cosi come Lo è delle loro realtà individuali (a'yân)[1].
Tutto quel che essi fanno, sia esso buono o cattivo, avviene per la Decisione (qadâ') di Dio e la Sua Predeterminazione (qadar), la Sua Volontà esistenziatrice (irâda) e la Sua Volontà principiale (mashî'a)[2]. Se così non fosse, essi non sarebbero né servitori, né sudditi, né creature. L'Altissimo ha detto: «Di: Dio, ilCreatore di ogni cosa» (Cor. 12:16), ed anche: «In verità ogni cosa Noi l'abbiamo creata per un decreto» (Cor. 54:49) e: «Tutto quel che hanno fatto si trova nei Registri» (Cor. 54:52). Dal momento che i loro atti sono delle «cose», ne consegue che Dio è necessariamente il loro Creatore. Se gli atti non fossero creati, Dio sarebbe stato il Creatore solo di alcuni di essi e non di tutti, ed allora la Sua Parola: «Il Creatore di ogni cosa» risulterebbe una menzogna, e Dio è troppo al di là di tutto ciò!
Inoltre, dal momento che, come noto, gli atti sono più numerosi delle essenze, se Dio fosse stato il Creatore delle essenze ed i servitori i creatori degli atti, gli uomini sarebbero allora più degni di lode al riguardo dell'azione creatrice che non Dio stesso, perché la loro creazione sarebbe più numerosa di quella di Dio. Se così fosse, questi ultimi possederebbero una potenza più perfetta dì quella di Dio e avrebbero maggior capacità creativa di Lui. Ma Dio ha detto: «O assegnano a Dio degli associati che creano come Egli ha creato, tanto che la loro creazione può assomigliare alla Sua? Dì: Dio è il Creatore di ogni cosa, ed Egli è l'Unico, il Dominatore supremo» (Cor. 13:16). Egli ha dunque negato che vi sia altro creatore che Lui. Ha detto inoltre: «E Noi abbiamo misurato la distanza del viaggio (che li separa)» (Cor. 34:18), facendo così sapere che Egli aveva determinato la misura del viaggio dei Suoi servitori. Ed ancora: «Allorché è Dio che vi ha creati, voi e quello che fate» (Cor. 37:94), e «Contro il male di ciò che egli ha creato» (Cor. 113:2), indicando in tal modo che in quel che aveva creato vi era del male. Ha detto inoltre: «E non obbedire a colui a cui Noi abbiamo reso il cuore noncurante del ricordo di Dio» (Cor. 18:28), ovvero che ha creato in lui la disattenzione. Ed ha detto: «Che voi parliate in segreto o apertamente, Egli invero sa bene ciò che si trova nei petti. Non conoscerà Egli quel che ha creato?» (Cor. 67:13-l4), informando che i loro discorsi, sia segreti che palesi, sono Sua creazione.
'Umar, che Dio sia soddisfatto dì lui!, chiese: «O Inviato di Dio!, cosa pensi di quello che intraprendiamo? È una questione già compiuta, o è invece una cosa appena incominciata?». «È una questione già compiuta», rispose il Profeta. «Perché allora non rimetterci fiduciosi (a Dio) e rinunciare ad agire?», chiese ancora ‘Umar. «Agite - replicò il Profeta - poiché ciascuno sarà facilitato in ciò per cui è stato creato»[3]. Fu anche chiesto al Profeta: «Cosa pensi delle formule propiziatorie in cui cerchiamo protezione e della medicina con cui ci curiamo; possono respingere ciò che Dio ha determinato?». Rispose: «Fanno parte anch'esse della Determinazione di Dio»[4]. Ed egli ha detto inoltre: «Per Dio!, nessuno crede fintantoché non crede in Dio e nella Predeterminazione divina e che il suo bene ed il suo male provengono entrambi da Dio». Essendo concepibile che Dio crei l'essenza di qualcosa che è cattivo, e allo stesso modo concepibile che ne crei l'atto.
Si è d'accordo nel ritenere che il movimento di una persona affetta da tremore è una creazione di Dio; lo è parimenti anche il movimento di qualsiasi altra persona, con la sola differenza che per quest'ultima Egli ba creato sia il movimento che la scelta (ihtiyâr), mentre per l’altro ha creato solo il movimento senza la scelta.
Abu Bakr al-Wâsitî, interpretando il versetto: «È a Lui che appartiene quel che risiede nella notte e nel giorno» (Cor. 6:13), ha detto: «Chiunque pretende che una cosa qualsiasi del Suo Regno – che costituisce quel che risiede nella notte e nel giorno – fosse anche un semplice pensiero o un movimento, è propria, o per sé, verso sé o da sé, ne contende (a Dio) il possesso e fa venir meno la Sua Onnipotenza». Ed a proposito del versetto: «Non è a Lui che appartiene la creazione e l'Ordine?» (Cor. 7:54), ha detto: «Creare è far esistere (ijâd), e ordinare è dare disposizione ad agire liberamente (itlâq); se Egli non avesse dato disposizione alle membra di agire in modo libero, queste non vi si sarebbero punto conformate, né, allo stesso modo, avrebbero potuto opporvisi».

Tratto da: Kalabadhî, Il Sufismo nelle parole degli antichi, Edizioni di Studi Medievali, Palermo.

Introduzione, traduzione e note a cura di Paolo Urizzi.





[1] Il problema della crezione degli aatti umani sottintende, nella teologia islamica, la questione della predestinazione e del libero arbitrio ed i sostenitori di entrambe le tesi sembrano, apparentemente, trovare argomenti nel Corano per le loro concezioni (cfr. Muslim Creed, pp. 50-51). In realtà il Testo sacro non fa che proporre da un lato la totale Onnipotenza di Dio, necessario corollario della Sua illimitatezza, e dall'altro la responsabilità intrinseca dell'uomo nei confronti delle sue azioni, per le quali sarà ricompensato o punito nel giorno del Giudizio. Va anche detto che non vi è traccia di libero arbitrio negli ahadith, e che il Profeta aveva represso sul nascere le discussioni su questo argomento (cfr. Tirmidhî, Qadar 1). La questione del qadar; (la «determmazione degli atti») ha cominciato tuttavia ad infiammare il dibattito teologico, prima a Damasco c poi a Basra, già attorno al 70/689 (vedere supra, p. 18 n. 49) e, indipendentemente dalla posizione assunta in proposito, coloro che vi erano coinvolti venivano all'origine designati come Qadariyya (cfr. Nallino, Raccolta di scritti editi ed inediti, II, pp. 176-180). Il termine finì tunavia coll'essere applicato di norma a coloro che, prima del definitivo consolidamento del pensiero mu'tazitita all'inizio del III/IX sec., riconoscevano nell’uomo un potere (qudra) sulle sue azioni, al punto da ritenere che la determinazione (qadar) degli atti dipendeva solo da lui, e negavano la predeterminazione del Decreto divino (cfr. Ibâna. p. 127 ss.). L'uso indiscrirninato del termine non mancò tuttavia di generare una certa confussione, al punto che finì qualche volta per designare anche i fautori della dottrina opposta, ossia i Jabriyya (o Mujbira) che, ascrivendo in modo esclusivo a Dio ogni cosa in virtù della Sua Determinazione (qadar) sovrana, sostenevano la «costrizione» (jabr) degli atti da parte di Dio, facendo dell'uomo un soggetto puramente passivo (sulle diverse accezioni del termine vedere W. Montgomcry Watt, Free Will and Predestination, p. 48 ss., ed anche art. Kadanyya, in EI, IV. p. 396 [J. van Ess]).
I Qadariyya, intesi nella prima accezione, sono considerati come i predecessori dei Mu'taziliti, e Wâsil ibnAtâ e ‘Amr ibn 'Ubayd (II/VIII sec.), ritenuti i fondatori di questa souola, si possono considerare: ancora in qualche modo come dei Qadariti. Gli stessi Mu'taziliti, benché essi se ne fossero sempre dissociati, finirono spesso con l'essere assimilati ai Qadariti, ma la loro concezione si differenziava da quella qadarita strictu sensu per il fatto che, pur riconoscendo nell'uomo un potere (qudra) autonomo nel determinare le sue azioni, ritenevano che questo potere procedeva da Dio, che l'aveva creato all’origine in ciascun uomo. La differenza non era di poco conto se più tardi gli Ash’ariti bollavano col takfir (accusa di miscredenza) la concezione qadarita e non quella mu'tazilita, pur considerandola eterodossa. Quest'ultima concezione del libero arbitrio (ihtiyâr) fa parte della più ampia nozione di Giustizia divina (‘adl) presso i Mu'taziliti, dove forma uno dei cinque principi (usûl) della loro scuola, ed è sicuramente quello che più ne caratterizza la dottrina teologica. Secondo loro Dio, essendo Giusto, non può volere che il bene ed è obbligato a compiere quel che è meglio (al-aslah, vedi infra cap. 16); di conseguenza Egli non può volere il male né comandarlo. Su un punto tutta la scuola è unanime: gli atti dell'uomo non sono creati da Dio. La necessaria Giustizia divina esclude ogni idea di necessità nell'atto umano e dunque di predestinozione. Spetta agli uomini determinare il loro destino, poiché sarebbe ingiusto che questo fosse eternamente deciso da Dio, senza che l'uomo possa meritarsi il premio o il castigo dell'Aldilà con una scelta deliberata verso la fede o la miscredenza e un'azione conseguente. Sono pertanto gli uomini a produrre le loro azioni mediante un potere contingente (qudra hadita) che Dio ha creato in loro. Infatti, solo una reale autonomia dell'agente umano può giutificare l'imposizione di una Legge divina e la retribuzione finale in conformità all'osservanza o alla ribellione nei suoi confronti. Per i Mu'taziliti, dire che l'uomo può essere considerato in qualche modo come l'agente o il responsabile dell'azione pur senza averne causato l'esistenziazione, come affermano i fautori della dottrina della «acquisizione» (kasb) degli atti, non è sostenibile.
La dottrina del kasb o dell'iktisah («acquisizione»), per spiegare la relazione che unisce l'uomo al suo atto, introdotta da Dirâr ibn 'Amr (131/749) e da Husayn al-Najjâr (230/845 ca.), è. all'origine della soluzione dell'ortodossia sunnita. Secondo Dirâr vi sono «due agenti»: Dio che crea l'atto e l'uomo che l’acquisisce; pur avondo un'efficacia intrinseca, l'azione dell'uomo non può operare senza il movimento prodotto da Dio al momento dell'atto. Ash'ari, che farà propria la nozione di kasb e seguirà una via mediana tra il determinismo assoluto dei Jabriyya e l'assoluto libero arbitrio dei Qadaryya e dei Mu'tazila, dirà infine che l'atto procede da un potere che si trova nell'uomo, creato da Dio al momento dell'atto stesso ed esclusivamente per quello specifico fine, di contro alla tesi mu'tazilita secondo cui tale potere è creato da Dio prima dell’atto e l’uomo è libero di compiere tanto quell'atto che il suo opposto. Sull'argomento, oltre ai riff. dati alla nota 49, vedere anche Muslim Creed. index, s. v. «Acts»; Dieu et la destinée, pp. 109-139; Passion, III. pp. 119-133, e gli art. Allâh, in EI, l. p, 406 (L. Gardet] e, dello stesso, Kasb, pt. 28, ibid., IV, p. 691: Mu'tazila. ibid. VII, p. 783 [D. Gimaret], ma soprattutto il fondamentale studio di quest’ultimo, Théories de l’acte humain en théologie musulmane, Paris, 1980.

[2] Nel suo suo significato ordinario il termine qadâ’ è sinonimo di hukm (giudizio, decisione), ma nella sua accezione tecnica, precisa Jurjânî (Ta’rifât, p. 185; tr. p. 313), «esso indica un decreto divino universale (hukm kullî ilâhi) che agisce, da tutta l'etenità e per tutta l’etemità, sulle essenze di tutte le cose esistenti ('ayân al-mawjûdat)». Il verbo qadâ che ricorre frequentemente nel Corano per descrivere l’azione divina, in quattro occasioni (2: 117; 3:47; 19:35; 40:68) viene impiegato per descrivere l'azione esistenziatrice di Dio attuata unicamente in virtù della  Sua parola creatrice Kun il Fiat divino.
Quanto al termine qadar, esso significa misura, valutazione, dcterminazìone dei limiti (cfr. Cor. 13:26; 17:30, ecc.). Dio è «Colui che stabilisce (qaddara) [il destino degli uomini] e li dirige sul retto sentiero» (Cor: 87:3). In senso tecnico, sempre secondo Jurgânî (Ta’rifât, p. 181 ; tr. p. 307), esso esprime «il progressivo passaggio delle possibilità (mumkinât) dalla non-esistenza ('adam) all'esistenza (wujûd), in conformità col Decreto immutabile (qadâ’). Il qadâ’ fa parte dell'eternità senza inizio (azal), mentre il qadar si situa nell'eternìtà senza fine (lâ yazâl)». Fedele alla sua formazione as’arita, Jurgânî precisa inoltre che la differenza tra il qadar e il qadâ’ è che «quest'ultimo include sinteticamente la realtà dell'insieme delle cose esistenti nella Tavola custodita (al-lawh al-mahfûz), mentre il qadar è la loro esistenziazione distintiva nelle reallà create (a’yân), quando le condizioni corrispondenti sono soddisfatte». Per gli Ash'ariti, pur appartenendo entrambi alla Volontà divina prlncipiale (mashî’a), il qadâ’ è un attributo della Essenza (qui il decreto ed il suo oggetto coincidono), mentre il qadar un attributo degli Atti, contingente a motivo dei suoi fini, poiché «è la relazione della Volontà essenziale (al-irâda al-dhâtiyya) con le cose nella loro realizzazione particolare» (ibid.; vedere anche R. McCarthy, The Theology or al-As'arî pp. 45-46).
Tuttavia, per la scuola mâturîdira le cose si capovolgono: qui è il qadar che, riferito non alla Volontà ma alla Scienza principiale ed etema di Dio, è considerato come un attributo dell'Essenza, mentre il qadâ’ riferito all'esistenziazione temporale delle cose e considerato dunque come un attributo degli Atti. Agli Ash'ariti che li accusavano di fare del qadâ’ un attributo contingente, i Mâturîditi hanno replicato dicendo che, conformemente alla loro dottrina del takwîn eterno legato alla parola esistenziatrice Kun (il «Sii!», che il Corano, abbiamo visto, pone in relazione con il qadâ’ anche gli Attributi degli Atti avevano una natura eterna: il qadâ’ quindi, conforme sia alla Volontà divina che alla Scienza immutabile e atemporale che Dio ha delle cose (cfr. Fiqh akbar II, art. 5), era anch'esso un Attributo eterno che sovrintendeva al takwîn. Il testo di Kalâbâdhî che, non bisogna dimenticarlo, appartiene a questa scuola andrebbe letto, come suggerisce anche la traduzione di Arberry (qadâ’, qadar=decrée, predestination), in questo senso. Cfr. art. Al-Kadâ’ wa-l-Kadar in EI, IV, p. 365 (L. Gardet).

[3] Kanz, I,  pp. 110, 343, 359-360; vedere anche Bukhârî Qadar, 2.


[4] Bayhaqî, Kitâb al-i'tiqâd, ed. 1380h., p. 59; riportato anche in Qût; II, p 40.

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