Il Sufismo nelle parole degli antichi
La loro dottrina sulla predeterminazione
e la creazione degli atti
I maestri son tutti unanimi nell'affermare che Dio è il
Creatore di tutti gli atti (af'âl) dei Suoi servitori, cosi come Lo è delle
loro realtà individuali (a'yân)[1].
Tutto quel che essi fanno, sia esso buono o cattivo, avviene per la Decisione (qadâ') di Dio e la Sua Predeterminazione (qadar), la Sua Volontà esistenziatrice (irâda) e la Sua Volontà principiale (mashî'a)[2]. Se così non fosse, essi non sarebbero né servitori, né sudditi, né creature. L'Altissimo ha detto: «Di: Dio, ilCreatore di ogni cosa» (Cor. 12:16), ed anche: «In verità ogni cosa Noi l'abbiamo creata per un decreto» (Cor. 54:49) e: «Tutto quel che hanno fatto si trova nei Registri» (Cor. 54:52). Dal momento che i loro atti sono delle «cose», ne consegue che Dio è necessariamente il loro Creatore. Se gli atti non fossero creati, Dio sarebbe stato il Creatore solo di alcuni di essi e non di tutti, ed allora la Sua Parola: «Il Creatore di ogni cosa» risulterebbe una menzogna, e Dio è troppo al di là di tutto ciò!
Tutto quel che essi fanno, sia esso buono o cattivo, avviene per la Decisione (qadâ') di Dio e la Sua Predeterminazione (qadar), la Sua Volontà esistenziatrice (irâda) e la Sua Volontà principiale (mashî'a)[2]. Se così non fosse, essi non sarebbero né servitori, né sudditi, né creature. L'Altissimo ha detto: «Di: Dio, ilCreatore di ogni cosa» (Cor. 12:16), ed anche: «In verità ogni cosa Noi l'abbiamo creata per un decreto» (Cor. 54:49) e: «Tutto quel che hanno fatto si trova nei Registri» (Cor. 54:52). Dal momento che i loro atti sono delle «cose», ne consegue che Dio è necessariamente il loro Creatore. Se gli atti non fossero creati, Dio sarebbe stato il Creatore solo di alcuni di essi e non di tutti, ed allora la Sua Parola: «Il Creatore di ogni cosa» risulterebbe una menzogna, e Dio è troppo al di là di tutto ciò!
Inoltre, dal momento che, come noto, gli atti
sono più numerosi delle essenze, se Dio fosse stato il Creatore delle essenze ed i servitori i creatori degli atti, gli uomini sarebbero allora più
degni di lode al riguardo dell'azione creatrice che non Dio stesso, perché
la loro creazione sarebbe più numerosa di quella
di Dio. Se così fosse,
questi ultimi possederebbero una potenza più perfetta dì quella di Dio e avrebbero
maggior capacità creativa di Lui. Ma Dio ha detto: «O assegnano a Dio degli associati che creano come Egli ha creato, tanto
che la loro creazione può assomigliare
alla Sua? Dì: Dio è il
Creatore di ogni cosa, ed Egli è l'Unico, il
Dominatore supremo» (Cor. 13:16). Egli ha dunque negato che vi sia altro creatore
che Lui. Ha detto inoltre: «E Noi
abbiamo misurato la distanza del
viaggio (che li
separa)» (Cor. 34:18), facendo così sapere che Egli
aveva determinato la
misura del viaggio dei Suoi servitori. Ed
ancora: «Allorché è Dio che vi ha creati,
voi e quello che fate» (Cor. 37:94), e «Contro il
male di ciò che egli ha creato» (Cor. 113:2), indicando in tal
modo che in quel che aveva
creato vi era del male. Ha detto inoltre:
«E non obbedire a
colui a
cui Noi abbiamo reso il cuore noncurante del ricordo di
Dio» (Cor. 18:28), ovvero che ha creato
in lui la disattenzione. Ed ha detto: «Che voi parliate
in segreto o apertamente, Egli invero sa bene ciò che si
trova nei petti. Non conoscerà Egli quel che ha
creato?» (Cor. 67:13-l4), informando che i loro discorsi, sia segreti che
palesi, sono Sua
creazione.
'Umar, che Dio sia soddisfatto dì lui!, chiese: «O Inviato di Dio!, cosa pensi di
quello che intraprendiamo? È una questione già compiuta, o è invece una cosa appena
incominciata?». «È una questione già compiuta», rispose il Profeta. «Perché allora non rimetterci fiduciosi (a Dio) e rinunciare ad agire?», chiese ancora ‘Umar. «Agite - replicò il
Profeta
-
poiché
ciascuno sarà
facilitato in ciò per cui è
stato creato»[3]. Fu anche
chiesto al Profeta: «Cosa pensi delle formule propiziatorie in cui cerchiamo protezione e della
medicina con cui ci curiamo; possono respingere ciò che Dio ha determinato?». Rispose: «Fanno parte anch'esse della Determinazione
di
Dio»[4]. Ed egli ha
detto inoltre: «Per Dio!, nessuno crede fintantoché non crede in Dio e nella Predeterminazione divina e che il suo
bene ed il suo male provengono entrambi da
Dio». Essendo concepibile che Dio crei l'essenza di
qualcosa che è cattivo, e allo stesso modo concepibile che ne crei
l'atto.
Si è d'accordo nel ritenere che il movimento
di una persona affetta da tremore è
una creazione di Dio;
lo è parimenti anche il movimento di qualsiasi altra persona, con la sola differenza
che per quest'ultima Egli ba creato sia il movimento che la scelta (ihtiyâr), mentre per l’altro ha creato solo
il movimento senza la scelta.
Abu Bakr
al-Wâsitî, interpretando il
versetto: «È a Lui che appartiene quel che risiede nella notte e nel giorno» (Cor. 6:13), ha detto: «Chiunque
pretende che una cosa qualsiasi del Suo Regno – che costituisce
quel che risiede nella
notte e nel giorno – fosse anche un semplice pensiero o un movimento, è propria, o per sé, verso sé o da sé, ne contende (a Dio) il possesso e fa venir
meno la Sua Onnipotenza». Ed a proposito del
versetto: «Non è a Lui che appartiene la creazione
e l'Ordine?»
(Cor. 7:54), ha detto: «Creare è far esistere
(ijâd), e ordinare è dare disposizione ad agire liberamente
(itlâq); se Egli non avesse dato disposizione alle membra di agire in modo libero, queste non vi si sarebbero punto conformate, né, allo stesso modo, avrebbero
potuto opporvisi».
Tratto da: Kalabadhî, Il Sufismo nelle parole degli antichi,
Edizioni di Studi Medievali, Palermo.
Introduzione, traduzione e note a cura di Paolo
Urizzi.
[1] Il problema della crezione
degli aatti umani sottintende, nella teologia islamica, la questione della
predestinazione e del libero arbitrio ed i sostenitori
di entrambe le tesi sembrano, apparentemente, trovare argomenti nel Corano per
le loro concezioni (cfr. Muslim Creed,
pp. 50-51). In realtà il Testo sacro non fa che proporre da un lato la totale
Onnipotenza di Dio, necessario corollario della Sua illimitatezza, e dall'altro
la responsabilità intrinseca dell'uomo nei confronti delle sue azioni, per le quali sarà ricompensato o punito nel giorno del Giudizio. Va anche
detto che non vi è traccia di libero arbitrio negli ahadith, e che il Profeta aveva represso sul nascere le discussioni
su questo argomento (cfr. Tirmidhî, Qadar 1). La questione del qadar; (la «determmazione degli atti»)
ha cominciato tuttavia ad infiammare il dibattito
teologico, prima a Damasco c poi a Basra,
già attorno al 70/689 (vedere supra,
p. 18 n. 49) e, indipendentemente dalla posizione assunta in proposito, coloro che vi erano
coinvolti venivano all'origine designati come Qadariyya (cfr.
Nallino, Raccolta di scritti editi ed inediti, II, pp. 176-180). Il termine
finì tunavia coll'essere applicato di norma a coloro che, prima del definitivo
consolidamento del pensiero mu'tazitita all'inizio del III/IX sec., riconoscevano
nell’uomo un potere (qudra) sulle sue
azioni, al punto da ritenere che la determinazione (qadar) degli atti dipendeva solo da lui, e negavano la
predeterminazione del Decreto divino (cfr. Ibâna.
p. 127 ss.). L'uso indiscrirninato del termine non
mancò tuttavia di generare una certa confussione, al punto che finì qualche
volta per designare anche i fautori della dottrina opposta, ossia i Jabriyya (o Mujbira) che, ascrivendo in modo esclusivo a Dio ogni cosa in
virtù della Sua Determinazione (qadar)
sovrana, sostenevano la «costrizione» (jabr)
degli atti da parte di Dio, facendo dell'uomo un soggetto puramente passivo (sulle diverse accezioni del
termine vedere W. Montgomcry Watt, Free Will and Predestination, p. 48 ss., ed
anche art. Kadanyya, in EI, IV. p. 396
[J. van Ess]).
I Qadariyya, intesi nella prima accezione, sono considerati come i
predecessori dei Mu'taziliti, e Wâsil ibn ‘Atâ e ‘Amr ibn 'Ubayd (II/VIII sec.), ritenuti i fondatori di questa souola, si possono
considerare: ancora in qualche modo come dei Qadariti. Gli stessi Mu'taziliti, benché essi se ne
fossero sempre dissociati, finirono spesso
con l'essere assimilati ai Qadariti, ma la loro concezione si
differenziava da quella qadarita strictu
sensu per il fatto
che, pur riconoscendo nell'uomo un potere (qudra) autonomo nel determinare le sue azioni, ritenevano che questo potere procedeva da Dio, che
l'aveva creato all’origine in ciascun uomo. La differenza non era di poco conto
se più tardi gli Ash’ariti bollavano col takfir (accusa di miscredenza) la concezione qadarita e non quella mu'tazilita, pur considerandola eterodossa. Quest'ultima
concezione del libero arbitrio (ihtiyâr) fa parte della più ampia
nozione di Giustizia divina (‘adl) presso i Mu'taziliti,
dove forma uno dei cinque principi (usûl) della loro scuola, ed è
sicuramente quello che più ne caratterizza la dottrina teologica. Secondo loro
Dio, essendo Giusto, non può volere che il bene ed è
obbligato a compiere quel che è meglio (al-aslah, vedi infra cap. 16); di conseguenza Egli non può volere il male né
comandarlo. Su un punto tutta la scuola è unanime: gli atti dell'uomo non sono
creati da Dio. La necessaria Giustizia divina esclude ogni idea di necessità
nell'atto umano e dunque di predestinozione. Spetta agli uomini determinare il
loro destino, poiché sarebbe ingiusto che questo fosse eternamente deciso da
Dio, senza che l'uomo possa meritarsi
il premio o il castigo dell'Aldilà con una scelta deliberata verso la fede o la
miscredenza e un'azione conseguente. Sono pertanto gli uomini a produrre le
loro azioni mediante un potere contingente (qudra hadita) che Dio ha creato in loro.
Infatti, solo una reale autonomia dell'agente umano può giutificare
l'imposizione di una Legge divina e la retribuzione finale in conformità
all'osservanza o alla ribellione nei suoi confronti. Per i Mu'taziliti,
dire che l'uomo può essere considerato in qualche modo come l'agente o il
responsabile dell'azione pur senza averne causato l'esistenziazione, come
affermano i fautori della dottrina della «acquisizione» (kasb) degli atti, non è sostenibile.
La dottrina del kasb o dell'iktisah («acquisizione»), per spiegare la relazione che unisce l'uomo al
suo atto, introdotta da Dirâr ibn 'Amr (131/749) e da
Husayn al-Najjâr (230/845 ca.), è. all'origine della soluzione dell'ortodossia
sunnita. Secondo Dirâr vi sono «due agenti»: Dio che crea l'atto e l'uomo che l’acquisisce; pur avondo un'efficacia intrinseca, l'azione
dell'uomo non può operare senza il movimento prodotto da Dio al momento
dell'atto. Ash'ari, che farà propria la nozione di kasb e seguirà una via mediana tra il
determinismo assoluto dei Jabriyya e l'assoluto libero
arbitrio dei Qadaryya e dei Mu'tazila, dirà infine che l'atto procede da un
potere che si trova nell'uomo, creato da Dio al momento dell'atto stesso ed
esclusivamente per quello specifico fine, di contro alla tesi mu'tazilita secondo
cui tale potere è creato da Dio prima dell’atto e l’uomo è libero di compiere
tanto quell'atto che il suo opposto. Sull'argomento, oltre ai riff. dati alla nota 49, vedere anche Muslim Creed. index, s. v. «Acts»; Dieu
et la destinée, pp. 109-139; Passion, III. pp. 119-133, e gli art. Allâh, in EI, l. p, 406 (L. Gardet] e, dello
stesso, Kasb, pt. 28, ibid., IV, p. 691: Mu'tazila. ibid.
VII, p. 783 [D. Gimaret], ma soprattutto il fondamentale studio di
quest’ultimo, Théories de l’acte humain
en théologie musulmane, Paris,
1980.
[2] Nel suo
suo significato ordinario il termine qadâ’
è sinonimo di hukm (giudizio,
decisione), ma nella sua accezione tecnica, precisa Jurjânî (Ta’rifât, p. 185; tr. p. 313), «esso
indica un decreto divino universale (hukm
kullî ilâhi) che agisce, da tutta
l'etenità e per tutta l’etemità, sulle essenze di tutte le cose esistenti ('ayân al-mawjûdat)». Il verbo qadâ che ricorre frequentemente nel
Corano per descrivere l’azione divina,
in quattro occasioni (2: 117; 3:47; 19:35; 40:68) viene
impiegato per descrivere l'azione esistenziatrice di Dio attuata unicamente in
virtù della Sua parola creatrice Kun il Fiat divino.
Quanto al
termine qadar, esso significa misura, valutazione,
dcterminazìone dei limiti (cfr. Cor. 13:26; 17:30, ecc.).
Dio è «Colui che stabilisce (qaddara)
[il destino degli uomini] e li
dirige sul retto sentiero» (Cor: 87:3). In senso tecnico, sempre secondo
Jurgânî (Ta’rifât, p. 181 ; tr. p. 307),
esso esprime «il progressivo passaggio
delle possibilità (mumkinât) dalla non-esistenza ('adam)
all'esistenza (wujûd), in conformità
col Decreto immutabile (qadâ’). Il qadâ’ fa parte dell'eternità senza inizio (azal), mentre il qadar si situa nell'eternìtà senza fine (lâ
yazâl)». Fedele alla sua formazione as’arita, Jurgânî precisa inoltre che
la differenza tra il qadar e il qadâ’ è che «quest'ultimo include sinteticamente la realtà dell'insieme
delle cose esistenti nella Tavola custodita (al-lawh al-mahfûz), mentre il qadar è la loro
esistenziazione distintiva nelle reallà create (a’yân), quando le condizioni corrispondenti sono soddisfatte». Per
gli Ash'ariti, pur appartenendo
entrambi alla Volontà divina prlncipiale (mashî’a),
il qadâ’ è un attributo della Essenza (qui il decreto ed il suo oggetto
coincidono), mentre il qadar un
attributo degli Atti, contingente a motivo dei suoi fini, poiché «è la relazione della Volontà essenziale (al-irâda al-dhâtiyya) con le cose nella
loro realizzazione particolare» (ibid.;
vedere anche R. McCarthy, The Theology or al-As'arî pp.
45-46).
Tuttavia, per
la scuola mâturîdira le cose si capovolgono: qui è il qadar che, riferito non alla Volontà ma alla Scienza principiale ed etema di
Dio, è considerato come un attributo dell'Essenza, mentre il qadâ’ riferito all'esistenziazione temporale delle cose e considerato dunque
come un attributo degli Atti. Agli Ash'ariti che li accusavano di fare del qadâ’ un attributo contingente, i
Mâturîditi hanno replicato dicendo che,
conformemente alla loro dottrina del takwîn
eterno legato alla parola esistenziatrice Kun (il «Sii!», che il Corano,
abbiamo visto, pone in relazione con il qadâ’ anche gli Attributi
degli Atti avevano una natura eterna: il qadâ’ quindi, conforme sia alla Volontà divina che
alla Scienza immutabile e atemporale che Dio ha delle cose (cfr. Fiqh akbar II, art. 5), era anch'esso un
Attributo eterno che sovrintendeva al takwîn. Il testo di Kalâbâdhî
che, non bisogna dimenticarlo, appartiene a questa scuola andrebbe letto, come suggerisce
anche la traduzione di Arberry (qadâ’, qadar=decrée, predestination), in questo senso.
Cfr. art. Al-Kadâ’ wa-l-Kadar in EI,
IV, p. 365 (L. Gardet).
[3] Kanz, I, pp. 110, 343, 359-360; vedere
anche Bukhârî Qadar, 2.
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