Paolo
Urizzi
L’origine primordiale della Rivelazione
– (I)
Parte
1 di 2
Secondo la dottrina unanime ed universale delle civiltà tradizionali fondate su un
ordine sacro d’origine «non-umana» (sansc. apauruseya),[1]
l’uomo fa la sua comparsa sulla terra come un essere
perfetto creato ad imago dei che,
invece di evolversi, subisce piuttosto una caduta dall’originale stato di
perfezione determinata dalla scacciata dal giardino dell’Eden (wayegâraš’eth-hâ’âdhâm /
wayešallehêhû… migan-‘êdhen, Gen.
3:23-24; cfr. uhbitû minhâ jamî‘an, Cor. 2:38, anche 2:36 e 7:24).
Questa «caduta» (ar. hubût) si sviluppa poi progressivamente secondo uno schema quaternario di «Età» (yuga) o «Regni», che nella maggior parte dei racconti iniziano con un’Età dell’Oro, che gli hindu chiamano Satya-yuga, l’Età della Verità, e si concludono con l’Età oscura (il kali-yuga) nella quale ci troviamo attualmente. Tale progressione è determinata da un grado di sempre maggior allontanamento dell’uomo dal suo centro originario, il Paradiso primordiale; l’esatto contrario, dunque, della prospettiva del pensiero contemporaneo.[2]
Questa «caduta» (ar. hubût) si sviluppa poi progressivamente secondo uno schema quaternario di «Età» (yuga) o «Regni», che nella maggior parte dei racconti iniziano con un’Età dell’Oro, che gli hindu chiamano Satya-yuga, l’Età della Verità, e si concludono con l’Età oscura (il kali-yuga) nella quale ci troviamo attualmente. Tale progressione è determinata da un grado di sempre maggior allontanamento dell’uomo dal suo centro originario, il Paradiso primordiale; l’esatto contrario, dunque, della prospettiva del pensiero contemporaneo.[2]
Fintanto, però, che si rimane ancorati ad una visione meramente corporea dell’esistenza, molte
allusioni riguardanti la condizione originaria dell’umanità rischiano di
passare inosservate. Non ci si accorgerà allora che quando il Genesi afferma
che l’Uomo si coprì di «tuniche di pelle» (kothenôth ‘ôr, Gen.
3:21), non intende il passaggio ad una coscienza più morale rispetto allo stato
d’innocenza primitiva, quanto piuttosto un vero e proprio «cadere» della
coscienza dell’essere umano primordiale entro i limiti e le condizioni
dell’esistenza corporea.[3]
Pochi sembrano ormai sapere o tener conto che la creazione dell’Uomo a «immagine» d’Elôhîm (na‘aśeh ’âdhâm besalmênû, Gen. 1:26) viene interpretata dallo Zohâr
come la creazione di un corpo di luce.[4]
Il nocciolo di
tale dottrina è che l’uomo godeva, agli inizi, d’uno stato di perfezione, incomparabilmente
superiore a quello dell’uomo ordinario attuale e che solo in seguito alla caduta
tale prerogativa venne meno nella costituzione del suo essere. Il mito
platonico del Simposio (189e-190a) secondo cui gli uomini
primordiali erano «sferici» non è una semplice
leggenda priva di significato; essa allude simbolicamente alla natura originariamente
androginica dell’uomo, quella dell’essere completo. Diversi miti alludono alla
perdita della condizione quasi divina dell’uomo[5]
che coincide con la scomparsa della sua Luce di Gloria
(ebr. šekhinâh, av. xvarenah); secondo la tradizione zoroastriana questa
perdita è associata all’introduzione, al tempo di Yima – o della prima coppia, Mašyê
e Mašyânê – dell’uso di «mangiare» carne di
animali, ossia con l’assimilazione di una natura più grossolana.[6]
Parimenti in Platone leggiamo che gli Atlantidei perdono la loro originaria
natura divina quando «ciò che v’era in loro di divino
venne estinguendosi (τοῦ θεοῦ μὲν μοῖρα ἐξίτηλος
ἐγίγνετο ἐν αὐτοῖς), mescolato più volte con un forte elemento
di mortalità e il carattere umano (ανθρώπινον) ebbe il sopravvento».[7]
Le citazioni riguardanti questa condizione primordiale di quasi immortale divinità
si potrebbero moltiplicare,[8] ma ci porterebbero lontano dal nostro tema e dobbiamo invece
esaminare come, da un punto di vista tradizionale, l’uomo fa la sua comparsa sulla
terra e come la conoscenza gli viene comunicata all’origine.
Tutte le
tradizioni parlano d’un capostipite dell’umanità:
Adam, Manu, Yima, P’an Ku ecc., espressioni che, nella maggior parte dei casi,
indicano semplicemente l’Uomo, nel senso di «primo uomo» o di «essere
pensante». Tuttavia, a differenza delle forme semitiche d’origine mesopotamica,
la tradizione hindu non considera quella che conosciamo come la sola umanità.
Prima del Manu attuale, noto col nome di Manu Vaivasvata (il «figlio
del sole»), vi sono stati altri sei Manu, e altri sette ne seguiranno. Secondo
la dottrina dei Purâna, ciascuno di essi regge un manvantara
o «Epoca d’un Manu», e l’insieme di
questi quattordici manvantara formano un kalpa, che è l’unità di
misura del «Tempo cosmico», poiché 36.000 kalpa costituiscono la «vita» di un Brahmâ, vita che, a sua volta, va a formare
un «giorno» di quella divina. Questa rappresentazione temporale
dell’avvicendarsi dei kalpa non è che un modo simbolico per esprimere la dottrina
tradizionale della concatenazione dei molteplici stati, di cui quello umano non
è che un modo d’essere tra una moltitudine di altri.
Per passare da
una tale prospettiva, dove i diversi cicli si susseguono interrotti da periodi più o meno lunghi di dissoluzione cosmica (pralaya), a quella
delle religioni mono-creazioniste, bisognerà dunque considerare che la
prospettiva di queste ultime si colloca nel contesto dei fini escatologici
relativi all’individualità d’un essere umano qualsiasi, la cui esistenza
temporale si conclude entro i limiti di un dato manvantara.[9] Per costui, infatti, la fine del ciclo
attuale è, a tutti gli effetti,
la Fine dei tempi, anche se poi l’Ultimo Giudizio, riguardando l’umanità in
tutta la sua estensione, dev’essere situato alla fine del kalpa; esso corrisponderebbe allora a quello che gli hindu
chiamano il naimittikapralaya, la «dissoluzione (o riassorbimento)
occasionale», in quanto distinto da quello denominato prâkrtikapralaya
che, alla fine della vita di Brahmâ, serve
a designare il riassorbimento totale di tutta la manifestazione nel suo
principio sostanziale (prakrti).
La dissoluzione
o riassorbimento delle possibilità che hanno avuto modo di attualizzarsi in uno
o l’altro dei diversi cicli di manifestazione è un evento che si ripete non
solo alla fine d’un kalpa ma
anche, in scala minore, all’interno delle diverse «Epoche» – come ad
esempio i manvantara –
in cui è suddiviso uno stesso stato d’esistenza, e perfino all’interno dei loro
cicli minori (yuga). Il racconto del
Diluvio (sansc. augha, salila; ebr. mabûl) universalmente diffuso, ci dà una
testimonianza più che tangibile di questo evento; nella maggior parte dei casi,
tuttavia, esso si riferisce – come nel caso del biblico Noè – più
ad un cataclisma minore avvenuto in epoca remota all’interno del nostro
manvantara,[10] che non
a quello, più imponente, che ha segnato il passaggio dal manvantara precedente a quello attuale.[11]
In tutti i casi, si tratta d’un processo di rigenerazione: esaurito un insieme di
possibilità – la chiusura della linea che forma la circonferenza –
si ritorna al punto di partenza, anche se non sullo stesso piano.[12]
La continuità causale che lega tra loro tutti gli stati dell’essere richiede dunque
che le potenzialità inespresse in un certo ciclo trovino la loro attualizzazione
in quello successivo. Simbolicamente ciò viene
espresso con la raccolta dei «germi» entro un’Arca (ebr. têbhath) o Vascello (sansc. nau)
che deve attraversare indenne le acque del Diluvio. Le Acque rappresentano la
potenzialità indeterminata, l’Oceano infinito delle
possibilità, e l’Arca è un Veicolo di luce fatto di sostanza intellettuale (ano-manasmayam, RV X.85.12),[13]
destinato, come scrive Coomaraswamy, a «ridar vita nel nuovo «giorno» alle
forme latenti come potenzialità nei flutti del serbatoio dell'esistenza». In
ogni caso, precisa lo stesso Autore, «i germi, le idee
o immagini della futura manifestazione persistono durante l'intervallo o
inter-Tempo di risoluzione su un più alto piano dell’esistenza, non colpiti
dalla distruzione delle forme manifestate».[14]
Al di là, comunque, di questo
aspetto generico di possibilità destinate a svilupparsi nel corso del futuro manvantara, la storia di questo Diluvio
«epocale» è in realtà incentrata sulla figura del Manu, l’unico superstite
cosciente e divinamente prescelto del manvantara
che sta per essere riassorbito; unico o, secondo altri testi, accompagnato dai Rsi, figure profetiche quasidivine che
la tradizione fissa prevalentemente in numero di Sette (sapta rsayah). La loro presenza nel mito del Diluvio tocca
direttamente, come in seguito capiremo, la questione della Rivelazione
primordiale, ma prima di trattarne vediamo brevemente cosa è detto nei testi
della tradizione vedica e brahmanica.
Il Rg-Veda,
pur menzionando il Manu in più di 40 inni, tace sulla
questione del Diluvio, storia che troviamo invece, nella sua forma più antica,
in un passaggio del Satapatha Brâhmana
(I.8.1.1-10). La scena, come si può facilmente intuire, ha luogo alla fine del
precedente manvantara ed il protagonista è il Manu assieme ad un pesce (matsya) salvatore che gli capita tra le
mani mentre si accinge a fare delle abluzioni sui bordi d’un fiume. Questo
testo non lo dice, ma dai racconti puranici si evince che il Manu è in realtà
Satyavrata («votato alla verità»), un antico profeta-re destinato a diventare
il Manu del ciclo attuale con il nuovo nome di Vaivasvata,[15] mentre il pesce altri non è che la prima discesa teofanica
(avatârana) di Visnu quale Matsya-avatâra.
Il pesciolino, infatti, gli rivolge la parola è gli dice:
«Portami (con te, bibrhi )[16] ed io ti
salverò». «Da cosa mi salverai?» «Un Diluvio (augha) porterà via
tutte queste creature (sarvâh prajâ nirvodhâ);
è da ciò che io ti salverò (pârayitâsmîti)
» (ŚB I.8.1.2).
Il matsya
dà quindi a Manu le istruzioni per essere custodito e allevato, dicendogli:
«Fin tanto che
rimaniamo piccoli, noi subiamo una grande distruzione: il pesce (più grande)
divora il pesce (più piccolo). Per prima cosa mi terrai in un vaso. Quando sarò
diventato troppo grande per quello scaverai una pozza. Quando sarò diventato
troppo grande anche per quest’ultima, mi porterai nel mare (samudra), poiché a quel punto sarò al
riparo dalla distruzione» (ibid.
3).
Il pesce crebbe in breve tempo a
dismisura; informò anche il Manu sull’anno del Diluvio dandogli istruzioni
sulla preparazione di un’Arca (nâvam-upakalpana)
dove sarebbe entrato al momento del Diluvio al fine di poterlo salvare. Questo
pesce favoloso era infatti dotato d’un corno (srnga) al quale l’Arca venne legata per essere traghettata indenne
fino al «Monte settentrionale» (uttara-giri).[17]
Sulla cima del Monte essa venne poi saldamente attaccata ad un albero per non
essere spazzata via dalle acque e solo dopo che queste incominciarono a
ritirarsi il Manu potè infine scendere gradualmente lungo il pendio, chiamato
per questa ragione «la discesa del Manu» (manu-avasarpa).
Solo il Manu rimase qui (manurevaikah
parisisise).[18]
Le versioni epica e puranica della
narrazione aggiungono tuttavia qualche particolare rilevante a quella del Satapatha Brâhmana. È dal Mahâbhârata,
ad esempio che apprendiamo che il Manu è il Rsi
supremo (paramarsi), pari a Prajâpati
in splendore (prajâpati-samadyutih)
(MBh III.185.2) e, in apparente contraddizione con quanto affermato nel Satapatha, che egli non sale da solo
sull’Arca, bensì in compagnia dei «Sette Rsi» (saptarsibhih sârdham âruhethâ) e dei germi di tutte le creature (bîjâni sarvâni) che dovranno essere
conservati distintamente e con cura (susamguptâni
bhâgasah) (ibid. 29). Ci viene detto anche che le Acque coprono tutto il nostro
mondo, al punto che non vi vede né la terra (bhûmi), né il sole (kha),
né il cielo (dyau), ma soltanto il
Manu, assieme ai «Sette Rsi» e al Matsya
(ibid. 41-42). Quando li ebbe messi in salvo il Pesce così si rivelò ai Rsi:
«Io sono Brahmâ, il Signore degli esseri
prodotti (prajâpati); non v’è nessuno
più grande di me. Assunta la forma di un pesce, vi ho liberati (moksitâ) da questo pericolo. Manu darà
nascita (nuovamente) a tutti questi esseri (prajâ
sarvâ): quelli di luce (deva),
quelli di tenebra (asura) e gli
uomini (mânasa), tutti gli esseri
mobili ed immobili. Egli otterrà questo potere praticando una rigida ascesi (tapas) e con la mia grazia l’illusione
non avrà il sopravvento su di lui» (ibid.
48-49).
Il termine impiegato per illusione è moha, che significa anche errore, ed
indica un impedimento a scorgere la verità, uno smarrimento dovuto
all’attaccamento al mondo fenomenico. Per questo il Mahâbhârata continua dicendo
che, appena il Pesce scomparve, Manu divenne desideroso di produrre il mondo (srastukâmah), ma in quest’opera di
produzione rimase confuso (pramûdho),
sicché praticò una grande austerità ascetica (tapasâ mahatâ yuktah) e grazie ad essa poté completare
la sua funzione di produzione degli esseri secondo un esatto ordine (ibid.
51-53).
Particolarmente interessante per il
nostro soggetto un evento correlato al mito indiano del Diluvio che troviamo in
altre fonti, come ad esempio il lungo racconto che ne dà il Bhâgavata Purâna. Questo
testo descrive la fine del ciclo precedente quando il periodo di dissoluzione
cosmica è causato dal sonno di Brahmâ, che in quel momento «espirò[19]
dalla bocca i Veda» (mukhato nihsrtân vedân) e questi vennero subito rubati dal potente demone Hayagrîva (Ippocefalo). È allora che il Signore
Supremo, al fine di uccidere il demone e recuperare la Scienza sacra del Veda
(fig. 1), decise di assumere la forma del pesce (sapharîrûpa) (BhP. VIII.24.9-10).
In seguito, il testo, dopo aver ripreso i dati che già conosciamo dalle altre versioni,
narra che durante il pralaya, mentre
Satyavrata, il futuro Manu, si trova nell’Arca circondato dai Sette Rsi (saptarsibhih parivrtah) e da tutte le quiddità
dell’esistenza (sarvasattva), illuminato
solo dallo splendore (varcas) dei Rsi, Visnu in forma di
pesce rivela nel suo cuore (vivrtam hrdi) la
conoscenza del Principio Supremo (parabrahma)
unitamente a tutte le branche del sapere tradizionale e della realizzazione
spirituale (ibid., VIII.38.54-55), sapere che egli «udì (asrausît),
unitamente ai Rsi, al di là
d’ogni dubbio (asamsayam)»[20]
(ibid., 56). Infine, al termine del precedente periodo di dissoluzione (pralaya),
dopo aver ucciso il demone Hayagrîva, Visnu rimise i Veda al Principio
produttore (vedhas =
Brahmâ, Prajâpati) al fine di risvegliarlo dal suo sonno e Satyavrata divenne
in quel momento il Manu Vaivasvata del presente ciclo (ibid., 57-58).
Il mito si declina essenzialmente attorno
a tre componenti: l’intervento divino nell’opera di conservazione e di
creazione ciclica, la sopravvivenza del germe (o germi) a partire dal quale verrà
rigenerata la specie umana e la continuità ciclica della rivelazione, nello
specifico i Veda.
In realtà, questi tre elementi sono così
strettamente correlati da riflettersi costantemente l’uno nell’altro nonostante
il diverso statuto ontologico e la specificità delle funzioni. Il fattore che
li accomuna è l’atto cosmogonico, atto in cui è direttamente coinvolta non solo
la Divinità, ma anche l’Uomo stesso, dal momento che ne assume la funzione
produttiva a titolo di «coadiuvante» o «delegato»[21]
in rapporto al proprio piano di manifestazione. Quanto al Veda, si sarà capito
che il cosmo non può sussiste che grazie ad esso: quando il cosmo cessa il Veda
viene «rapito»; per poter tornare ad esistere il Veda dev’essere restituito al
principio che presiede alla genesi della manifestazione. Ciò si spiega
facilmente quando si considera che il «triplice Veda», composto da Rg,
Yajus e Sâman, è in stretto rapporto con i
tre gradi dell’esistenza universale, ossia: i mondi corporeo, psichico e
pneumatico rispettivamente rappresentati dalle tre grandi giaculatorie: bhûh,
bhuvas e svar.[22]
Benché non esplicitamente menzionato, si
può facilmente supporre che elemento importante della simbologia soteriologica
del Diluvio primordiale è il pranava, il monosillabo sacro (ekamaksara)
Om,
che con i suoi tre elementi costitutivi a-u-m è detto racchiudere l’essenza del triplice Veda[23]
e, di conseguenza, delle tre condizioni dell’esistenza come indicato dalla Mândukya-Upanisad.[24]
In quanto Aksara, che significa «indistruttibile» o «imperituro», Om è infatti il Verbo divino che non
soggiace alla legge di ciclicità, identico in quanto tale alla Scienza divina,
immutabile ed eterna, dalla quale fluisce incessantemente la rivelazione, sia
in quanto manifestazione cosmica sia, in forma più specifica, come Conoscenza
fondante di un ordine sacro. Questa nozione del Verbo creatore che dimora in
modo eterno e inespresso in seno al Principio trascendente per manifestarsi in
seguito attraverso la produzione dell’esistenza cosmica, al di là del diverso
tenore proprio di ciascuna forma, è comune a tutte le civiltà tradizionali, a
partire da quelle più arcaiche fino alle più recenti.[25]
Ontologicamente, il Logos è prima Pensiero e poi Parola divina «per mezzo della quale sono
state fatte tutte le cose», ma nella sua pura realtà cosmologica esso è il
suono primordiale a partire dal quale ha origine l’universo.[26]
«La sillaba Om è tutto questo (universo, idam
sarvam). … Passato, presente
e futuro, tutto è veramente la parola Om (omkâra). E anche ciò
che è al di là del triplice tempo (anyat trikâla), anch’esso è
veramente la parola Om » (Mând.Up. 1).
Nel suo aspetto eterno, in quanto Aksara, Om è identico al Principio supremo; espresso, e in quanto fonte
dell’esistenza condizionata, esso diviene il Principio non-supremo.[27]
È a quest’ultimo aspetto che si riferisce il termine pranava, impiegato per designare il monosillabo sacro, che deriva da pra-nu: «risuonare», «riverberare»
«ruggire» o, più precisamente, «emettere un suono, un canto (di lode)».
Infatti, come scrive M. Schneider: «Al primo stadio della creazione la forza
che attua il sacrificio è un canto… canto che crea tutti gli esseri chiamandoli
coi loro nomi. Questo canto conduce all’esistenza perché gli esseri cominciano
ad esistere attraverso la cristalizzazione del nome con cui vengono chiamati».[28]
L’aspetto non-supremo del Principio (apara-brahma)
è Brahmâ, o Prajâpati o ancora Hiranyagharba, l’«Embrione d’oro», l’Uovo
primordiale del Cigno (hamsa) cosmico, che è il veicolo
di Brahmâ, nel quale sono racchiusi i germi della manifestazione. Dal momento, dunque,
che Om è identico a Brahmâ, dire che il triplice Veda viene
espirato dalla sua bocca al momento del pralaya e poi gli viene restituito per produrre i mondi all’inizio del
nuovo ciclo equivale a dire che la forma sonora del Brahman (sabda-brahma),
ricettacolo dei poteri di manifestazione (saktyadhisthâna), rimane indistinta (anabhivyakta) durante la notte cosmica e, di conseguenza, anche la
«rivelazione» che essa contiene, sia essa il mondo o i Veda, che, pur «eterni»
nell’aspetto principiale del Verbo, risultano «oscurati» da un aspetto di
latenza personificato da Hayagrîva, il demone ippocefalo. Ciò è quanto ci è
suggerito anche dall’iconografia dell’uccisione del demone che dimora sul fondo
delle Acque da parte di Visnu nella forma del Matsya-avatâra. Nella fig. 1 si
vede infatti Visnu emergere dalla bocca del Pesce nell’atto di uccidere il
demone, chiamato anche Ajñâna o «ignoranza», la cui caratteristica è quella
d’essere racchiuso in una conchiglia (sankha)[29]
che, come noto, è un attributo essenziale di Visnu. A questo punto, non
sorprende più di tanto scoprire che Hayagrîva (o Asvasiras) è anche un altro
nome di Visnu, in quest’ultimo caso come la divinità che presiede a tutte le
Scienze sacre (sarvavidyâs) poiché,
secondo un mito parallelo, egli avrebbe assunto questa forma per uccidere il
demone che aveva rubato i Veda, dal momento che quest’ultimo non poteva essere
annientato che da un essere avente il suo stesso aspetto.
Ambiguità di questo tipo sono ricorrenti
nella tradizione vedica come in altre tradizioni, poiché si tratta di realtà
aventi entrambe una stessa essenza e che appaiono come antagoniste, come
precisa A.K. Coomaraswamy, solo a motivo della loro azione, «la loro
distinzione poggiando in realtà sulla loro orientazione, il loro cambiamento o
la loro trasformazione».[30]
Un esempio analogo è quello dei due volti di Metatron nella
tradizione giudaica, o quello del Messia e dell’Anticristo in quella cristiana
dove è detto che hanno entrambi per emblema il leone.[31]
Uno è il volto di luce, l’altro è quello oscuro della sua ombra. L’eternità è
pienezza in divinis e il principio
della manifestazione è Luce sub specie
æternitatis o, come direbbe l’Areopagita, «Caligine (γνόφος)
luminosissima»;[32] il
divenire, per contro, presenta un volto oscuro di potenzialità inespressa che
chiede d’essere attualizzata. A maggior ragione, quando la continuità
ontologica subisce una temporanea discontinuità, o quando viene anche soltanto oscurata
o minacciata, la sua permanenza dev’essere assicurata da un principio
«salvifico» e «conservatore» variamente personificato in Visnu che uccide il
Demone o nel Messia che uccide l’Anticristo, o ancora nell’arcangelo Michele
che uccide Samael.[33]
Non solo questo eterno principio luminoso è sempre lo stesso, ma esso può
altresì diversificarsi all’interno d’un medesimo contesto per esprimere la
molteplicità delle funzioni e la pluralità dei piani in cui queste si
esplicano. Eccolo allora diventare alternativamente Brahmâ, o Visnu, o ancora
il Veda, il Brahma in quanto Parola/Suono (vâc/sabda).
Fine
parte 1 di 2 - continua
[1] È il presupposto
fondamentale per comprendere la Philosophia
Perennis, quella Sapienza increata che, come afferma S. AGOSTINO, «è tale
qual è sempre stata e sempre sarà» (Conf. IX, 10).
[2] Varianti di questo tema
si possono trovare nel Bahman Yašt zoroastriano, in Esiodo,
nel Quarto Oracolo sibillino e nella Bibbia (Dan. 2:31-45). Anche nel «Mito del Sole» degli Aztechi si parla di
una sequenza discendente di Età. Sulla dottrina delle Quattro Età si veda J.
SMITH: Ages of the World, in M. ELIADE , a cura di, «Encyclopedia of
Religions», New York 1987, vol. I, pp. 128-133.
[3] L’interpretazione delle
«tuniche di pelle» come l’acquisizione da parte dell’uomo d’una forma corporea
grossolana è sostenuta da FILONE (Legum Allegorie III, 69; QG I, 53). Questa
interpretazione, difesa dagli gnostici, è oggetto di disputa tra i Padri della
Chiesa; CLEMENTE ALESSANDRINO, che attribuisce tale posizione a Giulio Cassiano
(ca 160-180 d.C.), sembra opporvisi (Str III, 14, 95, 2). Per contro, la fa
propria ORIGENE che, in un Frammento a Gen
3:21 (PG 12, 101AB; cfr. F. PETIT (a cura di), Catenae Graecae in Genesim et in
Exodum. II. Collectio Coisliniana no. 121 on Genesis 3,21, Turnhout 1986, pp. 124-125), propone una duplice
interpretazione: quella dell’assunzione della forma corporea e quella di
accollarsi una natura mortale, ma non si tratta in fondo che di due aspetti
d’una medesima realtà; cfr. Contra Celsum,
IV, 40. Vedere inoltre M. SIMONETTI, Alcune
osservazioni sull’interpretazione origeniana di 2,7 e 3,21 in «Aevum» 36
(1962), pp. 370-381; P. F. BEATRICE, Le
tuniche di pelle. Antiche letture di Gen. 3,21, in U. BIANCHI (ed.), La tradizione dell'enkrateia. Motivazioni
ontologiche e protologiche. Atti del colloquio internazionale (Milano 20-23
aprile 1982), Roma 1985, 433-482; P. PISI, Peccato
di Adamo e caduta dei noes nell’esegesi origeniana, in «Origeniana» IV, pp.
322-335; e R.E. HEINE, Origen’s Alexandian Commentary on Genesis (p. 72), in
«Origeniana» VIII. Origen and the Alexandrian Tradition. Atti dell’8°
International Origen Congress (Pisa, 27-31 Agosto 2001), ed. L. PERRONE in
collaborazione con P. BERNARDINO e D. MARCHINI, vol. I, Leuven 2003.
[4] Berešîth, 36b;
cfr. trad. di H. SPERLING e M. SIMON, The
Zohar, Londra 1978, I, p. 92; cfr. Midraš Rabbah, Gen. 20:12.Vedere anche infra, n. 45.
[5] Antiquitas proxime accedit ad deos (CICERONE, De Legibus, II.27).
[6] A. CHRISTENSEN, Les types du premier homme et du premier Roi
dans l’histoire légendaire des Iraniens, Leida 1934, II, pp. 48-49.
[7] Crizia, 120d-121b.
[8] Analoghi insegnamenti,
ad esempio, ci vengono proposti dalla tradizione cinese e da quella hindu.
Vedre P. URIZZI, Regalità e Califfato.
Pt. IV, in «Perennia Verba», 6-7
(2002-03), pp. 3-8.
[9] Insegnamenti
concernenti la concatenazione ciclica sono tuttavia riscontrabili anche
all’interno delle tradizioni abramiche, dove vanno a costituire il patrimonio
di una dottrina cosmologica di ordine più esoterico. In ambito giudaico, ad
esempio, la si ritrova nell’anonimo trattato Sêfer ha-Temûrâh come pure nell’antica letteratura rabbinica, dove
una sentenza del Pirqêy Rabbî Eli‘ezer
afferma (a commento del versetto: «i cieli si arrotoleranno come un libro», Is.
34:4:) che il mondo si dispiega e si riavvolge periodicamente come un rotolo
della Tôrâh (cfr. Nicolas SÊD, Le Sêfer
ha-Temûrâh et la doctrine des cycles comiques, in «Rev. des études
juives» CXXVI, 1967, pp. 399-415). Lo stesso concetto è ribadito nel Corano: «Il Giorno in cui avvolgeremo il
cielo come gli scritti sono avvolti in rotoli. Come iniziammo la prima
creazione, così la reitereremo; è Nostra promessa: saremo Noi a farlo» (Cor. 21:104), ed IBN ‘ARABÎ menziona
l’esistenza di centomila Adami prima di quello attuale (Futûhât, III, p.
549). Nella cristianità la vediamo in Origene per il quale, secondo la
testimonianza di S. Girolamo, un mondo è esistito prima di quello attuale e un
altro esisterà a sua volta dopo di esso; poi un altro ancora e così di seguito,
in costante successione.
[10] Il racconto del Diluvio
biblico è attestato anche in documenti sumeri del 2100 a.C., ripreso poi con
maggiori dettagli nella narrazione epica di Gilgamesh, ma anche in quella
akkadica di Astrahasis (ca. 1640 a.C.) e caldea di Xisuthrus. Altre narrazioni,
non riguardanti necessariamente lo stesso evento si ritrovano comunque
sparpagliate in tutte le antiche società tradizionali.
[11] La sua narrazione è,
con ogni evidenza, di pertinenza più del mito che non della storia, quand’anche
un punto di partenza temporale potrebbe anche esser fatto oggetto
d’investigazione, tenendo conto che la storia ciclica del nostro mondo è
essenzialmente legata al periodo di precessione degli equinozi. Cfr. G. DE
SANTILLANA e H. VON DECHEND, Il mulino di
Amleto, Milano 1983, p. 89 s. et passim, e anche R. GUÉNON, Forme tradizionali e cicli cosmici, Roma
1974, p. 18.
[12] La corretta
rappresentazione geometrica sarebbe quella di un moto elicoidale, in cui il
«passo» che segna il passaggio al piano successivo è dato proprio dal momento
di discontinuità apparente con quello che lo precede, suggerito dal «periodo»
– in realtà «atemporale» – di dissoluzione.
[13] Vedere M. BLOOMFIELD, The Mind as Wish-Car in the Veda, in
«JAOS» 39 (1919), pp. 280-282.
[14] A.K. COOMARASWAMY, The Flood in Hindu Tradition, in Selected Papers 2: Metaphysics,
Princeton 1977, p. 398; vedere anche Id., The
Rg Veda as Land-Náma-Bók,
rist. in The Vedas. Essays in Translation
and Exegesis, Colchester 1976, pp. 124-128.
[15] Cfr. BhP VIII.24.10 e
58.
[16] Dalla radice bhr,
che significa «sollevare, portare fuori, conservare e allevare», ma anche
«concepire, essere gravidi»; corrispondente al lat. fero.
[17] Uttara significa
«nordico», ma ha soprattutto il significato di «superiore», «più alto». Non si
tratta infatti di una montagna del mondo grossolano, bensì del Monte sacro per
eccellenza, monte interiore delle visioni profetiche e della prossimità al
Divino. Vedere infra, nota 72.
[18] Cfr. ŚB I.8.1.4-6. Vedere anche A.K.
COOMARASWAMY, The Flood in Hindu
Tradition, cit., pp. 405-407.
[19] Letter.: «fece uscire».
[20] Cfr. Dhâlika ’l-kitâb lâ rayba fîhi: «Questo
è il Libro, in cui non v’è dubbio» (Cor. 2:2).
[21] È quello che il Corano
definisce come il Vicario o Luogotenente (khalîfa)
di Dio (cfr. Cor. 2:30).
[22] «Prajâpati effuse il calore (tapas) sui mondi: da ciascuno di questi mondi così
riscaldati egli trasse l’essenza: Agni (il Fuoco) dalla terra (prthivî), Vâyu (l’Aria) dalla regione intermedia (antariksâ), Âditya (il Sole) dal cielo (div). Su queste tre divinità egli effuse un calore: da ciascuna di esse così
riscaldata egli estrasse l’essenza: da Agni le rc, da Vâyu gli yajus, da Âditya i sâman. Su questa triplice Scienza sacra (trayîm
vidyâm = il triplice Veda) egli effuse un calore: da ciascuno dei Veda così
riscaldati egli estrasse l’essenza: bhûr
dalle rc, bhuvas
dagli yajus, svar dai sâman» (CU IV.17.1-3).
[23] Cfr. Manu-Smçti, XI.266.
[24] Vedere anche Pras.Up.
V.3-5, e Manu-Smrti, II.76.
[25] Cfr. L. DÜRR, Die Wertung des gottlichen Wortes im Alten
Testament und im antiken Orient, Leipzig 1938, p. 70. Il potere creativo e
di sostentamento del mondo nelle religioni Sumerica, Accadica,
Assiro-Babilonese ed Egizia viene attribuito alla Parola che emana dalla bocca
della Divinità (cfr. J.F. COLEMAN: Logos
and Gnosis, in «The Tholologian» 10, 1955, p. 48). La stessa nozione si
ritrova ovviamente nella Bibbia, a partire da Gen. 1 (vedere anche Ps.
33:6, 46:6; Eccl. 42:15; Is. 55:11), fino a Giov. 1:1-4.
[26] Sulla primordialità del
suono nella genesi del cosmo, vedere M. SCHNEIDER, Il significato della musica, Milano 1970.
[27] «In verità, o Satyakâma, la parola Om (omkâra) è il Brahma supremo (param) e non-supremo (aparam)» (Pras.Up. V.2; cfr. Ἐν
αρχῇ ἦν
ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος
ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος… πάντα διí αὐτοῦ
ἐγένετο, καὶ χωρὶς
αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἕν. ὃ
γέγονεν; Giov. 1:1 e 3). «Om è il Brahman. Oü Om
è tutto l’universo (idam
sarvam). Om è l’assenso (anukrti)» (TU I.8.1). L’espressione anukrti (= il modello originale), in quando
«assenso», permette di associare Om ad amen, il fiat (= ar. kun), tutte espressioni del Verbo creatore.
[28] M. SCHNEIDER, op.cit., pp. 81-82. Cfr. A.K.
COOMARASWAMY, Selected Papers 2: Metaphysics, cit., pp. 192-197 et
passim. I «nomi» delle cose corrispondono ai λογόι
σπερματικόι degli Stoici, o rationes
seminales adottate in seguito anche da S. Agostino e da S. Bonaventura, per
il quale rappresentano le potenzialità attive della manifestazione; si tratta
delle essenze o «forme» delle cose (le a‘yân
al-thâbita di Ibn ‘Arabî) che sono racchiuse nel seminarium (= al-‘amâ, la «nube»), dove attendono il fiat cosmogonico per passare della potenza all’atto. «Cum satis
constet rationem seminalem esse potentiam activam inditam materiae, et illam
potentiam activam constet esse essentiam formam cum ex ea fiat forma mediante
operatione naturae, quae non producit aliquid ex nihil; satis rationabiliter
ponitur quod ratio seminalis est essentia formae producendae, differens ab illa
secundum esse completum et incompletum, sive secundum esse in potentia et in
actu» (II Sent., 18, I, 3).
[29] In realtà è tutt’uno
con essa perché alle volte viene egli stesso designato col nome di sankha.
[30] A.K. COOMARASWAMY, Angeli e Titani, in La dottrina del sacrificio, Milano 2004, p. 23, dove l’Autore
precisa che il Titano (Asura) è un
Angelo (Deva) in potenza, così come l’Angelo
è ancora un Titano per la sua natura originaria, e questo perché la Tenebra in
atto è Luce, mentre la Luce in potenza è Tenebra. Come si può facilmente
capire, questo è esattamente il caso del mito di Hayagrîva.
[31] «Ebbene, come il nostro Signore Gesù Cristo, che è anche Dio, fu
profetizzato nell'immagine di un leone a motivo della Sua regalità e gloria,
parimenti le Scritture hanno parlato in precedenza anche dell'Anticristo come
d'un leone a motivo della sua tirannia e violenza. Poiché l'Impostore cerca di
assomigliare in ogni cosa al Figlio di Dio. Cristo è un leone, così pure
l’Anticristo è un leone; Cristo è un re, così anche Anticristo è un re. Il
Salvatore fu manifestato come un agnello; quindi anche lui, similmente,
sembrerà un agnello, sebbene dentro sia un lupo» (S. IPPOLITO, De Antichristo, 6).
[32] De mystica theologia I, 997b. Egli è un’Oscurità luminosissima
poiché, in realtà, «è principio della luce» (De celesti hierarchia, I, 121a; vedere anche H.Ch. PUECH, La Ténèbre mystique chez le Pseudo-Denys
l’Aréopagite et dans la traditions patristique, in «Etudes Carmelitanes.»
XXIII, 1938, pp. 33-53). La fonte biblica è il passo: «Mosè si avvicinò
alla densa oscurità (o
nube,‘arâphel) dov’era Dio» (Ex. 20:21; cfr. Ebr. 12:18), nonché: «Aveva fatto delle tenebre il suo velo (yâšeth
hošekh sithro)» (Ps.
18:2). Cfr. anche GREGORIO DI NYSSA, De
vita Moysis, I, 43. Parimenti, nella tradizione islamica, è detto che Dio,
prima di creare il mondo, «si trovava in una Nube (‘amâ’) – o Tenebra (‘amâ)
– in cui non c’era aria alcuna, né sopra di essa né al di sotto» (TIRMÎDHÎ, Tafsir Sura 11:1; IBN MAJÂ, Muqaddima
13; AHMAD IV, 11, 12). Cfr. W.C.
CHITTICK, The Sufi Path of Knowledge,
Albany 1989, p. 125 ss.
[33] Samael è il «Principe
di questo mondo», dotato di un nome impronunciabile che è il Tetragramma al
contrario.
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