Svāmī Satcidānandendra
Sarasvatī Mahārāja
Commento a «Le
Cinque Gemme dell’Advaita»
di Śrī Śaṃkarācārya - 4/7
(Advaita Pañcaratnam)
2 - Dissoluzione dell’illusione del jīvatva
Se siamo davvero Śiva svarūpa,
se siamo proprio dell’essenza dell’Assoluta Realtà, allora com’è che sorge
questo errore che ci fa credere d’essere anime trasmigranti (jīva)? Qual
è la ragione per la quale piacere e dolore (sukha e duḥkha) che
non esistono affatto in Śiva svarūpa, appaiono come realmente esistenti?
Se si afferma che non esistono affatto, qual è allora la ragione per cui agli
uomini sembrano realmente esistenti? Quando anche i vedāntin, che pure
affermano di non essere jīva e che il jīvātman stesso è una
concezione erronea, compiono azioni quotidiane come tutti gli altri, che prova
(pramāṇa) abbiamo per affermare che il loro jīvātman è stato
eliminato? Tale dubbio può sorgere nelle menti di alcuni di noi, se non di
tutti. Come risposta a queste domande il secondo verso afferma:
2. Proprio perché la corda non è conosciuta
correttamente come corda, in essa appare un serpente. Similmente, poiché il
nostro Ātman non è intuito e conosciuto come realmente è, in esso appare questo
jīvatva. Come quando i jñāni riconoscono che l’oggetto davanti a loro è una
corda, così quando insegna un autentico maestro, lo śiṣya realizza: «Io non
sono un jīva: in realtà sono solo Śiva.»
Commento: Siamo ingannati
da bhrānti, cioè dall’illusione d’essere jīva perché non conosciamo
la nostra vera essenza. Quando intuiamo la nostra vera essenza, questa
illusione scompare. Facciamo un esempio: a noi tutti può capitare l’esperienza
di confondere una corda che giace a terra nella penombra con un serpente. Non è
forse vero che questa illusione sorge perché non abbiamo riconosciuta la reale
natura della corda? Finché persiste l’illusione, appare un serpente e solo un
serpente. Ma nel momento in cui abbiamo l’esperienza conoscitiva che si tratta
solo d’una corda, questa illusione scompare totalmente, senza lasciare alcuna
traccia del serpente in nessun luogo e in nessun tempo. Proprio come
nell’esempio il serpente appare in quanto risultato di un’illusione, così
nell’insegnamento esposto, l’idea di essere un individuo (jīvātva) è
soltanto un’apparenza causata da una sottile illusione. In questo consiste
l’insegnamento spirituale (siddhānta) del Vedānta.
Esaminiamo in forma ancora un
po’ più dettagliata lo stesso esempio. Cos’è quella cosa che è apparsa come
serpente sulla corda come risultato di bhrānti? Quella cosa è diversa
dalla corda? No, perché quando avviene la corretta conoscenza, allora sorge
l’esperienza cognitiva (pratyaya anubhava) a confermarci che «Questa è
solo una corda, non è un serpente». Nessuno afferma mai che un serpente reale
appare durante il nostro bhrānti; perché quando quell’illusione è
rimossa, nessuno andrà a cercare dove mai sia andato a finire il serpente. E
nessuno ha visto o udito qualcuno che sia morto a causa del morso di una
corda-serpente. Anche quando una persona inciampa per caso in una corda è
spaventata dalla seguente falsa credenza: «Ho inciampato in un serpente, sono
stato morso, perciò sono stato avvelenato». In tal caso costui potrebbe perfino
morire [per lo spavento]. Ma anche allora non potremmo affermare che la sua
morte sia stata causata da un reale morso di serpente. Non è nemmeno
accettabile la credenza che durante quella percezione sensoriale la mente abbia
davvero trasformato la corda in un serpente, perché nessuno può pensare
seriamente che il manas abbia un tale potere. Invero, riconoscere che in
quell’occasione non esisteva alcun serpente, in quanto c’era soltanto una
corda, è una prova sufficiente per convincerci che anche mentre c’era
l’illusione non esisteva affatto alcun serpente reale. Pensare che durante
l’illusione la corda stessa si fosse trasformata in un serpente sarebbe il
massimo dell’impudenza, perché se le cose potessero abbandonare da sole la loro
natura essenziale e trasformarsi nella natura essenziale di altre cose differenti,
allora in questo mondo nessun fatto empirico degno di questo nome potrebbe
essere preso sul serio e, in tal caso, regnerebbe il caos[1]. In quel caso non esisterebbe la regola per cui lo
yogurt deve essere solo prodotto dal latte; né, di converso, ci sarebbe la
regola per cui il latte è ciò che produce lo yogurt. Allora, in certi casi,
anche l’acqua potrebbe diventare yogurt; e in altre occasioni il latte,
mischiato a un agente di fermentazione, potrebbe diventare acqua! Se ci fossero
tali condizioni e quindi un totale stato di caos, come potrebbero gli esseri
umani svolgere la loro routine quotidiana e come potrebbero agire,
basandosi su tali convinzioni? Possiamo affermare che nella corda sia esistita
una piccola parte o un’ombra di un serpente e che essa, quando eravamo in preda
all’illusione, appariva come serpente? Questa è un’opinione insostenibile.
Inoltre, nessuna persona intelligente e saggia potrebbe mai dimostrare che se
una certa cosa è parzialmente contaminata dalla sostanza di un’altra cosa, quella
piccola parte contaminata possa apparire illusoriamente sotto una forma
diversa, a seconda del momento o della situazione. Neppure potrebbe affermare
che in un particolare momento di bhrānti sia realmente venuto a esistere
un serpente e che, non appena l’illusione sia scomparsa, il serpente muoia.
Tutto ciò contrasta con l’esperienza generale. Quando vediamo un serpente ci si
interroga forse se quello sia un serpente, oppure se sia soltanto un’illusione?
Alcuni sostengono che quando vediamo una corda e affermiamo di vedere un
serpente, ciò accade perché ne abbiamo il ricordo in memoria. Anche questa non
è una conclusione appropriata, perché non c’è alcuna ragione per cui il
serpente debba apparirci solo perché abbiamo il ricordo d’un serpente. E ancora,
perché la corda dovrebbe scomparire solo perché noi ricordiamo un serpente? A
questa domanda, i sostenitori della teoria precedente non possono dare alcuna
risposta convincente. In quella circostanza, noi non diciamo: «Io ricordavo un
serpente», ma invece descriviamo la nostra percezione così: «Io ho visto un
serpente». Cioè la nostra esperienza contraddice sia la deduzione precedente
sia la mera finzione dell’immaginazione. In ogni modo, nell’esempio non c’è
affatto un serpente reale e nemmeno esiste un ricordo di esso. Ma anche in
questo caso, sotto l’incantesimo dell’illusione, noi abbiamo l’esperienza
condivisa d’aver visto un serpente. Come si risolve questo problema?
Noi rispondiamo che è falso che
il serpente sia venuto a essere. A coloro che, nella penombra, non riconoscono
correttamente la corda come corda, quella corda appare proprio come serpente;
ma non è che nella corda esista veramente un serpente. Durante l’illusione, il
serpente non nasce né viene a essere; e dopo che la corretta conoscenza è stata
raggiunta, il serpente non scompare veramente.
Questo insegnamento spirituale
dello śāstra è confermato dalla conoscenza e non dalla credenza, perché
conduce a riconoscere di aver sbagliato, di aver preso erroneamente la corda
per un serpente. Perciò il serpente era solo un’idea, mentre solamente la corda
è la realtà. Soltanto ciò può essere affermato definitivamente. Ma cercare una
causa per il serpente proiettato dalla bhrānti non è né ragionevole né
esatto.
Alcuni vedāntin del
giorno d’oggi affermano che un certo potere chiamato avidyā o ajñāna si
basa sull’Ātman. Ogni oggetto che esiste in vyavahāra, ossia nel
mondo dell’azione, sarebbe ricoperto da una parte di ignoranza (ajñāna aṃśa).
Se un certo oggetto è conosciuto per mezzo di jñāna, questa maschera
sovrapposta o questo potere coprente, scomparirebbe. La ragione che fa apparire
la corda come serpente a causa della falsa conoscenza (bhrānti)
consisterebbe nel fatto che in quel momento quella parte di ignoranza (ajñāna
aṃśa) che sta nella corda si trasforma in serpente: l’ajñāna aṃśa,
ossia l’altra parte d’ignoranza che esiste in chi guarda, si trasforma nella
percezione o “conoscenza” del serpente.
L’avidyā che è menzionata
in questa teoria non ha riscontro nell’esperienza di nessuno, e non è affatto
menzionata da nessuna parte nel Bhāṣya di Śaṃkara. Quella
corda-serpente, a cui si rifanno i sostenitori che riconoscono la teoria che “avidyā
ricopre o avvolge Ātman”, non è per nulla accettata; quell’esempio e
la loro interpretazione non sono validi né pertinenti in questo contesto.
Poiché questa è una teoria molto discussa negli ambienti vedāntici che non
desideriamo trattare in questo commento scritto per guidare i jijñāsu[2].
Dobbiamo dunque interpretare
correttamente l’esempio della corda e del serpente: vale a dire che, quando
cerchiamo di capire l’adhyāsa sovrapposto al nostro Ātman,
dobbiamo comprendere che esso esiste a causa della bhrānti o illusione.
Che noi siamo jīva, è veramente soltanto bhrānti. Non è che il jīvatva
veramente esista in realtà: questa bhrānti persiste per il fatto che
noi non conosciamo il nostro svarūpa. La corretta conoscenza è che noi
siamo sempre eternamente solo Śiva svarūpa.
Obiezione: non è esatto dire che la corda sia oggetto della
coscienza-conoscenza, mentre il serpente appaia soltanto. La regola vuole che
quello che appare sia esso stesso un oggetto. Perciò, in questo caso, sembra
corretto affermare che un certo serpente appare da solo. Altrimenti, se si
respinge l’esperienza generale, si potrebbe anche sostenere che il fenomeno,
ossia l’oggetto che appare, sia una cosa e che l’oggetto vero sia un’altra. Ma
allora, quando si guarda un uomo si potrebbe vedere un fiume, quando si guarda
una collina si potrebbe vedere una città, e quando si guarda un elefante, una
gallina. Ma nella nostra esperienza non è mai così.
Risposta: Non c’è una regola fissa per cui abbiamo sempre
l’esperienza di un oggetto così com’è. Per spiegarci meglio, se affondiamo una
mano in acqua fredda e l’altra in acqua calda, quando le tiriamo fuori e le
immergiamo tutte e due in acqua tiepida, allora alla mano che è stata immersa
in acqua fredda, quella tiepida appare calda, e alla mano che è stata
nell’acqua calda, la tiepida appare fredda. Sebbene l’acqua tiepida abbia
un’unica temperatura, dato che non può avere diversi gradi di calore
contemporaneamente, tuttavia ci pare che abbia gradi di calore diversi, a causa
della bhrānti. Coloro che si ostinano ad affermare che un oggetto deve
esistere come appare, affermeranno dunque che in una medesima acqua esistono
temperature diverse. Questa teoria è inaccettabile. Oltre a ciò, è esperienza
comune che la conoscenza sia di due tipi, quella corretta e quella errata.
Nella conoscenza corretta
l’oggetto appare com’è, e nella conoscenza errata appare in forma diversa.
Stando così le cose, sostenere contro l’evidenza che ciò sia sbagliato e che in
realtà dovrebbe essere diversamente, non può esser mai giustificabile. Quindi
il problema che la corda appaia essere un serpente a causa dell’errore, è la conclusione
corretta.
Obiezione: Come si può dire
che sia sbagliato credere che il serpente esista veramente durante il periodo
in cui appare? Se fosse sbagliato, allora, quando appare la corda quale prova
si potrà apportare per sostenere la reale esistenza della corda?
Risposta: A questo abbiamo
già risposto. Sebbene nel corso dell’illusione sia apparsa come un serpente,
quando si addiviene alla corretta conoscenza si ha la chiara convinzione,
basata sull’esperienza, che si tratta soltanto d’una corda. In essa non è mai
esistito un serpente. L’esperienza di aver visto un serpente in verità era
un’illusione. Ma la conoscenza della corda non è affatto così; nessuno mai
arriva ad affermare: «questa non è una corda». Perciò quella è proprio la
corretta esperienza. Invece, l’esperienza che può essere eliminata e
smascherata non può essere reale.
Obiezione: Che dire del
caso in cui un’illusione sia cancellata da un’altra illusione? Per esempio: da
lontano un uomo può pensare che per terra ci sia una fenditura e quando
s’avvicina s’accorge che è soltanto un bastone. Infine, avvicinandosi ancor di
più, constata che è solo una corda. In questo esempio la conoscenza del bastone
ha rimosso la conoscenza della fenditura; pur tuttavia, nemmeno il bastone non
era reale. Come si risolve questo problema?
Risposta: Il tuo esempio sostiene proprio la dottrina per cui
quello che è smascherato e rimosso, non è reale. È vero che non c’è una regola
fissa per cui la conoscenza che annulla un’altra debba essere sempre reale; ma
questo non vuol dire che la gente non possa mai conoscere l’esistenza
dell’oggetto finale che non può essere rimosso. Il serpente che appare nella
corda, per la persona ingannata è effettivamente un serpente, sebbene ad altri
appaia come una corda. Ma, una volta esaminato, anche a colui che erroneamente
aveva pensato fosse un serpente, apparirà essere una corda. Dato che, sia la
corda sia la cognizione che essa è una corda non sono mai contraddette, la
gente, come regola generale, considera che questa è una corretta conoscenza
nell’esperienza empirica. In questo contesto abbiamo usato l’esempio della
corda e del serpente, considerando la corda come reale come è generalmente
accettato da tutti. Ma, in ultima analisi, non è affatto nostra opinione che la
corda possa essere realmente inconfutabile (abādhya) e che, a nostra
conoscenza, non possa essere mai contraddetta. Infatti, i vedāntin affermano
che solo l’Ātman è l’ultima assoluta realtà e che sia jīvatva sia
jagat sono conoscenze erronee.
Perciò se è messa in discussione
anche la realtà della corda, che è supporto o sostrato per il serpente, non c’è
alcuna contraddizione con il loro insegnamento. Dato che nella loro dottrina (siddhānta)
l’intero mondo duale è falso, irreale (mithyā), perfino la corda inclusa
in quel mondo è essa stessa mithyā. La corda è comunque una vyāvahārika
sattā, una realtà empirica, mentre il serpente che appare in essa a causa
di bhrānti non è affatto altrettanto reale, essendo solamente una
apparenza provvisoria (prātipathika dṛśati). Fra la corda e il serpente,
questa differenza continuerà sempre a esistere.
H) Jīvatva appare perché Ātman non è
conosciuto
Ora rivolgiamo la nostra
attenzione all’esempio portato come prova (dārṣṭāntika). Poiché non
conosciamo la vera natura del nostro Ātman, siamo sottoposti a jīvatva,
ossia alla condizione individuale. Proprio come nella penombra la corda non è
conosciuta per quello che è, e la gente la prende erroneamente per un serpente,
similmente, per ignoranza della nostra vera natura in quanto Śiva, questo jīvatva
appare a essa sovrapposto.
In questo contesto esiste un
forte rapporto di somiglianza tra il simbolo e il simboleggiato, perché colui
che confonde l’Ātman con il jīvātman è portato a credere di
essere identificato al corpo, al prāṇa, alla mente, all’intelletto e
all’ego. Proprio come la persona dissennata, senza riconoscere la corda
per quello che è, immagina di vedere in essa un cappuccio, una coda e una forma
sinuosa e allora si spaventa pensando che sia un serpente, allo stesso modo
l’ignorante s’immagina d’avere una stretta relazione con il corpo, la forza
vitale, la mente ecc. Perciò compie vari errori di valutazione, pensando: «Io
sono nato, sono cresciuto, soffro, morirò e rinascerò». E di ciò prova
sofferenza. Se si osserva attentamente, come non esiste la minima traccia del
serpente nella corda, così nell’Ātman, che è il Testimone cosciente, non
c’è alcuna traccia di jīvātva. Come una persona, dopo aver esaminato
l’oggetto con attenzione, acquisisce la corretta conoscenza della corda in
quanto oggetto reale, e perciò si libera della paura del serpente, allo stesso
modo il jijñāsu, in forza della sua conoscenza intuitiva di essere Śiva
(śivatva), si sbarazza della sua apparente condizione di trasmigrante (saṃsāritva).
Obiezione: Se il pensiero di essere il jīva è bhrānti,
allora quale prova (pramāṇa) si può addurre per affermare che l’idea di
essere Śiva non sia anch’essa bhrānti? Come il pensiero di jīvatva è
smascherato dai validi mezzi di conoscenza, così la possibilità della
conoscenza di Śivatva può essere contraddetta.
Risposta: Non c’è ragione per tale timore. Perché il pensiero di
essere un jīva è il risultato di credere all’innata relazione con corpo,
sensi ecc., che appare in un particolare stato di coscienza, cioè quelli di
veglia o di sogno, come se fosse un dato metafisico (paramārtha). Ma la
conoscenza intuitiva di essere Śiva o caitanya svarūpa scaturisce
dall’intuizione sperimentata del kūtaṣṭhanitya caitanya, che è privo di
ogni relazione con qualsiasi stato di coscienza e con qualsiasi limitazione di
tempo. Nel caso di un oggetto sottomesso al tempo esiste la paura che possa
cambiare completamente il suo modo di essere. Ma come si può asserire che per
la propria natura assoluta (paramārtha svarūpa), che è al di là del
tempo, sia possibile un tale cambiamento?
I) Lo Śiva svarūpa può essere conosciuto tramite
l’insegnamento spirituale di un vero guru
Rimane un altro punto da
discutere. Dato che anche i vedāntin che affermano di non essere jīva
compiono le loro azioni quotidiane come tutti gli altri, con quale pramāṇa
si può dimostrare che jīvātman scompare e che in suo luogo emerge Śivatva?
La soluzione di questo dubbio è
la seguente: nell’esempio della corda e del serpente abbiamo chiaramente
evidenziato che il serpente non esisteva nemmeno all’inizio, quando la persona
era ancora in preda l’illusione. Però, dopo aver raggiunto la corretta
conoscenza della realtà della corda, non si può affermare che il serpente se ne
sia andato via [in quanto, in verità, non era mai venuto]. Allo stesso modo
abbiamo sostenuto che Śiva svarūpa è l’ultima assoluta realtà, mentre il
jīvātva è causato dall’errore e, a dire il vero, non esiste affatto.
Stando così le cose, che senso ha dire che jīvatva scompare ed appare Śivatva?
Noi siamo sempre Śiva svarūpa!
Non è necessario un pramāṇa per
affermare che noi siamo Śiva svarūpa, perché la nostra reale natura non
è mai sconosciuta. Se per caso, mentre una persona sta scambiando nella
penombra una corda per un serpente, ci fosse lì un jñāni a guidarlo e a
istruirlo, dicendo: «Questa è una corda, non un serpente», immediatamente
l’errore svanirebbe. Se la persona che soggiace all’illusione dell’errore o del
dubbio fosse istruita da qualcuno sull’oggetto reale, si convincerebbe che è
una corda solamente toccandola ed esaminando l’oggetto con l’aiuto di una
lampada. Questo caso è tuttavia diverso da quello del nostro Ātman svarūpa:
per intuirlo direttamente non c’è bisogno di alcun pramāṇa né di alcun
altro mezzo. L’Ātman è di per se stesso l’essenza di caitanya prakāśa,
ossia della pura coscienza autoluminosa. Perciò è sufficiente che il guru istruisca
in questo modo: «Tu non sei il corpo, i sensi ecc.; in verità il tuo ultimo svarūpa
è Paramaśiva». Com’è spiegato nei versi precedenti, solamente con questo
insegnamento al jijñāsu sorge istantaneamente questa esperienza
intuitiva: «“Io” sono proprio Sākṣin caitanya che conosce direttamente
il corpo, i sensi ecc.».
Molti che si dichiarano vedāntin
affermano di non essere il corpo, i sensi, e di essere della natura di
Śiva. Ma la loro è soltanto una teoria letta negli śāstra o tratta dalla
spiegazione tradizionale impartita pubblicamente da qualche paṇḍita.
Tuttavia, non è questo il caso di coloro che hanno raggiunto realmente
l’esperienza intuitiva d’essere l’Ātman svarūpa grazie all’insegnamento
dato da un guru. A differenza degli aspiranti al Vedānta (śraddhā
vedāntin) precedentemente descritti, questi ultimi non possiedono un forte
senso d’identificazione con il saṃsāra; perciò, a differenza degli
altri, non sono afflitti o toccati da śoka, sofferenza, o moha,
illusione. Non solo questo: anche coloro ai quali tali jñāni espongono
il tattva (l’ultima realtà di Ātman), intuiscono la realtà e come
risultato si liberano del loro śoka e moha. Così, coloro che
semplicemente ripetono quanto hanno letto nello śāstra non dovrebbero
essere portati ad esempio; dovrebbero essere seguiti e imitati solo quei sādhaka
che hanno intuito l’ultima realtà di Brahmanātman e che sono inoltre
capaci di indurre anche altri a intuire l’Ātman svarūpa, impegnati a
rendere capaci gli altri a raggiungere l’esperienza intuitiva del Sākṣin (tattva
sākṣātkāra). Tali grandi personalità sono degne d’ogni fiducia (āpta).
Riportandoci all’esempio di prima, l’affermazione di chi è degno di fiducia (āpta
vacana) sulla realtà della corda, deve essere intesa come un vero e proprio
pramāṇa che rimuove o, piuttosto, smaschera l’inganno della
corda-serpente assieme al conseguente spavento. Così l’autorevolezza (āpta
vacana) di un vero guru, che ha raggiunto per sempre l’esperienza
intuitiva del paramārtha svarūpa, diventa il valido mezzo per insegnarci
il nostro Śiva svarūpa e per rimuovere da noi la paura del saṃsāra,
poiché egli è eternamente stabilito nell’Essere (nitya siddha).
Obiezione: Molti hanno ascoltato da grandi maestri insegnamenti
spirituali come: «In verità tu sei Īśvara, non un jīva». Eppure, anche in
quel caso, dopo avere ascoltato, non si sono liberati dall’illusione del saṃsāra;
come mai?
Risposta: Abbiamo già risposto a questa domanda. Perché, come di
regola quelli che insegnano la Realtà (tattva) devono necessariamente
averla intuita, così si richiede che quelli che ascoltano questo insegnamento,
debbano necessariamente avere le qualifiche adatte. Inoltre, il Vedānta
śrāvaṇa non è semplicemente ascoltare affermazioni o argomentazioni
vedāntiche in un paio d’occasioni. Anche nella vita di tutti i giorni coloro
che vogliono conoscere un particolare argomento lo indagano assiduamente fino a
raggiungere il loro obiettivo e la rimozione di qualsiasi dubbio a riguardo.
Allo stesso modo anche in ambito iniziatico è essenziale che il vero cercatore
sia dotato di una dedizione costante e determinata (śraddhā), di una
tensione interiore (tatparatā) nel dirigere tutti gli sforzi ed energie
verso la meta e di ascoltare gli insegnamenti spirituali (śrāvaṇa) del
vero maestro con rispetto e devozione. Deve poi riflettere intuitivamente (manana)
su quegli insegnamenti e contemplarne (nididhyāsana) la vera portata e
il loro significato.
Chi è consapevole afferma: «Questa in verità è una corda». Invece la
persona radicata nell’errore, afferma: «Questo è veramente un serpente»
Essendone convinto, non esamina l’oggetto direttamente, perciò come potrebbe
riconoscerlo come una corda? Analogamente, coloro che continuano ad ascoltare
l’insegnamento vedāntico da un lato, ma che persistono ad alimentare la mente
con pensieri che rafforzano la credenza che il mondo sia davvero reale, non
potranno mai cogliere il vero frutto del Vedānta śrāvaṇa. L’ascolto
vedāntico ricevuto superficialmente può saltuariamente dare un certo beneficio.
Ma uno śrāvaṇa così superficiale non potrà mai produrre un istantaneo e
immediato risultato qui e ora, in questa vita. Cioè non porterà a raggiungere
la natura essenziale del Sé-Testimone (Ātman sākṣātkāra), che è
l’esperienza intuitiva della pura Coscienza. Il fatto che noi tutti siamo della
natura di Śiva è una verità assoluta, ed è certo che ciò può essere raggiunto
esclusivamente per mezzo della conoscenza intuitiva (jñāna). Ma coloro
che non hanno mai praticato o seguito preliminarmente le discipline spirituali
basate sulla certezza dell’intenzione (śraddhā), del desiderio
incrollabile (tatparatā), del controllo dei sensi (indriya nigraha),
della venerazione per il maestro (guruseva), della cerca del Vero (tattva
vicāra) ecc., non possono raggiungere jñāna. Perciò è certo che se
un mumukṣu, che abbia dapprima acquisito tutte le qualifiche di un cuore
e una mente purificati, segue poi l’insegnamento orale sul significato dei mahāvākya
upaniṣadici e ne assimila il loro vero contenuto, alla fine sicuramente
raggiungerà la conoscenza del Sé (Ātmajñāna).
[1] Come affermano
sconsideratamente i sostenitori della “casualità” dell’evoluzione secondo
l’ipotesi darwiniana e neo-darwiniana [N.d.T.].
[2] Coloro che fossero interessati ad
approfondire l’argomento potranno leggere il nostro testo sanscrito Mūlāvidyānirāsaḥ
athavā Śrī Śaṃkarahṛdayam [Bangalore, APK, 2009].
Traduzione e note di Maitreyī
Da: www.vedavyasamandala.com
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