Svāmī
Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja
Commento a «Le Cinque Gemme dell’Advaita»
di Śrī Śaṃkarācārya - 1/7
(Advaita Pañcaratnam)
Le Cinque Gemme dell’Advaita
Io non sono il corpo, non sono i sensi, non sono la mente, non sono l’ego, non sono i prāṇa, non sono l’intelletto. Io sono quello che è lontano dalla moglie, dai figli, dal podere, dalla casa ecc. In verità io sono quello Śiva che è Testimone diretto, che è l’eterno e intimo Sé.
Proprio perché la corda non è conosciuta correttamente come corda, in essa appare un serpente. Similmente, poiché il nostro Ātman non è intuito e conosciuto come realmente è, in esso appare questo jīvatva. Come quando i jñāni riconoscono che l’oggetto davanti a loro è una corda, così quando insegna un sadguru, ossia un autentico maestro, lo śiṣya realizza: «Io non sono un jīva, ma in realtà sono solo Śiva.»
Proprio come il sogno avviene grazie al sonno, tutto questo mondo irreale di dualità appare a causa dell’errore e dell’illusione. Per questa ragione esso non è reale. Io sono Śiva che è puro, totale, eterno e uno senza secondo.
Oltre a me non esiste alcun reale mondo di dualità. Qualunque cosa esista esternamente è pensata erroneamente o immaginata a causa di māyā. Ciò appare nell’“Io” che non è duale, proprio come il riflesso appare nello specchio. Perciò io sono Śiva.
Io non sono mai nato, cresciuto e morto. Queste qualità di Prakṛti, che sembrano essere in me, in verità appartengono al corpo. Kartṛtva [il fatto di essere un agente], bhoktṛtva [il fatto di essere un fruitore] ecc. appartengono solo ad ahaṃkāra e non a me che sono fatto di pura Coscienza (cinmāyā). Io sono l’unico Śiva.
Prefazione
Iniziamo la sezione dedicata ai lettori occidentali del Veda
Vyāsa Maṇḍala con la traduzione delle “Cinque Gemme dell’Advaita”, breve
poema di Śaṃkarācārya. Il poema è corredato dal commento di Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, uno dei massimi esponenti dell’Advaita Vedānta del
XX secolo. Il trattato apparirà con cadenza settimanale su questo sito,
seguendo la divisione in paragrafi voluta dal commentatore.
Ogni verso di questo breve poema dell’Ādi Śaṃkarācārya
si conclude con la formula “Śivoham” che significa “Io sono Śiva,
l’Ultima Realtà”. Questa frase corrisponde nel significato al mahāvākya “Aham
Brahmāsmi”, “io sono il Brahman”, con cui s’afferma che la nostra vera
natura è l’Assoluto. In “Śivoham” con Śiva non s’intende il principio
trasformatore che agisce nell’universo, si tratta invece dell’Assoluta, ultima
Realtà chiamata Śiva, unica nostra pura Coscienza ed Esistenza. Egli può
apparire come Īśvara, il Signore, che manifesta l’universo e tutti gli esseri,
rimanendo sempre al di là d’ogni azione, modificazione e cambiamento. Śrī Śaṃkara,
con questi versi, ha voluto esporre sinteticamente il tema centrale dell’Advaita
Vedānta, vale a dire che il Sé interiore di tutti è il non duale Śiva,
eternamente puro, perfetto, cosciente e libero. In questo modo afferma che non
siamo affatto saṃsāri o anime trasmigranti, sospinte incessantemente da
una nascita a un’altra, come pare alla nostra ignoranza; al contrario, per
natura essenziale il nostro essere è Śiva stesso. Śiva è la nostra vera natura
che è realtà, coscienza e beatitudine (saccidānanda svarūpa).
Il primo verso spiega che l’aggregato di corpo, soffi
vitali, sensi, mente e intelletto e aham, a cui s’identifica l’uomo
ordinario, deve essere definito anātman, vale a dire non-Sé, e quindi
non reale.
Nei successivi tre versi, apportando gli esempi della
corda-serpente, del sogno e del riflesso nello specchio, Śaṃkarācārya illustra
la dottrina principale del Vedānta. Sebbene non siamo assolutamente
anime trasmigranti, a causa dell’illusione (bhrānti), siamo in apparenza
sottoposti alla fruizione (bhukti) di esperienze duali e contrapposte,
come piacere (sukha) e dolore (duḥkha), utile (artha) e
nocivo (anartha), fascinazione (moha) e frustrazione (śoka).
A causa di tali dualità crediamo d’essere totalmente diversi da Parameśvara, il
Signore supremo e da lui separati.
Nel quinto e ultimo śloka si espone che la nostra
essenza interiore è quella di Caitanya, il Cosciente, perennemente
libero (mukta), puro e perfetto, privo di qualsiasi macchia o colpa,
onnipervadente, realtà che incenerisce tutte le apparenze1. È perciò evidente che lo Śiva citato nei
cinque versi non ha nulla a che fare con una delle persone della trimūrti mitologica,
Brahmā, Viṣṇu e Maheśvara. Si tratta della Realtà ultima non duale, che sta al
di là dei tre stati di veglia, sogno e sonno profondo e che nel Vedānta è
anche chiamata Paramātman o Parabrahman.
L’importante breve trattato di Svāmī Satcidānandendra
Sarasvatī a commento dell’Advaita Pañcaratnam è stato l’argomento di una
serie di insegnamenti dati ai suoi discepoli allo scopo di indurre i cercatori
a discernere ciò che non è reale dalla Realtà, per mezzo del processo di
discriminazione (viveka) vedāntica. Considerata l’elevata preparazione
intellettuale dei sādhaka presenti, Svāmījī ha concluso
utilizzando la difficile scienza metafisica dei tre stati di coscienza (trayāvasthā
vidyā) basata sull’esperienza quotidiana della veglia, del sogno e del
sonno profondo. Qualora un iniziato sia in grado di comprendere tale istruzione
(upadeśa), potrà riconoscere di essere libero dall’ignoranza, di essere
sempre stato libero, di essere eternamente libero in quanto:
Śivoham!
Maitreyī
Da: www.vedavyasamandala.com
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