"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 17 settembre 2017

Satcidānandendra Sarasvatī, Commento a Le Cinque Gemme dell’Advaita di Śrī Śaṃkarācārya - 1/7

Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja
Commento a «Le Cinque Gemme dell’Advaita»
di Śrī Śaṃkarācārya - 1/7
(Advaita Pañcaratnam)

Le Cinque Gemme dell’Advaita

Io non sono il corpo, non sono i sensi, non sono la mente, non sono l’ego, non sono i prāṇa, non sono l’intelletto. Io sono quello che è lontano dalla moglie, dai figli, dal podere, dalla casa ecc. In verità io sono quello Śiva che è Testimone diretto, che è l’eterno e intimo Sé.

Proprio perché la corda non è conosciuta correttamente come corda, in essa appare un serpente. Similmente, poiché il nostro Ātman non è intuito e conosciuto come realmente è, in esso appare questo jīvatva. Come quando i jñāni riconoscono che l’oggetto davanti a loro è una corda, così quando insegna un sadguru, ossia un autentico maestro, lo śiṣya realizza: «Io non sono un jīva, ma in realtà sono solo Śiva.»

Proprio come il sogno avviene grazie al sonno, tutto questo mondo irreale di dualità appare a causa dell’errore e dell’illusione. Per questa ragione esso non è reale. Io sono Śiva che è puro, totale, eterno e uno senza secondo.

Oltre a me non esiste alcun reale mondo di dualità. Qualunque cosa esista esternamente è pensata erroneamente o immaginata a causa di māyā. Ciò appare nell’“Io” che non è duale, proprio come il riflesso appare nello specchio. Perciò io sono Śiva.

Io non sono mai nato, cresciuto e morto. Queste qualità di Prakṛti, che sembrano essere in me, in verità appartengono al corpo. Kartṛtva [il fatto di essere un agente], bhoktṛtva [il fatto di essere un fruitore] ecc. appartengono solo ad ahaṃkāra e non a me che sono fatto di pura Coscienza (cinmāyā). Io sono l’unico Śiva.

Prefazione
Iniziamo la sezione dedicata ai lettori occidentali del Veda Vyāsa Maṇḍala con la traduzione delle “Cinque Gemme dell’Advaita”, breve poema di Śaṃkarācārya. Il poema è corredato dal commento di Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, uno dei massimi esponenti dell’Advaita Vedānta del XX secolo. Il trattato apparirà con cadenza settimanale su questo sito, seguendo la divisione in paragrafi voluta dal commentatore.
Ogni verso di questo breve poema dell’Ādi Śaṃkarācārya si conclude con la formula “Śivoham” che significa “Io sono Śiva, l’Ultima Realtà”. Questa frase corrisponde nel significato al mahāvākya Aham Brahmāsmi”, “io sono il Brahman”, con cui s’afferma che la nostra vera natura è l’Assoluto. In “Śivoham” con Śiva non s’intende il principio trasformatore che agisce nell’universo, si tratta invece dell’Assoluta, ultima Realtà chiamata Śiva, unica nostra pura Coscienza ed Esistenza. Egli può apparire come Īśvara, il Signore, che manifesta l’universo e tutti gli esseri, rimanendo sempre al di là d’ogni azione, modificazione e cambiamento. Śrī Śaṃkara, con questi versi, ha voluto esporre sinteticamente il tema centrale dell’Advaita Vedānta, vale a dire che il Sé interiore di tutti è il non duale Śiva, eternamente puro, perfetto, cosciente e libero. In questo modo afferma che non siamo affatto saṃsāri o anime trasmigranti, sospinte incessantemente da una nascita a un’altra, come pare alla nostra ignoranza; al contrario, per natura essenziale il nostro essere è Śiva stesso. Śiva è la nostra vera natura che è realtà, coscienza e beatitudine (saccidānanda svarūpa).
Il primo verso spiega che l’aggregato di corpo, soffi vitali, sensi, mente e intelletto e aham, a cui s’identifica l’uomo ordinario, deve essere definito anātman, vale a dire non-Sé, e quindi non reale.
Nei successivi tre versi, apportando gli esempi della corda-serpente, del sogno e del riflesso nello specchio, Śaṃkarācārya illustra la dottrina principale del Vedānta. Sebbene non siamo assolutamente anime trasmigranti, a causa dell’illusione (bhrānti), siamo in apparenza sottoposti alla fruizione (bhukti) di esperienze duali e contrapposte, come piacere (sukha) e dolore (duḥkha), utile (artha) e nocivo (anartha), fascinazione (moha) e frustrazione (śoka). A causa di tali dualità crediamo d’essere totalmente diversi da Parameśvara, il Signore supremo e da lui separati.
Nel quinto e ultimo śloka si espone che la nostra essenza interiore è quella di Caitanya, il Cosciente, perennemente libero (mukta), puro e perfetto, privo di qualsiasi macchia o colpa, onnipervadente, realtà che incenerisce tutte le apparenze1. È perciò evidente che lo Śiva citato nei cinque versi non ha nulla a che fare con una delle persone della trimūrti mitologica, Brahmā, Viṣṇu e Maheśvara. Si tratta della Realtà ultima non duale, che sta al di là dei tre stati di veglia, sogno e sonno profondo e che nel Vedānta è anche chiamata Paramātman o Parabrahman.
L’importante breve trattato di Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī a commento dell’Advaita Pañcaratnam è stato l’argomento di una serie di insegnamenti dati ai suoi discepoli allo scopo di indurre i cercatori a discernere ciò che non è reale dalla Realtà, per mezzo del processo di discriminazione (viveka) vedāntica. Considerata l’elevata preparazione intellettuale dei sādhaka presenti, Svāmījī ha concluso utilizzando la difficile scienza metafisica dei tre stati di coscienza (trayāvasthā vidyā) basata sull’esperienza quotidiana della veglia, del sogno e del sonno profondo. Qualora un iniziato sia in grado di comprendere tale istruzione (upadeśa), potrà riconoscere di essere libero dall’ignoranza, di essere sempre stato libero, di essere eternamente libero in quanto:
Śivoham!
Maitreyī

Traduzione e note di Maitreyī
Da: www.vedavyasamandala.com

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