Paolo
Urizzi
L’origine primordiale della Rivelazione
– (II e fine)
Segue:
parte 2 di 2
Ritornando al simbolismo della
conchiglia, essa racchiude il germe dei Veda, ossia il monosillabo Om,
il suono primordiale che non può essere distrutto (aksara) quando tutti gli esseri sono distrutti e tutte le
distinzioni di nome e forma (nâmarûpa) abolite perché
riassorbite nel loro principio.
Una volta, però, che questo germe d’ogni suono e d’ogni linguaggio ritorna in possesso del divino Principio produttore – al quale, peraltro, esso è essenzialmente inerente, poiché questo potere è inseparabile dalla natura stessa del Verbo (vâc, memra, logos, kalâm Allâh) mediante il quale Dio chiama gli esseri in esistenza e del quale gli esseri sono intimamente sostanziati – il Suono inespresso riappare diventando ad un tempo auto-rivelazione del Divino che si manifesta attraverso il cosmo e rivelazione dell’eterna Sapienza ordinatrice al centro dello stato umano. Orbene, questa duplice funzione è già implicita nella struttura stessa della conchiglia che con la sua forma riproduce gli elementi essenziali del monosillabo Om: una linea retta (a), un movimento a spirale (u) ed un punto (m), i primi due andando a formare il profilo della conchiglia, mentre il punto il germe del suono racchiuso al suo interno. La sua forma richiama d’altronde anche quella dell’Arca che naviga sulla «superficie delle Acque»,[1] ed in questa prospettiva il germe è allora lo stesso Manu, poiché da lui nascerà l’umanità futura. Vi è evidentemente una sorta di omologazione tra il germe racchiuso nella conchiglia, che rappresenta il Verbo inespresso, e il Manu all’interno dell’Arca, anche se in questo caso si tratta più precisamente dell’Intelletto creato potenziale che, nel viaggio lungo la «Notte del cosmo», viene guidato dall’Intelletto divino nella sua «ipostasi» (avatarana) come Intelletto attivo trascendente simboleggiato dal Matsya, il Pesce salvatore.
Una volta, però, che questo germe d’ogni suono e d’ogni linguaggio ritorna in possesso del divino Principio produttore – al quale, peraltro, esso è essenzialmente inerente, poiché questo potere è inseparabile dalla natura stessa del Verbo (vâc, memra, logos, kalâm Allâh) mediante il quale Dio chiama gli esseri in esistenza e del quale gli esseri sono intimamente sostanziati – il Suono inespresso riappare diventando ad un tempo auto-rivelazione del Divino che si manifesta attraverso il cosmo e rivelazione dell’eterna Sapienza ordinatrice al centro dello stato umano. Orbene, questa duplice funzione è già implicita nella struttura stessa della conchiglia che con la sua forma riproduce gli elementi essenziali del monosillabo Om: una linea retta (a), un movimento a spirale (u) ed un punto (m), i primi due andando a formare il profilo della conchiglia, mentre il punto il germe del suono racchiuso al suo interno. La sua forma richiama d’altronde anche quella dell’Arca che naviga sulla «superficie delle Acque»,[1] ed in questa prospettiva il germe è allora lo stesso Manu, poiché da lui nascerà l’umanità futura. Vi è evidentemente una sorta di omologazione tra il germe racchiuso nella conchiglia, che rappresenta il Verbo inespresso, e il Manu all’interno dell’Arca, anche se in questo caso si tratta più precisamente dell’Intelletto creato potenziale che, nel viaggio lungo la «Notte del cosmo», viene guidato dall’Intelletto divino nella sua «ipostasi» (avatarana) come Intelletto attivo trascendente simboleggiato dal Matsya, il Pesce salvatore.
Ciò si può comprendere ancora meglio se
ci rapportiamo alle tradizioni abramiche, dove in aramaico la lettera nûn significa «pesce» così come in arabo
nûn designa la «balena», il pesce di Giona
che nel Corano è chiamato anche Dhû-l-nûn
(«quello del Pesce»), ed è notoriamente un simbolo del Messia[2] non solo per il Cristianesimo, ma anche per la tradizione
giudaica, dove la lettera nûn serve a
designare il «regno» del Mašiach;
in ebraico, infatti, la nûn significa
«regno» e uno dei nomi del Messia è Yinon,
«(colui che) regnerà» (modificazione morfologica di nûn).[3] Nell’arabo,
poi, la forma stessa della lettera nûn,
che graficamente si presenta come una semicirconferenza col punto centrale ن,
è un simbolo immediato dell’Arca che contiene il germe
della nuova generazione.[4]
La produzione cosmica è opera di Brahmâ
ma, come abbiamo visto nel testo del Mahâbhârata
(III.185.48-49), relativamente
ad un certo piano di esistenza la Causa prima, Viśvakarma, il Prajâpati dell’Universo, delega questo potere ad una «causa seconda»[5]
che, nella
fattispecie, per il mondo umano è il Primo uomo, il Manu;[6]
un essere che deve avere quindi in se stesso i poteri del Padre celeste, le sue
Luci di gloria. Questi poteri non sono altro che i Sette Rsi, che la tradizione hindu designa
costantemente come i figli di Brahmâ, generati dalla sua Mente (brahmano mânasâh sutâh, brahmanah putrâ mânasâh, ecc.):
«I Sette grandi Rsi primordiali (maharsayah sapta pûrve)…[7] sono della mia
stessa natura e sono nati dalla mia Mente (madbhâvâ
mânasâ jâtâ)»[8] (BG X.6).
Figli di Brahmâ o Prajâpati,
i Sette Rsi stessi sono invocati come dei Prajâpati,[9] perché «da essi sono nati tutti gli esseri (prajâh)
di questo mondo» (Bhagavad-Gîtâ,
ibid.), o meglio, è proprio perché sono della stessa sostanza di Brahmâ che gli
esseri di questo mondo procedono da loro. Dal momento, però, che questo mondo
ha nascita dal Manu che, secondo il Satapatha Brâhmana, è anche l’unico passeggero
dell’Arca e l’unico superstite del ciclo precedente, non si può ritenere che
essi siano degli esseri a lui esteriori o da lui distinti, tanto più che Manu è
identificato lui stesso a Prajâpati.[10]
Dobbiamo però anche fare attenzione a non considerare il Manu come un individuo
nel senso ordinario del termine poiché, trattandosi del capostipite di tutta
l’umanità, egli dev’essere più che altro visto come la prima «incorporazione»
dell’Intelletto universale, riflesso del raggio di Luce celeste che comunica la
Conoscenza divina.
Aprendo ancora una volta una parentesi in
ambito ebraico e tornando a quanto si è detto all’inizio a proposito della
natura dell’uomo primordiale, non sarà ora difficile capire perché, nella
Qabbalah, ad Adamo viene attribuito un corpo di «luce»
che diviene di «pelle» solo dopo la caduta:
«Quando Adamo si trovava nel Giardino
dell’Eden, egli indossava un abito che assomigliava all’abito ultraterreno, un
rivestimento di luce celeste. Quando fu allontanato dal Giardino
fu costretto a sottomettersi alle esigenze[11] di questo mondo, come sta scritto: “Il Signore Elôhîm fece per Adamo e sua
moglie delle tuniche di pelle e li rivestì” (Gen. 3:21). Prima d’allora essi indossavano
tuniche di luce, quella luce ultraterrena che viene
adoperata nel Giardino dell’Eden» (Zohâr II, 229b, sez. Pekûdé ).[12]
Un’interpretazione che risulta del resto del tutto consequenziale dalla lettura del
Genesi in ebraico, dal momento che le
tuniche di «pelle» (‘ôr) rimangono
quasi invariate nella pronuncia rispetto alle tuniche di «luce» (’ôr). Ciò che le distingue
morfologicamente è solo la prima lettera: un’alef per «luce» (alef-vav-reš) e
una ‘ayin per «pelle» (‘ayin-vav-reš).[13]
Il significato di questa trasmutazione
è che l’unità – valore numerico dell’alef
che rappresenta qui la natura indivisa
dell’Uomo primordiale, l’originale Adam
Qadmon – viene persa quando egli «mangia», ossia assimila, la natura duale
dell’Albero della conoscenza del bene e del male. Il risultato è che la natura corporea gli si rivela
poiché è in quel momento che l’uomo acquista la vista: «Allora si apersero gli
occhi di ambedue e si accorsero d’essere nudi» (Gen. 3:7). La lettera ‘ayin, infatti, designa l’«occhio»,
dunque la percezione d’ordine sensibile. Questa è la linea interpretativa seguita sia dalla
Qabbalah, che da Filone,[14]
Origene e altri.[15] Secondo
Filone:
«L’intelletto
(νοῦς)
svolge, dentro di noi, il ruolo di uomo, la facoltà percettiva (αἴσθησις)
quello di donna. Il piacere (ἡδονὴ) [simboleggiato del serpente]
incontra prima le sensazioni e con esse entra
in contatto; ed è per loro tramite che trae in inganno l’intelletto sovrano (ἡγεμόνα νοῦς ).
Quando ognuno dei sensi è stato soggiogato dalle sue attrattive … li porta a
guisa di ancelle graziose all’intelletto
giudicante (λογισμῶ) come a un loro padrone… e quello, subito sedotto, diventa
suddito da sovrano che era, si trasforma da padrone in servo, da cittadino in
esule, da immortale in mortale» (De Opificio Mundi, 165).
L’Adamo che diviene «sedotto»
(πειθὼ) è
qui del tutto analogo al Manu che diviene «confuso»
(pramûdho); in entrambe i casi entra in gioco una potenza d’illusione
(moha, mâyâ), una capacità di
persuadere e ingannare (πειθώ). Quello che viene sedotto, come Narciso che si fa catturare dalla sua
stessa immagine riflessa nelle acque fino a dimenticare la sua vera natura, è l’intelletto
(manas, prajña, = νοῦς)
preso nei lacci dei sensi (prâna, indriya, = αἴσθησις).[16]
Il mondo non esisterebbe senza il potere d’illusione (mâyâ), ma non bisogna dimenticare che questo potere è prima di
tutto un potere divino; in divinis è la sua stessa Sakti. [17]
Riflessa nell’uomo, questa energia creativa appare sotto l’aspetto delle sue
facoltà di percezione, poiché, senza di esse, l’intelletto non avrebbe alcuna
conoscenza in atto della manifestazione. I Rsi non sono altro che queste
facoltà di percezione, le energie divine dell’Uomo primordiale. Se è detto che
nell’Arca il Manu è illuminato solo dallo splendore dei Rsi, ciò significa che,
microcosmicamente, è grazie a queste potenze illuminanti che il mondo futuro
potrà essere percepito, ossia «misurato», poiché la manifestazione del mondo,
la sua «emanazione» (srsti) è essenzialmente una
«misurazione» prodotta dall’irragiamento luminoso del fiat lux a partire dalle tenebre.[18]
È il motivo per cui la «manifestazione» è prima di tutto qualcosa che tale
appare alla vista, poiché si tratta d’una facoltà che,
tradizionalmente, è detta consistere in una luce che «esce» dall’occhio e
ritorna all’uomo con la forma dell’oggetto percepito.[19]
Dopo aver mangiato il frutto dell’Albero proibito, «si
apersero gli occhi di ambedue».
Il Principio sempre irraggiante è in
cielo il Sole (âditiya vivasvant =
νοετὸς
ἥλιος)[20]
con i suoi sette raggi – le sei direzioni dello
spazio più il centro – qui giù l’Uomo (manu vaivasvata) con i suoi «sette soffi» - orecchie, occhi, narici
e bocca[21]
– quelli che gli procurano la conoscenza empirica.[22]
Si tratta dell’Albero della conoscenza del bene e del
male;[23]
Albero proibito, ma anche Albero della «luogotenenza» (ar.
khilâfa), poiché è nel momento in cui
l’Uomo ne mangia che egli diviene «come Dio (kê’lôhîm) conoscendo il bene e il male (yodhe‘êy
tobh vârâ‘)» (Gen. 3:5).[24]
È per questo che i Rsi, i «poteri di percezione» nell’Uomo, ovvero i suoi
«soffi» (prâna),[25]
vengono designati come dei Prajâpati, poiché è per loro tramite che l’Uomo
diviene un co-creatore. Il Manu, desideroso di «manifestazione cosmica», si riscalda
d’ascesi, ed i Rsi si riscaldano d’ascesi, ossia praticarono il tapas. Questo termine designa in primo
luogo un «processo intellettuale» mediante il quale i poteri creativi di qualunque
essere vengono rafforzati e concentrati[26]
al fine d’una generazione, d’una nascita, sia essa di ordine universale, umano
o iniziatico.[27] Il
primo ad esercitare il tapas è
infatti l’Essere divino che, in rapporto ad un certo ciclo d’esistenza, si
riscalda in vista della sua manifestazione cosmica. All’origine dell’Universo,
Prajâpati viene all’esistenza mediante un desiderio (kâma) sorto nel tapas
creativo; egli desiderando riprodursi si dedica nuovamente al tapas e questo porta in essere tutti i
mondi ed i loro princìpi costitutivi,[28]
tutti «nati dal tapas» (tapaso ’dhijâtân). Anche i Rsi sono
«nati dal tapas» (tapaso jâtam),[29]
anzi, lo sono in modo eminente; di essi è detto che sono «possessori di tapas» (tapasvato),[30]
«assorbiti nel tapas» (tapase ye niseduh)[31]
e la loro vita è «fondata sul tapas»
(tapah saptarsayas upa
jîvanti).[32]
In rapporto al nostro mondo, quello che
si può dire all’origine del Principio divino, può essere detto, ad un altro
livello, del Manu o dei Rsi, sia assieme sia isolatamente. Manu e Rsi sono
originariamente inscindibili, essi agiscono corporativamente, uniti nell’atto
di accendere il Fuoco (sacrificale): «(O Visvedevah, O Pleroma delle realtà divine), voi a cui Manu, mediante l’intelletto
(manasâ) e sette sacerdoti (sapta hotrbhih, i Sette Rsi),
con Fuoco acceso, ha offerto la sua prima offerta sacrificale (hotrâm
prathamâh)» (RV
X.63.7). Essi danno inizio al Sacrificio, e con il Sacrificio all’Ordine
cosmico (rta) poiché il Sacrificio è il fondamento dell’Ordine cosmico.[33]
«Manu è il Sacrificio (yajño manuh)» (RV X.100.5), così come
«Prajâpati è il
Sacrificio (sa vai yajña eva prajâpatih)» (ŚB I.7.4.4);[34] Manu ha posto Agni, il Fuoco sacrificale, come una luce per tutte le
generazioni umane (jyotirjanâya sasvate)[35] (RV I.36.19), e questa luce è anche il
fondamento e l’inizio della rivelazione, l’incorporazione della Conoscenza
poiché, come molto giustamente ha scritto Sylvain Lévi parlando della
centralità che il Sacrificio riveste per la tradizione vedica: «La Scienza
sacra è identica col suo oggetto, il sacrificio, e il sacrificio è l’unica
realtà; esso è ad un tempo il creatore e la creazione; tutti i fenomeni dell’universo
ne sono il semplice riflesso e traggono da esso la loro parvenza di esistenza».[36]
Dunque, all’origine la rivelazione è il Sacrificio, all’origine non esistono i
quattro Veda, il Veda è unico[37]
ed esso non è altro che la Scienza con cui viene compiuto il Sacrificio
primordiale, identico esso stesso alla produzione dell’universo.
Certo, la
rivelazione da parte dell’Essere divino all’Uomo, considerata nel suo aspetto
principiale, ha origine nella condizione di latenza cosmica che caratterizza la
fase dell’«intervallo intra-temporale», il samdhyâ che precede l’inizio del nuovo ciclo. È in
quel momento, infatti, quando tutte le potenze dell’essere sono concentrate e
raccolte in un punto di coscienza ontologica, che l’Essere supremo, il Sé
immortale, comunica all’Uomo in potenza, alla sua realtà ancora embrionale, la
prima Scienza infusa riguardante la Realtà ultima: «Io sono Brahmâ, il Signore
degli esseri prodotti; io sono il Supremo, nessuno è più grande di me (aham
prajâpatir brahmâ matparam nâdhigamyate)» (MBh III.186.48). Questa rivelazione
riecheggia quella che, secondo il Corano, i germi dell’umanità hanno ricevuto
in una condizione intemporale – il Giorno di Alast – anteriore
alla formazione del corpo di Adamo: «E quando il Signore trasse, dai lombi dei
figli di Adamo, tutti i loro discendenti e li fece testimoniare contro se
stessi (dicendo): “Non sono il vostro Signore? (alastu bi-rabbikum)”[38]
Risposero: “Sì, l’attestiamo (shahidnâ)”» (Cor. 7:172). Suprema
Teofania, ma non solo, poiché il Bhâgavata
Purâna (VIII.24.54-55) afferma che l’Essere supremo
ha insegnato a Satyavrata, il futuro Manu che si trovava nell’Arca, la Scienza
sacra nella sua totalità: la scienza delle epoche antiche (purâna) e quella degli inni sacri (samhitâ), la scienza metafisica (divyâm), quella cosmologica (sânkhya), nonché quella della realizzazione
spirituale (yoga) e del (corretto) modo d’agire (kriyâ).
Il
«luogo» della Teofania suprema non può essere che la cima del Monte
settentrionale,[39]
dove si erge l’Albero cosmico a cui l’Arca dei germi viene attraccata, poiché è
lì che, come sulla cima della dantesca montagna del Purgatorio, si rivela il
firmamento dei cieli angelici, gli stati superiori dell’essere. Quest’Albero
cosmico, che non è altro che l’Albero della Vita, è un simbolo dell’«Asse del
mondo» che, come Raggio divino, comunica direttamente a chi vi perviene la
Conoscenza delle Realtà trascendenti. È a partire da questo punto che avviene
la rigenerazione del Manu, la sua «discesa» nel nuovo manvantara, e la sua
funzione generativa coincide di nuovo con un processo di «rivelazione»,
sicuramente più differenziata di quella ottenuta nella fase del samdhyâ.[40]
La sua
funzione, infatti, è quella di compiere il «Sacrificio» (yajña), offrire la
«prima oblazione rituale» (hotrâm prathamâh) che, lo si è
visto, è innanzitutto un atto intellettuale (manasâ) unito al
potere della parola, il «soffio della bocca» (mukhya-prâna) che è intimamente legato ad
Agni;[41]
ma la «parola», per essere creatrice, dev’essere prima di tutto conforme alla Verità
(satya), poiché solo
così può essere funzionale a stabilire l’Ordine cosmico (rta), ossia la realtà in atto. Manu
crea le cose «nominandole» e questa operazione è un atto eminentemente
«intellettuale», poiché il «nome» d’una cosa, il suo nâma, coincide con
la sua essenza intelligibile e la sua pronuncia porta in essere, ossia dà
«forma» (rûpa), alla cosa nominata. Abbiamo già evocato il potere
creativo della parola, del logos;[42]
la sua azione, o efficacia creativa, è data essenzialmente dalla pronuncia dei
«nomi» delle cose, e ciò che avviene in
divinis si ripete qui giù, sia
primordialmente da parte del Manu, sia temporalmente nella ripetizione rituale
di quel che è avvenuto ab origine.
Parola –
o suono – e manifestazione – con le idee connesse di luce e vita (Giov. 1:4; Gen. 1:3) –
sono concetti così strettamente connessi da essere talvolta persino difficili
da districare.[43]
Il Veda viene manifestato all’inizio dal Manu proprio col suo chiamare
all’esistenza le cose nominandole. Questo atto, nella tradizione hindu viene
simboleggiato nella sua funzione di primo agente del Sacrificio, il che
equivale a dire in fondo la stessa cosa, poiché Sacrificio è sinomino di
creazione e questa è attuata mediante l’evocazione della realtà intelligibile
della cosa, il suo nâma. Ora, lo stesso Veda, o meglio la sua
essenza eterna, risiede proprio nell’identità essenziale che unisce il nome
all’oggetto nominato,[44]
poiché questa relazione causale non ha nulla di arbitrario, ma deriva da un
preciso atto d’«intellezione» che coglie l’intima natura, l’essenza immutabile
si potrebbe dire, dell’oggetto considerato e non fa che «portarla alla luce» (âvirbhâva, prakâsana, unmesa
= ἐπιφάνεια). Questa è anche la sua «rivelazione» (srutiprakâsafl = ποκάλυψις), la prima rivelazione, quella che secondo
il Corano, Dio fece discendere quando, ci viene detto, «Egli insegnò ad Adamo
tutti i loro nomi[45]
(‘allama âdam al-asmâ’ kullahâ)» (Cor. 2:32).
I Rsi, in questo caso, sono ancora
delle potenze immanenti nel Manu; in seguito, quando gli uomini non saranno più
in grado di elevarsi da soli, mediante il tapas,
all’unione con l’Essere divino e alla contemplazione dei principi eterni,
questi Sette Rsi che si rigenerano nel tempo, questi «Sette che sempre
si ripetono» (saba‘ mathânî), si
manifestano come Profeti per insegnare all’uomo ormai decaduto il Veda,
formulare i mantra e fissare la Legge (dharma)
al fine di tracciare nuovamente per lui una Via di ritorno alla sua Origine
immortale.
«Quando [il cantore] intona [il canto],
colui che offre il Sacrificio reciti questi versi:
asato mâ sadgamaya tamaso
mâ jyotirgamaya mrtyormâmrtam gamayeti
Dal
non essere portami all’Essere; dalla tenebra portami alla Luce;
dalla
morte portami all’Immortalità!» (BU I.3.28)
Fine
[1] Sul simbolismo della
conchiglia e del Pesce salvatore, si veda R. GUÉNON, Simboli della Scienza sacra, Milano 1975, pp. 125-126, 137-38.
[2] Cfr. Mat. 12:39-40; Lu. 11:29-30.
[3] Cfr. Rav Yitzachk
GINSBURGH, The Hebrew Letters: Channels
of Creative Consciousness, Jerusalem 1990, pp. 208-209.
[4] Cfr. R. GUÉNON, Simboli della Scienza sacra, cit., capp.
22 e 23.
[5] Sul rapporto tra
principi metafisici e «cause seconde» che, per una legge di corrispondenza, li
rappresentano ad un certo livello ontologico, giacché, scive GUÉNON, «tutto ciò
che l’effetto è altro non è se non l’espressione di qualcosa che è inerente
alla natura della sua stessa causa», si veda dello stesso Simbolismo della
Croce, Milano 1998, pp. 14-15.
[6] Lo stesso concetto
viene espresso nell’AT con l’impiego, nell’Esamerone, di due verbi bârâ’ (creò) e ya‘aś (fece) che secondo alcuni antichi commenti rabbinici
starebbero ad indicare la partecipazione dell’uomo, dopo i primi sei giorni
della creazione, al processo creativo (Ibn Ezra e Radak apud Gen. 2:3).
[7] Abbiamo tolto
l’espressione «e parimenti i quattro Manu», che secondo SANKARA alluderebbe ai Sâvarnas (o Sâvarnikas
secondo RÂMÂNUJA): Daksa-sâvarna, Brahma-sâvarna, Dharma-sâvarna e Rudra-sâvarna, rispettivamente il IX, X, XI e XII
Manu. Costoro sarebbero così chiamati perché di figli di Sâvarnâ, una figlia di Daksa. Madhva ritiene
invece che il passaggio
alluda a Svâyambhuva, Rocisa,
Raivata e Uttama.
[8] Sui Sette Rsi «nati
dalla Mente di Brahmâ» cfr. anche MBh I.59.10; III.160.14; XII.200.17; ecc. per
una visione globale sulla questione si veda l’ampio studio di John E.
MITCHINER, Traditions of the Seven Rsis,
Delhi 1982.
[9] Cfr. anche MBh
XII.201.3-5; III.160.14; XII.200.17; vedere anche J.E. MITCHINER, Op. cit., pp. 12-13, 15-18, 22-24,
295-298.
[10] «Da Manu Prajâpati felicità! (prajâpataye
manave khâhâ)» (VS XI.66).
[11] Lett. «ai colori».
[12] Cfr. trad. The Zohar, cit., IV, p. 281. Altrove
leggiamo: «In conseguenza del peccato, la legge fu materializzata in un
indumento di pelle, nella stessa proporzione che uomo fu materializzato in un
corpo di carne» (Kitzur Sh’loh,
fol. 7, col. 2).
[13] Secondo l’insegnamento
qabbalistico, numericamente Alef (א) = 1 e ‘Ayin (ע) = 70. La differenza tra loro è 69,
rappresentata dalle lettere ebraiche Samech (ס)
e Tet (ט) ovvero סט. Pittograficamente Samech è un supporto, e indica l’azione del sostenere; Tet è invece un serpente. סט vorrebbe quindi dire: sostenere
il serpente. In altre parole, sostenendo il serpente Adamo ed Eva
hanno perso le loro pelli di luce e hanno dovuto assumere pelli di carne (cfr. www.yashanet.com/studies/judaism101/sidebars/ohr.htm).
[14] Benché FILONE non
commenti mai direttamente l’espressione «tuniche di pelle», si può dedurre il
suo pensiero dall’intepretazione
che dà della polarità Uomo/Donna nel contesto del Genesi, simboleggianti
rispettivamente l’intelletto
e la sensazione in atto (cfr. ad es. Legum
Allegorie, II, 19-39).
[15] Stessa interpretazione
da parte di GIULIO CASSIANO (ca 160-180 d.C.) un alessandrino encratita, ma
anche da parte di
TERTULLIANO (cfr. De resurrectione carnis,
Cap. VII). Altri, come METODIO (Aglaophon
he peri tes anastaseos, o Discorso sulla Resurrezione, I.4) e AGOSTINO (De Trinitate, XII.11.16 e De Genesi contra Manichaeos, II.21.32; Contra secundam Iuliani responsionem,
IV.37) si sono espressi in modo più velato, affermando che le «tuniche di pelle» rappresentavano
la «natura mortale», il che equivale in ultima istanza ad affermare lo stesso concetto
di fondo. Molti dottori della Chiesa vi si sono opposti, adducendo a smentita
il passaggio in cui Adamo dice al momento della creazione di Eva:
«Questa finalmente è ossa delle mie ossa e carne della mia carne» (Gen. 2:23).
Una tale obiezione è possibile,
però, soltanto con una lettura «materialistica» dei termini ebraici impiegati
nei versetti 2:22-23. Forse sarebbe più corretto tradurre,
come fa F. D’OLIVET: «questa è veramente sostanza della mia sostanza e forma
della mia forma»
(La Langue Hébraique restituée, rist.
Renens 1971, pt. II, p. 315). Vedere anche FILONE, Legum Allegorie, II, 40-43. In ogni caso si tratta di un passaggio
dalla luce alle tenebre, una «caduta» della coscienza immortale a quella dעll’uomo mortale. Il
contrario è il processo di rigenerazione che viene offerto dai riti della
«seconda nascita», come il battesimo. Cfr. J. DANIÉLOU, La teologia del Giudeo-cristianesimo,
Bologna 1974, p. 478.
[16] Al punto che l’Uomo non
sa più distinguere la realtà dal fenomeno vedi PLUTARCO, Moralia 393D, 400CD (cit. in
A.K. COOMARASWAMY, Selected Papers 2: Metaphysics, cit., p.
159).
[17] Su Mâyâ, cfr. A.K. COOMARASWAMY, On
Translation: Mâyâ, Deva, Tapas, in «Isis» 19 (1933), pp. 75-80.
[18] Vedere R. GUÉNON, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi,
Milano 1982, Cap. 3.
[19] «Chiunque vede, è mediante (la luce del) suo raggio che egli vede» (Jaim.Up.Br., I, 28, 8); «la percezione non avviene
comunque che tramite la luce che si trova nel soggetto che percepisce» (IBN
‘ARABÎ, Futûhât, cap. 360, III, p. 274).
[20] Il «grande sole tutto
luminoso e sempre lucente secondo la tenuissima risonanza del Bene, illumina
tutte quelle cose che sono in grado di partecipare di lui, ed ha una luce che
si diffonde su tutte le cose ed estende su tutto il mondo visibile gli splendori
dei suoi raggi in alto e in basso» (PSEUDO-DIONIGI, De divinis nominibus, IV, 697c-d); l’Areopagita, ovviamente, prende
il sole sensibile come un simbolo del vero Sole spirituale, quel «Bene
superiore ad ogni luce [che] è chiamato Luce intellettuale in quanto raggio
sorgivo ed effusione esuberante di luce che illumina con la sua pienezza ogni
intelligenza» (ibid. 701a).
[21] La mistica islamica
parla ugualmente di 7 «porte dei sensi» (al-jawârihal-sab‘)
che devono essere sorvegliati e sottomessi al Principio, ma vengono
identificati con lingua, udito, vista, mano, piede, ventre e sesso (cfr.
AL-HAKÎM AL-TIRMIDHÎ, Khatm al-awliyâ’, Beyrouth 1965,
p. 118).
[22] Non vi è nessuna
differenza tra questi sette raggi o soffi ed i «Sette fiumi» di vita (cfr.
COOMARASWAMY, Selected Papers 2:
Metaphysics, cit., p. 353 ss.; P. URIZZI, Regalità e Califfato, Pt. IV, cit., pp. 77-85) .
[23] Quest’Albero dev’essere
identificato con l’Albero «capovolto», con le radici in alto (ûrdhvamûlam), menzionato nella BG
XV.1-3, Albero del divenire cosmico (saumsâravrksa).
Sull’Albero invertito cfr. A.K. COOMARASWAMY, L’albero rovesciato, in Il
grande brivido, Milano 1987, pp.323-353; S. SALZANI, L’Albero capovolto, in «Perennia Verba» 8-9 (2004-05), pp. 152-197;
e J.G. ARAPURA, The Upside down Tree of
the Bhagavadgîtâ Ch. XV: An Exegesis, in «Numen» 22 (1975), pp. 131-144.
[24] Sono le parole del
serpente; in questo non aveva mentito perché dopo che ne ebbe mangiato, Dio
stesso dirà: «Ecco, l’uomo è divenuto come uno di Noi (hâ’âdhâm hâyâh ke’ahadh
mimmennu), perché conosce il bene e il male» (Gen. 3:22). Non era vero, invece, che non sarebbe diventato
«mortale» (ibid. 2:17; 3:4 e 22).
[25] «In antico i Rsi, in
quanto prâna, furono presenti
prima dell’esistenza di tutti i mondi; desiderandolo, essi si adoperarono con
austerità (srama) e calore ascetico (tapas); è per questo che essi furono chiamati Rsi» (ŚB VI.1.1.1-5); cfr. anche ibid.
XIV.5.2.6 (= BU II.2.3-4), dove è stabilita una corrispondenza tra i singoli Rsi e gli organi di percezione. YÂSKA afferma
nettamente la corrispondenza tra l’aspetto macrocosmico (adhidayvata) dei Rsi, in cui questi
sono equiparati ai sette raggi solari (rasmaya âditiya), e quello microcosmico (adhyâtma) dei sei indriya (lefacoltà
di percezione = prâna) unitamente a vidyâ, la conoscenza, come settima (Nirukta, XII.37). Sui Rsi in
quanto prâna, vedere J.E.
MITCHINER, Traditions of the Seven
Rsis, cit., pp. 7-11, 278-294.
[26] Cfr. A.K. COOMARASWAMY,
On Translation: Mâyâ, Deva, Tapas,
cit., p. 85.
[27] Vedere Walter O.
KAELBER, Tapas, Birth, and Spiritual
Rebirth in the Veda, in «History of Religions» 15 (1975-76), pp. 343-386.
[28] Cfr. ŚB
VI.1.1.1 – VI.1.3.20; vedere W.O. KAELBER, ibid., pp. 371-372.
[29] RV X.154.5.
[30] AV XVIII.2.15.
[31] RV X.109.4. Vedere O.
KAELBER, ibid., p. 374.
[32] AV XIII.10.25.
[33] Vedere H. AGUILAR, The Sacrifice in the Rgveda, Delhi 1976, pp. 27 e 37, e G. N. CHAKRAVARTHY, The Concept of Cosmic Harmony in the Rg-Veda, Mysore 1966, p. 43.
[34] Prâjapati e Yajña sono
identici; e questa coincidenza viene ribadita costantemente nei Brâhmana; cfr. MB III.6.5; AB VII.7.2; GB II.2.18, ecc.; si veda
anche S. LÉVI, La doctrine du sacrifice
dan les Brâhmanas, Parigi
1898, cap. 1.
[35] Agni è il Fuoco
universale, l’immortale nell’uomo che permette a quest’ultimo di ricostituire
la divinità smembrata (vyasramsata) ed esausta dopo l’atto di produzione cosmica,
Prâjapati, che l’invoca dicendo: «Ricostituiscimi (tvam mâ samdhehi)» (ŚB
VI.1.2.13). Cfr. B.K. Smith, Sacrifice
and Being: Prajâpati's Cosmic Emission and Its Consequences, in «Numen» 2,
(1985), p. 76.
[36] S. LÉVI, La doctrine du sacrifice, cit., p. 10.
Parti dell’universo ed elementi del rito mantengono una corrispondenza
costante: le sillabe del metro rappresentano le stagioni; il numero delle
oblazioni i mesi; le parti dell’altare del fuoco gli organi del corpo umano,
ecc.
[37] «All’inizio non vi era che un solo Veda, lo Yajur Veda. Questo fu poi diviso in quattro parti» (Vâyu Purâna 60.16-18).
[38] Lo stesso Signore degli
esseri prodotti (rabbi-l-‘âlamîn) che
dirà a Mosè sulla cima del Monte: «In verità Io sono Dio: non c'è dio
all’infuori di Me» (Cor. 20:14).
[39] Il «Monte settentrionale»,
la Montagna polare per eccellenza, è uno dei simboli più universali e arcaici
della Philosophia Perennis (cfr. P.
URIZZI, Regalità e Califfato, Pt. IV,
cit., pp. 134-140). Nella Bibbia è il Har-mô‘êdh,
il «Monte dell’assemblea», anch’esso situato, come riferisce Isaia (14:13),
«nell’estremo limite del nord» (be-yarkethê
sâfôn). È sempre sulla cima di questo Monte che avviene l’incontro col
Divino, così come mediante la «discesa» lungo il suo pendio, che, nei termini
della tradizione islamica, è un «ritorno verso il mondo delle creature» (rujû‘ ilâ-l-khalq), ha inizio la
«profezia», sia essa «legiferante» (nubuwwat
al-tashrî‘) o «libera» (nubuwwa mutlaqa), quest’ultima essendo
la sola possibilità di profezia rimasta ancora aperta dopo che la prima, che è
la profezia propriamente detta, è stata chiusa («sigillata»). La profezia
legiferante, che comporta una «rivelazione» (wahî) destinata ad altre persone, inizia secondo l’Islam, solo a
partire da sayyidinâ Nûh (il Noè
biblico); quanto a coloro che erano vissuti in epoca pre-diluviana,
partecipavano tutti alla profezia libera, ossia erano «legge a se stessi» o,
detto in termini hindu, erano individui «che seguono la propria volontà» (svecchâcârî). È per questo motivo che
Manu (= Adamo) istituisce il Sacrificio e «nomina» ne cose, ma non porta i Veda
alle creature, funzione riservata ai Rsi in un fase successiva del ciclo.
[40] La differenza tra
queste due modalità della rivelazione è analoga a quella che nell’Islam viene
ricordata a proposito della «discesa» del Corano jumlatan wâhidatan, «in
una volta sola» – ossia sinteticamente – che precede la rivelazione
tafsîlan, «in modo dettagliato»,
detta anche nujûman, lett.: «come le
stelle». La rivelazione deve sempre situarsi nel momento «atemporale» in cui la
fase ciclica del divenire è stata abolita, come nel samdhyâ appunto. La
discesa «sintetica» corrisponde alla «Notte del destino» (laylat al-qadr), così come il mese sacro del digiuno, coincide
simbolicamente col periodo di «intra-tempo» ciclico, quello che segna il
ritorno al Principio di tutte le forme manifestate, il «cibo di Dio», per cui
Dio dice: «Il digiuno è Mio ed Io ne sono la ricompensa» (hadîth qudsî).
[41] Cfr. R. GUÉNON, L’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta,
Milano 1992, p. 85.
[42] Cfr. supra n. 28.
[43] Due esempi per tutti:
in sanscrito le radici svar,
«risplendere» (da cui sûrya, «sole»),
e svr, «suonare» o «risuonare» (da cui svara, «nota musicale»), ma anche, talvolta, «splendere»; e ancora
la radice arc, che significa sia
«splendere» che «intonare», da cui arka,
che significa sia «splendore» che «inno». Vedere A.K. COOMARASWAMY, Selected Papers 2 : Metaphysics, cit.,
pp. 192-197.
[44] Secondo JAIMINI, «la
connessione (sambandha) d’una parola
(sabda) col suo significato (artha)
è intriseca (o innata, autpattika)» (Mîmâmsâ-Sûtra
I.1.5). Nel suo commento, SÂBARA
precisa che sabda va inteso come riferentesi alle parole (padas) che compongono il Veda, la cui
eternità deriva dalla «natura innata» (autpattika),
ossia eterna o immutabile (nitya),
che le unice al loro significato (vedere il Sâbara-Bhâsya, trad. di G. JHA, Baroda 1973, vol. I, pp. 8-31). È a
partire da ciò che i Mîmâmsaka
desumono anche lo stato increato (apauruseyatva), l’infallibilità (avyatireka) e la validità intrinseca (svatahprâmânya) dei Veda. Questo punto ha
animato il dibattito tra le diverse scuole del pensiero hindu, portando a
formulazioni tra loro anche molto distanti quanto alla natura della parola e il
suo significato, e tocca, in ultima analisi, il concetto degli «universali» (jâti). Cfr. K.S. MURTY, Revelation and Reason in Advaita Vedânta,
Delhi 1974 (in particolare pp. 25-52, sulla concezione del Veda secondo
l’Advaita e la sua eternità), e R.R. DRAVID,
The Problem of Universals in Indian Philosophy, Delhi 1972.
[45] I nomi delle cose o,
secondo Ibn ‘Arabî, la totalità dei Nomi divini (sarebbe come dire i Visvedevah a cui è rivolto il primo sacrificio del Manu), il che significa
un po’ la stessa cosa, poiché solo conoscendo i Nomi divini, ossia i principi
essenziali di tutta la manifestazione, si possono «chiamare» in essere le forme
fenomeniche.
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