"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 21 settembre 2017

Satcidānandendra Sarasvatī, Commento a Le Cinque Gemme dell’Advaita di Śrī Śaṃkarācārya - 3/7


Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja
Commento a «Le Cinque Gemme dell’Advaita»
di Śrī Śaṃkarācārya - 3/7
(Advaita Pañcaratnam)

1 - Ātmānātma viveka
La ragione per cui la gente comune non raggiunge la conoscenza intuitiva, che è descritta come: «Noi siamo dell’essenza stessa di Paramātman, della natura stessa (svarūpa) di Śiva», è dovuta proprio all’assenza dell’ātmānātma viveka di cui s’è detto nell’introduzione[1]
Ātman significa il Sé e anātman indica quello che è non-Sé. Ci si potrà chiedere cos’è l’Ātman come propria essenza assoluta. E ancora: cos’è anātman, ossia tutte quelle cose e quei fenomeni distinti dal Sé? Si deve usare la discriminazione in modo intuitivo, cioè non solo usando l’intelletto (buddhi). Nel linguaggio vedāntico si chiama ātmānātma viveka la capacità di riconoscere la distinzione di natura essenziale fra essi. Poiché le persone in generale non possiedono questo viveka, credono invariabilmente che il corpo, i sensi e la mente siano il loro vero essere. A causa di questa idea, essi si formano la seguente convinzione: «Sono nato da tali genitori, in un dato tempo, in un certo luogo di una specifica regione della terra, parte di questo grande universo. Dopo aver ricevuto un’educazione, ho seguito una mia vocazione; mi sono sposato, ho moglie, figli e parenti e, come tutti gli altri, dopo esser vissuto per il numero di anni che mi sono stati concessi dall’Onnipotente, morirò.»
La mente di tali persone sarà tormentata da questo dubbio: «Come posso raggiungere la certezza che io sono l’eternamente puro e libero Parameśvara? Com’è possibile che sia proprio quell’Īśvara stesso, io che vivo per pochi anni in un angolo di questo vasto universo manifestato da Parameśvara e che certamente morirò?» Quindi, per liberarsi da questa concezione erronea, il sincero mumukṣu e cercatore di alto livello, spinto dall’unica aspirazione di raggiungere mokṣa (Liberazione) qui e ora in questa vita, dovrà attuare il metodo di ātmānātma viveka com’è esposto nel primo verso.
1. Io non sono il corpo, non sono i sensi, non sono la mente, non sono l’ego, non sono i prāṇa, non sono l’intelletto. Io sono quello che è lontano dalla moglie, dai figli, dal podere, dalla casa ecc. In verità io sono quello Śiva che è Testimone diretto, che è l’eterno e intimo Sé.
Commento: Qui tutti gli anātman che la gente comune ha creduto essere l’“Io” sono stati rimossi e confutati uno a uno.
A) Io non sono né il corpo né i sensi
Alcuni hanno considerato il corpo e i sensi come se fossero il proprio Sé. Le cose grossolane che si vedono nel mondo esterno, come la pietra, la sabbia ecc., non sono senzienti né coscienti. Queste cose non si muovono da sé; in esse i segnali che provano l’esistenza della coscienza, come l’inspirazione, l’espirazione, la circolazione sanguigna, sono assenti e nemmeno possono vedere né udire. Per queste ragioni c’è una differenza tra le cose inanimate e gli esseri umani. Noi siamo cetana o esseri animati, mentre quelli sono jaḍavastu, cose grossolane e inanimate. Così si pensa comunemente. Altri hanno discriminato ulteriormente considerando che le cose sono entità prive di vita, mentre noi, esseri umani, siamo viventi. Le cose prive di vita subiscono certe trasformazioni e possono diventare parte di forme corporee dotate di sensi e di vita, perciò, considerati dal punto di vista della loro natura essenziale, il corpo, i sensi e anche le cose esteriori sono un’unica e medesima cosa. Comunque, noi esseri umani possediamo la capacità di conoscere le cose esterne e anche la facoltà di utilizzarle a nostro beneficio. Per questo chiamiamo gli oggetti esterni con i pronomi “questo” o “quello”, mentre chiamiamo l’aggregato di corpo e sensi “Io”[2].
Ma le due opinioni summenzionate non sono esatte. Se l’aggregato del corpo e dei sensi fosse la stessa entità o sostanza chiamata “Io”, allora in ciascuna delle parti o membra del corpo, come anche in ciascun senso, non dovrebbe esistere la consapevolezza o coscienza dell’“Io”? Ma noi tutti condividiamo l’esperienza che in ognuno degli organi, membra e sensi c’è una innata consapevolezza d’un solo “Io”. Infatti si dice “Io” cammino, “Io” annuso, “Io” vedo, “Io” tocco. Ma v’è anche un altro punto da considerare: il corpo ha molte parti, organi, e diversi sensi. Se ognuno di questi fosse l’entità chiamata “Io”, com’è che quell’entità, che possiede i diversi sensi, non ha coscienza di essere “molti” e, invece, si esprime sempre come un unico “Io”? Infatti, noi tutti abbiamo la profonda e innata nozione di questa entità chiamata “Io” come una e una sola. Qual è la ragione di ciò?
Obiezione: Nel caso delle parti e organi del corpo, in quello dei sensi, o nella loro reciproca aggregazione, si può pensare che ognuno di questi sia l’entità chiamata “Io”?
Risposta: Nel corpo e nei sensi avvengono continui cambiamenti e mutazioni. Se fosse vero che le parti del corpo e i vari sensi fossero il nostro “Io” dovremmo pensare che tutti quei cambiamenti sono accaduti in me. Ma la realtà non è questa. Noi diciamo agli altri: «I miei occhi sono diventati deboli, le mie gambe zoppicano.» Se gli occhi e le gambe fossero veramente noi stessi, cioè se fossero identici all’“Io” allora quando diciamo: «I miei occhi..., le mie gambe» affermeremmo l’idea assurda che esista un “Io” attribuito a me stesso, un altro “io” attribuito agli occhi e un altro ancora alle gambe. A questo proposito possiamo portare un’altra esperienza condivisa da tutti: poiché con le nostre mani e piedi possiamo afferrare oggetti esterni o respingerli, è evidente che queste cose esterne sono differenti da noi. Allo stesso modo qualsiasi parte od organo del nostro corpo può essere rimosso, ma per questo non ci consideriamo rimossi noi stessi. Se il chirurgo amputa una parte dolorante dal nostro corpo, non consideriamo affatto che la parte che giace a terra è me stesso, poiché, una volta separata dal corpo, non c’è più identificazione con la parte amputata. Allo stesso modo il muco, lo sputo, la saliva, il sudore, i capelli, il vomito, le unghie, tutte queste parti del corpo possono essere staccate da esso o rimanervi unite. Quando esse giacciono per terra, ci fanno schifo e non ci s’identificherà mai più con esse come fossero una parte di noi stessi. La medesima argomentazione vale anche per i nostri sensi. Per essere più chiari, noi diciamo: «Il mio occhio, il mio orecchio, il mio naso». In questo medesimo modo si è soliti separare gli organi di senso da noi stessi e li consideriamo diversi. Vale a dire che gli organi di senso sono parti separabili dal mio corpo, non essendo il mio “Io” nella sua interezza. Infatti, si tratta solo di organi che appartengono a me. Se si vuole procedere oltre in un’indagine più approfondita, allora l’occhio, l’orecchio, il naso ecc., sono in realtà organi di sensazione e non i sensi in quanto tali. I sensi funzionano all’interno e per mezzo di questi organi di senso, chiamati in linguaggio vedāntico indriya golaka; ed esattamente come consideriamo gli organi di senso separati da noi, così anche distinguiamo da noi le facoltà sottili di conoscenza (jñānendriya) quali la vista, l’udito, l’odorato ecc. Vale a dire che tutti questi cinque sensi sono passibili d’essere oggetto della nostra coscienza. Per esempio, quando le facoltà di senso, che dimorano in questi organi corporei corrispondenti, si indeboliscono o s’arrestano, nessuno crede veramente che noi stessi subiamo o sperimentiamo il cambiamento. Si dice, infatti, che la vista s’appanna, l’udito s’indebolisce e non che l’“Io” s’appanna o s’indebolisce. Perciò si può definitivamente concludere che i sensi non sono l’“Io”.
In ogni caso, la conclusione a cui s’arriva dopo tutte queste discriminazioni è che il corpo e i sensi sono molteplici, ma l’“Io” è solo uno. Inoltre, il corpo e i sensi subiscono cambiamenti e mutazioni, mentre l’“Io” è immutabile; il corpo e i sensi sono oggetti della conoscenza, mentre l’“Io” è il soggetto che li conosce. Perciò il corpo e i sensi sono proprio come la pietra, la sabbia e il pezzo di legno del mondo esterno. Sono cioè solo oggetti fisici o sostanze, poiché sono oggetti grossolani e non senzienti. “Io” non sono affatto uno di quelli. L’entità cosciente che conosce tutti quelli è veramente questo “Io”.
A questo punto può sorgere un dubbio: se il corpo e i sensi non sono cose senzienti e coscienti, e se sono oggetti grossolani e non senzienti come la pietra ecc., allora che cos’è la capacità senziente che appare in loro? Conoscere gli oggetti, desiderarli e impadronirsene, oppure respingerli e tenersi lontano da loro, tutti questi sono segni che si manifestano in ciò che è senziente e cosciente. Questi segnali che sono riscontrabili proprio nel corpo e nei sensi, e che non si trovano né si avvertono nella pietra ecc., da dove, dunque, provengono?
Una possibile soluzione (samādhāna) a questo dubbio è che i segni, che indicano una certa coscienza o sensibilità in verità in essi non esistono. Una locomotiva corre, un magnete attrae un pezzo di ferro, una lente ingrandisce un oggetto minuscolo; ma in ragione di queste loro proprietà c’è forse qualcuno che possa pensare che quegli oggetti grossolani siano coscienti o senzienti? Ammettiamo pure che ci sia in loro una certa quantità di energia, di movimento o di attività nel corpo e nei sensi; ma sicuramente non si tratta di coscienza o di una facoltà senziente dato che corpo e sensi non sono in grado di “utilizzare” il loro movimento, l’attività o l’energia, a loro vantaggio. Infatti, coloro che usano questi corpi e questi sensi sono gli esseri coscienti e senzienti, cioè i cetana. Il corpo e i sensi ci appartengono e noi li usiamo a nostro beneficio, perciò noi siamo cetana ed essi sono oggetti grossolani. Pensare che nei sensi ci sia coscienza o capacità senziente è del tutto errato. Perché noi conosciamo i sensi, ossia siamo consci di essi ed essi sono oggetti della nostra coscienza. Proprio come attraverso un telescopio osserviamo cose minute nel vasto spazio, così percepiamo attraverso i sensi gli oggetti esterni. Perciò i sensi sono fenomeni grossolani non senzienti; essi per noi sono solo mezzi di conoscenza e di percezione, e noi, che conosciamo per mezzo di questi strumenti, siamo i veri esseri coscienti.
Così si stabilisce che né il corpo né i sensi sono il nostro intimo “Io” innato. Dapprima, la prova dialettica (yukti) stabilisce che oggetti conoscibili come il corpo e i sensi non sono per nulla il principio conoscitore-cosciente dell’Io. Ma in noi esiste anche un altro strumento che ci permette di conoscere questi fenomeni, corpo e sensi, ed è chiamato mente (manas). Poiché proprio questo strumento interno conosce le altre cose, qui può sorgere il seguente dubbio: non è forse che proprio questa mente sia l’“Io”? Il dubbio è privo di fondamento.
B) Io non sono la mente né l’ego
All’inizio si pensa: «Io [aham] sono grasso, io sono di carnagione chiara, io sono giovane, io vedo, io odo». Poi, quando si discrimina, si diventa coscienti della diversità del corpo e dei sensi dall’“Io”, e allora si dice: «il mio [mama] corpo, il mio occhio, il mio udito». Corpo e sensi diventano, dunque, oggetti della nostra coscienza-conoscenza ed, esattamente come si è detto prima, sono riconosciuti come transitori. Perciò diventa evidente che noi non siamo né il corpo né i sensi. Così quando si pensa: “la mia mente”, questa mente, che per la nostra coscienza è un oggetto distinto, deve per forza essere separata e distinta dall’“Io”. Infatti, “Io” conosco con la mente usandola come uno strumento, ma non è che sia la mente in quanto tale che conosce. L’esempio summenzionato del telescopio può valere anche in questo contesto. Come il telescopio, che è indiscutibilmente un oggetto grossolano e non senziente, diventa un valido mezzo (pramāṇa) per osservare e conoscere gli oggetti minuscoli nello spazio, così anche la mente è uno strumento di conoscenza. I sensi sono strumenti esterni (bahiḥkāraṇa), vale a dire mezzi atti a percepire e conoscere gli oggetti nel mondo esterno; la mente (manas), invece, è lo strumento interno (antaḥkāraṇa), cioè il mezzo di conoscenza situato nel corpo a livello psichico. Comunque sia, lo strumento (kāraṇa) è solo un mezzo grossolano[3] e non senziente. L’“Io” che usa la mente come uno strumento, è in verità l’essere cosciente. Inoltre, la mente è ondivaga e mutevole. Possiamo conoscere un oggetto con la mente solo se la mente non è distratta e quando è collegata ai sensi. Per questa ragione spesso, anche quando udiamo un suono o vediamo un oggetto diciamo: «Cos’hai detto? Non ho sentito chiaramente. Sembra che qualcuno sia venuto e sia andato via. Non ho fatto caso». In certe occasioni la causa, per cui la mente non ha registrato o colto con la dovuta attenzione un suono o una forma, è dovuta al fatto che stava vagando altrove. Da ciò si deduce che la mente mutevole è diversa dall’“Io” stabile che sa conoscere i cambiamenti della mente.
Obiezione: Ammettiamo pure quello che è stato detto sopra. Nei pensieri quotidiani come “io conobbi, io vidi, io udii ecc.” si presuppone una conoscenza da parte dell’“Io”. In ognuna di queste azioni conoscitive c’è l’“Io”. Questo “Io” è la nostra natura essenziale o no? Se quell’“Io” è proprio la nostra natura essenziale, allora la credenza dell’uomo comune che afferma: «Io sono nel corpo, io conosco con la mente, io agisco per mezzo del corpo e dei sensi, il corpo esiste in una regione del mondo», è forse la corretta conoscenza? Se è così, come si può considerare sbagliato il pensiero dell’uomo comune? E allora come si può sostenere che: «Io sono Parameśvara, il Signore e Creatore eternamente puro e libero»?
Risposta: Quando usiamo l’io per le nostre azioni quotidiane, quell’io che è associato con ognuna di esse non è la reale essenza del nostro essere. È solo lo strumento interno (antaḥkāraṇa) della mente menzionato prima, che appare in noi in questa forma. I vedāntin chiamano mente (manas) quella modificazione dell’organo interno (antaḥkāraṇa) che compie l’azione di conoscere gli oggetti tramite i sensi. Invece la modificazione dell’organo interno che assume la forma di agente (kartṛ) dell’azione conoscitiva, la chiamano ahaṃkāra. Eccetto questa distinzione per cui appare come agente (kartṛ) e strumento d’azione (kāraṇa), ahaṃkāra non è per nulla differente da manas. Infatti, entrambi sono modificazioni e mutazioni di antaḥkāraṇa. Perciò, proprio come la mente è distinta dal nostro “Io” [Ātman], vale a dire dalla nostra reale natura, allo stesso modo quest’ahaṃkāra che chiamiamo io individuale (aham) esiste separatamente dalla nostra essenziale e reale natura di pura coscienza (caitanya svarūpa).
Per comprendere la verità che ahaṃkāra differisce dalla nostra natura essenziale, dobbiamo osservare molto attentamente certe condizioni. Nelle nostre azioni quotidiane la mente raramente è oggetto della nostra indagine; e altrettanto raramente s’indaga su questo ahaṃkāra. Sempre che non si faccia uno sforzo per prestarle attenzione, la nozione dell’“Io” non sorge in noi chiaramente perché siamo immersi e presi solo dagli oggetti grossolani esterni. L’ahaṃkāra diventa oggetto di conoscenza-coscienza soltanto per coloro che hanno deciso d’indagare sull’ultima assoluta Realtà separando l’“Io” da “questo” (idam). Per tutti gli altri questa nozione di aham come oggetto non è facilmente conoscibile; in maniera particolare ciò avviene quando si è in sonno profondo, perché lì non c’è alcuna traccia di questa nozione di “io”. Ciò nonostante nessuno può pensare che in sonno profondo la nostra natura essenziale (svarūpa) non esista. Perciò questa nozione di “io”, presente solo nella veglia e nel sogno, usato come strumento per le nostre azioni quotidiane in quei due stati (avasthā) di coscienza, in quanto ahaṃkāra appare distintamente separato dalla propria vera natura (svarūpa). Questa è la nostra conclusione finale.
C) Io non sono la buddhi o intelletto
Oltre ad ahaṃkāra e manas, antaḥkāraṇa ha una terza forma che è la buddhi, l’intelletto. Quando i sensi riportano la conoscenza degli oggetti esterni, essa è la funzione della mente che li conosce uno a uno; quando queste conoscenze individuali sono congiunte dalla mente e quest’ultima le presenta all’intelletto, esso le determina in questo modo: «Questa è una tal cosa». Allora ahaṃkāra, l’ego, o la nozione dell’“io”, che dir si voglia, si sente orgogliosa e pensa: «Ho raggiunto questa conoscenza; la conosco così e così». Allora, come conseguenza della conoscenza degli oggetti esterni, si prova sia felicità (sukha) sia dolore (duḥkha). Antaḥkāraṇa è lo strumento unico che genera questi sukha e duḥkha, per fruirne, sperimentarli e conoscerli distintamente. In ogni modo, giacché anche l’intelletto è, come l’ego, semplicemente uno strumento di cognizione, ed è da noi conosciuto, si conclude che anche l’intelletto è distinto dalla nostra vera natura (svarūpa). Le modificazioni che avvengono in antaḥkāraṇa nelle sue forme di manas, buddhi[4] e ahaṃkāra, come anche i susseguenti cambiamenti, felicità (sukha) e dolore (duḥkha), desiderio (kāma), ira (krodha), paura (bhaya), vergogna (lajjā) ecc., sono chiamate vṛtti o costruzioni mentali. La mente, l’intelletto e l’ego ecc. sono vṛtti rivolte all’azione cognitiva, mentre la felicità, il dolore ecc. sono vṛtti chiamate vedana (sensazioni, sentimenti), prodotte dall’esperienza (anubhava) degli oggetti esterni. Poiché tutte queste vṛtti avvengono nel solo antaḥkāraṇa e poiché questo antaḥkāraṇa è semplicemente uno strumento, sādhana[5], è evidente che il mio vero “Io”, che usa questo strumento, è distinto da questo antaḥkāraṇa e dalle sue vṛtti; nessuna di queste è in verità la mia vera natura (svarūpa). Così dovrebbe pensare un viveki.
D) Io non sono i prāṇa
Alcuni in questo mondo hanno pensato che: «Noi non siamo né il corpo né i sensi né la mente né l’intelletto né l’ego. Siamo solamente chi utilizza tutti questi a nostro vantaggio e beneficio. Per esempio: quando voglio, io alzo il mio braccio, se ne ho abbastanza, lo abbasso; se voglio un oggetto, lo afferro, se non lo voglio lo respingo; se mi piace un argomento, mi concentro e penso a quello; se non m’interessa lo trascuro e lo dimentico; nel sonno profondo io dissolvo l’ahaṃkāra, cioè l’ego, e la mente. Oppure, senza permetter loro di vagare qua e là, li fermo in un punto. Così quella entità al cui comando il corpo e i sensi obbediscono, è essa stessa quell’“Io”».
Questa opinione non è corretta, perché il potere che fa in modo che il corpo e le facoltà d’azione (karmendriya) funzionino è chiamato prāṇa. Il sostrato di quel prāṇa è il mio Sé, vale a dire l’“io”. Proprio come l’ahaṃkāra il manas e la buddhi menzionati prima sono in relazione con i jñānendriya, così sono anche in relazione con il prāṇa. Pensando: «Io conosco questo oggetto» noi indichiamo chiaramente che l’“io” è ahaṃkāra, l’aspetto cognitivo è manas e la decisione della conoscenza cognitiva è fatta dalla buddhi; allo stesso modo possiamo determinare l’aspetto motorio del prāṇa in tutte le azioni del corpo e dei karmendriya. Vale a dire che quando noi diciamo: «Io compio questa o quell’azione», l’aspetto che assume il ruolo di agente dell’azione (kartṛbhava) è ahaṃkāra; lo strumento o mezzo che concepisce l’azione è manas, e quello che prende la responsabilità della decisione di compiere l’azione è buddhi. In questo modo il prāṇa inizia a funzionare solo dopo una definitiva decisione a compiere una determinata azione. Il fatto che ahaṃkāra ecc. siano anātman è stato già chiarito prima. Perciò anche prāṇa, che funziona con supporto di quegli anātman è necessariamente solo anātman e non il mio Sé reale, e questa verità, ora, di impone da sola. Oltre al prāṇa che entra in funzione nella veglia a nostra volontà, il prāṇa agisce anche autonomamente. Per esempio, il respiro, il battito cardiaco, la circolazione del sangue, la produzione dei vari succhi come la bile, che sono secreti da diverse ghiandole e organi, l’escrezione dal corpo dell’urina e delle feci ecc., tutte queste funzioni involontarie sono compiute senza alcun intervento della nostra volontà. Poiché questa prāṇaśakti, forza vitale, agisce in vario modo nel nostro corpo, alcuni testi scritturali dicono che questo prāṇa ha cinque vṛtti, o modificazioni, cioè prāṇa, apāna, samāna, vyaṇa e udāna[6]. Queste prāṇavṛtti, sono convenzionalmente chiamate prāṇabheda, o modalità differenziate della forza vitale. Se vogliamo, possiamo immaginare che nello stato di veglia, in cui noi tutti abbiamo una relazione o associazione con il corpo, i sensi ecc., ne abbiamo anche una con il prāṇa: ma nello stato di sonno profondo, in cui non si ha alcuna relazione con nessuna altra cosa se non con il proprio Essere, è evidente che non se ne ha nemmeno con alcuna funzione prāṇica. Quando siamo svegli possiamo osservare altri che dormono e da questo deduciamo che durante il nostro sonno profondo, senza essere coscienti, molte funzioni continuino ad agire. Ma questo è quanto immaginiamo durante la veglia, perché del nostro sonno profondo non abbiamo alcuna esperienza in questo senso. Infatti, nel sonno profondo, che noi sperimentiamo intuitivamente e direttamente, non abbiamo alcuna prova che i prāṇa siano in funzione, oppure no.
Allo scopo di determinare l’ultima Realtà, l’esperienza intuitiva, anubhava, è uno strumento più forte dell’immaginazione o della deduzione. Perciò la corretta interpretazione da assumere deve essere: «Il nostro svarūpa non ha alcuna relazione con il prāṇa né con l’antaḥkāraṇa che è il suo sostrato, per le seguenti ragioni: 1) le prāṇaśakti sono molteplici; 2) anche esse subiscono mutamenti; 3) sono conosciute da noi come oggetti; 4) nel sonno profondo sono completamente assenti». Si stabilisce così definitivamente e senza equivoco che anche i prāṇa sono di natura grossolana[7], diversi dalla nostra vera natura (svarūpa); e, di conseguenza se ne trae che solo la nostra vera natura è cosciente. Il nostro svarūpa è diverso e separato da loro, perciò è capace di conoscerli.
E) Io sono colui che è distaccato dal mio, dalla moglie, dai figli, dalla proprietà e dalle ricchezze
Così, con la discriminazione basata sull’anubhava è chiaro ed evidente che né il corpo né i sensi né la mente né l’intelletto né il prāṇa sono il nostro Sé. Ora, seguendo il processo di discriminazione, si giunge a quest’altra verità assiomatica: gli oggetti, come i figli ecc., che sono responsabili dell’egoismo, non sono affatto in relazione con il nostro svarūpa. Perché solo in coloro che sono fortemente identificati agli anātman, come corpo e sensi, c’è una forte identificazione con oggetti come moglie, figli, casa, denaro, ricchezze. Alcuni arrivano persino a identificarsi con le loro proprietà. Di conseguenza essi pensano che se moglie e figli sono felici o infelici, anche loro si sentono felici o infelici; si ritengono contenti d’aumentare le loro proprietà e si disperano se le perdono. Invece, con il potere della discriminazione, coloro che hanno ricevuto questo insegnamento spirituale riescono a riconoscere che tali identificazioni sono errate e che in realtà nessuno di quegli oggetti è la loro vera natura: e allora se ne distaccano. È vero che questi attaccamenti sembrano molto intimamente collegati a noi; ma non appare la stessa cosa anche nel sogno? Sebbene la moglie e i figli che abbiamo nel sogno sembrino nostri, quando ci svegliamo capiamo che non hanno alcuna relazione con noi. Così, anche la relazione che pare esistere nella veglia è una mera apparenza, non è affatto reale. Dunque, dobbiamo decidere e concludere in questo modo.
F) Io sono il Sākṣin, l’eterno pratygātman (intimo Sé)
Ora si pone un’altra questione. Se questa manifestazione dell’“Io” che utilizziamo nelle nostre azioni quotidiane non è né il corpo, né i sensi, né la mente, né l’ahaṃkāra che appare come “io”, allora a parte tutte queste cose, qual è la nostra natura essenziale? E come possiamo provarne l’esistenza? Quelli che si pongono questa domanda hanno una inclinazione e un’attrazione per gli anātman esterni, giacché il corpo e gli altri componenti individuali sono tutti oggetti, ossia cose conoscibili. La natura essenziale dell’essere cosciente è però distinta e separata da questi, come è già stato dimostrato. Stando così le cose, affermando semplicemente che: «Nessuno degli oggetti conosciuti come corpo ecc, è me stesso», come si può stabilire che l’“Io” conoscente non esiste?
Obiezione: Anche se accettiamo che né il corpo né i sensi abbiano coscienza o conoscenza, noi tutti dobbiamo per forza ammettere che nel nostro antaḥkāraṇa esiste coscienza; perché se non usassimo l’antaḥkāraṇa non potremmo raggiungere alcuna conoscenza degli oggetti esterni, delle emozioni e delle intellezioni. Allora, se eliminiamo ahaṃkāra come sostrato cosciente della conoscenza e diciamo che tuttavia esiste un’altra natura più essenziale dell’essere, con cosa potremmo provarne l’esistenza? Inoltre, in che modo possiamo provare che in quell’entità più essenziale esista una coscienza-conoscente? La tua affermazione che questo ahaṃkāra individuale non esiste in sonno profondo è vera; ma in quello stato noi non abbiamo alcuna conoscenza-coscienza. Perciò in base all’esperienza del sonno profondo possiamo concludere che al di là dell’antaḥkāraṇa non esiste nulla.
Risposta del Vedāntin: È vero che sembra esserci coscienza nel nostro antaḥkāraṇa. Ma noi tuttavia possiamo conoscere il nostro antaḥkāraṇa, lo osserviamo nella nostra esperienza intuitiva (anubhava). Perciò anche antaḥkāraṇa diventa oggetto. Ciò significa che la nostra natura essenziale è separata da esso. [Prima ti sei detto disposto ad ammettere che né il corpo né i sensi abbiano coscienza o conoscenza] perché antaḥkāraṇa, vale a dire la nozione dell’“io”, conosce le cose esterne e gli altri oggetti. Da ciò hai dedotto che solo in antaḥkāraṇa esiste coscienza. Dato che i sensi conoscono gli oggetti esterni, perché allora non dovresti sostenere che anche negli indriya ecc. esiste coscienza? Invece correttamente hai ammesso che: a) i sensi sono oggettivati da antaḥkāraṇa; b) le funzioni di questi sensi quando conoscono e quando non conoscono, dipendono da antaḥkāraṇa a cui sono collegati, perciò la coscienza che esiste in loro pare essere l’antaḥkāraṇa. Perciò, similmente, devi ammettere che la nostra natura di puro Essere conosce come oggetti le funzioni dell’antaḥkāraṇa sia quando conosce, durante la veglia e il sogno, sia quando non conosce, come nel sonno profondo. Perciò per la nostra vera natura anche antaḥkāraṇa è un oggetto. Ciò significa che il nostro svarūpa deve essere necessariamente separato e diverso da antaḥkāraṇa, poiché anche la coscienza-conoscenza che attribuiamo ad antaḥkāraṇa, dipende dallo svarūpa. O meglio, la Coscienza-conoscenza appartiene proprio al nostro puro Essere. Allora si trae da questo ragionamento intuitivo che la pura Coscienza (śuddha caitanya) è il nostro stesso svarūpa.
Il nostro svarūpa caitanya è il Sākṣin, la Coscienza-Testimone. Ciò significa che è capace di conoscere l’intera serie di non-Sé, direttamente, intuitivamente, vale a dire che non ha bisogno di alcun mezzo che faccia da intermediario. La mente[8], i sensi ecc. non conoscono i loro rispettivi oggetti direttamente, intuitivamente. Solo se hanno un certo aiuto esterno sono capaci di conoscere. Per esempio: se la mente deve conoscere un bel quadro o uno scenario ha bisogno del senso della vista; e quest’ultimo senso deve appoggiarsi all’organo corrispondente, gli occhi; gli occhi hanno bisogno anche dell’aiuto della luce. Così tutti gli altri soggetti conoscenti (jñātā viṣaya) possono conoscere mantenendo una distanza o separazione dai loro oggetti (vastu). Ma questo nostro svarūpa non conosce né intuisce affatto l’antaḥkāraṇa e il resto degli anātman in questo modo; egli illumina direttamente e intuitivamente qualsiasi oggetto che gli si ponga davanti, senza nessun vyavadhāna o intervallo, come pure senza aver bisogno di alcuno strumento (kāraṇa) o mezzo di conoscenza (pramāṇa).
Per questa ragione è nitya o eterno, perenne. Nitya significa privo di limitazioni o restrizioni temporali: il tempo è soltanto una costruzione mentale che appare al nostro intelletto durante la veglia. Poiché tutti gli oggetti che ci appaiono in veglia devono per forza invariabilmente apparire nel tempo, dobbiamo considerarli oggetti non reali in quanto condizionati dal tempo. Ma il nostro svarūpa, che illumina per mezzo della coscienza l’intera totalità di anātman limitati dal tempo, non è toccato o contaminato dal tempo che non lo può limitare né condizionare. Perciò caitanya non è sottoposto ad alcun cambiamento come lo sono gli oggetti condizionati dal tempo. Per questa ragione caitanya è anche chiamato kūṭastha, immobile. Kuṭa significa una sostanza di grande mole come una montagna. Come la montagna non si muove né vacilla anche quando è colpita da una forte tempesta, così caitanya, che è il nostro svarūpa, non subisce alcun cambiamento o mutazione nella sua essenza.
Nel linguaggio comune la parola nitya, ha un altro significato, perciò si deve prestare attenzione al contesto: qualsiasi cosa sia sottoposta a continui cambiamenti, ma che perdura nel tempo, è anch’essa inappropriatamente chiamata nitya[9]. Per esempio, non è forse vero che crediamo che questa nostra terra esista da lunghissimo tempo? Ma, secondo i geologi, la terra non è rimasta tale com’era mille anni fa senza subire alcun cambiamento; e fra cent’anni non sarà come adesso. Ciò nonostante è chiamata nitya o permanente nel linguaggio ordinario. Secondo il punto di vista delle scienze empiriche o fisiche, la “materia” o sostanza (dravya) non è mai distrutta. Può subire cambiamenti, mutazioni, trasformazioni ecc., ma la sua sostanza composta di particelle infinitesimali non diventa mai non-esistenza. Secondo questa teoria anche se noi sostenessimo o credessimo che la nostra terra possa essere completamente distrutta, la sua materia o sostanza dovrebbe comunque esistere in un’altra forma impercettibile. Ciò vuol dire che questa terra nella sua materia “elementare” è una entità perennemente mutevole. Questi tipi di entità, come per esempio i cinque elementi, sono chiamati parināmi nitya, perennemente in trasformazione. Ma quando affermiamo che caitanya è il nostro svarūpa, non intendiamo appellarci a questo uso ordinario del termine nitya, perché la Coscienza-conoscenza non esiste nel tempo né è sottoposta al parināma, cioè a qualsiasi trasformazione o mutazione. Caitanya è immutabile (nirvikāra), ossia è kūṭastha nitya vastu, vale a dire che non è cosa che faccia parte del dominio di un qualsiasi cambiamento. Oltre a ciò questo caitanya riguarda l’Ātman (pratyagātman) ossia lo svarūpa che sta nel nostro intimo.
Come abbiamo già detto sopra, talvolta pensiamo d’essere il corpo, talaltra pensiamo d’essere i sensi. Ma l’esistenza del corpo è sempre associata con la conoscenza dei sensi, quindi possiamo pensare e immaginare che i sensi siano un’essenza più interna rispetto al nostro corpo, intendendo che fra i due, i sensi siano la nostra vera essenza o svarūpa. Allo stesso modo possiamo continuare questa discriminazione e man mano, sul filo del medesimo ragionamento, concludere che il prāṇa, manas, buddhi e ahaṃkāra siano il nostro svarūpa più interno. Ciò avviene in quanto arriviamo a intuire che, lasciando progressivamente la componente più esteriore per considerare quella più interna, quest’ultima apparirà dotata d’una esistenza superiore alla precedente. Inoltre, comprendiamo anche che l’esistenza dell’ultima componente si appoggia sulla precedente. Perciò anche dopo essere arrivati ad ahaṃkāra è evidente che non abbiamo raggiunto il nostro Ātman, cioè il nostro reale e assoluto svarūpa. Come s’è detto, questo avviene perché il Sākṣin ha illuminato con il suo caitanya tutti i costituenti del nostro aggregato, da ahaṃkāra fino al corpo. Ha prestato la sua esistenza anche al più sottile tra questi, cioè ahaṃkāra, perciò questo stesso Sākṣin caitanya è la nostra essenza più intima, l’Ātman. Dal punto di vista metafisico, soltanto quel Sākṣin caitanya dovrebbe essere chiamato “Io”. In verità la luce divina del Sākṣin caitanya è diffusa in tutti quei costituenti, dall’ego (ahaṃkāra), all’intelletto (buddhi), alla mente (manas), al corpo (śarīra), e solo per questa ragione, nei nostri pensieri ordinari, tutti questi possono essere considerati come se fossero l’“Io”. Ma se osserviamo intuitivamente questi ahaṃkāra, buddhi e manas ecc., essi non sono affatto il nostro Ātman reale. Sono considerati come il nostro Ātman a causa della conoscenza erronea (mithyā). Perciò Sākṣin caitanya, che è all’ interno di queste cose manifestate, e che, in realtà, è l’Ātman di tutte quelle, è lui stesso il nostro Paramātman.
G) Io sono Śiva
Coloro che in questo modo compiono la discriminazione intuitiva distinguendo tra Ātman e anātman e conoscono il loro pratyagātman, non sono illusi dai seguenti falsi pensieri, come: «Esistiamo in questo mondo; questi corpi che appaiono nel mondo sono veramente noi stessi; come noi esistono molti altri in questo mondo e tra questi ci sono persone amiche altre nemiche e altre indifferenti.» Infatti costoro hanno conosciuto con la loro esperienza intuitiva e sanno che: «Siamo veramente soltanto Śiva svarūpa che è il sostrato di tutte queste apparenze, ma che non è contaminato o toccato da nessuna di esse.» Solo questi santi uomini realizzano la più elevata conoscenza intuitiva dell’identità con Īśvara, il Signore che manifesta tutto l’universo, com’è detto nella Śvetāśvatara Upaniṣad: “Un essere divino sta in tutte le creature; è colui che abita all’interno di tutte le creature ed egli è il Signore che comanda e controlla tutte le azioni, colui che sta in tutte le creature, il Testimone, della natura di caitanya, pura coscienza, non duale, senza altro da lui; che non è relazionato o associato con nessun guṇa o qualsiasi qualità”1. Lo scopo ultimo di tutta l’esistenza umana è realizzare qui e ora durante questa vita che la conoscenza dell’“Io”2 è intuitiva, e che l’“Io” è identico in toto al nostro Śiva svarūpa. Si deve anche capire che il modo in cui appare è un errore e che è una sovrapposizione al nostro svarūpa.
La parola Śiva significa natura essenzialmente beata (maṅgala svarūpa). Parameśvara, il Signore supremo, il nostro Ātman, è in quanto tale l’essenza della più elevata beatitudine. In essa non sussiste alcun demerito o difetto che produca miseria o degrado. Tutto ciò che in questo mondo è considerato benefico dipende da lui, perché egli è l’Ātman. Tutti i desideri di coloro che lo ricordano e si dedicano a lui con intenzione incrollabile, sono esauditi. Infatti, solamente quando si raggiunge il proprio svarūpa e ci si stabilisce nella sua esperienza intuitiva si può affermare che è stato raggiunto lo scopo dell’umana esistenza (puruṣārtha) e si è diventati completi, perfetti, soddisfatti (kṛtākṛtya). Per tutte queste ragioni quel Parameśvara è chiamato Śiva ovunque, nella śruti e nella Gītā. Coloro che hanno intuito questo Ātman svarūpa, nel modo descritto nel verso precedente, che nella loro piena esperienza realizzano qui e ora, non sono altro che Śiva svarūpa e vivono senza più alcuna traccia di ansietà e dolore.



[1] Si tratta sempre del nityānitya viveka espresso con il termine equivalente di ātmānatma viveka [N.d.T.].
[2] Richiamiamo l’attenzione del lettore sull’uso al maiuscolo del pronome “Io” in questo breve testo. Con il nostro vero “Io”, infatti, qui s’allude al Sé interiore, all’Ātman. Tuttavia, proprio in ragione del processo di discriminazione (viveka), durante le prime fasi esso non è completamente distinto dall’“io” (aham). Per esempio, quando si distingue tra colui che è il soggetto che percepisce gli oggetti esterni, evidentemente quel soggetto dell’azione cognitiva è l’“Io”. Tuttavia questo “Io” è ancora confuso con l’“io” individuale e non è direttamente il Sé assoluto. Similmente, quando l’“Io” considera i propri sensi, la mente, l’intelletto come oggetti della sua cognizione, quell’Ātman non è ancora pensato nella sua assolutezza. Solamente quando il cercatore distingue dal proprio Sé l’“io” individuale (aham) come un oggetto contingente e illusorio, allora si raggiunge la vera conoscenza del proprio vero “Io”. Ma a questo punto non sarà più necessario considerarlo neppure come “Io”, dato che si sarà raggiunta la conoscenza-coscienza che la propria vera natura è soltanto il Sé, il puro ed eterno Paramātman [N.d.T.]. 
[3] È evidente che qui “grossolano” non significa letteralmente composto dai cinque elementi, poiché la mente è di natura sottile. Ma in comparazione con l’“Io”, essa appare più grezza, pesante e inerte [N.d.T.].
[4] Tuttavia le modificazioni della mente non sono le medesime di quelle dell’intelletto. Infatti manas, in base al suo grado d’intuizione, elabora i pensieri relativi alle informazioni sensoriali sugli oggetti esterni, percependoli come gradevoli o sgradevoli, giudicandoli secondo le categorie dell’istintiva attrazione (rāga) o repulsione (dveṣa) che prova per essi. Invece la buddhi elabora le sue discriminazioni soppesando se gli oggetti esterni possano essere a lei utili o inutili, benefici o nocivi. Per esempio, il manas può provare antipatia istintiva per una persona o per una situazione, ma la buddhi saprà controllare l’istintività della mente qualora decidesse che ciò potrebbe risultarle conveniente, vincendo così quell’avversione. Questo dimostra che l’intelletto si comporta da controllore della mente, agendo nei suoi confronti come fosse apparentemente il suo Sé [N.d.T.].
[5] Qui sinonimo di kāraṇa. Generalmente con sādhana s’intende il metodo o una specifica tecnica iniziatica, detta anche prakriyā. Da non confondere con sādhanā al femminile, che è la via o percorso iniziatico [N.d.T.].
[6] 1)-Prāṇa: l’inspirazione, considerata come una insufflazione attraverso le narici, dapprima in direzione ascendente fino alla base del cervello (mastiṣka), poi discendente fino al cuore e polmoni, dove deposita gli elementi sottili assorbiti dall’ambiente esterno, provenienti sia da jīva ghana, sia dalle eiezioni sottili emesse per espirazione dalla collettività degli esseri viventi. 2)-Apāna: l’aspirazione che scende dai polmoni fino alla base della colonna vertebrale, convogliando e diffondendo in tutte le arterie sottili (nāḍī) presenti nel corpo gli elementi assunti dall’esterno. Apāna deposita gli elementi utili che saranno assimilati nella fase successiva, all’altezza dell’ombelico, ossia nella regione del corpo dedicata alla funzione di assimilazione, mentre fa cadere verso il basso gli elementi inutili o i rifiuti dell’assimilazione per essere espulsi. Questo soffio è anche preposto ad attuare altre funzioni d’espulsione, come l’eiezione del feto o di corpi estranei dalle ferite. 3)-Samāna conclude la fase dell’ingestione di aria. Per questa ragione è considerato una pausa nel duplice processo della respirazione e, allo stesso tempo, esso coincide con il trattenimento del soffio nella regione inferiore del plesso solare. Samāna è la funzione assimilatrice e discriminatrice di ciò che è stato ingerito con la respirazione. 4)-Vyāna diffonde il soffio in tutto il corpo. Generalmente messo in relazione con il sistema circolatorio del sangue per la sua capillare diffusione in tutto il corpo, è il prāṇa che e colloca all’interno degli organi corporei gli elementi assimilati, rendendoli partecipi dell’organismo vivente. È perciò tra i pañcaprāṇa quello che anima e fa muovere i corpo. Allo stesso tempo sostituisce con gli elementi recenti quelli già sfruttati, abbandonandoli ad apāna per essere secreti. 5)-udāna, l’espirazione, ovvero la seconda fase della respirazione. Tramite l’aria emessa con udāna il corpo si libera anche delle componenti sottili: per esempio, se i rifiuti costituiti dagli elementi terra, acqua e fuoco, sono eliminati dagli organi di escrezione e dalla pelle (il sudore), i rifiuti o i componenti esausti dell’aria e dell’etere sono restituiti all’ambiente circostante proprio tramite l’espirazione. Similmente si disperdono anche gli scarti delle componenti sottili, sia prāṇiche sia concettuali, e in questo modo si restituisce a Hiraṇyagarbha quanto assimilato da lui tramite l’inspirazione. Poiché Hiraṇyagarbha deve essere considerato l’anima prāṇica generale del mondo in cui viviamo, le nostre componenti sottili così espirate si vanno a mescolare con quelle emesse da tutti gli altri esseri, viventi o già defunti, dando così forma a quella che si chiama “la mentalità” del tempo. Infatti con udāna avviene anche l’esalazione dell’ultimo respiro, che determina l’uscita del jīva accompagnato da tutte le componenti sottili e la conseguente morte del corpo (dehānta). [N. d. T.] 
[7] Anche in questo caso “grossolano” non significa composto dai cinque elementi, poiché i prāṇa sono di natura sottile; ma paragonati all’“Io”, appaiono più pesanti, sthūla [N.d.T.]. 
[8] Cioè mente, intelletto; queste parole oltre a essere interpretate come antaḥkāraṇa vṛtti, sono anche usate per rappresentare l’intero antaḥkāraṇa. Cioè, al fine di semplificare, in questo trattato abbiamo usato la parola manas per significare l’intero antaḥkāraṇa [N.d.T.]. 
[9] In simili casi, al fine di evitare ogni possibile equivoco, il Vedānta preferisce precisare che si tratta di pravaha nitya, perennità, perpetuità, e non di eternità in senso metafisico [N.d.T.].


Traduzione e note di Maitreyī

Da: www.vedavyasamandala.com

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