Svāmī Satcidānandendra
Sarasvatī Mahārāja
Commento a «Le
Cinque Gemme dell’Advaita»
di Śrī Śaṃkarācārya - 3/7
(Advaita Pañcaratnam)
1 - Ātmānātma
viveka
La ragione per cui la gente comune
non raggiunge la conoscenza intuitiva, che è descritta come: «Noi siamo
dell’essenza stessa di Paramātman, della natura stessa (svarūpa) di
Śiva», è dovuta proprio all’assenza dell’ātmānātma viveka di cui s’è
detto nell’introduzione[1].
Ātman
significa il Sé e anātman indica quello che è non-Sé. Ci si potrà
chiedere cos’è l’Ātman come propria essenza assoluta. E ancora: cos’è anātman,
ossia tutte quelle cose e quei fenomeni distinti dal Sé? Si deve usare la
discriminazione in modo intuitivo, cioè non solo usando l’intelletto (buddhi).
Nel linguaggio vedāntico si chiama ātmānātma viveka la capacità di
riconoscere la distinzione di natura essenziale fra essi. Poiché le persone in
generale non possiedono questo viveka, credono invariabilmente che il
corpo, i sensi e la mente siano il loro vero essere. A causa di questa idea,
essi si formano la seguente convinzione: «Sono nato da tali genitori, in un
dato tempo, in un certo luogo di una specifica regione della terra, parte di
questo grande universo. Dopo aver ricevuto un’educazione, ho seguito una mia
vocazione; mi sono sposato, ho moglie, figli e parenti e, come tutti gli altri,
dopo esser vissuto per il numero di anni che mi sono stati concessi
dall’Onnipotente, morirò.»
La mente di tali persone sarà
tormentata da questo dubbio: «Come posso raggiungere la certezza che io sono
l’eternamente puro e libero Parameśvara? Com’è possibile che sia proprio
quell’Īśvara stesso, io che vivo per pochi anni in un angolo di questo vasto
universo manifestato da Parameśvara e che certamente morirò?» Quindi, per
liberarsi da questa concezione erronea, il sincero mumukṣu e cercatore
di alto livello, spinto dall’unica aspirazione di raggiungere mokṣa (Liberazione)
qui e ora in questa vita, dovrà attuare il metodo di ātmānātma viveka com’è
esposto nel primo verso.
1. Io non sono il corpo, non sono i sensi,
non sono la mente, non sono l’ego, non sono i prāṇa, non sono l’intelletto. Io
sono quello che è lontano dalla moglie, dai figli, dal podere, dalla casa ecc.
In verità io sono quello Śiva che è Testimone diretto, che è l’eterno e intimo
Sé.
Commento: Qui tutti gli anātman che la gente comune ha
creduto essere l’“Io” sono stati rimossi e confutati uno a uno.
A) Io non sono né il corpo né i sensi
Alcuni hanno considerato il corpo
e i sensi come se fossero il proprio Sé. Le cose grossolane che si vedono nel
mondo esterno, come la pietra, la sabbia ecc., non sono senzienti né coscienti.
Queste cose non si muovono da sé; in esse i segnali che provano l’esistenza
della coscienza, come l’inspirazione, l’espirazione, la circolazione sanguigna,
sono assenti e nemmeno possono vedere né udire. Per queste ragioni c’è una
differenza tra le cose inanimate e gli esseri umani. Noi siamo cetana o
esseri animati, mentre quelli sono jaḍavastu, cose grossolane e
inanimate. Così si pensa comunemente. Altri hanno discriminato ulteriormente
considerando che le cose sono entità prive di vita, mentre noi, esseri umani,
siamo viventi. Le cose prive di vita subiscono certe trasformazioni e possono
diventare parte di forme corporee dotate di sensi e di vita, perciò,
considerati dal punto di vista della loro natura essenziale, il corpo, i sensi
e anche le cose esteriori sono un’unica e medesima cosa. Comunque, noi esseri umani
possediamo la capacità di conoscere le cose esterne e anche la facoltà di
utilizzarle a nostro beneficio. Per questo chiamiamo gli oggetti esterni con i
pronomi “questo” o “quello”, mentre chiamiamo l’aggregato di corpo e sensi “Io”[2].
Ma le due opinioni summenzionate
non sono esatte. Se l’aggregato del corpo e dei sensi fosse la stessa entità o
sostanza chiamata “Io”, allora in ciascuna delle parti o membra del corpo, come
anche in ciascun senso, non dovrebbe esistere la consapevolezza o coscienza dell’“Io”?
Ma noi tutti condividiamo l’esperienza che in ognuno degli organi, membra e
sensi c’è una innata consapevolezza d’un solo “Io”. Infatti si dice “Io”
cammino, “Io” annuso, “Io” vedo, “Io” tocco. Ma v’è anche un altro punto da
considerare: il corpo ha molte parti, organi, e diversi sensi. Se ognuno di
questi fosse l’entità chiamata “Io”, com’è che quell’entità, che possiede i
diversi sensi, non ha coscienza di essere “molti” e, invece, si esprime sempre
come un unico “Io”? Infatti, noi tutti abbiamo la profonda e innata nozione di
questa entità chiamata “Io” come una e una sola. Qual è la ragione di ciò?
Obiezione: Nel caso delle parti e organi del corpo, in quello dei
sensi, o nella loro reciproca aggregazione, si può pensare che ognuno di questi
sia l’entità chiamata “Io”?
Risposta: Nel corpo e nei sensi avvengono continui cambiamenti e
mutazioni. Se fosse vero che le parti del corpo e i vari sensi fossero il
nostro “Io” dovremmo pensare che tutti quei cambiamenti sono accaduti in me. Ma
la realtà non è questa. Noi diciamo agli altri: «I miei occhi sono diventati
deboli, le mie gambe zoppicano.» Se gli occhi e le gambe fossero veramente noi
stessi, cioè se fossero identici all’“Io” allora quando diciamo: «I miei
occhi..., le mie gambe» affermeremmo l’idea assurda che esista un “Io”
attribuito a me stesso, un altro “io” attribuito agli occhi e un altro ancora
alle gambe. A questo proposito possiamo portare un’altra esperienza condivisa
da tutti: poiché con le nostre mani e piedi possiamo afferrare oggetti esterni
o respingerli, è evidente che queste cose esterne sono differenti da noi. Allo
stesso modo qualsiasi parte od organo del nostro corpo può essere rimosso, ma
per questo non ci consideriamo rimossi noi stessi. Se il chirurgo amputa una
parte dolorante dal nostro corpo, non consideriamo affatto che la parte che
giace a terra è me stesso, poiché, una volta separata dal corpo, non c’è più
identificazione con la parte amputata. Allo stesso modo il muco, lo sputo, la
saliva, il sudore, i capelli, il vomito, le unghie, tutte queste parti del
corpo possono essere staccate da esso o rimanervi unite. Quando esse giacciono
per terra, ci fanno schifo e non ci s’identificherà mai più con esse come
fossero una parte di noi stessi. La medesima argomentazione vale anche per i
nostri sensi. Per essere più chiari, noi diciamo: «Il mio occhio, il mio
orecchio, il mio naso». In questo medesimo modo si è soliti separare gli organi
di senso da noi stessi e li consideriamo diversi. Vale a dire che gli organi di
senso sono parti separabili dal mio corpo, non essendo il mio “Io” nella sua
interezza. Infatti, si tratta solo di organi che appartengono a me. Se si vuole
procedere oltre in un’indagine più approfondita, allora l’occhio, l’orecchio,
il naso ecc., sono in realtà organi di sensazione e non i sensi in quanto tali.
I sensi funzionano all’interno e per mezzo di questi organi di senso, chiamati
in linguaggio vedāntico indriya golaka; ed esattamente come consideriamo
gli organi di senso separati da noi, così anche distinguiamo da noi le facoltà
sottili di conoscenza (jñānendriya) quali la vista, l’udito, l’odorato
ecc. Vale a dire che tutti questi cinque sensi sono passibili d’essere oggetto
della nostra coscienza. Per esempio, quando le facoltà di senso, che dimorano
in questi organi corporei corrispondenti, si indeboliscono o s’arrestano,
nessuno crede veramente che noi stessi subiamo o sperimentiamo il cambiamento.
Si dice, infatti, che la vista s’appanna, l’udito s’indebolisce e non che
l’“Io” s’appanna o s’indebolisce. Perciò si può definitivamente concludere che
i sensi non sono l’“Io”.
In ogni caso, la conclusione a cui
s’arriva dopo tutte queste discriminazioni è che il corpo e i sensi sono
molteplici, ma l’“Io” è solo uno. Inoltre, il corpo e i sensi subiscono cambiamenti
e mutazioni, mentre l’“Io” è immutabile; il corpo e i sensi sono oggetti della
conoscenza, mentre l’“Io” è il soggetto che li conosce. Perciò il corpo e i
sensi sono proprio come la pietra, la sabbia e il pezzo di legno del mondo
esterno. Sono cioè solo oggetti fisici o sostanze, poiché sono oggetti
grossolani e non senzienti. “Io” non sono affatto uno di quelli. L’entità
cosciente che conosce tutti quelli è veramente questo “Io”.
A questo punto può sorgere un
dubbio: se il corpo e i sensi non sono cose senzienti e coscienti, e se sono
oggetti grossolani e non senzienti come la pietra ecc., allora che cos’è la
capacità senziente che appare in loro? Conoscere gli oggetti, desiderarli e
impadronirsene, oppure respingerli e tenersi lontano da loro, tutti questi sono
segni che si manifestano in ciò che è senziente e cosciente. Questi segnali che
sono riscontrabili proprio nel corpo e nei sensi, e che non si trovano né si
avvertono nella pietra ecc., da dove, dunque, provengono?
Una possibile soluzione (samādhāna)
a questo dubbio è che i segni, che indicano una certa coscienza o sensibilità
in verità in essi non esistono. Una locomotiva corre, un magnete attrae un
pezzo di ferro, una lente ingrandisce un oggetto minuscolo; ma in ragione di
queste loro proprietà c’è forse qualcuno che possa pensare che quegli oggetti
grossolani siano coscienti o senzienti? Ammettiamo pure che ci sia in loro una
certa quantità di energia, di movimento o di attività nel corpo e nei sensi; ma
sicuramente non si tratta di coscienza o di una facoltà senziente dato che
corpo e sensi non sono in grado di “utilizzare” il loro movimento, l’attività o
l’energia, a loro vantaggio. Infatti, coloro che usano questi corpi e questi
sensi sono gli esseri coscienti e senzienti, cioè i cetana. Il corpo e i
sensi ci appartengono e noi li usiamo a nostro beneficio, perciò noi siamo cetana
ed essi sono oggetti grossolani. Pensare che nei sensi ci sia coscienza o
capacità senziente è del tutto errato. Perché noi conosciamo i sensi, ossia
siamo consci di essi ed essi sono oggetti della nostra coscienza. Proprio come
attraverso un telescopio osserviamo cose minute nel vasto spazio, così
percepiamo attraverso i sensi gli oggetti esterni. Perciò i sensi sono fenomeni
grossolani non senzienti; essi per noi sono solo mezzi di conoscenza e di
percezione, e noi, che conosciamo per mezzo di questi strumenti, siamo i veri
esseri coscienti.
Così si stabilisce che né il corpo
né i sensi sono il nostro intimo “Io” innato. Dapprima, la prova dialettica (yukti)
stabilisce che oggetti conoscibili come il corpo e i sensi non sono per nulla
il principio conoscitore-cosciente dell’Io. Ma in noi esiste anche un altro
strumento che ci permette di conoscere questi fenomeni, corpo e sensi, ed è
chiamato mente (manas). Poiché proprio questo strumento interno conosce
le altre cose, qui può sorgere il seguente dubbio: non è forse che proprio
questa mente sia l’“Io”? Il dubbio è privo di fondamento.
B) Io non sono la mente né l’ego
All’inizio si pensa: «Io [aham]
sono grasso, io sono di carnagione chiara, io sono giovane, io vedo, io odo».
Poi, quando si discrimina, si diventa coscienti della diversità del corpo e dei
sensi dall’“Io”, e allora si dice: «il mio [mama] corpo, il mio occhio,
il mio udito». Corpo e sensi diventano, dunque, oggetti della nostra
coscienza-conoscenza ed, esattamente come si è detto prima, sono riconosciuti
come transitori. Perciò diventa evidente che noi non siamo né il corpo né i
sensi. Così quando si pensa: “la mia mente”, questa mente, che per la nostra
coscienza è un oggetto distinto, deve per forza essere separata e distinta
dall’“Io”. Infatti, “Io” conosco con la mente usandola come uno strumento, ma
non è che sia la mente in quanto tale che conosce. L’esempio summenzionato del
telescopio può valere anche in questo contesto. Come il telescopio, che è
indiscutibilmente un oggetto grossolano e non senziente, diventa un valido
mezzo (pramāṇa) per osservare e conoscere gli oggetti minuscoli nello
spazio, così anche la mente è uno strumento di conoscenza. I sensi sono
strumenti esterni (bahiḥkāraṇa), vale a dire mezzi atti a percepire e
conoscere gli oggetti nel mondo esterno; la mente (manas), invece, è lo
strumento interno (antaḥkāraṇa), cioè il mezzo di conoscenza situato nel
corpo a livello psichico. Comunque sia, lo strumento (kāraṇa) è solo un
mezzo grossolano[3] e non
senziente. L’“Io” che usa la mente come uno strumento, è in verità l’essere
cosciente. Inoltre, la mente è ondivaga e mutevole. Possiamo conoscere un
oggetto con la mente solo se la mente non è distratta e quando è collegata ai
sensi. Per questa ragione spesso, anche quando udiamo un suono o vediamo un
oggetto diciamo: «Cos’hai detto? Non ho sentito chiaramente. Sembra che
qualcuno sia venuto e sia andato via. Non ho fatto caso». In certe occasioni la
causa, per cui la mente non ha registrato o colto con la dovuta attenzione un
suono o una forma, è dovuta al fatto che stava vagando altrove. Da ciò si
deduce che la mente mutevole è diversa dall’“Io” stabile che sa conoscere i
cambiamenti della mente.
Obiezione: Ammettiamo pure quello che è stato detto sopra. Nei
pensieri quotidiani come “io conobbi, io vidi, io udii ecc.” si presuppone una
conoscenza da parte dell’“Io”. In ognuna di queste azioni conoscitive c’è
l’“Io”. Questo “Io” è la nostra natura essenziale o no? Se quell’“Io” è proprio
la nostra natura essenziale, allora la credenza dell’uomo comune che afferma:
«Io sono nel corpo, io conosco con la mente, io agisco per mezzo del corpo e
dei sensi, il corpo esiste in una regione del mondo», è forse la corretta
conoscenza? Se è così, come si può considerare sbagliato il pensiero dell’uomo
comune? E allora come si può sostenere che: «Io sono Parameśvara, il Signore e
Creatore eternamente puro e libero»?
Risposta: Quando usiamo l’io per le nostre azioni quotidiane,
quell’io che è associato con ognuna di esse non è la reale essenza del nostro
essere. È solo lo strumento interno (antaḥkāraṇa) della mente menzionato
prima, che appare in noi in questa forma. I vedāntin chiamano mente (manas)
quella modificazione dell’organo interno (antaḥkāraṇa) che compie
l’azione di conoscere gli oggetti tramite i sensi. Invece la modificazione
dell’organo interno che assume la forma di agente (kartṛ) dell’azione
conoscitiva, la chiamano ahaṃkāra. Eccetto questa distinzione per cui
appare come agente (kartṛ) e strumento d’azione (kāraṇa), ahaṃkāra
non è per nulla differente da manas. Infatti, entrambi sono
modificazioni e mutazioni di antaḥkāraṇa. Perciò, proprio come la mente
è distinta dal nostro “Io” [Ātman], vale a dire dalla nostra reale
natura, allo stesso modo quest’ahaṃkāra che chiamiamo io individuale (aham)
esiste separatamente dalla nostra essenziale e reale natura di pura coscienza (caitanya
svarūpa).
Per comprendere la verità che ahaṃkāra
differisce dalla nostra natura essenziale, dobbiamo osservare molto
attentamente certe condizioni. Nelle nostre azioni quotidiane la mente
raramente è oggetto della nostra indagine; e altrettanto raramente s’indaga su
questo ahaṃkāra. Sempre che non si faccia uno sforzo per prestarle
attenzione, la nozione dell’“Io” non sorge in noi chiaramente perché siamo
immersi e presi solo dagli oggetti grossolani esterni. L’ahaṃkāra diventa
oggetto di conoscenza-coscienza soltanto per coloro che hanno deciso d’indagare
sull’ultima assoluta Realtà separando l’“Io” da “questo” (idam). Per
tutti gli altri questa nozione di aham come oggetto non è facilmente
conoscibile; in maniera particolare ciò avviene quando si è in sonno profondo,
perché lì non c’è alcuna traccia di questa nozione di “io”. Ciò nonostante
nessuno può pensare che in sonno profondo la nostra natura essenziale (svarūpa)
non esista. Perciò questa nozione di “io”, presente solo nella veglia e nel
sogno, usato come strumento per le nostre azioni quotidiane in quei due stati (avasthā)
di coscienza, in quanto ahaṃkāra appare distintamente separato dalla
propria vera natura (svarūpa). Questa è la nostra conclusione finale.
C) Io non sono la buddhi o intelletto
Oltre ad ahaṃkāra e manas,
antaḥkāraṇa ha una terza forma che è la buddhi, l’intelletto.
Quando i sensi riportano la conoscenza degli oggetti esterni, essa è la funzione
della mente che li conosce uno a uno; quando queste conoscenze individuali sono
congiunte dalla mente e quest’ultima le presenta all’intelletto, esso le
determina in questo modo: «Questa è una tal cosa». Allora ahaṃkāra, l’ego,
o la nozione dell’“io”, che dir si voglia, si sente orgogliosa e pensa: «Ho
raggiunto questa conoscenza; la conosco così e così». Allora, come conseguenza
della conoscenza degli oggetti esterni, si prova sia felicità (sukha)
sia dolore (duḥkha). Antaḥkāraṇa è lo strumento unico che genera
questi sukha e duḥkha, per fruirne, sperimentarli e conoscerli
distintamente. In ogni modo, giacché anche l’intelletto è, come l’ego, semplicemente
uno strumento di cognizione, ed è da noi conosciuto, si conclude che anche
l’intelletto è distinto dalla nostra vera natura (svarūpa). Le
modificazioni che avvengono in antaḥkāraṇa nelle sue forme di manas,
buddhi[4] e ahaṃkāra,
come anche i susseguenti cambiamenti, felicità (sukha) e dolore (duḥkha),
desiderio (kāma), ira (krodha), paura (bhaya), vergogna (lajjā)
ecc., sono chiamate vṛtti o costruzioni mentali. La mente, l’intelletto
e l’ego ecc. sono vṛtti rivolte all’azione cognitiva, mentre la
felicità, il dolore ecc. sono vṛtti chiamate vedana (sensazioni,
sentimenti), prodotte dall’esperienza (anubhava) degli oggetti esterni.
Poiché tutte queste vṛtti avvengono nel solo antaḥkāraṇa e poiché
questo antaḥkāraṇa è semplicemente uno strumento, sādhana[5], è evidente che il
mio vero “Io”, che usa questo strumento, è distinto da questo antaḥkāraṇa e
dalle sue vṛtti; nessuna di queste è in verità la mia vera natura (svarūpa).
Così dovrebbe pensare un viveki.
D) Io non sono i prāṇa
Alcuni in questo mondo hanno
pensato che: «Noi non siamo né il corpo né i sensi né la mente né l’intelletto
né l’ego. Siamo solamente chi utilizza tutti questi a nostro vantaggio e
beneficio. Per esempio: quando voglio, io alzo il mio braccio, se ne ho
abbastanza, lo abbasso; se voglio un oggetto, lo afferro, se non lo voglio lo
respingo; se mi piace un argomento, mi concentro e penso a quello; se non
m’interessa lo trascuro e lo dimentico; nel sonno profondo io dissolvo l’ahaṃkāra,
cioè l’ego, e la mente. Oppure, senza permetter loro di vagare qua e là,
li fermo in un punto. Così quella entità al cui comando il corpo e i sensi
obbediscono, è essa stessa quell’“Io”».
Questa opinione non è corretta,
perché il potere che fa in modo che il corpo e le facoltà d’azione (karmendriya)
funzionino è chiamato prāṇa. Il sostrato di quel prāṇa è il mio
Sé, vale a dire l’“io”. Proprio come l’ahaṃkāra il manas e la buddhi
menzionati prima sono in relazione con i jñānendriya, così sono anche
in relazione con il prāṇa. Pensando: «Io conosco questo oggetto» noi
indichiamo chiaramente che l’“io” è ahaṃkāra, l’aspetto cognitivo è manas
e la decisione della conoscenza cognitiva è fatta dalla buddhi; allo
stesso modo possiamo determinare l’aspetto motorio del prāṇa in tutte le
azioni del corpo e dei karmendriya. Vale a dire che quando noi diciamo:
«Io compio questa o quell’azione», l’aspetto che assume il ruolo di agente
dell’azione (kartṛbhava) è ahaṃkāra; lo strumento o mezzo che
concepisce l’azione è manas, e quello che prende la responsabilità della
decisione di compiere l’azione è buddhi. In questo modo il prāṇa inizia
a funzionare solo dopo una definitiva decisione a compiere una determinata
azione. Il fatto che ahaṃkāra ecc. siano anātman è stato già
chiarito prima. Perciò anche prāṇa, che funziona con supporto di quegli anātman
è necessariamente solo anātman e non il mio Sé reale, e questa
verità, ora, di impone da sola. Oltre al prāṇa che entra in funzione
nella veglia a nostra volontà, il prāṇa agisce anche autonomamente. Per
esempio, il respiro, il battito cardiaco, la circolazione del sangue, la
produzione dei vari succhi come la bile, che sono secreti da diverse ghiandole
e organi, l’escrezione dal corpo dell’urina e delle feci ecc., tutte queste
funzioni involontarie sono compiute senza alcun intervento della nostra
volontà. Poiché questa prāṇaśakti, forza vitale, agisce in vario modo
nel nostro corpo, alcuni testi scritturali dicono che questo prāṇa ha
cinque vṛtti, o modificazioni, cioè prāṇa, apāna, samāna, vyaṇa
e udāna[6].
Queste prāṇavṛtti, sono convenzionalmente chiamate prāṇabheda, o
modalità differenziate della forza vitale. Se vogliamo, possiamo immaginare che
nello stato di veglia, in cui noi tutti abbiamo una relazione o associazione
con il corpo, i sensi ecc., ne abbiamo anche una con il prāṇa: ma nello
stato di sonno profondo, in cui non si ha alcuna relazione con nessuna altra
cosa se non con il proprio Essere, è evidente che non se ne ha nemmeno con
alcuna funzione prāṇica. Quando siamo svegli possiamo osservare altri che
dormono e da questo deduciamo che durante il nostro sonno profondo, senza
essere coscienti, molte funzioni continuino ad agire. Ma questo è quanto
immaginiamo durante la veglia, perché del nostro sonno profondo non abbiamo
alcuna esperienza in questo senso. Infatti, nel sonno profondo, che noi
sperimentiamo intuitivamente e direttamente, non abbiamo alcuna prova che i prāṇa
siano in funzione, oppure no.
Allo scopo di determinare l’ultima
Realtà, l’esperienza intuitiva, anubhava, è uno strumento più forte
dell’immaginazione o della deduzione. Perciò la corretta interpretazione da
assumere deve essere: «Il nostro svarūpa non ha alcuna relazione con il prāṇa
né con l’antaḥkāraṇa che è il suo sostrato, per le seguenti ragioni:
1) le prāṇaśakti sono molteplici; 2) anche esse subiscono mutamenti; 3)
sono conosciute da noi come oggetti; 4) nel sonno profondo sono completamente
assenti». Si stabilisce così definitivamente e senza equivoco che anche i prāṇa
sono di natura grossolana[7],
diversi dalla nostra vera natura (svarūpa); e, di conseguenza se ne trae
che solo la nostra vera natura è cosciente. Il nostro svarūpa è diverso
e separato da loro, perciò è capace di conoscerli.
E) Io sono colui che è distaccato dal mio, dalla
moglie, dai figli, dalla proprietà e dalle ricchezze
Così, con la discriminazione
basata sull’anubhava è chiaro ed evidente che né il corpo né i sensi né
la mente né l’intelletto né il prāṇa sono il nostro Sé. Ora, seguendo il
processo di discriminazione, si giunge a quest’altra verità assiomatica: gli
oggetti, come i figli ecc., che sono responsabili dell’egoismo, non sono
affatto in relazione con il nostro svarūpa. Perché solo in coloro che
sono fortemente identificati agli anātman, come corpo e sensi, c’è una
forte identificazione con oggetti come moglie, figli, casa, denaro, ricchezze.
Alcuni arrivano persino a identificarsi con le loro proprietà. Di conseguenza
essi pensano che se moglie e figli sono felici o infelici, anche loro si
sentono felici o infelici; si ritengono contenti d’aumentare le loro proprietà
e si disperano se le perdono. Invece, con il potere della discriminazione,
coloro che hanno ricevuto questo insegnamento spirituale riescono a riconoscere
che tali identificazioni sono errate e che in realtà nessuno di quegli oggetti
è la loro vera natura: e allora se ne distaccano. È vero che questi
attaccamenti sembrano molto intimamente collegati a noi; ma non appare la stessa
cosa anche nel sogno? Sebbene la moglie e i figli che abbiamo nel sogno
sembrino nostri, quando ci svegliamo capiamo che non hanno alcuna relazione con
noi. Così, anche la relazione che pare esistere nella veglia è una mera
apparenza, non è affatto reale. Dunque, dobbiamo decidere e concludere in
questo modo.
F) Io sono il Sākṣin, l’eterno pratygātman (intimo
Sé)
Ora si pone un’altra questione. Se
questa manifestazione dell’“Io” che utilizziamo nelle nostre azioni quotidiane
non è né il corpo, né i sensi, né la mente, né l’ahaṃkāra che appare
come “io”, allora a parte tutte queste cose, qual è la nostra natura
essenziale? E come possiamo provarne l’esistenza? Quelli che si pongono questa
domanda hanno una inclinazione e un’attrazione per gli anātman esterni,
giacché il corpo e gli altri componenti individuali sono tutti oggetti, ossia
cose conoscibili. La natura essenziale dell’essere cosciente è però distinta e
separata da questi, come è già stato dimostrato. Stando così le cose,
affermando semplicemente che: «Nessuno degli oggetti conosciuti come corpo ecc,
è me stesso», come si può stabilire che l’“Io” conoscente non esiste?
Obiezione: Anche se accettiamo che né il corpo né i sensi abbiano
coscienza o conoscenza, noi tutti dobbiamo per forza ammettere che nel nostro antaḥkāraṇa
esiste coscienza; perché se non usassimo l’antaḥkāraṇa non potremmo
raggiungere alcuna conoscenza degli oggetti esterni, delle emozioni e delle
intellezioni. Allora, se eliminiamo ahaṃkāra come sostrato cosciente
della conoscenza e diciamo che tuttavia esiste un’altra natura più essenziale
dell’essere, con cosa potremmo provarne l’esistenza? Inoltre, in che modo
possiamo provare che in quell’entità più essenziale esista una
coscienza-conoscente? La tua affermazione che questo ahaṃkāra individuale
non esiste in sonno profondo è vera; ma in quello stato noi non abbiamo alcuna
conoscenza-coscienza. Perciò in base all’esperienza del sonno profondo possiamo
concludere che al di là dell’antaḥkāraṇa non esiste nulla.
Risposta del Vedāntin: È vero che sembra esserci coscienza nel nostro antaḥkāraṇa.
Ma noi tuttavia possiamo conoscere il nostro antaḥkāraṇa, lo osserviamo
nella nostra esperienza intuitiva (anubhava). Perciò anche antaḥkāraṇa
diventa oggetto. Ciò significa che la nostra natura essenziale è separata
da esso. [Prima ti sei detto disposto ad ammettere che né il corpo né i sensi
abbiano coscienza o conoscenza] perché antaḥkāraṇa, vale a dire la
nozione dell’“io”, conosce le cose esterne e gli altri oggetti. Da ciò hai
dedotto che solo in antaḥkāraṇa esiste coscienza. Dato che i sensi
conoscono gli oggetti esterni, perché allora non dovresti sostenere che anche
negli indriya ecc. esiste coscienza? Invece correttamente hai ammesso
che: a) i sensi sono oggettivati da antaḥkāraṇa; b) le funzioni di questi
sensi quando conoscono e quando non conoscono, dipendono da antaḥkāraṇa a
cui sono collegati, perciò la coscienza che esiste in loro pare essere l’antaḥkāraṇa.
Perciò, similmente, devi ammettere che la nostra natura di puro Essere conosce
come oggetti le funzioni dell’antaḥkāraṇa sia quando conosce, durante la
veglia e il sogno, sia quando non conosce, come nel sonno profondo. Perciò per
la nostra vera natura anche antaḥkāraṇa è un oggetto. Ciò significa che
il nostro svarūpa deve essere necessariamente separato e diverso da antaḥkāraṇa,
poiché anche la coscienza-conoscenza che attribuiamo ad antaḥkāraṇa,
dipende dallo svarūpa. O meglio, la Coscienza-conoscenza appartiene
proprio al nostro puro Essere. Allora si trae da questo ragionamento intuitivo
che la pura Coscienza (śuddha caitanya) è il nostro stesso svarūpa.
Il nostro svarūpa caitanya è
il Sākṣin, la Coscienza-Testimone. Ciò significa che è capace di
conoscere l’intera serie di non-Sé, direttamente, intuitivamente, vale a dire
che non ha bisogno di alcun mezzo che faccia da intermediario. La mente[8], i sensi ecc. non conoscono i loro rispettivi oggetti
direttamente, intuitivamente. Solo se hanno un certo aiuto esterno sono capaci
di conoscere. Per esempio: se la mente deve conoscere un bel quadro o uno
scenario ha bisogno del senso della vista; e quest’ultimo senso deve
appoggiarsi all’organo corrispondente, gli occhi; gli occhi hanno bisogno anche
dell’aiuto della luce. Così tutti gli altri soggetti conoscenti (jñātā viṣaya)
possono conoscere mantenendo una distanza o separazione dai loro oggetti (vastu).
Ma questo nostro svarūpa non conosce né intuisce affatto l’antaḥkāraṇa
e il resto degli anātman in questo modo; egli illumina direttamente
e intuitivamente qualsiasi oggetto che gli si ponga davanti, senza nessun vyavadhāna
o intervallo, come pure senza aver bisogno di alcuno strumento (kāraṇa)
o mezzo di conoscenza (pramāṇa).
Per questa ragione è nitya o
eterno, perenne. Nitya significa privo di limitazioni o restrizioni
temporali: il tempo è soltanto una costruzione mentale che appare al nostro
intelletto durante la veglia. Poiché tutti gli oggetti che ci appaiono in
veglia devono per forza invariabilmente apparire nel tempo, dobbiamo
considerarli oggetti non reali in quanto condizionati dal tempo. Ma il nostro svarūpa,
che illumina per mezzo della coscienza l’intera totalità di anātman limitati
dal tempo, non è toccato o contaminato dal tempo che non lo può limitare né
condizionare. Perciò caitanya non è sottoposto ad alcun cambiamento come
lo sono gli oggetti condizionati dal tempo. Per questa ragione caitanya è
anche chiamato kūṭastha, immobile. Kuṭa significa una sostanza di
grande mole come una montagna. Come la montagna non si muove né vacilla anche
quando è colpita da una forte tempesta, così caitanya, che è il nostro svarūpa,
non subisce alcun cambiamento o mutazione nella sua essenza.
Nel linguaggio comune la parola nitya,
ha un altro significato, perciò si deve prestare attenzione al contesto:
qualsiasi cosa sia sottoposta a continui cambiamenti, ma che perdura nel tempo,
è anch’essa inappropriatamente chiamata nitya[9]. Per esempio, non è forse vero che crediamo che questa
nostra terra esista da lunghissimo tempo? Ma, secondo i geologi, la terra non è
rimasta tale com’era mille anni fa senza subire alcun cambiamento; e fra
cent’anni non sarà come adesso. Ciò nonostante è chiamata nitya o
permanente nel linguaggio ordinario. Secondo il punto di vista delle scienze
empiriche o fisiche, la “materia” o sostanza (dravya) non è mai
distrutta. Può subire cambiamenti, mutazioni, trasformazioni ecc., ma la sua
sostanza composta di particelle infinitesimali non diventa mai non-esistenza.
Secondo questa teoria anche se noi sostenessimo o credessimo che la nostra
terra possa essere completamente distrutta, la sua materia o sostanza dovrebbe
comunque esistere in un’altra forma impercettibile. Ciò vuol dire che questa
terra nella sua materia “elementare” è una entità perennemente mutevole. Questi
tipi di entità, come per esempio i cinque elementi, sono chiamati parināmi
nitya, perennemente in trasformazione. Ma quando affermiamo che caitanya
è il nostro svarūpa, non intendiamo appellarci a questo uso
ordinario del termine nitya, perché la Coscienza-conoscenza non esiste
nel tempo né è sottoposta al parināma, cioè a qualsiasi trasformazione o
mutazione. Caitanya è immutabile (nirvikāra), ossia è kūṭastha
nitya vastu, vale a dire che non è cosa che faccia parte del dominio di un
qualsiasi cambiamento. Oltre a ciò questo caitanya riguarda l’Ātman (pratyagātman)
ossia lo svarūpa che sta nel nostro intimo.
Come abbiamo già detto sopra,
talvolta pensiamo d’essere il corpo, talaltra pensiamo d’essere i sensi. Ma
l’esistenza del corpo è sempre associata con la conoscenza dei sensi, quindi
possiamo pensare e immaginare che i sensi siano un’essenza più interna rispetto
al nostro corpo, intendendo che fra i due, i sensi siano la nostra vera essenza
o svarūpa. Allo stesso modo possiamo continuare questa discriminazione e
man mano, sul filo del medesimo ragionamento, concludere che il prāṇa, manas,
buddhi e ahaṃkāra siano il nostro svarūpa più interno. Ciò
avviene in quanto arriviamo a intuire che, lasciando progressivamente la
componente più esteriore per considerare quella più interna, quest’ultima
apparirà dotata d’una esistenza superiore alla precedente. Inoltre,
comprendiamo anche che l’esistenza dell’ultima componente si appoggia sulla
precedente. Perciò anche dopo essere arrivati ad ahaṃkāra è evidente che
non abbiamo raggiunto il nostro Ātman, cioè il nostro reale e assoluto svarūpa.
Come s’è detto, questo avviene perché il Sākṣin ha illuminato con il suo
caitanya tutti i costituenti del nostro aggregato, da ahaṃkāra fino
al corpo. Ha prestato la sua esistenza anche al più sottile tra questi, cioè ahaṃkāra,
perciò questo stesso Sākṣin caitanya è la nostra essenza più intima, l’Ātman.
Dal punto di vista metafisico, soltanto quel Sākṣin caitanya dovrebbe
essere chiamato “Io”. In verità la luce divina del Sākṣin caitanya è
diffusa in tutti quei costituenti, dall’ego (ahaṃkāra),
all’intelletto (buddhi), alla mente (manas), al corpo (śarīra),
e solo per questa ragione, nei nostri pensieri ordinari, tutti questi possono
essere considerati come se fossero l’“Io”. Ma se osserviamo intuitivamente
questi ahaṃkāra, buddhi e manas ecc., essi non sono
affatto il nostro Ātman reale. Sono considerati come il nostro Ātman a
causa della conoscenza erronea (mithyā). Perciò Sākṣin caitanya,
che è all’ interno di queste cose manifestate, e che, in realtà, è l’Ātman
di tutte quelle, è lui stesso il nostro Paramātman.
G) Io sono Śiva
Coloro che in questo modo compiono
la discriminazione intuitiva distinguendo tra Ātman e anātman e
conoscono il loro pratyagātman, non sono illusi dai seguenti falsi
pensieri, come: «Esistiamo in questo mondo; questi corpi che appaiono nel mondo
sono veramente noi stessi; come noi esistono molti altri in questo mondo e tra
questi ci sono persone amiche altre nemiche e altre indifferenti.» Infatti
costoro hanno conosciuto con la loro esperienza intuitiva e sanno che: «Siamo
veramente soltanto Śiva svarūpa che è il sostrato di tutte queste
apparenze, ma che non è contaminato o toccato da nessuna di esse.» Solo questi
santi uomini realizzano la più elevata conoscenza intuitiva dell’identità con
Īśvara, il Signore che manifesta tutto l’universo, com’è detto nella Śvetāśvatara
Upaniṣad: “Un essere divino sta in tutte le creature; è colui che abita
all’interno di tutte le creature ed egli è il Signore che comanda e controlla
tutte le azioni, colui che sta in tutte le creature, il Testimone, della natura
di caitanya, pura coscienza, non duale, senza altro da lui; che non è
relazionato o associato con nessun guṇa o qualsiasi qualità”1. Lo
scopo ultimo di tutta l’esistenza umana è realizzare qui e ora durante questa
vita che la conoscenza dell’“Io”2
è intuitiva, e che l’“Io” è identico in
toto al nostro Śiva svarūpa. Si deve anche capire che il modo in cui
appare è un errore e che è una sovrapposizione al nostro svarūpa.
La parola Śiva significa natura essenzialmente beata (maṅgala svarūpa).
Parameśvara, il Signore supremo, il nostro Ātman, è in quanto tale
l’essenza della più elevata beatitudine. In essa non sussiste alcun demerito o
difetto che produca miseria o degrado. Tutto ciò che in questo mondo è
considerato benefico dipende da lui, perché egli è l’Ātman. Tutti i
desideri di coloro che lo ricordano e si dedicano a lui con intenzione
incrollabile, sono esauditi. Infatti, solamente quando si raggiunge il proprio svarūpa
e ci si stabilisce nella sua esperienza intuitiva si può affermare che è
stato raggiunto lo scopo dell’umana esistenza (puruṣārtha) e si è
diventati completi, perfetti, soddisfatti (kṛtākṛtya). Per tutte queste
ragioni quel Parameśvara è chiamato Śiva ovunque, nella śruti e
nella Gītā. Coloro che hanno intuito questo Ātman svarūpa, nel
modo descritto nel verso precedente, che nella loro piena esperienza realizzano
qui e ora, non sono altro che Śiva svarūpa e vivono senza più alcuna
traccia di ansietà e dolore.
[1] Si tratta sempre del nityānitya viveka espresso
con il termine equivalente di ātmānatma viveka [N.d.T.].
[2] Richiamiamo l’attenzione del lettore
sull’uso al maiuscolo del pronome “Io” in questo breve testo. Con il nostro
vero “Io”, infatti, qui s’allude al Sé interiore, all’Ātman. Tuttavia,
proprio in ragione del processo di discriminazione (viveka), durante le
prime fasi esso non è completamente distinto dall’“io” (aham). Per
esempio, quando si distingue tra colui che è il soggetto che percepisce gli
oggetti esterni, evidentemente quel soggetto dell’azione cognitiva è l’“Io”.
Tuttavia questo “Io” è ancora confuso con l’“io” individuale e non è
direttamente il Sé assoluto. Similmente, quando l’“Io” considera i propri
sensi, la mente, l’intelletto come oggetti della sua cognizione, quell’Ātman
non è ancora pensato nella sua assolutezza. Solamente quando il cercatore
distingue dal proprio Sé l’“io” individuale (aham) come un oggetto
contingente e illusorio, allora si raggiunge la vera conoscenza del proprio
vero “Io”. Ma a questo punto non sarà più necessario considerarlo neppure come
“Io”, dato che si sarà raggiunta la conoscenza-coscienza che la propria vera
natura è soltanto il Sé, il puro ed eterno Paramātman [N.d.T.].
[3] È evidente che qui “grossolano” non
significa letteralmente composto dai cinque elementi, poiché la mente è di
natura sottile. Ma in comparazione con l’“Io”, essa appare più grezza, pesante
e inerte [N.d.T.].
[4] Tuttavia le modificazioni della mente non
sono le medesime di quelle dell’intelletto. Infatti manas, in base al
suo grado d’intuizione, elabora i pensieri relativi alle informazioni
sensoriali sugli oggetti esterni, percependoli come gradevoli o sgradevoli,
giudicandoli secondo le categorie dell’istintiva attrazione (rāga) o
repulsione (dveṣa) che prova per essi. Invece la buddhi elabora
le sue discriminazioni soppesando se gli oggetti esterni possano essere a lei
utili o inutili, benefici o nocivi. Per esempio, il manas può provare
antipatia istintiva per una persona o per una situazione, ma la buddhi saprà
controllare l’istintività della mente qualora decidesse che ciò potrebbe
risultarle conveniente, vincendo così quell’avversione. Questo dimostra che
l’intelletto si comporta da controllore della mente, agendo nei suoi confronti
come fosse apparentemente il suo Sé [N.d.T.].
[5] Qui sinonimo di kāraṇa. Generalmente
con sādhana s’intende il metodo o una specifica tecnica iniziatica,
detta anche prakriyā. Da non confondere con sādhanā al femminile,
che è la via o percorso iniziatico [N.d.T.].
[6] 1)-Prāṇa: l’inspirazione, considerata
come una insufflazione attraverso le narici, dapprima in direzione ascendente
fino alla base del cervello (mastiṣka), poi discendente fino al cuore e
polmoni, dove deposita gli elementi sottili assorbiti dall’ambiente esterno,
provenienti sia da jīva ghana, sia dalle eiezioni sottili emesse per
espirazione dalla collettività degli esseri viventi. 2)-Apāna:
l’aspirazione che scende dai polmoni fino alla base della colonna vertebrale,
convogliando e diffondendo in tutte le arterie sottili (nāḍī) presenti
nel corpo gli elementi assunti dall’esterno. Apāna deposita gli elementi
utili che saranno assimilati nella fase successiva, all’altezza dell’ombelico,
ossia nella regione del corpo dedicata alla funzione di assimilazione, mentre
fa cadere verso il basso gli elementi inutili o i rifiuti dell’assimilazione
per essere espulsi. Questo soffio è anche preposto ad attuare altre funzioni
d’espulsione, come l’eiezione del feto o di corpi estranei dalle ferite. 3)-Samāna
conclude la fase dell’ingestione di aria. Per questa ragione è considerato
una pausa nel duplice processo della respirazione e, allo stesso tempo, esso
coincide con il trattenimento del soffio nella regione inferiore del plesso
solare. Samāna è la funzione assimilatrice e discriminatrice di ciò che
è stato ingerito con la respirazione. 4)-Vyāna diffonde il soffio in
tutto il corpo. Generalmente messo in relazione con il sistema circolatorio del
sangue per la sua capillare diffusione in tutto il corpo, è il prāṇa che
e colloca all’interno degli organi corporei gli elementi assimilati, rendendoli
partecipi dell’organismo vivente. È perciò tra i pañcaprāṇa quello che
anima e fa muovere i corpo. Allo stesso tempo sostituisce con gli elementi
recenti quelli già sfruttati, abbandonandoli ad apāna per essere
secreti. 5)-udāna, l’espirazione, ovvero la seconda fase della
respirazione. Tramite l’aria emessa con udāna il corpo si libera anche
delle componenti sottili: per esempio, se i rifiuti costituiti dagli elementi
terra, acqua e fuoco, sono eliminati dagli organi di escrezione e dalla pelle
(il sudore), i rifiuti o i componenti esausti dell’aria e dell’etere sono
restituiti all’ambiente circostante proprio tramite l’espirazione. Similmente
si disperdono anche gli scarti delle componenti sottili, sia prāṇiche sia
concettuali, e in questo modo si restituisce a Hiraṇyagarbha quanto assimilato
da lui tramite l’inspirazione. Poiché Hiraṇyagarbha deve essere considerato
l’anima prāṇica generale del mondo in cui viviamo, le nostre componenti sottili
così espirate si vanno a mescolare con quelle emesse da tutti gli altri esseri,
viventi o già defunti, dando così forma a quella che si chiama “la mentalità”
del tempo. Infatti con udāna avviene anche l’esalazione dell’ultimo
respiro, che determina l’uscita del jīva accompagnato da tutte le
componenti sottili e la conseguente morte del corpo (dehānta). [N. d.
T.]
[7] Anche in questo caso “grossolano” non
significa composto dai cinque elementi, poiché i prāṇa sono di natura
sottile; ma paragonati all’“Io”, appaiono più pesanti, sthūla [N.d.T.].
[8] Cioè mente, intelletto; queste parole oltre
a essere interpretate come antaḥkāraṇa vṛtti, sono anche usate per
rappresentare l’intero antaḥkāraṇa. Cioè, al fine di semplificare, in
questo trattato abbiamo usato la parola manas per significare l’intero antaḥkāraṇa
[N.d.T.].
[9] In simili casi, al fine di evitare ogni
possibile equivoco, il Vedānta preferisce precisare che si tratta di pravaha
nitya, perennità, perpetuità, e non di eternità in senso metafisico
[N.d.T.].
Traduzione e note di Maitreyī
Da: www.vedavyasamandala.com
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