Oriente e Occidente
Parte prima
Illusioni occidentali
II
II
La superstizione della scienza
La civiltà occidentale ha, fra le altre pretese, quella di
essere essenzialmente «scientifica»; sarebbe opportuno precisare meglio che
cosa s’intenda con tale parola, ma di fatto questo generalmente non si fa,
poiché essa è una di quelle a cui i nostri contemporanei sembrano annettere una
sorta di potere misterioso, indipendentemente dal loro significato.
La «Scienza», con la maiuscola, come il «Progresso» e la «Civiltà», come il «Diritto», la «Giustizia» e la «Libertà», è anch’essa una di quelle entità che è meglio non cercare di definire, e che rischiano di perdere tutto il loro prestigio non appena si incominci ad esaminarle un po’ troppo da vicino.
Tutte le cosiddette «conquiste» di cui il mondo moderno va tanto fiero si riducono così a grandi parole dietro le quali non c’è nulla, o molto poco: «suggestione collettiva» abbiamo detto; illusione che, per essere condivisa da tanti individui e mantenersi come fa, non può essere spontanea; forse un giorno o l’altro cercheremo di chiarire un po’ tale aspetto della questione. Per il momento non è questo il punto che ci interessa maggiormente; ci limiteremo a constatare, ora, come l’Occidente attuale creda alle idee alle quali abbiamo accennato, se pure idee si possono chiamare, qualunque sia il modo in cui questa credenza si è formata. Idee vere e proprie non sono, perché molti di coloro che pronunciano queste parole con la più grande convinzione non hanno nel proprio pensiero niente di ben definito che vi corrisponda; in fondo, nella maggior parte dei casi non si tratta che dell’espressione ‑ si potrebbe addirittura dire della personificazione ‑ di aspirazioni sentimentali più o meno vaghe. Si tratta di veri e propri idoli, divinità d’una specie di «religione laica» che forse non è chiaramente definita, né potrebbe esserlo, ma che ha nondimeno un’esistenza ben reale: non è la religione nel senso proprio della parola, ma qualcosa che pretende sostituirsi a essa e che meriterebbe piuttosto di essere chiamato «contro-religione».
La prima origine di questo stato di cose risale di fatto all’inizio dell’èra moderna, quando lo spirito antitradizionale si manifestò subitamente con la proclamazione del «libero esame», dell’assenza cioè, in campo dottrinale, di ogni principio superiore alle opinioni individuali. Da qui doveva fatalmente risultare l’anarchia intellettuale: da qui deriva la molteplicità indefinita delle sette religiose e pseudo-religiose, dei sistemi filosofici miranti soprattutto all’originalità, delle teorie scientifiche tanto effimere quanto pretenziose; caos inverosimile, dominato, però, in qualche modo, da una certa unità (giacché esiste uno spirito specificamente moderno da cui tutto ciò deriva), ma un’unità, se così si può dire, assolutamente negativa, trattandosi propriamente di un’assenza di principio traducentesi in quell’indifferenza nei riguardi della verità e dell’errore che ha ricevuto, a partire dal secolo XVIII, il nome di «tolleranza».
La «Scienza», con la maiuscola, come il «Progresso» e la «Civiltà», come il «Diritto», la «Giustizia» e la «Libertà», è anch’essa una di quelle entità che è meglio non cercare di definire, e che rischiano di perdere tutto il loro prestigio non appena si incominci ad esaminarle un po’ troppo da vicino.
Tutte le cosiddette «conquiste» di cui il mondo moderno va tanto fiero si riducono così a grandi parole dietro le quali non c’è nulla, o molto poco: «suggestione collettiva» abbiamo detto; illusione che, per essere condivisa da tanti individui e mantenersi come fa, non può essere spontanea; forse un giorno o l’altro cercheremo di chiarire un po’ tale aspetto della questione. Per il momento non è questo il punto che ci interessa maggiormente; ci limiteremo a constatare, ora, come l’Occidente attuale creda alle idee alle quali abbiamo accennato, se pure idee si possono chiamare, qualunque sia il modo in cui questa credenza si è formata. Idee vere e proprie non sono, perché molti di coloro che pronunciano queste parole con la più grande convinzione non hanno nel proprio pensiero niente di ben definito che vi corrisponda; in fondo, nella maggior parte dei casi non si tratta che dell’espressione ‑ si potrebbe addirittura dire della personificazione ‑ di aspirazioni sentimentali più o meno vaghe. Si tratta di veri e propri idoli, divinità d’una specie di «religione laica» che forse non è chiaramente definita, né potrebbe esserlo, ma che ha nondimeno un’esistenza ben reale: non è la religione nel senso proprio della parola, ma qualcosa che pretende sostituirsi a essa e che meriterebbe piuttosto di essere chiamato «contro-religione».
La prima origine di questo stato di cose risale di fatto all’inizio dell’èra moderna, quando lo spirito antitradizionale si manifestò subitamente con la proclamazione del «libero esame», dell’assenza cioè, in campo dottrinale, di ogni principio superiore alle opinioni individuali. Da qui doveva fatalmente risultare l’anarchia intellettuale: da qui deriva la molteplicità indefinita delle sette religiose e pseudo-religiose, dei sistemi filosofici miranti soprattutto all’originalità, delle teorie scientifiche tanto effimere quanto pretenziose; caos inverosimile, dominato, però, in qualche modo, da una certa unità (giacché esiste uno spirito specificamente moderno da cui tutto ciò deriva), ma un’unità, se così si può dire, assolutamente negativa, trattandosi propriamente di un’assenza di principio traducentesi in quell’indifferenza nei riguardi della verità e dell’errore che ha ricevuto, a partire dal secolo XVIII, il nome di «tolleranza».
Non vorremmo essere fraintesi: non è nostra intenzione
biasimare la tolleranza pratica nei riguardi degli individui, bensì soltanto la
tolleranza teorica, che si pretende di applicare alle idee, a tutte
riconoscendo i medesimi diritti; ciò implicherebbe logicamente un radicale
scetticismo, e invece non possiamo fare a meno di constatare che, come tutti i
propagandisti, gli apostoli della tolleranza sono ben sovente, di fatto, le
persone più intolleranti. Si è prodotto infatti un fenomeno di una singolare
ironia: coloro che hanno voluto rovesciare tutti i dogmi hanno creato, per loro
uso e consumo, non diciamo un dogma nuovo, ma una caricatura di dogma, che sono
riusciti a imporre al mondo occidentale nel suo insieme; così si sono
affermate, con il pretesto dell’«affrancamento del pensiero» e sotto la forma
dei differenti idoli, i principali dei quali abbiamo enumerato precedentemente,
le credenze più chimeriche che si siano mai viste.
Di tutte le superstizioni predicate proprio da coloro che si
fanno un dovere di declamare in ogni occasione contro la «superstizione»,
quella della «scienza» e della «ragione» è la sola che, a prima vista, non
sembri poggiare su un fondamento sentimentale; esiste però talvolta un
razionalismo che altro non è se non sentimentalismo travestito, com’è
dimostrato largamente dalla passione che i suoi fautori dimostrano e dall’odio
di cui danno prova contro tutto ciò che contrasta con le loro tendenze od
oltrepassa la loro comprensione. Ad ogni modo, poiché il razionalismo
corrisponde a un indebolimento dell’intelletto, è naturale che il suo sviluppo
vada di pari passo con quello del sentimentalismo, come abbiamo spiegato nel
capitolo precedente; per altro, ciascuna di queste due tendenze può essere rappresentata
più particolarmente da certe individualità o da certe correnti di pensiero, e,
a causa delle espressioni più o meno esclusive e sistematiche che queste sono
portate ad adottare, possono anche sorgere tra di esse dei conflitti apparenti,
i quali, agli occhi degli osservatori superficiali, dissimulano una solidarietà
profonda.
Il razionalismo moderno comincia in fondo con Cartesio
(anche se di fatto esistette qualche precursore di esso già nel secolo XVI), e
se ne possono seguire le tracce attraverso tutta la filosofia moderna, non meno
che nel campo propriamente scientifico; la reazione attuale contro il
razionalismo da parte dell’intuizionismo e del pragmatismo ci offre un esempio
di questi conflitti apparenti, e del resto abbiamo visto Bergson accettare
pienamente la definizione cartesiana dell’intelligenza: non è la natura di
quest’ultima ad essere posta in discussione, ma soltanto la sua supremazia. Pur
nel secolo XVIII vi fu antagonismo tra il razionalismo degli enciclopedisti e
il sentimentalismo di Rousseau, ciò nonostante entrambi servirono, insieme,
alla preparazione del movimento rivoluzionano, il che dimostra come entrambi
rientrassero nell’unità negativa dello spirito antitradizionale. Se avviciniamo
questo esempio al precedente non è per attribuire a Bergson qualche nascosta
intenzione politica; non possiamo però fare a meno di pensare all’utilizzazione
delle sue idee in certi ambienti sindacalistici, soprattutto in Inghilterra,
pur se vediamo che in altri ambienti dello stesso genere lo spirito
«scientistico» è più che mai in onore.
Pare dunque che una delle più grandi abilità dei «dirigenti»
della mentalità moderna consista nel favorire, alternativamente o
simultaneamente a seconda delle opportunità, l’una o l’altra delle tendenze in
questione, e nello stabilire tra di esse una specie di dosaggio, mediante un
gioco di equilibri che risponde a preoccupazioni indubbiamente più politiche
che intellettuali. Questa abilità, del resto, può non essere sempre voluta, e
non intendiamo mettere in dubbio la sincerità di nessun scienziato, storico o
filosofo; sennonché spesso costoro non sono che «dirigenti» apparenti, e
possono essere essi stessi diretti o influenzati senza che si accorgano di
nulla. Per di più, l’uso che viene fatto delle loro idee non corrisponde sempre
alle loro intenzioni, e non sarebbe giusto considerarli direttamente
responsabili a questo proposito, o incolparli per non averne previsto certe
conseguenze più o meno lontane; ma è sufficiente che tali idee siano conformi
all’una o all’altra delle due tendenze di cui parliamo perché siano
utilizzabili nel senso a cui abbiamo accennato. Dato lo stato di anarchia
intellettuale in cui è immerso l’occidente, tutto vi succede come se si
trattasse di trarre dal disordine stesso, e da tutto quel che si agita nel
caos, il maggior vantaggio possibile per realizzare un piano rigorosamente
determinato. Non vogliamo insistere oltre misura su questo punto, ma ci è
difficile non ritornarvi di tanto in tanto, perché non possiamo ammettere che
un’intera razza sia puramente e semplicemente colpita da una specie di follia
collettiva che dura da alcuni secoli, e bisogna pure che esista qualcosa che
dia, nonostante tutto, un significato alla civiltà moderna; noi non crediamo al
caso, e siamo convinti che tutto ciò che esiste debba avere una causa; liberi
coloro che non la pensano come noi di non tener conto di questo genere di
considerazioni.
A questo punto, dissociando le due tendenze principali della
mentalità moderna per meglio esaminarle, e abbandonando momentaneamente il
sentimentalismo, che ritroveremo in seguito, possiamo domandarci questo: che
cos’è esattamente questa «scienza» per cui l’Occidente prova tanto esagerato
entusiasmo? Un Indù, riassumendo con estrema concisione quel che ne pensano
tutti gli Orientali che hanno avuto occasione di conoscerla, l’ha definita
molto giustamente con queste parole: «La scienza occidentale è un sapere
ignorante»[1]. Né
la giustapposizione di questi due termini è affatto una contraddizione; ecco
quel che essa vuol dire: si tratta, se si vuole, di un sapere che ha una certa
realtà, poiché è valido ed efficace in un certo campo relativo; ma di un sapere
irrimediabilmente limitato, che ignora l’essenziale, che manca di principio,
come tutto ciò che appartiene in proprio alla civiltà occidentale moderna.
La scienza, com’è concepita dai nostri contemporanei, è
esclusivamente lo studio dei fenomeni del mondo sensibile, studio intrapreso e
condotto in modo tale che ‑ insistiamo su questo punto ‑ non può essere
ricollegato a nessun principio di ordine superiore; ignorando dichiaratamente
tutto quel che la eccede, la scienza si rende pienamente indipendente nel suo
dominio, questo è vero, ma questa indipendenza, di cui si gloria, non è che il
risultato della sua stessa limitazione. Per di più essa giunge addirittura a
negare quel che non conosce, giacché è questo il solo modo di non confessare la
propria ignoranza; o, se non osa negare formalmente che possa esistere qualcosa
che non rientra nel suo dominio, essa nega però che ciò possa essere in qualche
modo conosciuto, il che è praticamente lo stesso, e pretende di incorporare
ogni possibile conoscenza. Per un partito preso spesso incosciente, gli
«scientisti» immaginano, come Auguste Comte, che l’uomo non si sia mai proposto
altro oggetto di conoscenza se non la spiegazione dei fenomeni naturali;
partito preso incosciente diciamo, poiché sono evidentemente incapaci di
comprendere come si possa andare oltre, e non è questo che noi gli
rimproveriamo, ma solo la pretesa di rifiutare agli altri il possesso o l’uso
di facoltà che a loro mancano: si direbbero dei ciechi che neghino, se non
l’esistenza della luce, per lo meno quella del senso della vista, e ciò per la
sola ragione che essi ne sono privi.
Affermare che c’è, non qualcosa di sconosciuto, ma
addirittura di «inconoscibile», secondo la terminologia di Spencer, è fare di
una infermità intellettuale un limite che a nessuno è permesso superare, e
questo, prima, non s’era mai visto; così come non s’erano mai visti degli
uomini fare di una affermazione d’ignoranza un programma e una professione di
fede, e prenderla apertamente come etichetta per una pretesa dottrina, sotto il
nome di «agnosticisrno». E si tenga ben presente che costoro non sono e non
vogliono essere degli scettici; se lo fossero, per lo meno ci sarebbe nella
loro attitudine una certa logica, dalla quale potrebbero essere in qualche modo
scusati; ma essi sono, al contrario, i più entusiasti fautori della «scienza» e
i più ferventi ammiratori della «ragione». Salta agli occhi come sia piuttosto
strano che si metta la ragione al di sopra di tutto, professando per essa un
vero culto, e nello stesso tempo si proclami che essa è essenzialmente
limitata; si tratta in verità di una cosa alquanto contraddittoria, e anche
constatandola non cercheremo di darle una spiegazione; un atteggiamento del
genere denota una mentalità che non ha niente in comune con la nostra, né sta a
noi cercare delle giustificazioni alle contraddizioni di cui pare sia affetto
il «relativismo» in tutte le sue forme.
Noi pure diciamo che la ragione è limitata e relativa, ma,
lungi dal dichiarare che essa è tutta l’intelligenza, la consideriamo come una
delle sue porzioni inferiori e vediamo nell’intelligenza altre possibilità, che
sorpassano immensamente quelle della ragione. I moderni, o per lo meno taluni di
essi, non fanno dunque che ammettere la propria ignoranza, e i razionalisti
attuali forse più volentieri dei loro predecessori, ma a condizione che nessuno
abbia il diritto di conoscere quel che essi ignorano; la pretesa di porre dei
confini a ciò che è, o anche solo di limitare radicalmente la conoscenza, è
anch’essa una manifestazione di quello spirito di negazione così caratteristico
del mondo moderno. Questo spirito di negazione non è che lo spirito di sistema,
un sistema essendo essenzialmente una concezione chiusa; esso è pervenuto a
identificarsi allo spirito filosofico stesso, soprattutto dopo Kant, il quale,
volendo racchiudere ogni conoscenza nel relativo, ha osato dichiarare
espressamente che «la filosofia è, non uno strumento per estendere la conoscenza,
ma una disciplina per circoscriverla»[2], il
che sta a significare che la funzione principale dei filosofi consiste
nell’imporre a tutti i ristretti confini del loro proprio intendimento. Si
spiega così il fatto che la filosofia moderna finisca con il sostituire quasi
integralmente la «critica» o la «teoria della conoscenza» alla conoscenza vera
e propria; si spiega così il fatto che, in molti dei suoi rappresentanti, essa
non intenda più essere altro che «filosofia scientifica», cioè semplice coordinazione
dei risultati più generali della scienza, il cui campo è il solo che essa
riconosca accessibile all’intelligenza. In queste condizioni non c’è più
nessuna distinzione tra filosofia e scienza, e veramente, da quando il
razionalismo esiste, queste due discipline non possono più avere che un solo e
medesimo oggetto; esse rappresentano un solo ordine di conoscenze e sono
animate dallo stesso spirito: quello che noi chiamiamo spirito «scientistico»,
e non spirito scientifico.
Su quest’ultima distinzione è però necessario insistere un
po’: con essa noi vogliamo mettere in evidenza il fatto che non vediamo niente
di male, in sé, nello sviluppo di certe scienze, anche se troviamo eccessiva
l’importanza che viene loro attribuita; si tratta di un sapere molto relativo,
ma in fondo sempre di un sapere, ed è legittimo che ognuno applichi la sua
attività intellettuale ad oggetti proporzionati alle proprie attitudini e ai
mezzi di cui dispone. Quel che non possiamo fare a meno di biasimare è
l’esclusivismo ‑ ma potremmo dir meglio il settarismo ‑ di coloro che,
inebriati dall’estensione che queste scienze hanno preso, rifiutano di
ammettere che esista altro al di fuori di esse, e pretendono che ogni speculazione,
per esser valida, debba sottomettersi ai metodi speciali da esse seguiti, come
se tali metodi, fatti per lo studio di alcuni oggetti determinati, fossero
universalmente applicabili. Vero è che ciò che essi concepiscono in fatto di
universalità è qualcosa di estremamente ristretto, che non va mai oltre la
sfera delle contingenze; questi «scientisti» rimarrebbero certo molto stupiti
se si sentissero dire che, senza neppure uscire da quest’ambito, c’è una
quantità di cose, inattingibili dai loro metodi, che potrebbero tuttavia essere
oggetto di scienze completamente diverse da quelle che essi conoscono, ma non
meno reali, e sovente più interessanti sotto molti aspetti.
Si direbbe che i moderni abbiano scelto arbitrariamente, nel
campo della conoscenza scientifica, un certo numero di settori che si sono
accaniti a studiare ad esclusione di tutto il resto, e comportandosi come se
tutto il resto non esistesse; è del tutto naturale, e per nulla stupefacente o
ammirevole, che alle scienze particolari che essi hanno in tal modo coltivato
abbiano dato uno sviluppo molto maggiore di quel che non avessero potuto fare
altri uomini, i quali certamente non attribuivano loro la stessa importanza;
anzi, sovente questi ultimi di esse non si interessavano neppure, e in ogni
caso si occupavano di altre cose che avevano ai loro occhi una ben maggiore
serietà. Pensiamo qui soprattutto allo sviluppo considerevole delle scienze
sperimentali, campo in cui evidentemente l’Occidente moderno eccelle, e nel
quale nessuno pensa di contestargli una superiorità, che del resto gli
Orientali trovano poco invidiabile proprio perché ha dovuto essere acquistata a
prezzo dell’oblio di tutto ciò che appare loro come veramente degno di
interesse. Tuttavia non esitiamo ad affermare che ci sono delle scienze, anche
sperimentali, di cui l’Occidente moderno non ha la minima idea. Tali scienze
esistono in Oriente, e sono fra quelle a cui noi diamo il nome di «scienze
tradizionali»; scienze simili esistevano anche in Occidente durante il Medio
Evo, e avevano caratteri del tutto analoghi. Ebbene. queste scienze, alcune
delle quali danno inoltre luogo ad applicazioni pratiche di incontestabile
efficacia, procedono con mezzi di investigazione completamente sconosciuti agli
scienziati europei dei nostri giorni. Non è qui il caso di dilungarsi su questo
argomento, ma dobbiamo almeno spiegare perché diciamo che certe conoscenze di
carattere scientifico hanno una base tradizionale, e cosa significa per noi
questa affermazione; del resto ciò contribuirà a mostrare, ancor più
chiaramente di quanto abbiamo fatto finora, quel che manca alla scienza
occidentale.
Abbiamo detto che uno dei caratteri particolari della
scienza occidentale è la pretesa di essere completamente indipendente e
autonoma; ora, come si può avere una simile pretesa se non ignorando
sistematicamente ogni conoscenza di ordine superiore alla conoscenza
scientifica, o meglio ancora negandola formalmente? Quel che nella gerarchia
necessaria delle conoscenze è al di sopra della scienza, è la metafisica, la
quale è la conoscenza intellettuale pura e trascendente, mentre la scienza, per
definizione, non è altro che la conoscenza razionale; la metafisica è
essenzialmente sovrarazionale; o essa possiede questo carattere, o non è più
metafisica affatto. Ora, il razionalismo consiste non soltanto nell’affermare
che la ragione ha un determinato valore (ciò che è contestato soltanto dagli
scettici), ma nel sostenere che non c’è nulla al di sopra di essa, e di
conseguenza che nessuna conoscenza è possibile oltre la conoscenza scientifica;
pertanto esso implica necessariamente la negazione della metafisica.
Quasi tutti i filosofi moderni sono, in modo più o meno
esplicito, dei razionalisti; in quelli che non lo sono, non si ritrova
nient’altro che sentimentalismo e volontarismo, cose non meno antimetafisiche,
dal momento che essi, pur ammettendo qualcos’altro oltre la ragione, è al di
sotto di essa che lo cercano, invece di cercarlo al di sopra; l’intellettualità
vera è almeno altrettanto lontana dal razionalismo quanto può esserlo
l’intuizionismo contemporaneo, sennonché lo è esattamente in senso inverso. In
queste condizioni, se un filosofo moderno pretende di fare della metafisica, si
può star sicuri che ciò a cui egli dà questo nome non ha assolutamente niente
in comune con la metafisica vera; e di fatto accade sempre così. A tutte queste
cose non possiamo concedere altra denominazione che quella di
«pseudo-metafisica», e se nonostante tutto si può in esse trovare casualmente
qualche considerazione valida, questa appartiene in realtà semplicemente alla
sfera scientifica. Assenza completa della conoscenza metafisica, perciò,
negazione di ogni conoscenza al di fuori di quella scientifica, limitazione
arbitraria della stessa conoscenza scientifica a certi campi particolari ad
esclusione di tutti gli altri: ecco quali sono le caratteristiche generali del
pensiero propriamente moderno; ecco a qual grado di decadimento intellettuale è
giunto l’Occidente da quando è uscito dalle vie che sono normali per il resto
dell’umanità.
La metafisica è la conoscenza dei principi d’ordine
universale, da cui tutte le cose necessariamente dipendono, in modo diretto o
indiretto; dove la metafisica è assente, ogni conoscenza residua, di qualunque
ordine sia, manca dunque veramente di principio, e se in tal modo essa guadagna
qualcosa nel senso dell’indipendenza (non di diritto ma di fatto), molto di più
perde in portata e in profondità. È questa la ragione per cui la scienza
occidentale è, se così si può dire, tutta in superficie; disperdendosi nella
molteplicità indefinita delle conoscenze frammentarie, perdendosi negli
innumerevoli particolari dei fatti, essa non permette di conoscere nulla della
vera natura delle cose, che dichiara inaccessibile per giustificare la propria
impotenza a raggiungerla; per questa ragione essa corrisponde a un interesse
più pratico che speculativo. Anche quando vengono fatti dei tentativi per
unificare un simile sapere eminentemente analitico, questi sono puramente
fittizi e si fondano esclusivamente su ipotesi più o meno azzardate, sicché
crollano gli uni dopo gli altri, e non sembra che una teoria scientifica di
qualche ampiezza sia in grado di durare più di mezzo secolo, al massimo.
Del resto, l’idea occidentale secondo cui la sintesi è come
un risultato e una conclusione dell’analisi, è radicalmente falsa; la verità è
che per mezzo dell’analisi non si può mai arrivare ad una sintesi degna di
questo nome, perché si tratta di due cose che non sono affatto del medesimo
ordine; ed è nella natura dell’analisi di poter essere proseguita
indefinitamente (se il campo in cui si esercita permette una tale estensione),
senza che con ciò si avanzi di un sol passo verso l’acquisizione di una veduta
d’insieme di questo campo. A maggior ragione essa è assolutamente inefficace ad
ottenere un collegamento con principi di ordine superiore. Il carattere
analitico della scienza moderna si riflette in quel continuo moltiplicarsi
delle specialità di cui lo stesso Auguste Comte non ha potuto fare a meno di
denunciare i pericoli; questa «specializzazione», così vantata da certi
sociologi sotto il nome di «divisione del lavoro», è, senza possibilità
d’errore, il miglior mezzo per acquisire quella «miopia intellettuale» che
sembra far parte delle qualificazioni richieste al perfetto «scientista», e
senza la quale lo stesso «scientismo» non avrebbe nessun successo. Inoltre gli
«Scientisti», tolti dal loro campo, generalmente danno prova di un’ingenuità
incredibile; niente è più facile che influire su di loro, e ciò spiega in buona
parte il successo ottenuto dalle teorie più ridicole, purché si abbia avuto
cura di chiamarle «scientifiche». Le ipotesi più gratuite, quale ad esempio
quella dell’evoluzione, assumono allora il carattere di «leggi» e sono date per
provate; se questo successo è soltanto passeggero, si farà presto a trovare in
seguito qualcos’altro, che sempre verrà accettato con uguale facilità. Le false
sintesi che si sforzano di trarre il superiore dall’inferiore (curiosa
trasposizione della concezione democratica), non possono mai essere che
ipotetiche; la sintesi vera, al contrario, che parte dai principi, partecipa
della loro certezza. Sennonché per ottenerla bisogna partire dai veri principi,
e non da semplici ipotesi filosofiche, alla maniera di Cartesio.
La scienza dunque, misconoscendo i principi e rifiutando di
fare ad essi riferimento, si priva insieme della più alta garanzia che possa
ricevere e della più sicura direzione che possa esserle data; di valido in essa
non ci sono più che le conoscenze dei particolari, e se vuole elevarsi a un
livello superiore diventa dubbia e titubante. Un’altra conseguenza di quanto
abbiamo detto della relazione esistente tra analisi e sintesi, è che lo
sviluppo della scienza, com’essa è intesa dai moderni, non estende affatto il
suo dominio: la somma delle conoscenze parziali può accrescersi indefinitamente
all’interno di esso non per approfondimento, ma per divisione e suddivisione
spinte sempre più lontano; si tratta veramente della scienza della materia e
della molteplicità. Del resto, anche se reale estensione ci fosse, il che può
succedere eccezionalmente, ciò avverrebbe sempre sullo stesso livello, e una
scienza di questo genere non sarebbe con ciò capace di sollevarsi da esso; così
com’è costituita, essa si trova separata dai principi da un abisso che nulla
può, non diciamo farle superare, ma neppure diminuire nella più infima
proporzione.
Quando diciamo che le scienze, anche quelle sperimentali,
hanno in Oriente un fondamento tradizionale, intendiamo dire che,
contrariamente a ciò che accade in Occidente, esse sono sempre ricollegate a
certi principi; questi ultimi non vengono mai persi di vista, e le stesse cose
contingenti non paiono degne di studio se non in quanto conseguenze e
manifestazioni esteriori di qualcosa che appartiene a un altro ordine.
Conoscenza metafisica e conoscenza scientifica non rimangono certo per questo
meno profondamente distinte; ma tra di esse non c’è quella discontinuità
assoluta che si constata esaminando lo stato attuale della conoscenza
scientifica presso gli Occidentali. Per prendere un esempio nello stesso
Occidente, si ponga mente a tutta la distanza che separa la prospettiva della
cosmologia antica e medioevale da quella fisica com’essa è intesa dagli
scienziati moderni; mai, prima dell’epoca attuale, lo studio del mondo
sensibile era stato considerato come sufficiente a se stesso; mai la scienza di
questa molteplicità mutevole e transitoria sarebbe stata giudicata veramente
degna di tale nome se non si fosse trovata la maniera di ricollegarla, in modo
più o meno diretto, a qualcosa di stabile e di permanente. La concezione
antica, che è poi quella che sempre hanno posseduto gli Orientali, riteneva una
qualunque scienza valida non tanto in se stessa quanto nella misura in cui
esprimeva nel suo modo particolare (e rappresentava in un certo ordine di cose)
un riflesso della verità superiore, immutabile, di cui partecipa
necessariamente tutto ciò che possiede qualche realtà; e poiché i caratteri di
questa verità si incarnavano in qualche modo nell’idea di tradizione, ogni
scienza appariva come un prolungamento della stessa dottrina tradizionale, come
una delle sue applicazioni, senza dubbio secondarie e contingenti, accessorie e
non essenziali, costituenti una conoscenza inferiore se si vuole, ma pur sempre
una vera conoscenza in quanto conservava un legame con la conoscenza per
eccellenza, quella di ordine intellettuale puro. Come si vede, questa
concezione non si addice in nessun modo al grossolano naturalismo di fatto che
rinchiude i nostri contemporanei nella sola sfera delle contingenze, anzi, più
esattamente, in una sua ristretta porzione[3]; e
siccome gli Orientali, ripetiamo, non hanno mai cambiato il loro punto di
vista, né possono farlo senza rinnegare i principi su cui si fonda tutta la
loro civiltà, le due mentalità appaiono decisamente incompatibili. È
l’Occidente che ha cambiato, e che d’altronde muta senza interruzione, cosicché
forse giungerà un momento in cui la sua mentalità si modificherà finalmente in
senso favorevole e si aprirà ad una comprensione più vasta; allora questa
incompatibilità svanirà da sé.
Pensiamo di aver sufficientemente mostrato a qual punto sia
giustificato l’apprezzamento degli Orientali nel riguardi della scienza
occidentale; in queste condizioni una sola cosa può spiegare l’ammirazione
senza limiti e il rispetto superstizioso che la circonda: il fatto che essa è
in perfetta armonia con i bisogni di una civiltà puramente materiale. Di fatto,
non si tratta di una speculazione disinteressata; ciò che si imprime nella
mentalità di individui le cui preoccupazioni sono tutte rivolte verso
l’esterno, sono le applicazioni a cui la scienza dà luogo, è il suo carattere
prima di tutto pratico e utilitaristico; ed è soprattutto alle invenzioni
meccaniche che lo spirito «scientistico» deve il suo sviluppo. Sono queste
invenzioni che hanno suscitato, fin dall’inizio del secolo XIX, un vero delirio
di entusiasmo, perché sembravano avere per obiettivo quell’aumento del
benessere corporale che, manifestamente, è la principale aspirazione del mondo
moderno; sennonché, senza accorgersene, si creavano in questo modo più bisogni
nuovi di quanti se ne potessero soddisfare, dimostrando che, anche da questo
angolo visuale essenzialmente relativo, il progresso è una cosa quanto mai
illusoria; una volta lanciati su questa strada pare che non sia più possibile
fermarsi, e si appetisce sempre qualcosa di nuovo. Comunque sia, sono queste
applicazioni, confuse con la «scienza» vera e propria, ad aver creato il
prestigio e il credito di cui gode quest’ultima; questa confusione, che poteva
prodursi soltanto in gente ignorante di ciò che è la speculazione pura perfino
in campo scientifico, è diventata così abituale, che ai giorni nostri, aprendo
una qualsiasi pubblicazione, si trova costantemente designato con il nome di
«scienza» quel che propriamente si dovrebbe chiamare «industria»; il tipo dello
«scienziato», nella mente della maggior parte della gente, è l’ingegnere,
l’inventore o il costruttore di macchine.
Quanto alle teorie scientifiche, esse hanno beneficiato di
questo stato d’animo molto più di quanto non l’abbiano suscitato; se anche
coloro che meno sono in grado di capirle le accettano con fiducia e le
accolgono come veri e propri dogmi (e meno le capiscono, più è facile fargliele
accettare), ciò avviene perché le considerano, a torto o a ragione, solidali
con quelle invenzioni pratiche, che a loro appaiono così meravigliose. Parlando
seriamente, tale solidarietà è però molto più apparente che reale; le ipotesi,
più o meno inconsistenti, non c’entrano per nulla con le scoperte e con le
invenzioni, sull’interesse delle quali i giudizi possono differire, ma che
hanno in ogni caso il merito di essere qualcosa di effettivo; inversamente,
qualunque cosa possa essere realizzata in campo pratico non proverà mai la
verità di un’ipotesi qualsiasi. Del resto, e generalmente parlando, non può
propriamente esistere verifica sperimentale di un’ipotesi, perché è sempre
possibile trovare più teorie che spieghino ugualmente bene gli stessi fatti;
certe ipotesi si possono eliminare quando ci si accorga che sono in
contraddizione con qualche fatto, ma quelle che restano rimangono sempre
semplici ipotesi e niente di più; non è in questo modo che si possono ottenere
delle certezze.
Sennonché, da parte di uomini che accettano soltanto il
fatto bruto e non hanno alcun criterio di verità oltre l’«esperienza», intesa
unicamente come constatazione dei fenomeni sensibili, non può essere presa in
considerazione la possibilità di andar più lontano o di procedere in modo
diverso, e allora non vi sono che due attitudini possibili: o restare
soddisfatti del carattere ipotetico delle teorie scientifiche, e rinunciare a
ogni certezza superiore alla semplice evidenza sensibile, o rifiutare di
riconoscere questo carattere ipotetico e credere ciecamente a tutto quel che
viene insegnato in nome della «scienza». Il primo atteggiamento, certamente più
intelligente del secondo (se si tiene conto dei limiti dell’intelligenza
«scientifica»), è quello di certi scienziati i quali, meno ingenui degli altri,
si rifiutano di farsi trarre in inganno dalle loro stesse ipotesi o da quelle
dei loro colleghi; in questo modo essi finiscono con l’adottare, per tutto ciò
che non è pratica immediata, una sorta di scetticismo più o meno completo, o
quanto meno, di probabilismo: si tratta dell’«agnosticismo» applicato non più
soltanto a ciò che va oltre il dominio scientifico, ma esteso al campo
scientifico stesso. Essi non escono da quest’atteggiamento negativo se non con
un pragmatismo più o meno cosciente che (come in Henri Poincaré) sostituisce la
considerazione della verità di un’ipotesi con quella della sua comodità; e
questa non è forse una confessione d’incurabile ignoranza? Il secondo
atteggiamento, che possiamo chiamare dogmatico, è più o meno sinceramente
mantenuto da altri scienziati, e soprattutto da quelli che si credono obbligati
ad essere affermativi per necessità d’insegnamento; apparire sempre sicuri di
sé e di ciò che si dice, dissimulare difficoltà e incertezze, mai enunciare
nulla in forma dubitativa: questo è infatti il mezzo più facile per farsi
prendere sul serio e acquisire autorità quando si ha a che fare con un pubblico
generalmente incompetente e privo di discernimento, sia che ci si rivolga ad
allievi, sia che si voglia far opera di volgarizzazione. Inoltre, questo
atteggiamento è naturalmente assunto, e senza dubbio sinceramente in questo
caso, da coloro che ricevono tale insegnamento; esso è perciò comunemente
quello del cosiddetto «grosso pubblico», e lo spirito «scientistico» può essere
osservato in tutta la sua pienezza, con il suo carattere di credenza cieca,
presso gli individui che non posseggono che una «semi-istruzione», negli
ambienti dove regna la mentalità che spesso viene qualificata in francese come
«primaria», benché non corrisponda esclusivamente al grado d’insegnamento che
porta questo nome.
Abbiamo usato poco fa la parola «volgarizzazione»; si tratta
di un altro fenomeno affatto caratteristico della civiltà moderna, e in esso si
può vedere uno dei fattori principali della mentalità che stiamo cercando di
descrivere. La volgarizzazione è una delle forme assunte dallo strano bisogno
di propaganda che anima la mentalità occidentale, e non si può spiegare se non
con l’influenza preponderante di elementi sentimentali; nessuna considerazione
intellettuale giustifica il proselitismo, nel quale gli Orientali non vedono
che una prova d’ignoranza e d’incomprensione; esporre semplicemente la verità
come la si è capita, non facendo intervenire che la sola preoccupazione di non
alterarla, e volere ad ogni costo che gli altri condividano la propria
convinzione, sono due cose completamente diverse. Anzi, la propaganda e la
volgarizzazione non sono possibili che a detrimento della verità: pretendere di
mettere quest’ultima «alla portata di tutti», facendola accessibile a tutti
indistintamente, significa necessariamente impoverirla e deformarla, perché è
impossibile ammettere che tutti gli uomini siano ugualmente capaci di capire
qualsiasi cosa; non si tratta di istruzione più o meno ampia, è una questione
di «orizzonte intellettuale», e questo non si può modificare, essendo inerente
alla natura stessa di ogni individuo umano.
Il chimerico pregiudizio dell’«uguaglianza» va contro i
fatti più evidenti, tanto nella sfera intellettuale quanto nella sfera fisica;
è la negazione di ogni gerarchia naturale, è l’abbassamento di ogni conoscenza
al livello della comprensione limitata della massa. Non si vuol più ammettere
nulla che vada oltre la comprensione comune, e di fatto le concezioni
scientifiche e filosofiche della nostra epoca, qualunque siano le loro pretese,
presentano in fondo un carattere estremamente mediocre; purtroppo si è riusciti
fin troppo bene a eliminare tutto quel che sarebbe potuto essere incompatibile
con le preoccupazioni della volgarizzazione... Checché ne possa dire qualcuno,
la costituzione di qualsiasi élite è
inconciliabile con l’ideale democratico; quest’ultimo esige che l’insegnamento
più rigorosamente identico sia impartito agli individui più eterogeneamente
dotati, dalle attitudini e dai temperamenti più diversi; nonostante tutto ciò,
non si può impedire che tale insegnamento produca effetti ancora molto
variabili, risultato contrario, però, alle intenzioni di coloro che l’hanno
istituito. Ad ogni modo, un sistema di istruzione come questo è sicuramente il
più imperfetto di tutti, e la diffusione sconsiderata di qualunque conoscenza è
sempre più dannosa che utile, poiché in generale può soltanto provocare uno
stato di disordine e di anarchia.
A una tale diffusione si oppongono i metodi
dell’insegnamento tradizionale quale esiste dappertutto in Oriente, ove
dell’istruzione obbligatoria si vedranno sempre assai di più gli inconvenienti
molto reali che i presunti benefici. Vero è che le conoscenze che il pubblico
occidentale può avere a sua disposizione non hanno nulla di trascendente;
eppure esse si trovano ancora impoverite nelle opere di volgarizzazione, che ne
espongono esclusivamente gli aspetti inferiori, falsati, per di più, allo scopo
di semplificarli; queste opere insistono con compiacenza sulle ipotesi più
fantastiche, facendole audacemente passare per verità dimostrate e
accompagnandole con quelle insulse declamazioni che piacciono tanto alla folla.
Una quasi-scienza acquisita con simili letture, o da un insegnamento di cui
tutti gli elementi sono attinti in manuali del medesimo valore, è ben
altrimenti nefasta che l’ignoranza pura e semplice; è molto meglio non saper
niente del tutto che avere la mente ingombra di idee false, sovente impossibili
da sradicare, soprattutto quando siano state inculcate a partire dalla più
tenera età. L’ignorante conserva almeno la possibilità di apprendere, se gliene
si presenta l’occasione; egli può possedere un certo «buon senso» naturale,
che, unito alla coscienza che ha generalmente della sua incompetenza, gli è
sufficiente per evitare molte stupidità. L’uomo che ha ricevuto una
«semi-istruzione», invece, ha quasi sempre una mentalità deformata, e quel che
crede di sapere lo gonfia di una tale presunzione che egli immagina d’essere in
grado di parlare di tutto indifferentemente; naturalmente, ad ogni occasione lo
fa, ma tanto più facilmente quanto più è incompetente: tutte le cose sembrano
così semplici a chi non conosce niente!
Del resto, anche lasciando da parte gli inconvenienti della
volgarizzazione propriamente detta e prendendo in esame la scienza occidentale
nella sua totalità e sotto i suoi aspetti più autentici, la pretesa che hanno i
suoi rappresentanti di poterla insegnare a tutti senza riserve è un altro segno
evidente di mediocrità. Agli occhi degli Orientali, ciò che si può studiare
senza possedere nessuna particolare qualificazione non può avere un gran
valore, né può contenere alcunché di veramente profondo; la scienza
occidentale, infatti, è tutta esteriore e superficiale; per caratterizzarla,
invece di «sapere ignorante» noi diremmo anche volentieri, e quasi nello stesso
senso, «sapere profano». Anche da questo punto di vista, la filosofia non si
distingue veramente dalla scienza: qualche volta si è voluto definirla come la
«saggezza umana»; è una definizione esatta, a condizione però d’insistere sul
fatto che la filosofia non è niente più d’una saggezza puramente umana,
nell’accezione più limitata della parola, e non si richiama a nessun elemento
di carattere superiore alla ragione; ad evitare ogni equivoco la chiameremmo
anche «saggezza profana», ma ciò vuol dire che in fondo essa non è affatto una
saggezza, e che di quest’ultima non ha se non l’apparenza illusoria.
Non abbiamo intenzione di insistere qui sulle conseguenze
del carattere «profano» di tutto il sapere occidentale moderno, ma, per
mostrare ancora a che punto questo sapere sia superficiale e fittizio,
segnaleremo che i metodi d’istruzione in uso hanno per effetto di sostituire quasi
totalmente la memoria all’intelligenza; quel che si richiede agli allievi, ad
ogni grado dell’insegnamento, è di accumulare delle conoscenze, non di
assimilarle; ci si applica soprattutto a cose il cui studio non esige nessuna
comprensione; le idee vengono sostituite dai fatti e l’erudizione è
generalmente presa per scienza reale. Per promuovere o screditare questo o quel
ramo della conoscenza, questo o quel metodo, è sufficiente proclamare che esso
è o non è «scientifico». Quelli che ufficialmente sono ritenuti «metodi
scientifici» sono i procedimenti dell’erudizione più priva d’intelligenza e più
esclusiva di tutto ciò che non sia ricerca fine a se stessa dei fatti, fin nei
particolari più insignificanti; cosa degna di nota, sono proprio coloro che si dedicano
agli studi «letterari» ad abusare maggiormente di questa denominazione. Il
prestigio di questa etichetta «scientifica», proprio quando non si tratta di
nient’altro che di un’etichetta, è davvero il trionfo dello spirito
«scientistico» per eccellenza; e non abbiamo forse ragione di chiamare
«superstizione della scienza» il rispetto che l’uso di una semplice parola
impone alla folla, ivi compresi i cosiddetti «intellettuali»?
La propaganda «scientistica» naturalmente non si esercita
soltanto all’interno, sotto la doppia forma dell’«istruzione obbligatoria» e
della volgarizzazione, ma imperversa anche all’esterno, come tutte le altre
varietà di proselitismo occidentale. Dovunque gli Europei si siano installati
hanno voluto diffondere i pretesi «benefici dell’istruzione», e lo hanno fatto
sempre con gli stessi metodi, senza tentare il minimo adattamento o chiedersi
se non esistesse già in quei luoghi qualche altro genere d’istruzione; tutto
quel che non proviene da loro dev’essere considerato nullo e non avvenuto, e
l’«uguaglianza» non permette ai popoli diversi e alle diverse razze di avere la
loro mentalità propria; del resto, il principale «beneficio» che coloro che la
impongono si ripromettono da quest’istruzione è probabilmente, dappertutto e
sempre, la distruzione dello spirito tradizionale.
D’altra parte, l’«uguaglianza», così cara agli Occidentali,
si riduce, appena essi escano da casa loro, alla sola uniformità; il rimanente
di ciò che essa implica non è articolo d’esportazione e non riguarda che i rapporti
degli Occidentali fra di loro, poiché essi credono di essere incomparabilmente
superiori a tutti gli altri uomini, tra i quali non fanno nessuna distinzione:
i negri più barbari e gli Orientali più istruiti vengono trattati più o meno
nello stesso modo, dal momento che sono ugualmente al di fuori dell’unica
«civiltà» che abbia diritto all’esistenza. Inoltre gli Europei si limitano, in
generale, a insegnare le più rudimentali di tutte le loro conoscenze; non è
difficile immaginare come queste debbano essere apprezzate dagli Orientali, ai
quali persino ciò che in esse vi è di più elevato sembrerebbe notevole
soprattutto per la sua limitatezza, e caratterizzato da una ingenuità alquanto
grossolana. E siccome i popoli che hanno una civiltà propria si mostrano
piuttosto refrattari a questa tanto vantata istruzione, mentre i popoli senza
cultura la subiscono molto più docilmente, gli Occidentali non sono forse
alieni dal giudicare i secondi superiori ai primi; essi riservano almeno una
stima relativa a coloro che considerano capaci di «elevarsi» al loro livello,
anche se soltanto dopo qualche secolo di regime di «istruzione obbligatoria» ed
elementare. Sfortunatamente, vi è chi, per quel che lo riguarda, chiamerebbe
«abbassarsi» quel che gli Occidentali chiamano «elevarsi»; questo è ciò che
pensano tutti gli Orientali, pur se non lo dicono, e preferiscono, come succede
quasi sempre, rinchiudersi nel più sdegnoso silenzio; per di più l’opinione
degli Occidentali li tocca così poco, che essi lasciano la vanità di questi
ultimi libera di interpretare a piacere tale atteggiamento.
Gli Europei hanno della propria scienza una così alta
opinione da crederne il prestigio irresistibile, e immaginano che gli altri
popoli debbano cadere in ammirazione davanti alle loro scoperte più
insignificanti; questo modo di pensare, il quale li porta talvolta a errori
singolari, non è del tutto nuovo, e ne abbiamo trovato in Leibnitz un esempio
abbastanza divertente. È risaputo che questo filosofo aveva concepito il
progetto di costruire ciò che egli chiamava una «caratteristica universale»,
una specie di algebra generalizzata, cioè resa applicabile a nozioni di ogni
tipo invece di essere limitata alle sole nozioni quantitative; questa idea gli
era stata del resto ispirata da alcuni autori del Medio Evo, in particolare da
Raimondo Lullo e da Tritemio. Ora, nel corso degli studi condotti tentando di
realizzare questo progetto, Leibnitz fu portato a preoccuparsi del significato
dei caratteri ideografici che costituiscono la scrittura cinese, e più
particolarmente delle figure simboliche che formano la base dello Yi King. Vediamo come capì queste
ultime: «Leibnitz, dice L. Couturat, credeva di aver trovato con la sua
numerazione binaria (numerazione che si serve dei soli segni 0 e 1, e in cui
egli vedeva un’immagine della creazione ex
nihilo) l’interpretazione dei caratteri di Fo-hi, simboli cinesi misteriosi
e molto antichi, il cui senso era sconosciuto ai missionari e agli stessi
Cinesi... Egli proponeva di usare questa interpretazione per la propagazione
della fede in Cina, tenuto conto del fatto che essa poteva dare ai Cinesi
un’elevata idea della scienza europea e dimostrare l’accordo di quest’ultima
con le tradizioni sacre e venerabili della saggezza cinese. Egli incluse questa
interpretazione nella esposizione della sua aritmetica binaria inviata all’Accademia
delle Scienze di Parigi»[4].
Ed ecco quel che si può leggere testualmente in tale
memoriale: «Quel che più sorprende in questo calcolo (dell’Aritmetica binaria),
è che simile Aritmetica, fondata sullo zero e sull’unità, può spiegare il
mistero delle linee di un antico Re e Filosofo chiamato Fohy, che si crede sia
vissuto più di quattromila anni fa[5] e
considerato dai Cinesi come il Fondatore del loro Impero e delle loro scienze;
gli si attribuiscono diverse figure formate da linee, le quali tutte si
riducono a questa Aritmetica; ma è sufficiente riprodurre qui la Figura degli otto Cova[6], come essa viene
chiamata, la quale è ritenuta fondamentale, e aggiungervi la spiegazione, che è
evidente se si osserva in primo luogo che il significato d’una linea intera è
l’unità, o 1, e in secondo luogo che il significato di una linea spezzata è lo
zero. o 0. I Cinesi hanno perduto il significato dei Cova, o ‘Lineazioni’ di Fohy, forse da più d’un migliaio d’anni, e
hanno scritto su questo argomento dei commentari in cui han cercato non si sa
bene quali significati lontani, sicché è stato necessario che la vera
spiegazione giungesse, ora, da parte degli Europei. Ed ecco in qual modo: non
più di due anni fa inviai al R. P. Bouvet, celebre Gesuita francese abitante a
Pechino, il mio sistema di numerazione basato sullo 0 e sull’1, e più non gli
occorse per fargli riconoscere in esso la chiave delle figure di Fohy. Così,
scrivendomi il 14 novembre 1701, egli mi inviò la gran figura di questo
Principe Filosofo, la quale procede fino a 64[7] e non
lascia più dubbi sulla verità della nostra interpretazione, sicché si può ben
dire che questo Padre abbia decifrato l’enigma di Fohy con l’aiuto di quanto
gli avevo comunicato. Siccome queste figure sono forse il più antico documento
di scienza che esista al mondo, questo ritrovamento del loro significato dopo
un sì grande intervallo di tempo sembrerà tanto più interessante... E questo
accordo suscita in me una grande stima della profondità delle meditazioni di
Fohy. Poiché quel che ci sembra facile adesso, non lo era affatto in quei tempi
lontani... Ora, siccome in Cina si crede che Fohy sia anche l’autore dei
caratteri cinesi, benché questi si siano venuti alterando grandemente col
passar del tempo, il suo saggio sull’Aritmetica fa pensare che in esso si
potrebbe forse ancora trovare qualcosa di notevole, con riferimento al numeri e
alle idee, quando si riuscisse a scoprire il fondamento della scrittura cinese,
tanto più che in Cina si crede che Fohy abbia tenuto conto dei numeri quando la
istituì. Il R. P. Bouvet ha serie intenzioni di indagare in questo senso, ed è
persona ben capace di riuscirvi in molti modi. Tuttavia non penso che sia mai
stata contenuta nella scrittura cinese un’utilità che si avvicini a quella che
necessariamente avrà la caratteristica che sto progettando. Ogni ragionamento
che si possa derivare dalle nozioni potrà infatti essere dedotto dai loro
caratteri, a mo’ di calcolo, e sarà questo uno dei mezzi più importanti per
aiutare lo spirito umano»[8].
Abbiamo voluto riprodurre integralmente questo curioso
documento che permette di misurare quanto lontano si potesse spingere la
comprensione di colui che tuttavia è da noi considerato il più «intelligente»
di tutti i filosofi moderni: Leibnitz era persuaso in partenza che la sua
«caratteristica», che del resto non riuscì mai a costruire (e i «logisti»
d’oggi sono almeno tanto lontani quanto lui dal riuscirvi), non avrebbe potuto
mancare di essere molto superiore all’ideografia cinese; ma il più bello è che
egli pensava di fare un grande onore a Fo-hi attribuendogli un «saggio di
aritmetica» e la prima idea del suo giochetto di numerazione. Ci pare di vedere
il sorriso dei Cinesi se gli fosse stata presentata questa interpretazione
discretamente puerile, la quale, ben lungi dal suggerire «un’elevata idea della
scienza europea», era invece atta a fargliene apprezzare molto esattamente la
portata reale.
La verità è che i Cinesi non hanno mai «perduto il
significato», o meglio i significati, dei simboli in questione; semplicemente
non si sentivano obbligati a spiegarli al primo venuto, soprattutto se
giudicavano che sarebbe stata fatica sprecata; e in fondo Leibnitz, parlando di
«non so quali significati lontani» («je
ne sais quels sens éloignés»), confessa di non capirne
1.
nulla. Sono questi significati, conservati con cura dalla
tradizione (che i commentarî non fanno che seguire fedelmente), a costituire la
«vera spiegazione», né essi hanno alcunché di «mistico»; e quale prova
d’incomprensione si potrebbe dare più evidente di questa, consistente nel
prendere dei simboli metafisici per «caratteri puramente numerici»? Simboli
metafisici: ecco in realtà che cosa sono essenzialmente i «trigrammi» e gli
«esagrammi», una rappresentazione sintetica di teorie che possono avere
illimitati sviluppi oltre che adattamenti molteplici qualora, invece di
rimanere nella sfera dei principi, ne venga fatta l’applicazione a questo o a
quel campo determinato. Leibnitz si sarebbe molto stupito se gli fosse stato
detto che la sua interpretazione aritmetica trovava posto anch’essa fra quei
significati che egli respingeva senza conoscere, ma soltanto a un livello
subordinato e del tutto accessorio; questa interpretazione, infatti, non è
falsa in se stessa, ed è perfettamente compatibile con tutte le altre, ma è
completamente insufficiente e incompleta, e addirittura insignificante quando
la si consideri isolatamente; essa può presentare qualche interesse soltanto in
virtù della corrispondenza analogica che lega i significati inferiori al senso
superiore, conformemente a ciò che abbiamo detto sulla natura delle «scienze
tradizionali».
Il senso superiore è il senso metafisico puro; tutto il
resto non sono che applicazioni diverse, più o meno importanti, ma sempre
contingenti: può esistere un’applicazione aritmetica così come ne esistono
un’indefinità d’altre; per esempio c’è un’applicazione logica, che avrebbe
potuto servire maggiormente al progetto di Leibnitz se egli l’avesse
conosciuta; come c’è un’applicazione sociale, che è il fondamento del
Confucianesimo, e un’applicazione astronomica (la sola che i Giapponesi abbiano
mai potuto afferrare)[9], come
pure un’applicazione divinatoria, che però i Cinesi considerano una delle più
basse, e la cui pratica viene abbandonata ai giocolieri ambulanti. Se Leibnitz
si fosse trovato in contatto diretto con i Cinesi, questi gli avrebbero forse
spiegato (ma l’avrebbe capito?) che anche le cifre di cui egli si serviva
potevano essere i simboli di idee di un ordine molto più profondo delle idee
matematiche, e che è in virtù di tale simbolismo che i numeri venivano presi in
considerazione nella formazione degli ideogrammi, così come nell’espressione
delle dottrine pitagoriche (il che dimostra che queste cose non erano ignote
all’antichità occidentale). I Cinesi avrebbero anche potuto accettare la notazione
con lo 0 e l’1, e adottare questi «caratteri puramente numerici» per
rappresentare simbolicamente le idee metafisiche dello yin e dello yang (che del
resto non hanno niente a che vedere con la concezione della creazione ex nihilo), pur avendo molte ragioni per
preferire, perché più adeguata, la rappresentazione fornita dalle «lineazioni»
di Fo-hi, le quali si riferiscono in modo più appropriato e diretto alla sfera
metafisica.
Ci siamo soffermati su questo esempio perché esso mette
chiaramente in rilievo la differenza che esiste tra il sistematismo filosofico
e la sintesi tradizionale, tra la scienza occidentale e la saggezza orientale;
dopo questo esempio, che per noi ha anch’esso il valore di un simbolo, non è
difficile riconoscere da quale parte si trovino l’incomprensione e la ristrettezza
di vedute[10]. Leibnitz, che pretende
di capire i simboli cinesi meglio dei Cinesi stessi, è un vero e proprio
precursore degli orientalisti, i quali, e soprattutto i tedeschi, hanno la
stessa pretesa nei riguardi di tutte le concezioni e di tutte le dottrine
orientali, e rifiutano di tenere nel minimo conto il parere dei rappresentanti
autorizzati di queste dottrine: abbiamo citato altrove il caso del Deussen che
immaginava di poter spiegare Shankarâchârya agli Indù, interpretandolo secondo
le idee di Schopenhauer; si tratta in fondo di manifestazioni della stessa
mentalità.
A questo proposito dobbiamo fare ancora una considerazione:
gli Occidentali, i quali ad ogni occasione mettono insolentemente in mostra la
loro convinzione nella propria superiorità e nella superiorità della loro
scienza, non sono certo i più atti ad accusare la saggezza orientale di
«orgoglio intellettuale»; alcuni di essi lo fanno talvolta con il pretesto che
essa non si costringe nel limiti che sono loro abituali, e perché non possono
sopportare ciò che supera la loro mentalità; si tratta di una delle tante
pecche di quella mediocrità che costituisce l’essenza dello spirito
democratico. L’orgoglio, in realtà, è cosa tutta occidentale; come d’altronde
lo è l’umiltà, e, per paradossale che ciò possa sembrare, vi è una relazione
abbastanza stretta fra questi due contrari; è questo un esempio della dualità
che domina tutta la sfera sentimentale e di cui lo stesso carattere delle
concezioni morali fornisce la prova più evidente, giacché le nozioni di bene e
di male non potrebbero esistere se non in virtù della loro stessa opposizione.
In realtà, orgoglio e umiltà sono ugualmente estranei e indifferenti alla
saggezza orientale (potremmo dire piuttosto alla saggezza senza aggettivi),
giacché la sua essenza è puramente intellettuale e completamente svincolata da
ogni sentimentalità; essa sa che l’essere umano è nello stesso tempo molto di
meno e molto di più di quel che credono gli Occidentali (per lo meno quelli
d’oggi), e sa pure che esso è esattamente ciò che dev’essere per occupare il posto
che gli è assegnato nell’ordine dell’universo.
L’uomo, ‑ intendiamo dire l’individualità umana ‑ non si
trova affatto in una situazione privilegiata o eccezionale, in qualsiasi senso
si consideri; esso non è né in alto né in basso nella scala degli esseri poiché
rappresenta semplicemente uno stato come gli altri nella gerarchia delle
esistenze; uno stato fra un’indefinità di altri, di cui molti gli sono
superiori e di cui pure molti gli sono inferiori. Non è difficile constatare,
anche a questo proposito, che l’umiltà si accompagna volentieri a un certo
genere d’orgoglio: nel modo in cui si cerca talvolta in Occidente di abbassare
l’uomo, si riesce ad attribuirgli nello stesso tempo un’importanza che esso non
può avere come individualità; forse vi è in tutto ciò un esempio di quella
specie di ipocrisia incosciente che, in una misura o nell’altra, è inseparabile
da ogni «moralismo», e in cui gli Orientali vedono abbastanza generalmente uno
dei caratteri specifici dell’Occidentale. Del resto, non è a dire che questa
contropartita dell’orgoglio rappresentata dall’umiltà sia sempre presente,
tutt’altro: in molti Occidentali si trova una vera e propria deificazione della
ragione umana in adorazione di se stessa, o direttamente, o attraverso la
scienza che è la sua opera; è la forma più estrema del razionalismo e dello
«scientismo», ma è anche il loro risultato più naturale e, in definitiva, più
logico. In effetti quando non si conosca nulla di là da questa scienza e da
questa ragione si può tranquillamente restare nell’illusione della loro
assoluta supremazia; quando non si conosca niente di superiore all’umanità, e
più particolarmente, di superiore al tipo di umanità rappresentato
dall’Occidente moderno, si può ben essere tentati di divinizzarla, soprattutto
quando intervenga il sentimentalismo (e abbiamo mostrato come esso sia lungi
dall’essere incompatibile con il razionalismo).
Tutto ciò non è che la conseguenza inevitabile di
quell’ignoranza dei principi da noi denunciata come il difetto capitale della
scienza occidentale; e, ad onta delle proteste del Littré, noi non pensiamo che
Auguste Comte abbia minimamente fatto deviare il positivismo quando volle
instaurare una «religione dell’Umanità»; questa forma speciale di «misticismo»
non era altro che un tentativo di fusione delle due tendenze caratteristiche
della civiltà moderna. Ma c’è di meglio; esiste addirittura uno
pseudo-misticismo materialistico: abbiamo conosciuto delle persone che
arrivavano al punto di dichiarare che, quand’anche non avessero avuto alcun
motivo razionale per essere materialisti, avrebbero tuttavia continuato ad
esserlo, unicamente perché è «più bello» «fare il bene» senza speranza di una
possibile ricompensa. Queste persone, sulla cui mentalità il «moralismo»
esercita un’influenza così potente (e anche se la loro morale si autodefinisce
«scientifica» non per questo è meno esclusivamente sentimentale), sono
naturalmente fra coloro che professano la «religione della scienza»; e dal
momento che in realtà non può trattarsi d’altro che di una «pseudo-religione»,
secondo noi è molto più giusto chiamarla «superstizione della scienza»; una
credenza che si basa solamente sull’ignoranza (anche se «dotta»), e su vani
pregiudizi, non merita di essere considerata altrimenti che come una volgare
superstizione.
[1] The Miscarriage of Life in the West, di
R. Ramanathan, Procuratore Generale a Ceylon: Hibbert Journal, VII, I; citato
da Benjamin Kidd, La Science de la
Puissance, pag. 110 della traduzione francese.
[3] Diciamo naturalismo di fatto perché questa limitazione è accettata da moltissima gente che non fa professione di naturalismo, nel senso più particolarmente filosofico; così come esiste una mentalità positivistica che non presuppone per nulla l’adesione al positivismo in quanto sistema.
[4] La Logique de Leibnitz, pagg, 474-475.
[5] La data esatta è 3468 prima dell’èra cristiana, secondo una cronologia basata sulla descrizione esatta della posizione degli astri a quell’epoca; aggiungiamo che il nome di Fo-hi serve in realtà a designare tutto un periodo della storia cinese.
[6] Kuà è il nome cinese dei «trigrammi», delle figure, cioè, che si ottengono raggruppando a tre a tre, in tutti i modi possibili, delle linee continue e spezzate, figure che sono effettivamente in numero di otto.
[7] Si tratta dei sessantaquattro «esagrammi» di Wen-wang, cioè delle figure di sei linee formate combinando gli otto «trigrammi» a due a due. Osserviamo di sfuggita che l’interpretazione di Leibnitz è completamente insufficiente a spiegare, fra le altre cose, perché tanto questi «esagrammi» quanto i «trigrammi» da cui sono derivati, siano sempre disposti in una tavola di forma circolare.
[8] Explication de l’Arithmétique binaire, qui se sert des seuls caractères 0 et 1, avec des remarques sur son utilité, et sur ce qu’elle donne le sens des anciennes figures chinoises de Fohy, Mémoires de l’Académie des Sciences, 1703: Oeuvres mathématiques de Leibnitz, ed. Gerhardt, t.VII, pagg. 226-227. Vedi anche De Dyadicis: ibid, t. VII, pagg. 233-234. Questo testo termina così: «Ita mirum accidit, ut res ante ter et amplius (millia?) annos nota in extremo nostri continentis oriente, nunc in extremo ejus occidente, sed melioribus ut spero auspiciis resuscitaretur. Nam non apparet antea usum huius characterismi ad augendam numerorum scientiam innotuisse. Sinenses vero ipsi ne Arithmeticam quidem rationem intelligentes nescio quos mysticos significatus in characteribus mere numeralibus sibi fingebant».
[9] La traduzione francese dello Yi-king fatta da Philastre (Annales du Musée Guimet, t. VIII e t. XXIII), che è d’altronde un’opera veramente notevole, ha il difetto di tenere un po’ troppo esclusivamente conto del senso astronomico.
[10] Ricorderemo a questo punto ciò che abbiamo detto sulla pluralità di significati di tutti i testi tradizionali, e in particolare degli ideogrammi cinesi: vedi Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, parte 2a, cap. IX. Aggiungeremo ancora questa citazione tratta da Philastre: «In cinese la parola (o il carattere) non ha quasi mai un senso assolutamente definito e limitato; il senso risulta molto generalmente dalla posizione nella frase, ma prima di tutto dal suo uso in questo o in quel libro più antico, e dall’interpretazione ammessa nel caso corrispondente... La parola non ha valore che in virtù delle sue accezioni tradizionali». (Yi-king, parte I, pag. 8).