Oriente e Occidente
Parte seconda
Possibilità di riavvicinamento
I
Tentativi infruttuosi
Nel prospettare l’idea di un riavvicinamento tra Oriente e
Occidente non abbiamo affatto la pretesa di dire una cosa del tutto nuova, il
che d’altronde non è assolutamente necessario perché essa sia interessante; il
desiderio di novità, il quale non è altro che bisogno di cambiamento, e la
ricerca dell’originalità, conseguenza di un individualismo intellettuale che
confina con l’anarchia, sono i caratteri propri della mentalità moderna,
attraverso i quali si affermano le sue tendenze antitradizionali.
Di fatto, in Occidente l’idea di questo riaccostamento ha potuto già venire in mente a molti, e questo non toglie nulla del suo valore e della sua importanza; sennonché dobbiamo constatare come essa non abbia prodotto finora nessun risultato, ché anzi l’opposizione non ha fatto che accentuarsi sempre più, cosa inevitabile se si tiene conto che l’Occidente ha continuato a seguire la propria linea divergente.
Soltanto all’Occidente infatti è imputabile questo allontanamento, poiché l’Oriente non è mai mutato quanto all’essenziale; tutti i tentativi che non tennero conto di ciò erano inevitabilmente destinati a fallire. Il loro grande difetto è dunque di essere sempre stati fatti in senso contrario a quello necessario per riuscire: tocca all’Occidente riavvicinarsi all’Oriente, perché è esso ad essersene allontanato, ed invano ci si sforzerà di persuadere l’Oriente ad avvicinarsi all’Occidente, poiché l’Oriente non pensa di avere ora maggiori ragioni di cambiare che nel corso dei secoli precedenti. Beninteso, gli Orientali non escludono a priori gli adattamenti che sono compatibili con il mantenimento dello spirito tradizionale, ma è naturale che se si va a proporre loro un cambiamento che equivalga ad un sovvertimento di ogni ordine stabilito essi non possono che opporre un rifiuto; per di più lo spettacolo che l’Occidente offre è ben lungi dall’indurli a lasciarsi convincere. Anche se gli Orientali si trovano costretti ad accettare in una certa misura il progresso materiale, ciò per essi non costituirà mai un cambiamento profondo, poiché, come abbiamo già detto, non vi porteranno un interesse reale; lo subiranno semplicemente come una necessità, e in ciò troveranno un ulteriore motivo di risentimento contro coloro che li hanno obbligati a sottomettervisi; lungi dal rinunciare a quella che è la loro sola ragion d’essere, essi più che mai la terranno strettamente per sé, e si faranno ancora più distanti e inaccessibili.
Di fatto, in Occidente l’idea di questo riaccostamento ha potuto già venire in mente a molti, e questo non toglie nulla del suo valore e della sua importanza; sennonché dobbiamo constatare come essa non abbia prodotto finora nessun risultato, ché anzi l’opposizione non ha fatto che accentuarsi sempre più, cosa inevitabile se si tiene conto che l’Occidente ha continuato a seguire la propria linea divergente.
Soltanto all’Occidente infatti è imputabile questo allontanamento, poiché l’Oriente non è mai mutato quanto all’essenziale; tutti i tentativi che non tennero conto di ciò erano inevitabilmente destinati a fallire. Il loro grande difetto è dunque di essere sempre stati fatti in senso contrario a quello necessario per riuscire: tocca all’Occidente riavvicinarsi all’Oriente, perché è esso ad essersene allontanato, ed invano ci si sforzerà di persuadere l’Oriente ad avvicinarsi all’Occidente, poiché l’Oriente non pensa di avere ora maggiori ragioni di cambiare che nel corso dei secoli precedenti. Beninteso, gli Orientali non escludono a priori gli adattamenti che sono compatibili con il mantenimento dello spirito tradizionale, ma è naturale che se si va a proporre loro un cambiamento che equivalga ad un sovvertimento di ogni ordine stabilito essi non possono che opporre un rifiuto; per di più lo spettacolo che l’Occidente offre è ben lungi dall’indurli a lasciarsi convincere. Anche se gli Orientali si trovano costretti ad accettare in una certa misura il progresso materiale, ciò per essi non costituirà mai un cambiamento profondo, poiché, come abbiamo già detto, non vi porteranno un interesse reale; lo subiranno semplicemente come una necessità, e in ciò troveranno un ulteriore motivo di risentimento contro coloro che li hanno obbligati a sottomettervisi; lungi dal rinunciare a quella che è la loro sola ragion d’essere, essi più che mai la terranno strettamente per sé, e si faranno ancora più distanti e inaccessibili.
D’altronde la civiltà occidentale è di gran lunga la più
giovane di tutte, e le regole della più elementare educazione, se si potessero
applicare alle relazioni tra i popoli o tra le razze così come si applicano tra
gli individui, dovrebbero essere sufficienti per farle capire che ad essa e non
alle altre, molto più antiche, tocca fare i primi passi. Certo, è l’Occidente
che è andato a trovare gli Orientali, ma con intenzioni completamente opposte:
non per imparare da loro, come tocca ai giovani che vengono in contatto con gli
anziani, ma facendo di tutto, a volte brutalmente, a volte subdolamente, per
convertirli al proprio modo di vedere e predicando loro ogni sorta di cose di
cui essi non sanno che farsi, e di cui non vogliono nemmeno sentir parlare. Gli
Orientali, i quali tutti apprezzano molto le buone maniere, restano
sfavorevolmente impressionati da questo proselitismo intempestivo, che
considerano una grossolana mancanza di riguardo; dal momento poi che viene ad
esercitarsi nel loro proprio paese, esso rappresenta addirittura un venir meno
alle leggi dell’ospitalità, il che, ai loro occhi, è cosa ancora più grave; e
la cortesia orientale, si badi bene, non è affatto un vano formalismo, come
quell’osservanza di costumanze meramente esteriori a cui gli Occidentali danno
lo stesso nome: essa è fondata su ragioni ben altrimenti profonde, poiché si
inserisce in tutto l’insieme di una civiltà tradizionale, mentre in Occidente,
essendo queste ragioni scomparse con lo scomparire della tradizione, ciò che ne
rimane non è niente più di una vera e propria superstizione; senza tener conto
poi, delle innovazioni dovute semplicemente alla «moda» e ai suoi
ingiustificabili capricci, con le quali si cade addirittura nella parodia. Ma,
per tornare al nostro discorso, e a parte ogni considerazione di buona
educazione, per gli Orientali il proselitismo altro non è che una prova
d’ignoranza e d’incomprensione, il segno di una deficienza di intellettualità,
in quanto implica e presuppone essenzialmente il predominio del
sentimentalismo: non si può far propaganda per un’idea se non quando le si
attribuisca qualche interesse sentimentale, a detrimento della sua purezza;
quanto alle idee pure, ci si accontenta di esporle a beneficio di coloro che
sono in grado di capirle, senza nessuna preoccupazione di convincere
chicchessia. E tutto ciò che gli Occidentali dicono e fanno conferma questo
giudizio sfavorevole sul proselitismo; qualunque cosa per mezzo di cui essi
cerchino di provare la loro superiorità, per gli Orientali non è che il segno
di una manifesta inferiorità.
Di là da ogni pregiudizio, bisogna però rassegnarsi ad
ammettere che l’Occidente non ha nulla da insegnare all’Oriente se non nel
campo puramente materiale, al quale, ripetiamo, l’Oriente non può interessarsi
realmente, avendo a sua disposizione cose al cui paragone quelle materiali non
contano nulla, le quali esso non è disposto a sacrificare per vane e futili
contingenze. Del resto lo sviluppo industriale ed economico, come già abbiamo avuto
occasione di dire, può soltanto provocare la concorrenza e la lotta tra i
popoli; non potrebbe perciò essere un terreno adatto a un riavvicinamento, a
meno che si pretenda che il portare gli uomini a battersi gli uni contro gli
altri sia un modo come un altro per avvicinarli; noi però non la pensiamo così,
anzi ci pare che si tratti piuttosto di un pessimo gioco di parole. Parlando di
riavvicinamento abbiamo in mente un’intesa, non una concorrenza, e del resto,
come abbiamo spiegato, il solo scopo in vista del quale certi Orientali possono
essere tentati di ammettere nei propri paesi lo sviluppo economico non lascia
nessuna speranza a questo proposito. Le facilitazioni apportate dalle
invenzioni meccaniche alle relazioni esteriori tra i popoli non saranno mai
tali da dare a questi ultimi i mezzi per comprendersi meglio; da tutto ciò non
possono risultare che urti più frequenti e conflitti più estesi, e ciò in via
del tutto generale; quanto agli accordi basati su interessi puramente
commerciali, dovrebbe esser fin troppo chiaro quale valore possa attribuirsi a
simili intese.
La materia è, per sua natura, un principio di divisione e di
separazione; tutto ciò che procede da essa non può servire a fondare un’unione
reale e durevole, e d’altronde la sua legge è di fatto il cambiamento
incessante. Non diciamo che non ci si debba in nessun modo preoccupare degli
interessi economici; ma, come continuiamo a ripetere, è necessario che ogni
cosa sia messa al suo posto, e il posto degli interessi economici è certo più l’ultimo
che il primo. Aggiungiamo ancora che non intendiamo che si debbano ad essi
sostituire delle utopie sentimentali alla maniera di una qualsiasi «società
delle nazioni»; si tratterebbe di cose, se possibile, ancor meno solide,
giacché come fondamento non hanno neppure più quella brutale e grossolana
realtà che almeno non si può contestare alle cose di ordine puramente
sensibile; né il sentimento è, di per sé, meno variabile e incostante di ciò
che appartiene alla sfera propriamente materiale. Del resto, l’umanitarismo,
con tutte le sue idee, spesso non è che una maschera di interessi materiali,
imposta dall’ipocrisia «moralistica»; al disinteresse degli apostoli della
«civiltà» noi non crediamo facilmente, e ciò tanto più che, a dire il vero, il
disinteresse non è una virtù politica.
Per concludere, non è né sul terreno economico né su quello
politico che si potranno mai trovare i mezzi di un’intesa, e soltanto come
conseguenza e in modo del tutto secondario l’attività economica e politica
potrà essere chiamata a beneficiare di tale intesa; i mezzi di cui parliamo, se
esistono, non appartengono né alla sfera della materia né a quella del
sentimento, bensì sono di un ordine molto più profondo e più stabile, il quale
non può essere se non quello dell’intelligenza. Intendiamo naturalmente parlare
qui dell’intelligenza nel senso vero e completo, e non di quelle contraffazioni
dell’intellettualità che l’Occidente si ostina sfortunatamente a proporre
all’Oriente, le quali sono d’altronde tutto quel che può presentargli, dal
momento che non conosce nient’altro, e altro non ha a disposizione, nemmeno per
se stesso; quel che basta ad accontentare l’Occidente sotto questo riguardo è
però completamente insufficiente e inadatto a dare all’Oriente la minima
soddisfazione intellettuale, privo com’è di tutto l’essenziale.
La scienza occidentale, anche quando non si confonda
semplicemente con l’industria e sia indipendente dalle applicazioni pratiche,
non è altro, agli occhi degli Orientali, che quel «sapere ignorante» di cui
abbiamo parlato, perché non si rifà ad alcun principio d’ordine superiore.
Limitata al mondo sensibile, che assume come suo unico oggetto, essa non ha un
valore propriamente speculativo; se almeno fosse un mezzo preparatorio per
ottenere una conoscenza di ordine più elevato, gli Orientali sarebbero senza
dubbio inclini a rispettarla, pur giudicandola un mezzo alquanto indiretto e
complicato, e soprattutto poco adatto alla loro mentalità; ma non si tratta
nemmeno di questo. Al contrario, essa è, come scienza, costituita in modo tale
da procurare fatalmente quella forma
mentis che si risolve nella negazione di ogni altra conoscenza,
deformazione a cui abbiamo dato appunto il nome di «scientismo»; o viene
considerata come fine a se stessa, o non le rimane altro sbocco che sul campo
delle applicazioni pratiche, vale a dire sul campo più basso, in cui la stessa
parola «conoscenza», nel senso più pieno che le danno gli Orientali, non può
essere usata se non per un’estensione affatto illegittima. I risultati teorici
della scienza analitica, per quanto considerevoli possano apparire agli
Occidentali, non sono che poca cosa per gli Orientali, ai quali tutto ciò dà
l’impressione di passatempi infantili, indegni di trattenere a lungo
l’attenzione di chi è capace di applicare la propria intelligenza ad altri
oggetti, di chi cioè possiede l’intelligenza vera, poiché tutto il resto non è
di quest’ultima che un riflesso più o meno attenuato.
Ecco dunque a cosa si riduce «l’elevato concetto» che gli
Orientali si possono fare della scienza europea, per usare l’espressione degli
stessi Occidentali (si ricordi a tal proposito l’esempio di Leibnitz citato
precedentemente), e ciò anche quando vengano presentate loro, di questa
scienza, le produzioni più autentiche e più complete, e non solo i rudimenti
della «volgarizzazione»; non si tratta, da parte degli Orientali, di incapacità
a comprenderla o a valutarla, tutt’altro; simile giudizio deriva dal fatto che
essi sono in grado di stimarla nel suo giusto valore in grazia di un termine di
paragone che fa difetto agli Occidentali. La scienza europea, infatti, non
avendo nulla di profondo, e non essendo in realtà niente di più di quelle che
sono le sue apparenze, è facilmente accessibile a tutti coloro che soltanto
vogliano prendersi la pena di studiarla; senza dubbio ogni scienza è in modo
particolare adeguata alla mentalità del popolo che l’ha prodotta, sennonché in
quella occidentale non c’è il minimo equivalente delle difficoltà che
incontrano gli Occidentali quando vogliano penetrare le «scienze tradizionali»
dell’Oriente, difficoltà derivanti dal fatto che queste scienze partono da
principi di cui essi non hanno la minima idea, e si servono di mezzi di
indagine che sono loro completamente sconosciuti in quanto oltrepassano i confini
ristretti entro i quali la mentalità occidentale è rinchiusa. Il difetto di
adattamento, se esiste da entrambe le parti, presenta caratteri ben diversi;
per gli Occidentali che studiano la scienza orientale si tratta di
un’incomprensione pressoché irrimediabile, qualunque sia l’impegno con cui essi
si accingono a questo studio, salvo il caso di eccezioni individuali sempre
possibili, ma rarissime; per gli Orientali di fronte alla scienza occidentale,
invece, non si tratta che di una mancanza di interesse la quale non ne
impedisce per nulla la comprensione, ma che, evidentemente, poco si presta a
spingerli a dedicare a tale studio forze che possono utilizzare in modo
migliore. Non si deve quindi contare sulla propaganda scientifica per giungere
a un avvicinamento con l’Oriente, come del resto su nessun’altra propaganda;
l’importanza stessa che gli Occidentali attribuiscono a queste cose fa sì che
gli Orientali abbiano un’idea ben misera della loro mentalità; e del resto se
gli Occidentali considerano intellettuali le sopraddette cose, ciò è dovuto al
fatto che l’intellettualità, per loro, non ha lo stesso significato che per gli
Orientali. Tutto quel che abbiamo detto della scienza occidentale possiamo
ripeterlo della filosofia, con l’aggravante supplementare che, se il valore
speculativo di quest’ultima non è né più grande né più reale, essa non ha però
neppure quel valore pratico che, per quanto relativo e secondario, è pur sempre
già qualche cosa; possiamo d’altra parte, sotto questo riguardo, accomunare alla
filosofia tutto quel che nella scienza occidentale ha carattere di pura
ipotesi. Nel pensiero moderno, inoltre, non può esistere separazione profonda
tra conoscenza scientifica e conoscenza filosofica: la prima è giunta ad
incorporare tutto quel che è accessibile a tale pensiero, e la seconda, nella
misura in cui ha conservato qualcosa di valido, non è più della prima che una
parte o una modalità, a cui si continua a dare un posto distinto solo per
abitudine e per ragioni dopo tutto molto più storiche che logiche. Se la
filosofia avanza pretese più grandi, tanto peggio per lei, ché tali pretese non
hanno nessun fondamento; tenuto conto dello stato presente della mentalità
occidentale, l’unica concezione legittima è quella positivistica, la quale è il
normale punto d’arrivo del razionalismo «scientistico», o quella pragmatistica,
la quale esclude definitivamente ogni speculazione per attenersi a un
sentimentalismo utilitaristico: sono queste le due tendenze tra cui oscilla
tutta la civiltà moderna.
Per gli Orientali tale alternativa non ha invece nessun
senso, giacché ciò che li interessa veramente ed essenzialmente è ben al di là
di questi due termini, così come le loro concezioni sono di là da tutti i
problemi artificiali della filosofia, e le loro dottrine tradizionali di là da
tutti i sistemi; questi ultimi sono infatti invenzioni puramente umane nel
senso più limitato della parola, invenzioni cioè di una ragione individuale
che, disconoscendo i propri limiti, crede di esser capace di abbracciare tutto
l’Universo e di poterlo riedificare secondo la propria fantasia, e,
soprattutto, pone come principio la negazione assoluta di tutto quel che le è
superiore. Intendiamo con ciò la negazione della conoscenza metafisica, la
quale è di carattere sovrarazionale, ed è conoscenza intellettuale pura, la
conoscenza per eccellenza; la filosofia moderna non può ammettere l’esistenza
della metafisica vera senza autodistruggersi; quanto alla «pseudo-metafisica»,
la quale fa parte anch’essa della filosofia moderna, non si tratta che di un
insieme di ipotesi riunite in modo più o meno abile, esclusivamente razionali,
dunque scientifiche in realtà, e generalmente fondate su nulla di serio. In
ogni caso, la portata di tali ipotesi è sempre estremamente ristretta; i rari
elementi validi che vi si possono trovare, mescolati ad altri, non vanno mai
molto più in là della sfera della scienza ordinaria, e la loro stretta
associazione con le più deplorevoli fantasie, nonché la forma sistematica sotto
cui il tutto si presenta, non può che far perdere loro ogni valore agli occhi
degli Orientali. Questi ultimi non possiedono la speciale forma di pensiero a
cui più propriamente conviene il nome di filosofia: non è presso di loro che si
possano trovare la mentalità sistematica o l’individualismo intellettuale; ma
se essi non sono tarati dagli inconvenienti della filosofia, possiedono però,
svincolato da ogni mescolanza impura, l’equivalente di tutto ciò che essa può
contenere di interessante e che, nelle loro «scienze tradizionali», acquista
anzi una portata molto maggiore; possiedono inoltre immensamente di più, poiché
hanno, principio da cui tutto il resto discende, la conoscenza metafisica, il
cui dominio è assolutamente illimitato.
È per queste ragioni che la filosofia, con i suoi tentativi
di spiegazioni, le sue limitazioni arbitrarie, le sue sottigliezze inutili, le
sue confusioni senza fine, le sue discussioni senza scopo e la sua
inconsistente verbosità, appare agli Orientali come un divertimento
particolarmente puerile; abbiamo riferito altrove il giudizio di quell’Indù
che, sentendo per la prima volta esporre le concezioni di certi filosofi
europei, dichiarò trattarsi di idee buone tutt’al più per un bambino di otto
anni. Si può dunque contare sulla filosofia ancor meno che sulla scienza
ordinaria per ispirare ammirazione negli Orientali, o anche solo per
impressionarli favorevolmente, né è il caso di andare a immaginare che essi
potranno un giorno adottare tali modi di pensare, della cui assenza in una
civiltà non c’è affatto da dolersi, e la cui caratteristica ristrettezza è uno
dei più gravi pericoli a cui l’intelligenza possa andare incontro; come già ci
è occorso dire, tutto ciò per loro è soltanto una contraffazione
dell’intellettualità ad uso esclusivo di chi, incapace di vedere più in alto e
più lontano, è condannato, o per la propria costituzione mentale o per effetto
dell’educazione ricevuta, a ignorare per sempre la vera intellettualità.
Ci resta da aggiungere qualche parola riguardante più in
particolare le «filosofie dell’azione»: queste teorie, in fondo, non fanno che
consacrare la completa abdicazione dell’intelligenza; in un certo senso è forse
molto meglio rinunciare apertamente a ogni apparenza di intellettualità
piuttosto che continuare indefinitamente a illudersi con speculazioni ridicole;
ma allora perché ostinarsi a costruire ancora delle teorie? Pretendere che
l’azione debba essere posta al di sopra di tutto perché si è incapaci di
elevarsi alla pura speculazione, è un’attitudine che assomiglia un po’ troppo a
quella della volpe della favola... Comunque sia, non ci si deve illudere di
poter convertire a simili dottrine gli Orientali, per i quali la speculazione è
incomparabilmente superiore all’azione; del resto, il gusto dell’azione
esteriore e la ricerca del progresso materiale sono strettamente solidali, e
non ci sarebbe nemmeno bisogno di tornare sull’argomento se i nostri
contemporanei non sentissero il bisogno di «fare della filosofia» a questo
proposito, il che sta a dimostrare come la filosofia, come da essi è intesa,
possa essere veramente qualsiasi cosa tranne che la vera saggezza e la
conoscenza intellettuale pura.
Poiché se ne presenta qui l’occasione, approfittiamo di essa
per dissipare un possibile malinteso: dire che la speculazione è superiore
all’azione non significa affatto dire che tutti indistintamente debbano
disinteressarsi di quest’ultima; in una collettività umana gerarchicamente
organizzata, a ciascuno deve essere assegnata la funzione che gli conviene per
la sua natura individuale, e questo è il principio su cui si fonda
essenzialmente l’istituzione delle caste in India. Se l’Occidente ritornerà un
giorno a una costituzione gerarchica e tradizionale, fondata cioè su veri
principi, non pretendiamo affatto asserire con ciò che la massa occidentale
diventerà di fatto esclusivamente contemplativa, né che lo potrà diventare in
misura comparabile a quella della massa orientale; se la cosa è possibile in
Oriente, in Occidente le condizioni speciali di clima e di temperamento le sono
ostili, e le si opporranno sempre. Le attitudini intellettuali vi saranno senza
dubbio più diffuse di quanto non siano oggi; ma, cosa ancor più importante, la
speculazione sarà l’occupazione normale dell’élite, e anzi non vi si potrà nemmeno più concepire che una vera élite possa essere qualcosa di diverso
da un’élite intellettuale. Ciò sarà
sufficiente perché un tale stato di cose sia esattamente il contrario di quello
che vediamo attualmente, nel quale la ricchezza materiale si sostituisce quasi
completamente a ogni superiorità effettiva, anzitutto perché corrisponde
direttamente alle preoccupazioni e alle ambizioni predominanti dell’Occidentale
moderno, col suo orizzonte puramente terrestre, e poi perché è effettivamente
l’unico genere di superiorità (se così la si può chiamare) che si possa
conciliare con la mediocrità della mentalità democratica. Un simile
rovesciamento di valori permette di misurare in tutte le sue proporzioni la
trasformazione che dovrà operarsi nella civiltà occidentale perché essa possa
ritornare normale e paragonabile alle altre civiltà, cessando di essere una
causa di disordine e di pericolo nel mondo.
È di proposito che ci siamo finora astenuti dal menzionare
la religione fra le cose diverse che l’Occidente può presentare all’Oriente; di
fatto la religione, benché cosa anch’essa occidentale, non è affatto moderna,
anzi è proprio contro di essa che la mentalità moderna concentra tutta la sua
animosità, quale unico elemento che abbia conservato in Occidente un carattere
tradizionale. Parliamo, beninteso, esclusivamente della religione nel senso
proprio della parola, e non delle deformazioni o delle imitazioni nate
dall’influsso della mentalità moderna, di cui portano il marchio a tal punto da
esser quasi interamente assimilabili al «moralismo» filosofico. Per quanto
riguarda la religione propriamente detta, per essa gli Orientali non possono
avere che rispetto, appunto in virtù del suo carattere tradizionale; si può
anzi dire che se gli Occidentali si mostrassero più attaccati alla loro
religione di quanto solitamente accade, godrebbero in Oriente di maggior stima.
Non bisogna però dimenticare che la tradizione non riveste per gli Orientali la
forma specificamente religiosa, fatta eccezione per i Musulmani, i quali
partecipano ancora in qualcosa dell’Occidente; ora, la differenza delle forme
esteriori non è che una questione di adattamento alle diverse mentalità, e dove
la tradizione non ha assunto spontaneamente la forma religiosa, ciò è dovuto al
fatto che non le toccava assumerla. L’errore consiste, a questo proposito, nel
voler far adottare agli Orientali forme che non sono fatte per loro, che non
rispondono alle esigenze della loro mentalità, e di cui, del resto, essi
riconoscono l’eccellenza per gli Occidentali; per questa ragione si vedono
talvolta degli Indù cercare di convincere gli Europei a tornare al
Cattolicesimo, o addirittura aiutarli a capirlo, senza che abbiano la minima
intenzione di aderirvi essi stessi. Senza dubbio non vi è completa equivalenza
fra tutte le forme tradizionali, le quali corrispondono a punti di vista
realmente diversi; ma, nella misura in cui esse sono equivalenti, la
sostituzione dell’una all’altra sarebbe evidentemente inutile, e nella misura
in cui differiscono in ciò che non è semplicemente modo di espressione (il che non
significa affatto che esse siano opposte o contraddittorie), potrebbe soltanto
nuocere, perché provocherebbe inevitabilmente un difetto di adattamento.
Se gli Orientali non possiedono la religione nel senso
occidentale della parola, di essa possiedono però tutto ciò che conviene alla
loro natura; contemporaneamente poi, hanno di più dal punto di vista
intellettuale, in quanto possiedono la metafisica pura, di cui, tutto sommato,
la teologia non è che una traduzione parziale, alterata dalla vena di sentimentalità
che è caratteristica del pensiero religioso; è soltanto sotto l’aspetto
sentimentale che gli Orientali hanno qualcosa di meno, e ciò perché, sotto
questo riguardo, non hanno nessun bisogno di avere di più. Quel che abbiamo
detto spiega altresì perché la soluzione che noi riteniamo preferibile per
l’Occidente sia il ritorno alla propria tradizione, completata, se questo fosse
possibile, da ciò che appartiene alla sfera dell’intellettualità pura (ciò che,
però, riguarderebbe soltanto l’élite);
se la religione non può sostituire la metafisica, non è però affatto
incompatibile con essa, e il mondo islamico lo dimostra con i due aspetti
complementari sotto cui si presenta la sua dottrina tradizionale. Aggiungiamo
che, anche se l’Occidente ripudiasse il sentimentalismo (e con ciò intendiamo
il predominio accordato al sentimento sull’intelligenza), la massa occidentale
conserverebbe ugualmente il bisogno di una soddisfazione sentimentale che può
essere data soltanto da una forma religiosa, insieme con un bisogno di attività
esteriore che gli Orientali non provano minimamente; ogni razza ha il proprio
temperamento, e se è vero che non si tratta che di contingenze, tuttavia solo
un’élite molto ristretta potrebbe non
avere da tenerne conto. È però soltanto nella religione propriamente detta che
gli Occidentali possono e devono normalmente trovare le soddisfazioni di cui
diciamo, non in quei surrogati più o meno stravaganti dei quali si alimenta lo
«pseudo-misticismo» di certi nostri contemporanei, religiosità inquieta e
sviata che è un ulteriore sintomo dell’anarchia mentale di cui soffre il mondo
moderno, e in conseguenza della quale il mondo moderno rischia addirittura di
morire, se non si provveda con rimedi efficaci prima che sia troppo tardi.
Concludendo, fra le manifestazioni del pensiero occidentale
ce ne sono alcune che sono semplicemente ridicole agli occhi degli Orientali, e
sono tutte quelle di carattere specificamente moderno; le altre sono degne di
rispetto, ma esclusivamente adatte all’Occidente, benché gli Occidentali d’oggi
abbiano tendenza a disprezzarle o a rifiutarle, indubbiamente perché esse
rappresentano ai loro occhi qualcosa di ancora troppo elevato. Da qualunque
lato si voglia perciò esaminare la questione, è assolutamente impossibile che un
riavvicinamento si operi a detrimento della mentalità orientale; come già
abbiamo detto, tocca all’Occidente riavvicinarsi all’Oriente; ma perché questo
riavvicinamento possa effettivamente attuarsi, la sola buona volontà non basta;
quel che soprattutto occorre, è la comprensione. Orbene, gli Occidentali che
finora si sono sforzati di comprendere l’Oriente, con maggiore o minore serietà
e sincerità, hanno in genere ottenuto soltanto risultati deplorevoli, e ciò è
avvenuto perché essi hanno portato nei loro studi tutti i pregiudizi di cui la
loro mentalità era ingombra, situazione aggravata inoltre dall’essere essi
degli «specialisti» e dall’aver quindi acquisito in precedenza certe abitudini
mentali di cui gli era impossibile liberarsi. Certamente fra gli Europei che
hanno vissuto in contatto diretto con gli Orientali ve ne sono alcuni che hanno
potuto comprendere e assimilare talune cose, e ciò proprio perché, non essendo
«specialisti», erano più liberi da idee preconcette; sennonché costoro,
generalmente, non hanno scritto; quel che hanno appreso l’hanno conservato per
sé, e del resto, se mai gli è accaduto di parlane ad altri Occidentali,
l’incomprensione di cui questi ultimi fanno prova in casi del genere deve
averli scoraggiati, convincendoli a mantenere lo stesso riserbo degli
Orientali. Nel suo insieme, l’Occidente non ha dunque mai potuto approfittare
di certe eccezioni individuali, e quanto agli studi che sono stati fatti
sull’Oriente e sulle sue dottrine, sovente sarebbe meglio non conoscerne nemmeno
l’esistenza, giacché l’ignoranza pura e semplice è di gran lunga da preferirsi
alle idee sbagliate.
Non abbiamo intenzione di ripetere qui tutto quel che
abbiamo già detto in altri studi a proposito delle pubblicazioni degli
orientalisti; esse hanno soprattutto, da un lato, l’effetto di sviare gli
Occidentali che vi ricorrono senza aver modo di rettificarne gli errori con
l’ausilio di altre fonti, dall’altro, quello di contribuire ulteriormente a
dare agli Orientali una pessima impressione dell’intellettualità occidentale, a
causa dell’incomprensione che mettono in evidenza. Sotto quest’ultimo aspetto,
ciò non fa che confermare l’apprezzamento che gli Orientali già hanno tendenza
a formulare su tutto ciò che conoscono dell’Occidente, e accentuare in loro quell’atteggiamento
di riserbo di cui abbiamo detto; ma il primo di questi due inconvenienti è
ancora più grave, soprattutto se l’iniziativa di un riavvicinamento deve
partire dall’Occidente. Infatti chi possiede una conoscenza diretta
dell’Oriente può, anche leggendo la peggior traduzione o il commento più
fantasioso, individuare i frammenti di verità che vi sono nonostante tutto
contenuti, all’insaputa dell’autore, il quale, da parte sua, altro non avrà
fatto che trascrivere senza capire, cogliendo nel segno soltanto per una specie
di caso fortuito (ciò succede particolarmente nelle traduzioni inglesi, le
quali sono eseguite coscienziosamente e senza troppe concessioni a un «partito
preso» sistematico, ma anche, bisogna aggiungere, senza nessuna preoccupazione
di vera comprensione); spesso può capitare anche che gli riesca di ritrovare il
senso giusto quando questo era stato travisato, e in ogni caso può consultare
impunemente opere di tal genere anche se poi non ne trarrà nessun beneficio;
ben diversa però è la situazione del lettore ordinario. Questi infatti, non
possedendo nessun mezzo di controllo, non potrà avere che due atteggiamenti: o
crede in buona fede che le concezioni orientali siano veramente quali gli
vengono presentate, e ne prova un comprensibilissimo disgusto, e tutti i suoi
pregiudizi occidentali ne rimangono rafforzati; oppure si rende conto che tali
concezioni non possono essere in realtà così assurde e tanto prive di senso,
sente più o meno confusamente che deve trattarsi d’altro, ma non sapendo di
cosa e disperando di mai poterlo sapere, rinuncia ad occuparsene, né ci penserà
mai più.
Cosicché il risultato finale, invece di un accostamento, è
sempre un allontanamento; naturalmente intendiamo parlare sempre ed
esclusivamente delle persone che si interessano alle idee, perché soltanto fra
queste potrebbe esisterne qualcuna in grado di capire, quando gliene venissero
forniti i mezzi; quanto agli altri, i quali non vedono in tutto ciò che
curiosità ed erudizione, non è di loro che ci preoccupiamo. Del resto, la
maggior parte degli orientalisti sono soltanto e non vogliono essere che degli
eruditi; finché si limitano a studi storici o filologici, ciò non ha grande
importanza; è evidente che opere di questo genere non possono in nessun modo
servire a raggiungere lo scopo di cui intendiamo parlare in questo studio,
sennonché il loro pericolo è, tutto sommato, quello comune a tutti gli abusi
dell’erudizione, e consiste nel diffondere quella «miopia intellettuale» che
confina ogni conoscenza nella ricerca dei particolari, e nel provocare uno
spreco di forze che in molti casi potrebbero essere meglio utilizzate. Secondo
noi, ben più gravi sono le conseguenze dell’azione esercitata da quegli
orientalisti che hanno la pretesa di capire ed interpretare le dottrine, e le
travestono nei modi più incredibili, assicurando talvolta di comprenderle
meglio degli stessi Orientali (come Leibnitz, che immaginava d’aver trovato il
vero significato dei caratteri di Fo-hi), e ciò senza mai prendere in
considerazione il parere dei rappresentanti autorizzati delle civiltà che
vogliono studiare, che sarebbe la prima cosa da fare, invece di comportarsi
come se si trattasse di ricostruire delle civiltà scomparse.
Questa pretesa inverosimile è anch’essa un sintomo della
credenza nella propria superiorità, caratteristica degli Occidentali: se
talvolta capita anche a loro d’abbassarsi a considerare le idee degli altri,
essi sono però così intelligenti da capirle molto meglio di coloro stessi che
le hanno elaborate, ed è loro sufficiente darvi un’occhiata dall’esterno per
sapere a fondo di che si tratta; quando si è così infatuati di se stessi si
perdono generalmente tutte le occasioni che potrebbero presentarsi di imparare
realmente. Fra i pregiudizi che contribuiscono a mantenere una tale forma mentis, ce n’è uno che è stato da
noi chiamato il «pregiudizio classico»; ad esso abbiamo già fatto allusione a
proposito della credenza nella «civiltà» unica e assoluta, credenza di cui esso
non è che una forma particolare: poiché la civiltà occidentale moderna si
considera l’erede della civiltà greco-romana (il che è vero soltanto in parte),
non si vuole sentir parlare d’altro se non di quest’ultima[1] e ci
si ritiene persuasi che tutto il resto non presenti nessun interesse, o possa
al massimo essere oggetto di una specie di interesse archeologico; si
stabilisce perciò che da nessun’altra parte esistono idee valide, o almeno che,
se per caso se ne trovano, esse dovevano esistere anche nell’antichità
greco-romana; ed è già molto se non si giunge al punto di affermare che può
soltanto trattarsi di un’imitazione di quest’ultima. Perfino coloro che pur non
pensano espressamente in questo modo, non sfuggono all’influenza di tale
pregiudizio: così vi è chi, pur dimostrando una certa simpatia per le concezioni
orientali, vuol farle rientrare ad ogni costo negli schemi del pensiero
occidentale (il che significa snaturarle completamente), e dimostra in tal modo
di non averne capito nulla; alcuni, per esempio, vogliono vedere nell’Oriente
soltanto religione e filosofia, vale a dire esattamente quel che non c’è, non
percependo nulla di quanto vi esiste in realtà.
Sulla strada di queste false assimilazioni, nessuno è andato
tanto innanzi quanto gli orientalisti tedeschi, i quali sono precisamente
quelli che hanno le maggiori pretese, essendo per di più riusciti a
monopolizzare quasi completamente l’interpretazione delle dottrine orientali: a
causa della loro mentalità rigidamente sistematica, essi impoveriscono queste
ultime non solo a filosofia, ma a qualcosa di molto simile alla loro propria
filosofia, quando invece si tratta di cose che non hanno nessuna relazione con
concezioni di questo genere; è chiaro che essi non sanno rassegnarsi a non
capirne nulla, né possono fare a meno di ridurre tutto a misura della loro
mentalità, e mentre fanno ciò credono di onorare grandemente coloro a cui
attribuiscono simili idee «buone per bambini di otto anni». In Germania, per di
più, i filosofi si sono immischiati direttamente in queste cose, e Schopenhauer
in particolare è certo in buona parte responsabile del modo in cui l’Oriente vi
è interpretato; quanti, anche fuori della Germania, vanno ripetendo a sua
imitazione, e a imitazione del suo discepolo Von Hartmann, le frasi fatte sul
«pessimismo buddhista», che volentieri credono costituisca addirittura il fondo
delle dottrine indù! Del resto, un buon numero di Europei, tanto grande è la
loro ignoranza, immaginano che l’India sia buddhista, e, come sempre accade in
questi casi, non si trattengono dal parlarne ad ogni occasione; e se il
pubblico accorda alle forme deviate del Buddhismo un’importanza sproporzionata
è per colpa del numero incredibile di orientalisti che vi si sono specializzati
trovando modo di deformare anche le deviazioni dello spirito orientale.
La verità è che nessuna concezione orientale è
«pessimistica», né lo è quella buddhista; è anche vero che in quest’ultima non
c’è però traccia di «ottimismo», ma ciò dimostra semplicemente che le
«etichette» e le classificazioni di questo genere ‑ così come tutte le altre che
sono adatte alla filosofia europea ‑ non si possono applicare ad essa, e che
per gli Orientali le questioni non si pongono in questa luce; solo il
sentimentalismo occidentale (quello stesso che spingeva Schopenhauer a cercare
«consolazioni» nelle Upanishad) è
fatto per guardare alle cose in termini di «ottimismo» o di «pessimismo»,
mentre la serenità profonda che gli Indù traggono dalla pura contemplazione
intellettuale è ben di là da queste contingenze. Se volessimo segnalare tutti
gli errori di questo genere (uno solo dei quali basta a provare la più totale
incomprensione) non finiremmo più; ma non è nostra intenzione compilare un
catalogo dei tentativi falliti, compiuti dai Tedeschi o da altri, attraverso lo
studio dell’Oriente intrapreso su basi errate, nell’ignoranza di ogni vero
principio. Abbiamo ricordato l’esempio di Schopenhauer come molto
«rappresentativo», e fra gli orientalisti propriamente detti abbiamo già citato
in precedenza il Deussen, che interpretava l’India in funzione delle concezioni
dello stesso Schopenhauer; ricorderemo ancora Max Müller, il quale si sforzava
di scoprire «i germi del Buddhismo» (cioè, almeno secondo la concezione che
egli se ne faceva, dell’eterodossia) fin nei testi vedici, che costituiscono il
fondamento essenziale dell’ortodossia tradizionale indù.
Potremmo continuare a non finire in considerazioni del
genere, se di ciascun orientalista notassimo anche soltanto una o due
caratteristiche essenziali; ci limiteremo ad aggiungere un ultimo esempio,
perché mette in evidenza in modo netto un partito preso caratteristico e
particolarmente significativo: si tratta del caso dell’Oldenberg, il quale
esclude a priori tutti i testi in cui
vengono riferiti fatti che appaiono miracolosi. Egli afferma che simili passi
devono essere considerati come aggiunte tardive e nient’altro, e ciò non solo
in nome della «critica storica», bensì con il pretesto che gli «Indo-Germani» (sic) non ammettevano il miracolo; che
parli, se vuole, in nome dei Tedeschi moderni, i quali non per nulla sono stati
gli inventori della pretesa «scienza delle religioni», si può ammettere; ma che
abbia la pretesa di associare gli Indù alle sue negazioni, le quali sono anche
quelle della mentalità antitradizionale in genere, è davvero una cosa che va al
di là di ogni misura. Abbiamo detto altrove cosa si debba pensare dell’ipotesi
dell’«indo-germanesimo», la quale ha una ragione d’essere semplicemente
politica: l’orientalismo dei Tedeschi, così come la loro filosofia, è diventato
uno strumento al servizio della loro ambizione nazionale, il che d’altronde non
significa affatto che i suoi rappresentanti siano necessariamente in malafede;
non è facile sapere fin dove possa spingersi la cecità provocata
dall’intrusione del sentimento in campi che dovrebbero essere riservati
all’intelligenza. Per quel che riguarda la mentalità antitradizionale, che si
ritrova in fondo alla «critica storica» e a tutto ciò che più o meno
direttamente vi si ricollega, osserveremo che essa è puramente occidentale, e,
nello stesso Occidente, esclusivamente moderna; su questo punto non ci
sentiremo mai colpevoli di troppa insistenza, poiché si tratta precisamente di
ciò che più ripugna agli Orientali, i quali sono essenzialmente animati dallo
spirito tradizionale e perderebbero ogni caratteristica propria se cessassero
di esserlo, essendo strettamente tradizionale tutto ciò che costituisce le loro
civiltà; è dunque indispensabile sbarazzarsi prima di tutto della mentalità
antitradizionale se si vuol avere qualche speranza di intendersi con essi.
Quanto alle presentazioni occidentali delle dottrine
dell’Oriente, oltre a quelle degli Orientalisti più o meno «ufficiali» (ai
quali si può almeno riconoscere, in mancanza di altre qualità più
intellettuali, una buona fede generalmente incontestabile) non esistono che le
fantasie e le divagazioni dei teosofisti, le quali non sono che un tessuto di
errori grossolani a cui si aggiunge l’aggravante di metodi adottati dal più
volgare ciarlatanismo. A questo argomento abbiamo dedicato un intero studio[2], nel quale,
per far completa giustizia di tutte le pretese di costoro e per mostrare come
essi non abbiano nessun titolo per vantare l’appoggio dell’Oriente ‑
tutt’altro! ‑ ci è bastato fare appello ai fatti storici più rigorosamente
accertati; non vogliamo dunque ora ritornare su questo argomento, ma non
potevamo esimerci dal ricordarne almeno l’esistenza, poiché una delle pretese
dei teosofisti è proprio quella di realizzare a modo loro il riavvicinamento
tra Oriente e Occidente. Anche in questo caso, e senza neppur parlare dei
retroscena politici che vi hanno una parte considerevole, è lo spirito
antitradizionale che, dietro lo schermo di una pseudo-tradizione di fantasia,
si afferma liberamente in teorie inconsistenti, la cui trama è costituita da
una concezione evoluzionistica; sotto i frammenti presi a prestito dalle
dottrine più disparate, e dietro una terminologia sanscrita usata quasi sempre
a sproposito, non vi sono che idee del tutto occidentali. Insomma, se in questo
genere di cose potessero sussistere gli elementi atti ad un riavvicinamento, è
l’Oriente che ne farebbe le spese; sulle questioni di parole gli verrebbe fatta
ogni concessione, ma sarebbe richiesto di abbandonare le sue idee essenziali, e
tutte le istituzioni su cui si appoggia; sennonché gli Orientali, e soprattutto
gli Indù (che sono più particolarmente presi di mira in questo caso), non si
lasciano ingannare e sono perfettamente al corrente delle vere tendenze di un
movimento di tal natura; non è offrendo loro una grossolana caricatura delle
loro proprie dottrine che ci si possa illudere di sedurli, quand’anche non
avessero altri motivi di diffidare e di tenersi in guardia. Quanto poi agli
Occidentali, che sia pure in mancanza di una vera intelligenza, hanno
semplicemente un po’ di buon senso, essi non perdono molto tempo in queste
stravaganze, ma il guaio è che si lasciano troppo facilmente persuadere che
esse siano orientali, il che non è affatto vero; se si aggiunge poi che anche
il semplice buon senso va oggi diventando sempre più raro in Occidente, dove lo
squilibrio mentale va acquistando proporzioni sempre più imponenti, si
comprenderà la ragione dell’attuale successo del teosofismo e di tutte le altre
manifestazioni più o meno analoghe che noi riuniamo sotto la denominazione
generica di «neospiritualismo».
Se nel teosofismo non c’è traccia di «tradizione orientale»,
nell’occultismo non c’è traccia alcuna di «tradizione occidentale» autentica;
anche in questo caso non c’è niente di serio, non si tratta che di un
sincretismo confuso e piuttosto incoerente, in cui le concezioni antiche sono
interpretate nel modo più falso e arbitrario, tanto da sembrare avere l’unico
scopo di servire a mascherare il «modernismo» più spinto; se vi si può trovare
qualche «arcaismo», esso è presente soltanto nelle forme esteriori, e le
concezioni dell’antichità e del Medio Evo occidentale vi sono quasi altrettanto
incomprese quanto quelle dell’Oriente nel teosofismo. Non è certamente in virtù
di tutto ciò che l’Occidente potrà mai ritrovare la propria tradizione, né, per
le stesse ragioni, avvicinarsi all’intellettualità orientale; qui ancora le due
cose sono strettamente legate, qualunque cosa ne possa pensare chi vede
antagonismi e opposizioni dove non possono sussistere; precisamente fra gli
occultisti, ve ne sono che si credono obbligati a parlare sempre dell’Oriente,
di cui ignorano tutto, con epiteti ingiuriosi, tali da lasciare intravedere un
vero e proprio odio, e probabilmente anche la stizza di chi sente di essere di
fronte a conoscenze che non riuscirà mai a penetrare.
Non che rimproveriamo ai teosofisti o agli occultisti
un’insufficienza di comprensione di cui, dopo tutto, non sarebbero
responsabili; sennonché, chi è Occidentale (intendiamo dal punto di vista
intellettuale) lo riconosca francamente, e non vada a indossare una maschera
orientale; se si possiede una mentalità moderna, si abbia almeno il coraggio di
ammetterlo (ce ne sono tanti che se ne gloriano!), e non si vada a tirare in
ballo una tradizione che non si possiede. Denunciando simili ipocrisie pensiamo
naturalmente al soli capi dei movimenti in questione, non a coloro che da essi
vengono tratti in inganno; e inoltre bisogna tener conto del fatto che sovente
l’incoscienza si allea alla malafede, e che può essere difficile determinare
esattamente la parte dell’una e dell’altra; l’ipocrisia del «moralismo» non è
essa stessa incosciente nella maggior parte dei casi? Del resto, tutto ciò ha
poca importanza quanto ai risultati, che sono l’unica cosa che intendiamo
prendere in considerazione, ed in ogni caso non sono meno deplorabili: la
mentalità occidentale si è andata sempre più falsando, e nei modi più diversi;
essa si trova sviata e dispersa in tutti i sensi fra le più torbide
inquietudini e le più confuse fantasmagorie di un’immaginazione in delirio; si
tratterà veramente dell’«inizio della fine» per la civiltà moderna? Non
vogliamo fare nessuna supposizione azzardata, tuttavia molti di questi indizi
dovrebbero far riflettere coloro che ne sono ancora capaci: riuscirà
l’Occidente a riprendersi in tempo?
Per contenerci a quanto si può constatare fino a questo
momento, e senza fare anticipazioni sull’avvenire, diremo questo: tutti i
tentativi che finora sono stati fatti per riavvicinare l’Oriente all’Occidente
sono stati intrapresi a profitto della mentalità occidentale, e proprio per ciò
sono falliti. Questo sia detto non soltanto per tutto quanto è propaganda
apertamente occidentale (e cioè per i casi più abituali), ma anche per i
tentativi che pretendono fondarsi sopra uno studio dell’Oriente: si cerca molto
meno di comprendere le dottrine orientali di quanto non si tenti di ridurle
alla misura delle concezioni occidentali; ciò che significa snaturarle
completamente. Anche nei casi in cui non esiste l’intenzione cosciente e
dichiarata di deprezzare l’Oriente, è nondimeno implicitamente sottinteso che
tutto ciò che l’Oriente possiede deve possederlo anche l’Occidente; ora, ciò è
completamente falso, soprattutto per quanto riguarda l’Occidente attuale. Così,
grazie ad una incapacità di comprensione dovuta in buona parte ai loro
pregiudizi (perché, se è vero che ci sono persone che di questa incapacità sono
tarate naturalmente, altre ve ne sono che l’hanno acquisita soltanto a forza di
idee preconcette), gli Occidentali non riescono ad afferrare nulla
dell’intellettualità orientale; e anche quando immaginano di possederla e di
tradurne l’espressione, riescono soltanto a farne la caricatura, e nei testi e
nei simboli che credono di spiegare non ritrovano se non quel che vi hanno
messo essi stessi: delle idee, cioè, puramente occidentali; il fatto è che la
lettera di per se stessa non è nulla, e lo spirito gli sfugge completamente.
In queste condizioni l’Occidente non può evadere dai confini
in cui si è imprigionato; e poiché nell’ambito di questi stessi limiti, di là
dai quali per esso non esiste realmente più nulla, continua senza soste a
sprofondare nelle vie del materialismo e del sentimentalismo, che
congiuntamente lo allontanano sempre più dall’intellettualità, è evidente che
la sua divergenza dall’Oriente non può far altro che accentuarsi. Abbiamo visto
perché i tentativi degli orientalisti e i tentativi pseudo-orientali
contribuiscano insieme ad accrescere questa divergenza; ripetiamo che tocca
all’Occidente prendere l’iniziativa, ma per andare realmente verso l’Oriente,
non per tentare di trarlo a sé come ha fatto finora. Questa iniziativa,
l’Oriente non ha nessuna ragione di prenderla, anche se le condizioni del mondo
occidentale non fossero tali da rendere inutile qualsiasi sforzo in tal senso;
se però un tentativo serio e adeguato venisse fatto da parte del mondo
occidentale, i rappresentanti autorizzati di tutte le civiltà orientali
potrebbero soltanto mostrarsi eminentemente favorevoli ad esso. Ci rimane ora
da indicare come un tale tentativo possa essere affrontato, dopo aver visto in
questo capitolo come si confermino e trovino la loro applicazione tutte le
considerazioni che siamo venuti sviluppando nel corso della prima parte della
nostra esposizione; ciò che avevamo inteso dimostrare era, infatti, che sono le
tendenze proprie della mentalità occidentale moderna a rendere impossibile ogni
relazione intellettuale con l’Oriente, e finché non s’incomincerà a intendersi
sul piano intellettuale tutto il resto sarà perfettamente inutile e vano.
[1] In un
discorso pronunciato alla Camera dei Deputati dall’on. Bracke, nel corso del
dibattito sulla riforma dell’insegnamento, abbiamo trovato queste affermazioni
particolarmente caratteristiche: «Viviamo nella civiltà greco-romana. Per noi
non ne esistono altre. La civiltà greco-romana è, per noi, la civiltà senza
aggettivi». Queste parole, e soprattutto gli unanimi applausi che le accolsero,
giustificano pienamente tutto quanto abbiamo potuto dire in altre occasioni sul
«pregiudizio classico».
[2] Le Théosophisme, histoire d’une pseudo-religion. Vedere anche Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, parte 4a, capitolo III.
[2] Le Théosophisme, histoire d’une pseudo-religion. Vedere anche Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, parte 4a, capitolo III.