Oriente e Occidente
Parte seconda
Possibilità di riavvicinamento
II
L’accordo sui principi
Quando si voglia parlare di principi ai nostri
contemporanei, non si speri di riuscire a farsi capire senza difficoltà: la
maggior parte di essi ignora nel modo più assoluto di cosa s’intenda parlare, o
addirittura non ha il minimo sospetto che qualcosa di simile possa esistere; è
vero che parlano anch’essi di «principi» (ne parlano anzi fin troppo), ma usano
sempre questo termine in modo del tutto improprio.
Ad esempio, nella nostra epoca si sentono chiamare «principi» delle leggi scientifiche un po’ più generali delle altre, leggi che sono in realtà esattamente il contrario di principi, in quanto conclusioni e risultati induttivi, se non addirittura semplici ipotesi. Ancor più comunemente questo nome viene attribuito a concezioni morali che non sono neppure idee e non rappresentano che l’espressione di qualche vaga aspirazione sentimentale, o a teorie politiche, sovente anch’esse a sfondo sentimentale, quali l’anche troppo conosciuto «principio delle nazionalità», che ha contribuito al disordine dell’Europa molto più di quel che si sarebbe tentati di pensare; e poi, non si è forse giunti al punto di parlare abitualmente di «principi rivoluzionari», quasi non si trattasse di una vera e propria contraddizione in termini?
Ad esempio, nella nostra epoca si sentono chiamare «principi» delle leggi scientifiche un po’ più generali delle altre, leggi che sono in realtà esattamente il contrario di principi, in quanto conclusioni e risultati induttivi, se non addirittura semplici ipotesi. Ancor più comunemente questo nome viene attribuito a concezioni morali che non sono neppure idee e non rappresentano che l’espressione di qualche vaga aspirazione sentimentale, o a teorie politiche, sovente anch’esse a sfondo sentimentale, quali l’anche troppo conosciuto «principio delle nazionalità», che ha contribuito al disordine dell’Europa molto più di quel che si sarebbe tentati di pensare; e poi, non si è forse giunti al punto di parlare abitualmente di «principi rivoluzionari», quasi non si trattasse di una vera e propria contraddizione in termini?
Quando si abusa in tal misura di una parola, questo è
l’indizio sicuro che se n’è dimenticato completamente il significato vero; è un
caso del tutto analogo a quello della parola «tradizione», la quale è
associata, come già abbiamo osservato, a qualsiasi usanza puramente esteriore,
fosse pur la più banale e insignificante. A modo di ulteriore esempio: se gli
Occidentali non avessero perduto completamente il senso religioso dei loro avi,
non eviterebbero forse di usare in ogni occasione espressioni come «religione
della patria», «religione della scienza», «religione del dovere», e altre dello
stesso genere? Non sono (come può parere) negligenze di linguaggio senza grande
importanza, sono sintomi di quella confusione che regna dappertutto nel mondo
moderno: manca la capacità di far distinzione fra le prospettive e le sfere più
diverse, anche fra quelle che dovrebbero restare separate nel modo più
completo: una cosa viene messa al posto di un’altra con la quale non ha nessuna
relazione, e, in conclusione, alla lingua non rimane che rappresentare
fedelmente lo stato della mentalità. Siccome poi vi è corrispondenza tra
mentalità e istituzioni, le ragioni di questa confusione sono le stesse per cui
si immagina che qualunque individuo possa adempiere indifferentemente a
qualsiasi funzione; l’ugualitarismo democratico non è che la conseguenza e la
manifestazione nell’ordine sociale dell’anarchia intellettuale; gli Occidentali
d’oggi sono veramente, e sotto ogni angolo visuale, degli uomini «senza casta»,
come dicono gli Indù, o «senza famiglia», nel senso inteso dai Cinesi; essi non
possiedono più nulla di ciò che forma il fondo e l’essenza delle altre civiltà.
Queste considerazioni ci riconducono decisamente al nostro
punto di partenza: la civiltà moderna soffre, in tutti i campi, per una
mancanza di principi; per un’anomalia che ha del prodigioso essa è, sola fra
tutte le altre, una civiltà senza principi, ovvero con principi soltanto
negativi, che è praticamente lo stesso. Essa è simile a un organismo decapitato
che continui a vivere di una vita intensa e disordinata ad un tempo; su questo
paragone farebbero bene a riflettere un po’ i sociologi, ai quali piace tanto
assimilare le collettività agli organismi (e spesso in modo del tutto
ingiustificato). Soppressa l’intellettualità pura, ogni campo contingente e
particolare è considerato indipendente; l’uno invade l’altro e tutto si mescola
e si confonde in un caos inestricabile; i rapporti naturali ne risultano
invertiti, ciò che dovrebbe essere subordinato si afferma autonomo, ogni
gerarchia è abolita in nome di una chimerica uguaglianza, tanto nell’ordine
mentale quanto in quello sociale; e giacché, nonostante tutto, l’uguaglianza di
fatto è impossibile, si vanno creando false gerarchie al vertice delle quali è
posta qualsiasi cosa: scienza, industria, morale, politica o finanza, tutto, in
mancanza dell’unica cosa che può e deve avere normalmente la supremazia, vale a
dire, ripetiamo, in mancanza di veri principi. Davanti a questo quadro non si
abbia troppa fretta di gridare all’esagerazione; ci si prenda piuttosto la pena
di esaminare sinceramente lo stato attuale delle cose, e se non si è completamente
accecati dai pregiudizi, ci si renderà conto che esso è esattamente quale noi
l’abbiamo descritto. Non contestiamo affatto che esistano, nel disordine, gradi
e tappe differenti: non si è giunti a questo punto d’un sol tratto, questo no,
ma che vi si giungesse era fatale, data l’assenza di principi che, se così
possiamo dire, domina il mondo moderno e ne determina le caratteristiche
essenziali; e al punto in cui ci troviamo oggi i risultati sono già abbastanza
appariscenti perché qualcuno cominci a preoccuparsene e a presentire la
minaccia di una dissoluzione finale. Esistono cose impossibili da definire se
non per mezzo di una negazione: a qualunque livello, l’anarchia non è che la
negazione della gerarchia, né rappresenta alcunché di positivo. Una civiltà
anarchica e senza principi, ecco cos’è infine la civiltà occidentale attuale, e
proprio questo intendiamo dicendo di essa che, al contrario delle civiltà
orientali, non è una civiltà tradizionale.
Ciò a cui attribuiamo il nome di civiltà tradizionale, è una
civiltà che si fonda su dei principi nel senso vero della parola, una civiltà
cioè, in cui la sfera intellettuale domina tutte le altre, dalla quale tutto
procede direttamente, e, si tratti di scienze o di istituzioni sociali, non
rappresenta altro, in definitiva, che applicazioni contingenti, secondarie e
subordinate delle verità puramente intellettuali. Perciò, ritorno alla
tradizione e ritorno ai principi sono in realtà una stessa e unica cosa; è
dunque evidente che là dove essa è perduta, bisogna cominciare col restaurare
la conoscenza dei principi prima di pensare di applicarli, così com’è evidente
che non si può ricostituire una civiltà tradizionale nel suo insieme senza
possedere prima i dati fondamentali che ad essa devono presiedere. Procedere
altrimenti significherebbe introdurre ulteriore confusione là dove ci si
propone di farla scomparire e costituirebbe il segno evidente di una
incomprensione fondamentale dell’essenza della tradizione: tale è il caso di
tutti gli inventori di pseudo-tradizioni a cui abbiamo fatto allusione in
precedenza.
Se siamo costretti a insistere su cose tanto evidenti, ciò è
dovuto allo stato della mentalità moderna, e al fatto che, in particolare,
sappiamo anche troppo bene quanto sia difficile evitare che essa capovolga i
rapporti normali. Anche le persone meglio intenzionate, se partecipano in
qualche modo a questa mentalità, sia pure loro malgrado e dichiarandosene gli
avversari, potrebbero facilmente essere tentate di incominciare dal fondo, non
foss’altro che col cedere a quella strana vertigine della velocità che si è
impadronita di tutto l’Occidente, o per il desiderio di giungere immediatamente
a quei risultati visibili e tangibili che per i moderni sono tutto, talmente
essi, a forza di rivolgere la loro attenzione verso le cose esteriori, sono
diventati incapaci di percepire ogni altra cosa. Per questa ragione ripetiamo
così sovente, a rischio di apparire noiosi, che bisogna prima di tutto mettersi
sul piano dell’intellettualità pura, e che non si può fare assolutamente nulla
di valido se non si incomincia in questo modo; tutto ciò che abbia un legame
con tale piano, quand’anche non cada sotto i sensi, ha conseguenze ben più
formidabili di tutto quanto appartiene esclusivamente all’ordine contingente; ciò
è forse difficile da concepire per chi non ne abbia l’abitudine, ma questo non
impedisce che la nostra affermazione sia rigorosamente vera. Bisogna però aver
cura di non confondere l’intellettualità pura con la razionalità, l’universale
con il generale, la conoscenza metafisica con la conoscenza scientifica;
riguardo a questo argomento rimandiamo il lettore alle spiegazioni che abbiamo
dato altrove[1], e non crediamo che sia il
caso di scusarcene, in quanto non pensiamo che sia utile ripetere
indefinitamente e senza necessità le stesse osservazioni.
Quando parliamo di principi in modo assoluto e senza
nessun’altra specificazione, o di verità puramente intellettuali, ci riferiamo
sempre ed esclusivamente alla sfera dell’universale; è questo il dominio della
conoscenza metafisica, la cui natura è sovraindividuale e sovrarazionale,
intuitiva e non più discorsiva, indipendente da ogni relatività; bisogna
inoltre aggiungere che l’intuizione intellettuale per mezzo della quale tale
conoscenza si può ottenere, non ha assolutamente nulla a che vedere con quelle
intuizioni infrarazionali ‑ siano esse di ordine sentimentale, istintivo, o
puramente sensibile ‑ che sono le sole a essere tenute in conto dalla filosofia
contemporanea. Ovviamente, occorre distinguere la concezione delle verità
metafisiche dalla loro formulazione, nella quale la ragione discorsiva può
intervenire secondariamente (a condizione, beninteso, che essa riceva un
riflesso diretto dall’intelletto puro e trascendente) per esprimerle nella
misura del possibile; tali verità oltrepassano immensamente la sua sfera e la
sua portata, e di esse, in virtù della loro universalità, qualsiasi forma
simbolica o verbale potrà soltanto e sempre offrire una traduzione incompleta,
imperfetta e inadeguata, atta piuttosto a costituire un «supporto» per la
concezione che non a rappresentare effettivamente ciò che per natura è per la
sua maggior parte inesprimibile ed incomunicabile, e a cui non si può che
«assentire» direttamente e personalmente.
Ricordiamo infine che se il termine «metafisica» pare
esserci caro è unicamente perché esso è il più appropriato fra quelli che le
lingue occidentali hanno messo a nostra disposizione; se i filosofi hanno preso
l’abitudine di applicarlo a cose completamente diverse, dei filosofi è la colpa
e non nostra, poiché il senso in cui noi lo intendiamo è il solo che sia
conforme alla sua derivazione etimologica, e la confusione nell’uso di questa
parola, dovuta alla loro totale ignoranza della vera metafisica, è del tutto
analoga alle altre da noi segnalate in precedenza. Pensiamo di non dover tenere
in nessun conto questi abusi di linguaggio, e ci pare sufficiente mettere in
guardia il lettore contro gli errori a cui essi potrebbero dar luogo; avendo
preso tutte le precauzioni al riguardo, non vediamo inconvenienti seri nell’uso
di una parola come questa, e preferiamo non ricorrere a neologismi qualora non
sia strettamente indispensabile; del resto, la necessità dei neologismi sarebbe
molto spesso evitata se si avesse cura di fissare con la chiarezza dovuta il
significato dei termini che si adoperano, il che sarebbe certamente più utile
che non l’inventare una terminologia arbitrariamente complicata e contorta,
com’è abitudine dei filosofi, i quali però si concedono in tal modo ‑ questo è
vero ‑ il lusso di un’originalità a buon mercato. Se qualcuno non si trovasse
ancora a proprio agio di fronte al termine «metafisica», si può aggiungere che
ciò di cui si tratta è la «conoscenza» per eccellenza, senza altre
specificazioni, e infatti gli Indù non hanno altre parole per designarla;
sennonché noi non pensiamo che nelle lingue europee l’uso di questo termine sia
tale da evitare ogni malinteso, poiché si ha l’abitudine di applicarlo anche
alla scienza e alla filosofia, e senza apportarvi nessuna restrizione.
Continueremo perciò a parlare di metafisica, come abbiamo sempre fatto;
soltanto, speriamo che queste spiegazioni non vengano considerate come
un’inutile digressione: esse sono dovute alla nostra preoccupazione di
esprimerci sempre nel modo più chiaro possibile, e d’altronde solo in apparenza
ci allontanano dall’argomento che ci siamo proposti di trattare.
È in virtù dell’universalità stessa dei principi che
l’accordo deve essere più facilmente realizzabile proprio in questo campo nel
modo più immediato: o si riesce a concepirli o non si riesce, ma quando si
concepiscono non si può fare a meno di essere d’accordo. La verità è unica, e
ugualmente s’impone a tutti coloro che la conoscono, a condizione, beninteso,
che la conoscano effettivamente e con certezza; il fatto è che una conoscenza
intuitiva non può essere che certa. In questa sfera si è al di fuori e al di
sopra di tutte le prospettive particolari; le differenze consistono sempre ed
esclusivamente nelle forme più o meno esteriori, le quali sono soltanto un
adattamento secondario, e non nei principi, che sono essenzialmente
«informali». La conoscenza dei principi è rigorosamente la stessa per tutti gli
uomini che la possiedono, giacché le differenze mentali possono influire
soltanto su ciò che ha carattere individuale (e per tal ragione contingente) e
non toccano la sfera della metafisica pura; ovviamente ognuno esprimerà a suo
modo quel che avrà compreso, nella misura in cui gli sarà possibile farlo, ma
chi avrà compreso veramente sarà sempre in grado di riconoscere, dietro la
diversità delle espressioni, la verità una, cosicché questa inevitabile
diversità non sarà mai causa di disaccordo. Resta inteso però che per vedere in
tal modo, attraverso le forme molteplici, ciò che esse velano più che non
esprimano, è necessario possedere quell’intellettualità vera che si è fatta
così completamente estranea al mondo occidentale; non ci si può immaginare come
appaiano allora futili e miserevoli tutte le discussioni filosofiche, le quali
attengono assai più alle parole che non alle idee, quando le idee non siano
addirittura completamente assenti.
Quanto alle verità di carattere contingente, la molteplicità
dei punti di vista individuali che si possono riferire ad esse può dar luogo a
differenze reali, le quali peraltro non sono necessariamente delle
contraddizioni; il torto della mentalità sistematica è di non riconoscere
legittimo che il proprio punto di vista e di dichiarare falso tutto ciò che ne
esorbita; tenuto però conto della realtà delle differenze, e anche se queste si
possono conciliare, l’accordo può non realizzarsi immediatamente, tanto più che
ognuno prova naturalmente una certa difficoltà a porsi dall’angolo prospettico
degli altri, a causa della propria costituzione mentale, la quale non vi si può
adattare senza una certa ripugnanza. Nulla di simile succede nella sfera dei
principi, e ciò spiega un paradosso apparente: ciò che in ogni tradizione è più
elevato può essere nello stesso tempo ciò che è più facilmente afferrabile e
assimilabile, indipendentemente da ogni considerazione di razza o di epoca, e
alla sola condizione di una sufficiente capacità di comprensione. Si tratta
infatti di qualcosa di svincolato da tutte le contingenze, mentre tutto il
resto, e in particolare tutto quello che appartiene alle «scienze
tradizionali», richiede una preparazione speciale, generalmente piuttosto
laboriosa quando non si sia nati nella tradizione che ha prodotto le scienze in
questione; la ragione di questo fenomeno è che in questo campo, e per il fatto
stesso che si tratta di contingenze, intervengono le differenze mentali, e
l’atteggiamento secondo cui gli uomini di una determinata razza considerano
queste cose, che è il più appropriato a loro, non combacia con quello delle
altre razze. A questo riguardo possono anche avvenire nell’ambito di una stessa
civiltà adattamenti diversi secondo le epoche: questi adattamenti non sono però
che il rigoroso sviluppo di ciò che la dottrina fondamentale conteneva già in
principio e viene in tal modo reso esplicito per rispondere ai bisogni di un
determinato momento, senza che si possa mai affermare che elementi nuovi sono
venuti a sovrapporvisi dall’esterno; in una civiltà essenzialmente tradizionale
(come sono tutte quelle dell’Oriente) non può accadere nulla di più, o di
diverso.
Al contrario, nella civiltà occidentale moderna vengono
tenute in conto esclusivamente le cose contingenti, e per di più il modo in cui
ciò viene fatto è, nel vero senso della parola, «disordinato», poiché manca
quella direzione che solo una dottrina puramente intellettuale può dare e alla
quale nulla può sostituirsi. Non contestiamo naturalmente i risultati a cui si
giunge in questo modo, né pretendiamo di negar loro ogni valore relativo; ci
sembra anzi molto naturale che, in un campo determinato, di tali risultati
relativi se ne possano ottenere in misura tanto maggiore quanto più
strettamente si limiti ad esso la propria attività: se le scienze che tanto
interessano gli Occidentali non avevano mai avuto uno sviluppo paragonabile a
quello attuale, la ragione di ciò è che non si attribuiva loro una importanza
tale da consacrare ad esse sforzi così cospicui. Ma se i singoli risultati sono
validi quando siano considerati separatamente (ciò che concorda molto bene con
il carattere esclusivamente analitico della scienza moderna), l’insieme non può
che lasciare un’impressione di disordine e di anarchia; la preoccupazione della
qualità delle conoscenze che si vanno accumulando non esiste, ma solo quella
della loro quantità, e ci si ritrova così dispersi nell’indefinita varietà dei
particolari.
Per di più, al di sopra di queste scienze analitiche non
esiste nulla: esse non si ricollegano a niente e, intellettualmente, non conducono
a niente; la mentalità moderna si rinchiude in una relatività che va sempre più
riducendosi, e nell’ambito di questo dominio, che è in realtà così ristretto,
anche se ai suoi occhi appare immenso, essa confonde ogni cosa, assimila gli
oggetti più distinti, vuole applicare all’uno metodi che sono esclusivamente
adatti all’altro, trasferisce a una scienza le condizioni che ne definiscono
un’altra completamente diversa, e alla fine si ritrova smarrita senza alcuna
possibilità di raccapezzarsi, priva com’è di qualunque principio direttivo. Ne
consegue il caos delle innumerevoli teorie, delle ipotesi che si urtano, si
sovrappongono, si contraddicono, si elidono e si sostituiscono l’una con
l’altra finché, rinunciando a conoscere, non si concluda col dichiarare che non
si deve cercare se non per amore della ricerca, che la verità è inaccessibile
all’uomo, che forse non esiste nemmeno, che ci si deve preoccupare soltanto di
ciò che è utile o vantaggioso e che in fondo, volendo, si può chiamare «vero»
senza nessun inconveniente. L’intelligenza che nega in questo modo la verità,
nega la propria ragion d’essere, vale a dire se stessa; l’ultima parola della
scienza e della filosofia occidentale è il suicidio dell’intelligenza; e forse
per qualcuno si tratta solo del preludio di quel mostruoso suicidio cosmico
sognato da tale pessimista che, non avendo capito niente di quanto intravide
dell’Oriente, confuse col nulla la suprema realtà del «non essere» metafisico,
e con l’inerzia la suprema immutabilità dell’eterno «non-agire»!
La causa unica di tutto questo disordine è l’ignoranza dei
principi; si restauri la conoscenza intellettuale pura, e tutto il resto potrà
ritornare normale; si potrà rimettere ordine in ogni campo, ristabilire il
definitivo al posto del provvisorio, eliminare tutte le ipotesi inconsistenti,
illuminare per mezzo della sintesi i risultati frammentari dell’analisi, e,
inserendo questi risultati nell’insieme di una conoscenza veramente degna di
tal nome, conferire loro ‑ benché non vi debbano occupare che un posto
subordinato ‑ una portata incomparabilmente più grande di quella che
attualmente possono avere. Per ottenere tutto ciò bisogna però prima di tutto
cercare la metafisica vera dove ancora essa esiste, vale a dire in Oriente; e
dopo, ma soltanto dopo, conservando quanto delle scienze occidentali è valido e
legittimo, si potrà pensare a dar loro un fondamento tradizionale,
ricollegandole ai principi nel modo più appropriato alla natura dei loro
oggetti e assegnando loro il giusto posto nella gerarchia delle conoscenze.
Voler cominciare con la costituzione in Occidente di qualcosa di simile alle
«scienze tradizionali» dell’Oriente significherebbe pretendere una cosa
impossibile, e se è vero che l’Occidente ha avuto un tempo, soprattutto nel
Medio Evo, le sue «scienze tradizionali», bisogna riconoscere che la massima
parte di esse è quasi completamente perduta, che anche di ciò che ne rimane non
si trova più la chiave, e che per gli Occidentali attuali esse sarebbero
altrettanto impossibili da assimilare quanto quelle esistenti ad uso degli
Orientali; sono sufficienti a provarlo le elucubrazioni degli occultisti che
hanno voluto tentare di ricostruirne qualcuna.
Ciò non significa che quando si avranno i dati
indispensabili per la comprensione, e cioè quando si possiederà la conoscenza
dei principi, non ci si potrà ispirare in una certa misura sia a quelle antiche
scienze sia alle scienze orientali, attingere dalle une e dalle altre certi
elementi utilizzabili, e soprattutto servirsene come un esempio di ciò che
convenga fare per conferire ad altre scienze un analogo carattere; anche se in
tutto ciò si tratterà sempre di un adattamento, e non di una copia pura e
semplice. Come abbiamo già detto, soltanto i principi sono rigorosamente
invariabili; la loro conoscenza è la sola che non sia soggetta a nessuna
modificazione e che contenga in se stessa tutto ciò che è necessario per
realizzare, in tutti i campi del relativo, ogni possibile adattamento. Perciò
l’elaborazione secondaria a cui accenniamo potrebbe realizzarsi quasi da sola
quando vi presiedesse la conoscenza dei principi, e, se questa conoscenza sarà
posseduta da una élite abbastanza
potente da determinare la mentalità generale adatta, tutto il resto avverrà con
le apparenze della spontaneità, così come spontanee appaiono le produzioni
della mentalità attuale; in realtà non si tratta che di apparenze, perché la
massa è sempre influenzata e diretta a sua insaputa; d’altro canto, com’è
possibile mantenerla in uno stato di deviazione mentale, così pure è possibile
dirigerla in un senso normale. Il fine, di natura puramente intellettuale, a
cui si dovrebbe mirare in primo luogo, è dunque veramente il primo da ogni
punto di vista, essendo al tempo stesso il più necessario e il più importante,
giacché deriva e dipende da esso tutto il resto; sennonché, quando parliamo di
«conoscenza metafisica», ben pochi sono gli Occidentali d’oggi che riescano a
sospettare, sia pur vagamente, tutto quel che essa implica.
Gli Orientali (intendiamo parlare soltanto di quelli che
contano veramente) non consentiranno mai a prendere in considerazione una
civiltà che non abbia, come le loro, un carattere tradizionale, ma
indubbiamente non è possibile dare un simile carattere a una civiltà che ne sia
completamente priva, senza nessuna preparazione e, per così dire, dall’oggi al
domani; le fantasie e le utopie non ci interessano, e conviene lasciare agli
entusiasti irresponsabili l’«ottimismo» incurabile che li rende incapaci di
capire se una cosa possa o no essere realizzata in determinate circostanze. Gli
Orientali, i quali del resto non attribuiscono al tempo che un valore molto
relativo, sanno bene di che si tratta, e non commetterebbero certo le
leggerezze a cui gli Occidentali possono essere portati a causa della fretta
malsana che caratterizza tutto ciò che fanno, e ne compromette
irrimediabilmente la stabilità: quando si crede di essere giunti alla meta,
tutto va in rovina; è come se si volesse costruire un edificio su un terreno
instabile e non ci si preoccupasse di cominciare con lo stabilire solide
fondamenta, col pretesto che le fondamenta non si vedono. Certamente coloro che
intraprendessero un’opera come quella di cui stiamo parlando non dovrebbero
aspettarsi di ottenere immediatamente risultati appariscenti; il loro lavoro,
tuttavia, non sarebbe meno reale ed efficace per questo; e pur non avendo
nessuna speranza di vederne mai il frutto esteriore, essi non mancherebbero di
ottenerne personalmente ben altre soddisfazioni, e inapprezzabili benefici. Non
c’è anzi comune misura tra i risultati di un lavoro squisitamente interiore, e
della più elevata natura, e tutto ciò che può essere ottenuto nella sfera delle
contingenze; se gli Occidentali la pensano diversamente, rovesciando anche in
questo caso i rapporti naturali, la ragione di ciò è che essi non sanno
elevarsi al di sopra delle cose sensibili; è sempre molto comodo sminuire il
valore di ciò che non si conosce e, quando si è incapaci di afferrarlo, è anche
il mezzo migliore per consolarsi della propria impotenza; ed è per di più un
mezzo alla portata di tutti.
Ma, si dirà forse a questo punto, se le cose stanno in tal
modo, e se in fondo questo lavoro interiore con cui bisogna cominciare è il
solo che sia veramente essenziale, perché preoccuparsi d’altro? Il fatto è che,
se le contingenze sono senza dubbio soltanto secondarie, esse tuttavia
esistono, e poiché viviamo nel mondo manifestato, non possiamo disinteressarci
completamente di esso; d’altra parte, giacché tutto deve derivare dai principi,
il resto può essere ottenuto per così dire «in sovrappiù», e si avrebbe del
tutto torto a precludersi questa possibilità. Esiste però, di ciò, un’altra
ragione, che si riferisce più particolarmente alle condizioni attuali della
mentalità occidentale: date dunque queste condizioni, vi sarebbero ben poche
probabilità di interessare, sia pur soltanto la possibile élite (intendiamo riferirci a coloro che possiedono le attitudini
intellettuali richieste, ma non sviluppate), a una realizzazione destinata a
restare puramente interiore, o che, per lo meno, le si presentasse sotto questo
unico aspetto; molto più facilmente si può invece suscitare il suo interesse
facendo presente che tale realizzazione deve produrre, se non altro in un
lontano futuro, risultati anche esteriori; ciò che, del resto, non è se non la
pura verità. Benché lo scopo sia sempre il medesimo, diverse sono le vie per
raggiungerlo, o piuttosto per accostarglisi, giacché quando si giunga nella
sfera trascendente della metafisica ogni differenza scompare; fra tutte queste
vie è necessario scegliere quella che meglio si adatta agli individui ai quali
ci si rivolge. Specialmente all’inizio qualsiasi cosa, o quasi, può servire di
«supporto» e di occasione; dove nessun insegnamento tradizionale è organizzato,
se eccezionalmente si produce uno sviluppo intellettuale, è a volte ben
difficile dire da che cosa esso sia stato determinato, e le cose più diverse e
più inattese possono essere servite da punto di partenza, a seconda delle
nature individuali e delle circostanze esteriori.
Comunque stiano le cose, il fatto di dedicarsi
essenzialmente alla pura intellettualità non implica che si perda di vista
l’influsso che essa può e deve esercitare in tutti i campi, sia pure
indirettamente, e quand’anche tale influenza non sia espressamente voluta.
Aggiungeremo, benché ciò sia senza dubbio un po’ più difficile da capire, che
nessuna tradizione ha mai interdetto, a coloro che ha portato a certe sommità,
di dirigere poi verso i domini inferiori (senza che con ciò perdano nulla di
quanto hanno acquisito e di cui non possono più essere privati) le «influenze
spirituali» che hanno concentrato in se stessi, le quali, ripartendosi
gradualmente in questi domini secondo i loro rapporti gerarchici, vi porteranno
come un riflesso e una partecipazione dell’intelligenza suprema[2].
Tra la conoscenza dei principi e la ricostituzione delle
«scienze tradizionali» potrebbe inserirsi un altro scopo da raggiungere, o, se
si vuole, un altro aspetto del medesimo scopo, la cui realizzazione si farebbe
sentire più direttamente nell’ordine sociale; esso è, del resto, il solo per
raggiungere il quale l’Occidente potrebbe ritrovare ancora abbastanza
largamente i mezzi in se stesso; ma ciò richiede qualche altra spiegazione. Nel
Medio Evo la civiltà occidentale aveva un carattere incontestabilmente
tradizionale; è però difficile dire se l’avesse in modo così completo quanto le
civiltà orientali, soprattutto se si volessero portare prove formali in un
senso o in un altro. Per limitarsi a quel che è generalmente risaputo, la tradizione
occidentale, nella forma assunta a quell’epoca, era una tradizione di carattere
religioso; ma ciò non vuol dire che non esistesse nient’altro, e non implica,
per lo meno per una certa élite, che
l’intellettualità pura, superiore a tutte le forme, fosse necessariamente
assente. Abbiamo già detto che tra religione e intellettualità pura non esiste
incompatibilità, e a questo proposito abbiamo citato l’esempio dell’Islâm; se
lo ricordiamo nuovamente, ciò è dovuto al fatto che la civiltà islamica è
precisamente quella le cui caratteristiche si avvicinano di più, sotto molti
aspetti, a quelle della civiltà europea del Medio Evo; si tratta di un’analogia
di cui sarebbe forse opportuno tener conto. D’altra parte, non bisogna
dimenticare che le verità religiose o teologiche, non essendo in quanto tali
formulate da un punto di vista puramente intellettuale, e non possedendo
l’universalità che appartiene esclusivamente alla metafisica, sono principi
soltanto in un senso relativo; se i principi propriamente detti, di cui esse
non sono che un’applicazione, non fossero stati conosciuti in modo pienamente
cosciente da un certo numero di persone, sia pur poco numerose, ci pare
difficile ammettere che la tradizione, esteriormente religiosa, avrebbe potuto
avere tutta l’influenza che ha effettivamente esercitato nel corso di un
periodo così lungo, e produrre in campi diversi, con i quali sembra non aver
nessun rapporto diretto, tutti i risultati che la storia ha registrato, e che i
suoi moderni falsificatori non sono in grado di dissimulare completamente. Del
resto, bisogna dire che nella dottrina scolastica c’è almeno una parte di
metafisica vera, forse però non abbastanza svincolata dalle contingenze
filosofiche, e troppo poco nettamente distinta dalla teologia; indubbiamente
non si tratta della metafisica totale, ma pur sempre di metafisica, mentre
presso i moderni di metafisica non v’è traccia[3]; e il
fatto che si tratti di metafisica implica che tale dottrina, per tutto quel che
in essa è incluso, sia necessariamente in accordo con ogni altra dottrina
metafisica. Le dottrine orientali vanno molto più lontano, e ciò in modi
diversi; ma può darsi che nel Medio Evo occidentale siano esistiti, oltre a
quelli esteriori, degli insegnamenti complementari, e che tali insegnamenti,
esclusivamente ad uso di ambienti molto chiusi, non siano mai stati formulati
in nessun testo scritto, cosicché al riguardo si possono soltanto trovare, al massimo,
allusioni simboliche, abbastanza chiare per coloro che sanno da altre fonti di
che si tratta, ma completamente inintelligibili per chiunque altro. Sappiamo
bene che esiste attualmente in molti ambienti religiosi una tendenza nettissima
a negare ogni «esoterismo», tanto per il passato quanto per il presente; ma
crediamo che tale tendenza, oltre a poter rappresentare una concessione
involontaria alla mentalità moderna, derivi in buona parte dal fatto che si
pensa un po’ troppo al falso esoterismo di certi contemporanei, il quale non ha
assolutamente niente in comune col vero esoterismo di cui intendiamo parlare, e
di cui è ancora possibile scoprire molti indizi quando non si sia sotto
l’influsso di nessuna idea preconcetta.
Comunque sia, esiste un fatto incontestabile: l’Europa del
Medio Evo ebbe a diverse riprese, se non in modo continuo, relazioni con gli
Orientali, e queste relazioni esercitarono un’azione considerevole nel campo
delle idee; si sa, benché forse ancora in modo incompleto, quanto essa dovette
agli Arabi, intermediari naturali tra l’Occidente e le regioni più lontane
dell’Oriente; ma vi furono anche rapporti diretti con l’Asia centrale e
addirittura con la Cina. Sarebbe opportuno studiare più particolarmente l’epoca
di Carlo Magno, e quella delle Crociate, nella quale, se ci furono lotte
esteriori, su un piano più interiore ‑ se così si può dire ‑ vi furono pure
delle intese; e dobbiamo osservare che le lotte, suscitate dal fatto che le
tradizioni che si trovavano di fronte avevano entrambe una forma religiosa, non
hanno nessuna ragion d’essere e non possono verificarsi dove esista una
tradizione che non rivesta questa forma, come nel caso delle civiltà più
orientali; in quest’ultimo caso non può esistere antagonismo, né semplice
concorrenza. Avremo d’altronde occasione di ritornare in seguito su questo
punto; quello che per il momento vogliamo mettere in evidenza, è il fatto che
la civiltà occidentale del Medio Evo, con le sue conoscenze realmente
speculative (anche se rimane sempre aperta la questione di sapere quanto esse
fossero estese), e con la sua struttura sociale organizzata gerarchicamente,
era sufficientemente comparabile alle civiltà orientali da permettere tali
scambi intellettuali (sotto la riserva da noi fatta sopra) resi attualmente
impossibili dal carattere della civiltà moderna.
Se qualcuno, pur ammettendo che una rigenerazione
dell’Occidente si impone, fosse tentato di preferire una soluzione che permetta
di ricorrere a mezzi esclusivamente occidentali (e in fondo soltanto un certo
sentimentalismo può essere la causa di una tale preferenza), senza dubbio
potrebbe fare questa obiezione: perché non tornare dunque semplicemente alla
tradizione religiosa del Medio Evo, apportandole naturalmente tutte le
modificazioni necessarie dal punto di vista sociale? In altre parole, perché
non accontentarsi, senza andare a cercare più lontano, di ridare al
Cristianesimo la preminenza che esso aveva a quell’epoca, e ricostruire in una
forma appropriata l’antica «Cristianità», la cui unità fu spezzata dalla
Riforma e dagli avvenimenti che seguirono? Evidentemente, se ciò fosse
immediatamente realizzabile sarebbe già qualcosa, e rappresenterebbe anzi un
risultato molto importante per rimediare allo spaventoso disordine del mondo
moderno; sennonché questa, disgraziatamente, è ben lungi dall’essere una cosa
così semplice quale paiono crederla certi teorici, e ostacoli d’ogni sorta non
tarderebbero ad ergersi sulla via di coloro che volessero esercitare in questo
senso un’azione effettiva.
Non è il caso che ci mettiamo ad enumerare qui tutte queste
difficoltà; tuttavia insistiamo sul fatto che la mentalità attuale, nel suo
insieme, sembra prestarsi ben poco a una trasformazione del genere; anche in
questo caso occorrerebbe dunque tutto un lavoro di preparazione, il quale, pur
ammettendo che coloro che volessero intraprenderlo ne avessero veramente a
disposizione i mezzi, non sarebbe forse meno lungo né meno penoso di quello
che, da parte nostra, prendiamo in considerazione; e i suoi risultati non potrebbero
mai essere altrettanto profondi. Inoltre, niente prova che nella civiltà
tradizionale medioevale sia esistito soltanto il lato esteriore e propriamente
religioso; anzi, non c’è dubbio che ci fu anche qualcosa di diverso, non
foss’altro che la scolastica; e poco fa abbiamo spiegato perché pensiamo che
debba essere esistito qualcosa di ancor più profondo, ché anche la scolastica,
nonostante il suo incontestabile interesse, presenta pur sempre un carattere
esteriore. Inoltre, rinchiudendosi in tal modo in una forma speciale, l’intesa
con le altre civiltà non potrebbe essere realizzata che in misura alquanto
ristretta, invece di compiersi prima di tutto su ciò che c’è di più
fondamentale; conseguentemente, fra i problemi che ad essa si riferiscono molti
ancora non verrebbero risolti; senza contare che resterebbero sempre da temere
gli eccessi del proselitismo occidentale, i quali rischierebbero continuamente
di compromettere ogni cosa: tale proselitismo non può infatti venir arrestato
definitivamente se non per mezzo della piena comprensione dei principi e
dell’accordo essenziale che anche senza una formulazione esplicita ne
discenderebbe immediatamente.
Tuttavia, naturalmente, se il lavoro da farsi nel campo
metafisico e in quello religioso potesse essere effettuato parallelamente e
contemporaneamente, non vedremmo in ciò che dei vantaggi, poiché siamo
fermamente convinti che, anche se le due cose venissero condotte in modo
indipendente l’una dall’altra, i risultati finali non potrebbero essere che
concordanti. Ad ogni buon conto, se le possibilità che prendiamo in esame sono
destinate a realizzarsi, il rinnovamento propriamente religioso presto o tardi
si imporrà, rappresentando un mezzo particolarmente appropriato all’Occidente;
tale rinnovamento potrà essere una parte dell’opera riservata all’élite intellettuale, quando quest’ultima
si sarà costituita, oppure, se sarà realizzato prima, l’élite troverà in esso un appoggio adeguato alla sua azione. La
forma religiosa contiene tutto quel che è necessario alla massa occidentale, la
quale non può trovare altrimenti le soddisfazioni che il suo temperamento
esige; questa massa non avrà mai bisogno d’altro, ed è attraverso tale forma
che essa dovrà ricevere l’influenza dei principi superiori, influenza che, pur
essendo in tal modo indiretta, costituirà nondimeno una partecipazione reale[4]. Una
tradizione completa può comprendere così due aspetti complementari e
sovrapposti, i quali, riferendosi a domini essenzialmente distinti, non possono
essere in contraddizione, né entrare in conflitto l’uno con l’altro; l’aspetto
intellettuale puro, d’altronde, riguarda direttamente soltanto l’élite, la quale sola deve
necessariamente essere cosciente della comunicazione che viene a stabilirsi tra
i due domini, assicurando in tal modo l’unità totale della dottrina
tradizionale.
In altre parole, noi non intendiamo essere in nessun modo
esclusivi, e non riteniamo inutile nessun lavoro, per poco che sia diretto
nella direzione giusta; tutti gli sforzi, anche quelli che si esercitassero nei
campi più secondari, potrebbero condurre a qualcosa di non completamente
trascurabile, le cui conseguenze, senza essere di immediata applicazione,
potrebbero tornare utili in seguito e, coordinandosi con tutto il resto,
concorrere nella loro misura, seppur non molto rilevante, alla costituzione di
quell’insieme che abbiamo in vista per un avvenire senza dubbio piuttosto
lontano. È per questa ragione che, se vi è qualcuno che voglia incominciare sin
d’ora a intraprendere lo studio delle «scienze tradizionali» (non della loro
integralità, il che è attualmente impossibile, ma per lo meno di alcuni dei
loro elementi), qualunque ne sia la provenienza, tale studio ci sembra degno di
approvazione, ma sotto la duplice condizione che venga compiuto su dati sufficienti
a impedire una deviazione (ciò che implica già molto più di quel che si
potrebbe credere), e non faccia mai perdere di vista l’essenziale. Queste due
condizioni sono del resto strettamente connesse: chi possieda
un’intellettualità abbastanza sviluppata da permettergli di dedicarsi con
sicurezza allo studio suddetto, non rischia più di essere tentato di
sacrificare il superiore all’inferiore; in qualunque campo debba esercitare la
sua attività, egli sarà ben cosciente di non fare che un lavoro ausiliario,
subordinato a quello che si compie nella sfera dei principi. Nelle stesse
condizioni, se capita talvolta che la «filosofia scientifica» collimi
accidentalmente, in qualcuna delle sue conclusioni, con le antiche «scienze
tradizionali», vi può essere qualche interesse a metterlo in evidenza, evitando
però accuratamente che si possa credere che queste ultime siano in questo modo
rese solidali con una qualunque teoria scientifica o filosofica particolare,
poiché ognuna di esse muta e passa, mentre tutto ciò che si fonda su una base
tradizionale riceve da questa un valore permanente, indipendente dai risultati
di ogni ulteriore ricerca. Infine, dal fatto che esistono punti di contatto o
analogie, non bisogna mai trarre l’illazione che siano ammissibili delle
assimilazioni, le quali sono in realtà impossibili, trattandosi di modi di
pensiero essenzialmente diversi; e non si sarà mai troppo attenti a dir nulla
che possa essere interpretato in questo senso, poiché la maggior parte dei
nostri contemporanei, per la particolare ristrettezza del loro orizzonte
mentale, sono singolarmente inclini a queste assimilazioni ingiustificate.
Fatte queste riserve, possiamo dire che tutto ciò che viene
fatto in uno spirito veramente tradizionale ha la sua ragion d’essere, e anzi
sempre una ragione profonda; esiste tuttavia un ordine che è opportuno
osservare, almeno in linea di massima, in conformità con la necessaria
gerarchia dei diversi domini. D’altronde, per possedere lo spirito tradizionale
nella sua pienezza (e non solo una mentalità «tradizionalistica», la quale non
implica che una tendenza od un’aspirazione), bisogna già essere penetrati nel
dominio dei principi, almeno di quel tanto che permette di ricevere quella
direzione interiore da cui non si potrà mai più deviare.
[1] Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, parte 2a, cap. V.
[2] Questa frase contiene una precisa allusione al simbolismo tibetano di Avalokiteshwara.
[3] Il solo Leibnitz ha tentato di riprendere certi elementi dalla scolastica, mescolandoli però a considerazioni di tutt’altro genere, che li privano di quasi tutta la portata che possedevano e testimoniano di quanto la sua comprensione fosse imperfetta.
[4] Sarebbe qui opportuno fare un paragone con l’istituzione delle caste e con il modo in cui per suo mezzo è assicurata la partecipazione alla tradizione.