"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 20 febbraio 2014

René Guénon, Oriente e Occidente, Conclusione e Aggiunta

René Guénon
Oriente e Occidente

Conclusione
 

Potremmo anche fare a meno di aggiungere, all’esposizione che precede, una conclusione che ci sembra possa desumersene abbastanza facilmente, e nella quale non potremmo far altro che ripetere, in forma più o meno riassuntiva, un certo numero delle considerazioni che abbiamo già sviluppato con insistenza sufficiente a farne comprendere tutta l’importanza.
Pensiamo infatti di aver mostrato nel modo più chiaro e più esplicito quali sono i pregiudizi principali che attualmente allontanano l’Occidente dall’Oriente; questo allontanamento è dovuto al fatto che tali pregiudizi sono contrari alla vera intellettualità, che l’Oriente ha conservato integralmente, mentre l’Occidente è arrivato al punto di perderne ogni nozione, fosse pur vaga e confusa. Chi abbia capito tutto questo avrà afferrato con ciò anche il carattere «accidentale» (in tutti i diversi sensi di questa parola) della divergenza dell’Occidente nei confronti dell’Oriente; il riavvicinamento di queste due parti dell’umanità e il ritorno dell’Occidente a una civiltà normale costituiscono in fondo un’unica cosa, ed è questa la ragione principale dell’importanza di tale riavvicinamento, di cui abbiamo esaminato la possibilità per un avvenire più o meno lontano.
Per civiltà normale intendiamo una civiltà che si fondi su dei principi nel vero senso del termine, e nella quale tutto sia ordinato e disposto gerarchicamente in conformità con essi, in modo che ogni cosa vi appaia come l’applicazione e il prolungamento di una dottrina puramente intellettuale o metafisica nella sua essenza; questo è altresì il significato di ciò che chiamiamo civiltà tradizionale. E non si creda, poi, che la tradizione possa essere d’ostacolo al pensiero, a meno di pretendere ‑ e ciò noi non possiamo ammetterlo ‑ che l’impedirgli di sviarsi significhi limitarlo; forse che è lecito affermare che l’esclusione dell’errore costituisce una limitazione della verità? Respingere delle impossibilità, le quali non sono che mancanza pura, non significa affatto apportare restrizioni alla possibilità totale e universale, necessariamente infinita; anche l’errore non è che una negazione, una «privazione» nell’accezione aristotelica della parola; esso non ha, in quanto errore (giacché vi si possono trovare particelle di verità incompresa), nulla di positivo, e questa è la ragione per cui si può escluderlo senza dar minimamente prova di mentalità sistematica. La tradizione per contro, ammette tutti gli aspetti della verità, non opponendosi a nessun adattamento legittimo; essa permette, a coloro che la comprendono, concezioni ben più vaste di tutti i sogni dei filosofi che passano per i più arditi, ma anche ben più solide e ben più reali; infine, essa apre all’intelligenza possibilità illimitate come la stessa verità.
Tutto questo discende immediatamente dai caratteri della conoscenza metafisica, la sola ad essere di fatto assolutamente illimitata appunto perché ha carattere universale; e ci pare qui opportuno ritornare sulla questione, da noi già trattata altrove, dei rapporti tra la metafisica e la logica[1]. Quest’ultima, riferendosi alle condizioni proprie all’intendimento umano, è contingente; essa ha carattere individuale e razionale, e quelli che vengono chiamati ì suoi principi sono principi soltanto in un senso relativo; con ciò intendiamo dire che essi, come quelli della matematica o di qualunque altra scienza particolare, non possono essere che l’applicazione e la specificazione dei veri principi in un campo determinato. La metafisica domina dunque necessariamente la logica, come d’altra parte domina tutto il resto; non riconoscere ciò significa capovolgere i rapporti gerarchici inerenti alla natura stessa delle cose; ma per quanto evidente ciò possa sembrarci, abbiamo dovuto constatare che si tratta invece di qualcosa che sconcerta i nostri contemporanei. Costoro ignorano totalmente tutto ciò che abbia carattere metafisico e «sovraindividuale»; essi non conoscono che cose appartenenti alla sfera della ragione, ivi compresa la «pseudo-metafisica» dei filosofi moderni; e nel campo della razionalità la logica occupa effettivamente il primo posto, tutto il resto essendole subordinato. La vera metafisica non può però dipendere né dalla logica né da qualsiasi altra scienza; l’errore di coloro che pensano il contrario proviene dal fatto che essi non concepiscono la conoscenza se non nel campo della ragione, e non hanno il minimo sospetto di che cosa sia la conoscenza intellettuale pura. Questo l’abbiamo già detto; e abbiamo avuto cura di far osservare come occorra distinguere tra la concezione delle verità metafisiche, che in se stessa sfugge a ogni limitazione individuale, e la loro esposizione formulata, la quale, nella misura in cui è possibile, non può esserne che una specie di traduzione in modo discorsivo e razionale; se dunque tale esposizione assume la forma di un ragionamento e un’apparenza logica, ovvero dialettica, il fatto è che, data la costituzione del linguaggio umano, senza un tal procedimento non si potrebbe dire nulla; ma non si tratta che di una forma esteriore, la quale non ha nessuna influenza sulle verità in questione, poiché queste ultime sono essenzialmente superiori alla ragione.
D’altra parte, esistono due maniere molto diverse di considerare la logica: c’è la maniera occidentale, che consiste nel trattarla in modo filosofico e nello sforzarsi di ricollegarla a qualche concezione sistematica; e c’è la maniera orientale, in cui la logica è istituita in «scienza tradizionale» e legata ai principi metafisici, il che le conferisce, come d’altronde ad ogni altra scienza, una portata incomparabilmente maggiore. Certo può succedere che i risultati sembrino, in molti casi, praticamente uguali, ma ciò non diminuisce in nulla la differenza dei due punti di vista; tale differenza è altrettanto incontestabile quanto il fatto che la rassomiglianza esteriore delle azioni di individui diversi non basta da sola a dimostrare che esse sono state compiute con le stesse intenzioni. Ed ecco in definitiva la conclusione a cui vogliamo arrivare: la logica non è in se stessa qualcosa che presenti un carattere specificamente «filosofico», poiché essa esiste anche là dove non si trova la particolarissima forma di pensiero a cui questa denominazione è appropriata; se fino a un certo punto, e sempre con la riserva di quanto contengono di inesprimibile, le verità metafisiche possono venir rivestite di una forma logica, la logica tradizionale, e non la logica filosofica, è atta a questo scopo; e come potrebbe essere altrimenti dal momento che la filosofia ha assunto un carattere tale da non poter più sussistere che a condizione di negare la vera metafisica?
Da questa spiegazione si dovrebbe capire come noi intendiamo la logica; se noi stessi ci serviamo di una certa dialettica, senza la quale non ci sarebbe possibile parlare di nulla, non ci si può rimproverare ciò come una contraddizione, giacché per noi questo non significa affatto fare della filosofia. E d’altronde, anche quando si tratti in particolare di confutare le concezioni dei filosofi, si può esser certi che sappiamo sempre mantenere le distanze che le differenze dei punti di vista esigono: noi non ci poniamo sullo stesso terreno, come fanno coloro che criticano o combattono una filosofia in nome di un’altra filosofia; quel che diciamo lo diciamo perché le dottrine tradizionali ci hanno permesso di comprendere l’assurdità o l’inanità di certe teorie, e, qualunque siano le imperfezioni che inevitabilmente vi apportiamo (le quali non devono essere imputate ad altri che a noi), il carattere di tali dottrine è tale che ci impedisce di scendere a qualsiasi compromesso. Quel che abbiamo in comune con i filosofi non può essere altro che la dialettica; ma nelle nostre mani essa è solo uno strumento al servizio di principi che essi ignorano; anche questa rassomiglianza è dunque del tutto esteriore e superficiale, come quella che si può constatare talvolta tra i risultati della scienza moderna e quelli delle «scienze tradizionali». A dire il vero, non ci serviamo dei metodi propri dei filosofi neppure per quel che riguarda la dialettica, poiché tali metodi, in ciò che hanno di valido, non appartengono loro in proprio, ma rappresentano semplicemente qualcosa il cui possesso è comune a tutti gli uomini, compresi quelli che sono più lontani dal punto di vista filosofico; la logica filosofica non rappresenta che un impoverimento della logica tradizionale, e quest’ultima le è quindi sempre superiore.
Se insistiamo su questa distinzione che vediamo essenziale, non è per nostra soddisfazione personale, ma perché è importante tener sempre presente il carattere trascendente della metafisica pura, e perché tutto quel che procede da quest’ultima, sia pure in modo secondario e in un campo contingente, riceve come una partecipazione a tale carattere, che ne fa qualcosa di completamente diverso dalle conoscenze semplicemente «profane» del mondo occidentale. Ciò che caratterizza un genere di conoscenza e lo differenzia dagli altri non è soltanto il suo oggetto, ma soprattutto il modo in cui tale oggetto viene preso in esame; questa è la ragione per cui problemi che per la loro natura potrebbero avere una certa portata metafisica, la perdono completamente quando si trovano incorporati in un sistema filosofico. Sennonché la distinzione tra metafisica e filosofia, che pure è fondamentale e non dovrebbe mai essere dimenticata quando si voglia capire qualcosa delle dottrine orientali (giacché senza di essa non si può sfuggire al pericolo delle false assimilazioni), è talmente inusitata per gli Occidentali che molti di essi non arrivano nemmeno ad afferrarla: abbiamo infatti avuto la sorpresa di veder affermare qua e là che noi avevamo parlato della «filosofia indù», quando al contrario ci eravamo sforzati di chiarire che ciò che esiste in India è cosa completamente diversa dalla filosofia!
Accadrà forse la stessa cosa per quel che stiamo dicendo a proposito della logica, e, nonostante tutte le nostre precauzioni, non ci stupiremmo che in certi ambienti ci si accusasse poi di far della filosofia contro la filosofia, mentre quel che andiamo facendo è tutt’altra cosa. Se per esempio esponessimo una teoria matematica, e se a qualcuno venisse in mente di chiamarla «fisica», certo non potremmo impedirglielo, ma tutti coloro che conoscono il significato delle parole saprebbero perfettamente quel che devono pensarne; pur trattandosi in questo caso di nozioni meno correnti, le confusioni e gli errori che cerchiamo di prevenire sono di un genere abbastanza simile. Se qualcuno sarà tentato di formulare delle critiche basate su confusioni del genere, lo avvertiamo che esse non hanno nessun fondamento, e se così facendo giungessimo a risparmiargli qualche errore, ne saremmo lietissimi; di più non possiamo fare, giacché non è nei nostri mezzi (né nei mezzi di nessuno) dare la comprensione a chi non ne abbia le capacità in se stesso. Se quindi, nonostante tutto, queste critiche mal fondate verranno fatte, per conto nostro avremo il diritto di non tenerne il minimo conto; ma d’altra parte, se ci accorgeremo di non aver ancora messo in evidenza certe distinzioni in modo abbastanza netto, ritorneremo sull’argomento fino a quando ci parrà che l’equivoco non sia più possibile, o, per lo meno, finché esso non possa più venire attribuito che a cecità incurabile o a evidente malafede.
Lo stesso si dica per quanto riguarda i mezzi con i quali l’Occidente potrà riavvicinarsi all’Oriente ritornando alla vera intellettualità: crediamo che le considerazioni da noi esposte nel presente studio siano atte a dissipare molte confusioni tanto a questo proposito quanto riguardo al modo in cui consideriamo lo stato ulteriore del mondo occidentale, quale esso sarebbe se le possibilità di cui abbiamo parlato potessero un giorno realizzarsi. Tuttavia non possiamo evidentemente avere la pretesa di prevedere tutti i malintesi; nel caso che se ne presenti qualcuno d’importanza veramente reale, ci sforzeremo sempre di dissiparlo, e tanto più volentieri in quanto ciò potrà costituire un’eccellente occasione per precisare il nostro pensiero su taluni punti. In ogni caso, non ci lasceremo mai distrarre dalla linea che ci è tracciata da tutto quel che abbiamo compreso grazie alle dottrine tradizionali dell’Oriente; noi ci rivolgiamo a coloro che possono e vogliono a loro volta comprendere, chiunque essi siano e da qualunque parte vengano, ma non a coloro che l’ostacolo più insignificante o più illusorio basta ad arrestare, che hanno la fobia di certe cose o di certe parole, o si sentono perduti appena oltrepassano certi limiti convenzionali e arbitrari. Non vediamo, infatti, di quale utilità potrebbe essere per l’élite intellettuale la collaborazione di queste persone dall’animo timoroso e inquieto; chi non è capace di guardare in faccia ogni verità, chi non si sente la forza di penetrare nella «grande solitudine», secondo l’espressione consacrata dalla tradizione estremo-orientale (di cui l’India pure ha l’equivalente), questi non potrebbe andar molto lontano nel lavoro metafisico di cui abbiamo parlato e da cui tutto il resto dipende strettamente.
Si direbbe che, per qualcuno, vi sia quasi un partito preso d’incomprensione; ma in fondo non crediamo che coloro che hanno delle possibilità intellettuali veramente estese siano soggetti a questi vani terrori, poiché essi sono abbastanza equilibrati da avere, quasi istintivamente, la sicurezza che non correranno mai il rischio di cedere a nessuna vertigine mentale; bisogna pur dire che tale sicurezza non è pienamente giustificata finché non abbiano raggiunto un certo grado di sviluppo effettivo, ma il solo fatto di possederla, senza neppure rendersene conto molto chiaramente, dà già loro un notevole vantaggio. Non intendiamo parlare qui di coloro che hanno una fiducia più o meno eccessiva in se stessi; in realtà le persone di cui parliamo, anche se non lo sanno ancora, ripongono la loro fiducia in qualcosa di più alto della loro individualità, poiché in qualche modo presentono quegli stati superiori la cui conquista totale e definitiva può essere ottenuta mediante la conoscenza metafisica pura.
Quanto agli altri, a coloro che non osano andare né troppo in alto né troppo in basso, la causa di ciò è che non riescono a vedere oltre certi limiti, di là dai quali non sanno nemmeno più distinguere ciò che è superiore da ciò che è inferiore, ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è possibile da ciò che è impossibile; immaginando che la verità possa essere misurata col loro proprio metro e debba trovarsi a un livello medio, costoro si trovano a loro agio nei quadri della mentalità filosofica, e quand’anche riuscissero ad assimilare certe verità parziali non potrebbero mai servirsene per estendere indefinitamente la propria comprensione; che ciò sia dovuto alla loro stessa natura o soltanto all’educazione che hanno ricevuto, la limitazione del loro «orizzonte intellettuale» è ormai irrimediabile, cosicché il loro «partito preso», se di partito preso si può parlare, è realmente involontario, o addirittura del tutto incosciente. Fra di essi certamente qualcuno è vittima dell’ambiente in cui vive, e questo è il caso più increscioso; le sue facoltà, che in una civiltà normale avrebbero potuto avere l’occasione di svilupparsi, sono state invece atrofizzate e compresse fino all’annichilazione; nelle condizioni attuali dell’educazione e dell’istruzione moderna, si è portati a pensare che proprio gli ignoranti siano quelli che hanno più probabilità di aver conservato intatte le loro possibilità intellettuali. In confronto alle deformazioni mentali che sono la conseguenza più abituale della falsa scienza, l’ignoranza pura e semplice ci sembra veramente un minor male; e benché noi mettiamo la conoscenza al di sopra di tutto, non si tratta qui di un paradosso o di una incoerenza da parte nostra, poiché la sola conoscenza che ai nostri occhi sia veramente degna di questo nome è totalmente diversa da quella che coltivano gli Occidentali moderni. E non ci si venga a rimproverare, su questo o su altri punti, un atteggiamento troppo intransigente; un tale atteggiamento ci è imposto dalla purezza della dottrina e da quella che abbiamo chiamato «ortodossia» nel senso intellettuale; e d’altronde, poiché è esente da ogni pregiudizio, esso non può mai spingerci ad essere ingiusti verso alcunché. Noi ammettiamo tutta la verità, sotto qualunque aspetto si presenti; ma non essendo né scettici né eclettici, non possiamo ammettere nient’altro che la verità.
Sappiamo bene che il nostro punto di vista non è di quelli da cui ci si pone abitualmente in Occidente, e che, di conseguenza, può essere abbastanza difficile da comprendere, almeno a prima vista; ma, naturalmente, non domandiamo a nessuno di adottarlo senza esame. Quel che ci interessa è soltanto incitare alla riflessione coloro che di riflettere sono ancora capaci; ognuno comprenderà quel che sarà in grado di comprendere e, per poco che sia, sarà sempre qualcosa; d’altronde noi pensiamo che ci sarà pur qualcuno che andrà più lontano. Tutto sommato, non c’è ragione perché non ci siano altri che facciano quel che abbiamo fatto noi; tenuto conto dello stato attuale della mentalità occidentale, senza dubbio non saranno che eccezioni, ma è sufficiente che qualcuna di tali eccezioni esista, anche se il loro numero sarà piccolo, perché le nostre previsioni siano giustificate e le possibilità che indichiamo siano suscettibili di realizzarsi prima o poi. D’altra parte, tutto quel che noi faremo e diremo farà sì che coloro che verranno in seguito trovino delle facilitazioni che noi, per quel che ci riguarda, non abbiamo trovato; anche in questo caso, come sempre, la cosa più ardua è incominciare il lavoro, e lo sforzo da compiere è tanto più grande quanto più le condizioni sono sfavorevoli.
Che la credenza nella «civiltà» sia più o meno scossa in persone che fino a non molto tempo fa non avrebbero osato discuterla, che lo «scientismo» sia attualmente in declino in certi ambienti, tutte queste sono circostanze che possono forse aiutarci un pochino, perché provocano una specie di incertezza la quale permette agli animi di inoltrarsi con minor resistenza in vie differenti; ma a questo riguardo non possiamo dire niente di più, e le nuove tendenze che abbiamo constatato finora non hanno proprio nulla di più incoraggiante di quelle che cercano di soppiantare. Razionalismo o intuizionismo, positivismo o pragmatismo, materialismo o spiritualismo, «scientismo» o «moralismo», sono tutte cose che dal nostro punto di vista si equivalgono esattamente; passando dall’una all’altra non si guadagna nulla, e finché non ci si sarà completamente liberati da tutto ciò, non si sarà compiuto neppure il primo passo nel dominio della vera intellettualità. Teniamo a dichiararlo espressamente, così come teniamo a dire, una volta di più, che qualsiasi studio delle dottrine orientali che venga intrapreso dall’«esterno» è perfettamente inutile allo scopo che ci proponiamo; si tratta di cose di tutt’altra portata e di ordine ben altrimenti profondo.
Infine, faremo osservare ai nostri contraddittori che se ci sentiamo di dare un giudizio pienamente indipendente sulle scienze e sulla filosofia dell’Occidente, è perché siamo coscienti di non dover loro nulla; è solo all’Oriente che siamo debitori di quel che siamo intellettualmente, cosicché non abbiamo dietro di noi nulla che possa metterci minimamente in imbarazzo. Se abbiamo studiato la filosofia, l’abbiamo fatto quando già le nostre idee erano completamente centrate su tutto l’essenziale, che è probabilmente il solo modo per non riceverne nessun influsso negativo; ciò che abbiamo visto attraverso tale studio non ha fatto che confermare in modo esattissimo quanto già prima pensavamo della filosofia. Sapevamo che non c’era da aspettarsene nessun beneficio intellettuale; ed infatti il solo vantaggio che ne traemmo fu di capire meglio le precauzioni necessarie per evitare le confusioni e gli inconvenienti che possono sorgere se si usano certi termini, i quali rischiano di far nascere equivoci. Si tratta di cose dalle quali talvolta gli Orientali non si guardano abbastanza; e in questo campo nascono numerose difficoltà di espressione che non avremmo sospettato, prima di aver avuto occasione di esaminare da vicino il linguaggio speciale della filosofia moderna, con tutte le sue incoerenze e sottigliezze inutili. Ma ciò rappresenta un vantaggio soltanto ai fini dell’esposizione, nel senso che, pur obbligandoci ad introdurre complicazioni che non hanno nulla di essenziale, ci permette di prevenire numerosi errori di interpretazione che troppo facilmente commetterebbero coloro che sono abituati esclusivamente alle forme del pensiero occidentale; per noi personalmente non è per nulla un vantaggio, giacché non ci procura nessuna conoscenza reale. Queste cose le diciamo non per costituirci ad esempio, ma per portare una testimonianza di cui, per lo meno, anche coloro che non condividessero il nostro modo di vedere non potranno sospettare la sincerità; se insistiamo in modo particolare sulla nostra assoluta indipendenza nei riguardi di tutto ciò che è occidentale, lo facciamo soltanto perché questo può anche contribuire a far capire meglio le nostre vere intenzioni. Pensiamo di avere il diritto di denunciare l’errore dovunque si trovi, tutte le volte che riteniamo opportuno farlo; esistono però delle questioni dalle quali a tutti i costi vogliamo rimanere estranei, e pensiamo di non doverci schierare per l’una o per l’altra concezione occidentale; siamo pronti a riconoscere imparzialmente ciò che si può trovare di interessante in talune di esse, ma non vi abbiamo mai trovato nient’altro e niente di più di una piccolissima parte di quel che già conoscevamo per averlo trovato altrove, e, quando le stesse cose sono prese in considerazione in modi diversi, il confronto non è mai stato vantaggioso per le prospettive occidentali. È soltanto dopo aver lungamente riflettuto che ci siamo decisi ad esporre considerazioni come quelle che costituiscono l’oggetto del presente studio, ed abbiamo spiegato perché ci sia parso necessario farlo prima di sviluppare concezioni di carattere più propriamente dottrinale: l’interesse di queste ultime potrà così apparire a persone che, altrimenti, non essendo preparate a tali concezioni, non vi presterebbero sufficiente attenzione, e che invece possono essere perfettamente in grado di capirle.
Da un riavvicinamento con l’Oriente, l’Occidente ha tutto da guadagnare; se in ciò anche l’Oriente può avere qualche interesse, non si tratta certo di un interesse dello stesso ordine, né di una importanza paragonabile, e, in ogni caso, certamente esso non è tale da giustificare la benché minima concessione riguardo alle cose essenziali; del resto, non c’è nulla che possa prevalere sui diritti della verità. Mostrare all’Occidente i suoi difetti, i suoi errori e le sue insufficienze non significa affatto dar prova di ostilità nel suoi riguardi, al contrario, dal momento che anzi è l’unico modo di rimediare al male di cui soffre e di cui può morire, se non si riprende in tempo. Indubbiamente il compito è arduo e non privo di contrarietà; ma ciò poco importa quando si è convinti della sua necessità; tutto quel che ci auguriamo è che ci sia qualcuno che comprenda tale necessità. E poi, quando la si abbia veramente compresa, non ci si può fermare a questo punto, così come quando vengono assimilate certe verità non si può più perderle di vista né rifiutare di accettarne tutte le conseguenze; esistono degli obblighi inerenti a ogni vera conoscenza, in confronto ai quali tutti gli «impegni» esteriori appaiono vani e ridicoli; tali obblighi, proprio perché puramente interiori, sono gli unici che non si possono eludere. Quando si ha dalla propria parte la potenza della verità, quand’anche non si possieda nient’altro di fronte agli ostacoli più temibili, non si può cedere allo scoraggiamento, perché questa potenza è tale che nulla riuscirà infine a prevalere contro di essa; soli possono dubitarne coloro che non sanno che tutti gli squilibri parziali e transitori devono necessariamente concorrere al grande equilibrio totale dell’Universo. 

Aggiunta (1948) 

Crediamo che nessuno possa contestare che dal giorno in cui questo libro fu scritto (1924) la situazione è più che mai peggiorata, non soltanto in Occidente ma in tutto il mondo, sola cosa da attendersi quando non si fosse verificato un ristabilimento dell’ordine nel senso da noi indicato; d’altra parte, ed è pressoché superfluo dirlo, non ci siamo mai aspettati che tale ristabilimento dell’ordine potesse effettuarsi in così breve tempo. Bisogna tuttavia dire che il disordine è andato aggravandosi in modo ancora più rapido di quanto si sarebbe potuto prevedere, e di ciò bisogna tener conto, anche se non influisce per nulla sulle conclusioni da noi formulate.
In Occidente, il disordine in tutti i campi è diventato così evidente, che sempre più numerosi sono coloro che cominciano a mettere in dubbio il valore della civiltà moderna. Ma, benché si tratti di un segno in un certo qual modo favorevole, il risultato ottenuto non rimane con ciò meno puramente negativo; molti emettono eccellenti critiche sul presente stato di cose, ma non sanno praticamente quale rimedio porvi, e di quel che suggeriscono nulla va oltre il livello delle contingenze, per cui tutto ciò rimane manifestamente privo di ogni efficacia. Da parte nostra non possiamo se non ripetere che l’unico vero rimedio consiste in una restaurazione dell’intellettualità pura; purtroppo da questo punto di vista le probabilità di una reazione che provenga dall’Occidente in quanto tale sembrano diminuire ogni giorno di più, giacché quel che di tradizionale rimane in Occidente è sempre più contaminato dalla mentalità moderna, e di conseguenza sempre meno atto a costituire un solido fondamento per una tale restaurazione; cosicché, senza escludere nessuna delle possibilità che ancora possono esistere, pare più che mai verosimile che l’Oriente debba intervenire più o meno direttamente, nel modo da noi esposto, se un giorno o l’altro questa restaurazione dovrà realizzarsi.
D’altra parte, per quanto riguarda l’Oriente, dobbiamo convenire che i danni causati dalla modernizzazione sono andati considerevolmente aumentando, almeno dal punto dì vista esteriore; nelle regioni che più a lungo vi avevano resistito, il cambiamento sembra ormai effettuarsi a ritmo accelerato; l’India stessa ne è un esempio caratteristico. Tuttavia nulla di tutto ciò ha ancora raggiunto il cuore della Tradizione: dal nostro punto di vista, questa è la sola cosa che importi, e sarebbe senza dubbio errato attribuire un’importanza eccessiva ad apparenze che possono essere soltanto transitorie; ad ogni modo, è sufficiente che il punto di vista tradizionale, con tutto ciò che esso comporta, sia integralmente preservato in Oriente in qualche luogo inaccessibile all’agitazione della nostra epoca. E inoltre non bisogna dimenticare come in realtà tutto quel che è moderno, anche in Oriente, non sia che il segno dell’invadenza della mentalità occidentale; l’Oriente vero, l’unico che meriti realmente tale nome, è e sarà sempre l’Oriente tradizionale, quand’anche i suoi rappresentati siano ridotti a non essere più che una minoranza, ciò che attualmente è ancora ben lungi dall’esser vero. È di questo Oriente che noi intendiamo parlare, così come, parlando dell’Occidente, ci riferiamo alla mentalità occidentale, e cioè alla mentalità moderna e antitradizionale, in qualunque luogo si possa trovare: di fatto, quella che prendiamo in considerazione è prima di tutto l’opposizione di questi due punti di vista, e non semplicemente quella di due termini geografici.
Approfitteremo infine di quest’occasione per aggiungere che siamo più che mai inclini a considerare lo spirito tradizionale, in quanto ancora vivente, come rimasto intatto unicamente nelle sue forme orientali. Se l’Occidente possiede ancora in se stesso i mezzi per ritornare alla propria tradizione e restaurarla pienamente, sta ad esso provarlo. Nell’attesa, siamo obbligati a dichiarare che finora non abbiamo rilevato il minimo indizio che ci autorizzi a supporre che l’Occidente, abbandonato a se stesso, sia realmente in grado di portare a termine questo compito, qualunque sia la forza con cui s’imponga ad esso l’idea della sua necessità.

[1] Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, parte 2a, cap. VIII.